Scienza egizia. La trasmissione del sapere
La trasmissione del sapere
di Jan Assmann
Si definisce 'grammatologia' la scienza che studia la scrittura, non solo in quanto conoscenza dei segni grafici ma anche, e soprattutto, della teoria e della filosofia connesse alla prassi dello scrivere. Suo oggetto sono le rappresentazioni dei significati dei singoli segni, i tipi e le funzioni della scrittura, il significato generale della scrittura quale istituzione divina. Queste conoscenze teoriche assumono una forma chiara ed esplicita, come spesso avviene nell'antico Egitto, soltanto in testimonianze di autori di lingua greca, che assai probabilmente utilizzano precedenti fonti egizie (forse di tradizione orale).
Prima di passare a trattare le concezioni egizie sulla scrittura, è bene esaminare brevemente i dati storici. La 'scrittura geroglifica', le cui origini possono essere rintracciate fino nell'Epoca Tardo Preistorica (3300 ca.), non è una scrittura pittografica in senso stretto, in quanto non riproduce gli oggetti rappresentati, ma consente di annotare fedelmente i suoni delle parole dei testi tramandati oralmente. I segni si riferiscono a suoni e a classi semantiche oppure a entrambi. L'aspetto figurativo realistico permane nella scrittura epigrafica monumentale fino al suo termine (IV sec. d.C.), mentre per i pennelli di giunco e i relativi supporti (papiro, cuoio, legno, cocci, frammenti di pietra calcarea) era usata una scrittura corsiva, la 'scrittura ieratica'. A partire dal VII sec. a.C. (il V nell'Alto Egitto), dalla corsiva si sviluppa, a seguito di un'ulteriore limatura dei segni grafici, una terza scrittura, la 'scrittura demotica', usata per la trascrizione della lingua letteraria del tempo.
I due libri in greco sui geroglifici, tramandati sotto il nome di Orapollo (Hieroglyphica I, II), formano una trattazione sistematica del significato dei singoli segni grafici. L'autore proveniva da un'insigne famiglia di Panopoli, numerosi membri della quale si erano distinti in campo letterario; egli scrisse il libro sui geroglifici nei primi anni del V sec., un'epoca da cui non sono giunte iscrizioni geroglifiche e nella quale la conoscenza pratica della scrittura era probabilmente estinta.
Il primo libro contiene segni, significati e spiegazioni, mentre il secondo fornisce soltanto segni e significati, ma non spiegazioni e, con ogni probabilità, non è dello stesso Orapollo ma rappresenta un'aggiunta tardiva (Sbordone 1940). Il primo libro contiene 70 didascalie che rispettano lo schema seguente: 'quando [gli Egizi] intendono rappresentare (b) disegnano (a) a causa di (c)'; (a) riporta il segno geroglifico, (b) il significato e (c) la spiegazione. Così si legge, per esempio: "Per indicare l'eternità [gli Egizi] rappresentano il Sole e la Luna: essi sono infatti elementi eterni". Ciò presuppone una lista rappresentabile come segue:
Nella scrittura di epoca tardiva i segni di Sole e Luna significano i concetti apparentati "giorno dopo giorno" oppure "sempre" (rc nb). Orapollo inverte la sequenza e inizia indicando il concetto denotato (b). Egli, pertanto, non segue un repertorio di segni (comunque ordinati), ma un universo di concetti. Nel caso di segni provvisti di molteplici significati ciò porta a combinazioni singolari: "Quando vogliono indicare la madre, la vista, i confini, la preveggenza, l'anno, il cielo, la compassione, Atena, Era, oppure due dracme, rappresentano un avvoltoio". Seguono dieci spiegazioni corrispondenti:
Tutte le spiegazioni derivano da idee sulla natura e sul comportamento dell'avvoltoio. I segni a forma di animale sono interpretati in base alle conoscenze zoologiche dell'epoca (Plinio il Vecchio, Eliano, Phisiologus). La lepre, per esempio, rappresenta l''aprire', poiché è un animale che non chiude mai gli occhi e, effettivamente, il verbo 'aprire' è scritto con il segno di una lepre. L'idea secondo cui la grammatologia egizia include una zoologia, giacché il significato dei segni grafici è ricavato solo mediante la conoscenza della Natura e del comportamento degli animali rappresentati, è certamente antistorica, ma ha assunto un'importanza enorme nella storia della sua recezione.
Mentre Orapollo conosce un solo tipo di spiegazioni, quello simbolico, Clemente Alessandrino (III sec.) distingue tra modello 'kyriologico' e modello simbolico (Stromata, V, 4, 20.3). Il modello kyriologico procede "mediante le lettere elementari" (dià tõn prṓtōn stoicheíōn); quello simbolico, invece, designa il concetto significato mediante "semplice immagine" (katà mímēsin), "figurativamente" (tropikõs) oppure, in terzo luogo, allegoricamente, attraverso "certi enigmi" (katà tinas ainigmoús). Designazione kyriologica (katà mímēsin) e allegorica (katà ainigmoús) sono distinte anche nella Vita di Pitagora di Porfirio (234 d.C.-inizio IV sec.). Anche all'interno della spiegazione (c) si distinguono diversi modelli di designazione. Mentre le interpretazioni di Orapollo si limitano al modello figurativo e allegorico (quello 'kyriologico', del tipo: "quando vogliono raffigurare il Sole disegnano un cerchio", non compare, forse perché ritenuto banale), è possibile che in Clemente Alessandrino si sia conservata la conoscenza di un significato puramente fonetico, se la formula "dià tõn prṓtōn stoicheíōn" si riferisce realmente ai segni geroglifici monoconsonantici e, pertanto, a fonemi. Anche se non è possibile concludere che informazioni di questo tipo, presenti nei testi di autori di lingua greca, si basassero su una esplicita tradizione egizia, va comunque almeno ipotizzato che le fonti egizie abbiano adottato distinzioni simili.
Ciò vale soprattutto per il modello di designazione allegorica, che poggia su una determinata forma di enigma detta dagli egittologi 'crittografia', 'scrittura enigmatica' o écriture figurative (fig. 1). Una scrittura che fino all'epoca greco-romana rimane a sé stante, chiaramente distinta dalla geroglifica normale. In Età Tarda, tuttavia, la netta separazione tra scrittura normale e crittografia scompare. Il sistema geroglifico incorpora i principî della crittografia sviluppando vari gradi di difficoltà, collegati tra loro da passaggi continui, e rendendo possibili sottosistemi, tanto che ciascun tempio poteva elaborare le proprie convenzioni grafiche. In questo modo viene usato sistematicamente un sistema aperto, il quale anche se già esistente ‒ visto il carattere figurativo dei segni ‒ fino a quel momento era stato controllato in vista di una più agevole leggibilità. Il patrimonio grafico aumenta da circa 700 a circa 7000 segni, trasformando la scrittura geroglifica in una forma di arte superiore, padroneggiata soltanto da pochi. È a questa situazione che si riferisce la descrizione di Clemente Alessandrino quando definisce la scrittura geroglifica come il tipo di scrittura "imparata per ultima e suprema" (hystátēn kaì teleutaĩan). In quest'epoca si sviluppò probabilmente una teoria complessa intorno alla prassi dei geroglifici, i cui riflessi si ritrovano nelle testimonianze greche.
La scomparsa del confine tra scrittura geroglifica normale e crittografia, il corrispondente arricchimento delle iscrizioni e l'aumento della loro 'cifratura' trovano espressione nell'idea, attestata da numerosi autori greci, che gli Egizi avessero usato oltre alla scrittura corsiva, appresa da tutti gli scribi, quella geroglifica come una scrittura segreta tramandata soltanto nella casta sacerdotale. Tale interpretazione cognitivo-sociologica della di- o trigrafia, in riferimento alla differenza tra carattere pubblico e segreto, è stata determinante per l'immagine dell'Egitto propria dell'Occidente. In base a questa teoria grammatologica, fino quasi ai tempi nostri si è creduto all'esistenza di tradizioni conoscitive esoteriche, soprattutto in campo teologico e cosmologico (malgrado la traduzione dell'obelisco di Ermapione in Ammiano Marcellino).
Un manuale grammatologico egizio dell'epoca (papiro Carlsberg 7) si caratterizza già nel titolo come Rivelazione di segreti: "La soluzione [spiegazione] dell'uso dei geroglifici. La soluzione delle loro difficoltà, la rivelazione dei loro segreti, la soluzione delle loro oscurità" (Iversen 1958). Il testo, purtroppo in pessimo stato di conservazione, contiene geroglifici accuratamente disegnati (a) e, in scrittura ieratica, indicazioni sul valore fonetico (b) e sul significato (c). Come molti elenchi di parole demotiche, il papiro segue un evidente ordine alfabetico nel quale h è la prima lettera dell'alfabeto egizio e "ibis" (hʒb) il primo segno (secondo Plutarco, gli Egizi l'avrebbero posto all'inizio dell'alfabeto per onorare Thot, dio della scrittura, di cui l'ibis era l'animale sacro). I commenti (c) spiegano la parola (per es., popolo celeste, aratro), oppure l'immagine (per es., casa in un campo). Nel caso del primo segno, ibis, la parola è interpretata attraverso un gioco di parole etimologico: hʒb ("ibis") deriva da hʒı̓ ı̓b, "il cuore discende" (oppure "entra"). Per il segno del Sole, la spiegazione si avvicina alla procedura di Orapollo e può essere così parafrasata nello stile di quest'ultimo: "quando vogliono esprimere giorno disegnano il Sole poiché, quando sorge dagli inferi, il dio del Sole porta con sé il giorno".
Un manuale grammatologico strutturato in maniera differente è costituito dal papiro di Tanis (I-II sec. d.C.; Griffith 1889) (fig. 2). Il testo contiene la forma geroglifica, disegnata anche qui in modo molto accurato (A) e il significato (B). Cheremone (I sec. d.C.) fa uso di una lista di segni concepita in modo simile. L'estensione complessiva del papiro, conservato frammentariamente, è valutata in 462 segni, che costituiscono solo una piccola parte di quelli effettivamente esistiti. È possibile che il libro appartenesse a un'opera in più volumi. I segni non sono allineati in ordine alfabetico, ma secondo il loro contenuto iconografico, in accordo con lo schema seguente, che è ricostruibile soltanto approssimativamente: 1) l'uomo (figure maschili, femminili, sedute, a forma di mummia); 2) rettili, altri animali; 3) segni monoconsonantici; 4) parti del corpo umano, dall'alto in basso; 5) parti del corpo di animali; 6) il cielo e i suoi simboli; 7) la Terra e i suoi simboli; 8) oggetti rotondi e ovali; 9) recipienti e piante; 10) armi, utensili (anche nel primo libro di Orapollo sembra individuabile una suddivisione dei geroglifici in categorie, affine alla struttura degli onomastiká). La classe 3) conferma che gli Egizi erano consapevoli del valore fonetico dei geroglifici.
Il metodo esplicativo allegorico dei segni è documentato anche nel Mito dell'occhio del Sole dove compare la combinazione di anno e di avvoltoio (papiro Leiden I 384 r IX, 10-11), nonché il grifone quale simbolo della morte (papiro Leiden I 384, XV, 1). Ulteriori spiegazioni di geroglifici si trovano nel Decreto di Canopo, nel papiro Jumilhac VI, 7 (sui segni monoconsonatici ı̓/n/p del nome divino "Anubis": "Quanto alla I, essa è il vento; la N è l'acqua; la P il monte"; Vandier 1962, p. 155, n.133) e XIV, 20 (Baba, il nemico degli dèi, si uccide con un colpo d'ascia. Gli dèi dicono: "l'arma è nella sua testa" e così nasce la parola ḫfty, "nemico", scritta con il segno di un uomo caduto che si è spaccato la testa con un'ascia, heauthòn timōroúmenos, "punitore di sé stesso").
Scritture e funzioni
Della grammatologia faceva parte anche la conoscenza di quali fossero le scritture esistenti e per quale motivo si fossero costituite: l'intera storia della scrittura egizia è infatti caratterizzata dall'esistenza contemporanea di diversi tipi di scrittura. Dai geroglifici derivò presto (forse contemporaneamente) una scrittura corsiva utilizzata per redigere libri, ancora vicina a quella figurativa ('geroglifici corsivi'), accanto alla quale, tuttavia, continuò a sussistere la scrittura geroglifica vera e propria per le iscrizioni epigrafiche. I geroglifici corsivi si svilupparono poi ulteriormente nella scrittura corsiva ieratica, ormai lontana da quella figurativa, ma restano in uso, a loro volta, per determinati scopi. Verso la fine del II millennio, dallo ieratico si sviluppò la forma estremamente raffinata detta 'ieratico anormale', accanto alla quale, tuttavia, si continuò a utilizzare lo ieratico. In Egitto, dunque, il processo di sviluppo della scrittura avvenne come una differenziazione progressiva e fra tutte le scritture, nel corso del VII sec. (Basso Egitto) e del VI (Alto Egitto), soltanto lo ieratico anormale si trasformò nel demotico. Fino alla fine del II millennio l'ambito delle scritture corsive si presenta come uno spettro ampio e fluido, i cui poli sono costituiti, da un lato, dai geroglifici corsivi e dalle scritture librarie di spiccata leggibilità, e, dall'altro lato, da corsivi vicini al demotico: è possibile individuare questi diversi tipi, per esempio, nei testi di esecrazione dell'Antico Regno (2750-2190). Con la nascita del demotico si produsse però una netta demarcazione tra le scritture che saranno trascrivibili in geroglifici (ieratico) e quelle che non lo saranno (il demotico); a tale linea di demarcazione corrispose una differenziazione tra lingua classica e lingua parlata. La scrittura geroglifica pittografica e la corsiva, trascrivibile nella prima, erano usate per esprimere la lingua classica, mentre con il termine 'demotico' s'intendeva sia una scrittura sia una lingua.
Nell'Egitto greco-romano, a prescindere dalla scrittura e dalla lingua greca, conosciute dagli scribi colti e dai sacerdoti, erano in uso tre scritture: la demotica, la ieratica e la geroglifica, le quali da Clemente e Porfirio vennero messe in corrispondenza con tre generi distinti: l'epistol[ograf]ico, lo ieratico e il geroglifico. Le denominazioni egizie erano: sh̠ n šct ("scrittura epistolare") per il demotico (il concetto greco "epistol[ograf]ico" ne rappresenta l'esatta traduzione); sh̠ʒ n mdw nṯr ("scrittura delle parole divine"), per il geroglifico e, probabilmente, anche per lo ieratico. Su un piano diverso si colloca invece la scrittura sillabica che si sviluppa nel Nuovo Regno per la resa di parole straniere. Essa si avvaleva di un repertorio particolare di segni di due consonanti per riprodurre anche le vocali (non espresse nella scrittura normale).
In ogni epoca lo scriba egizio imparava dapprima la scrittura commerciale corsiva (quindi in Età Tarda, come riferito da Clemente, il demotico) e, in seguito, scritture corsive particolari come il geroglifico corsivo e un accurato corsivo librario per i testi letterari. Alla fase di apprendimento della scrittura era pertanto abbinata un'istruzione relativa ai generi e alle funzioni principali della cultura dello scrivere. Nel Nuovo Regno (1540-1076) il geroglifico corsivo era studiato e praticato con l'aiuto di un testo scolastico del Medio Regno (2000-1630), il Kemit. Si ritiene, però, che tale scrittura fosse usata essenzialmente per il Libro dei morti, considerato particolarmente sacro. A partire dalla XXI dinastia (1080-945), con la differenziazione progressiva dello ieratico anormale e, successivamente, del demotico, lo ieratico diventò una scrittura sacra, tanto da essere utilizzato anche per il Libro dei morti; ciò determinò la scomparsa del geroglifico corsivo. In epoca tolemaica (332-30) si sviluppò inoltre una scrittura libraria geroglifica a colonne, usata insieme allo ieratico per i libri dei morti. Con l'introduzione del greco come scrittura corrente, d'altro canto, lo stesso demotico fu poi riservato per usi letterari e, alla fine, religiosi (per le liturgie funerarie e anche per il Libro dei morti). Per lo scriba, dunque, durante l'intera storia della scrittura egizia, era possibile scegliere fra le diverse opzioni quale fosse la scrittura più adatta al tipo e alle funzioni del testo da compilare.
Della grammatologia facevano parte anche le conoscenze relative alla disposizione della scrittura e all'impostazione della pagina. I geroglifici corsivi erano sempre allineati in righe verticali o colonne, mentre lo ieratico, dalla metà del Medio Regno (XIX sec. ca.), era scritto in righe orizzontali; da questa epoca in poi alla scrittura in colonne su papiro fu associato un carattere sacrale, rituale, sacerdotale.
La flessibilità eccezionale della scrittura egizia, che consentiva un allineamento in colonne orizzontali e verticali, andò a vantaggio soprattutto di atti e documenti. A questo riguardo esistevano modelli prestabiliti nella disposizione del testo, che lo scriba era tenuto a conoscere. Nei decreti regali, per esempio, il nome di Horo del re (cioè il nome del re inserito in un elemento rettangolare ornato da un falco) formava la prima riga verticale cui seguivano, tra due righe orizzontali che costituivano il margine, rispettivamente, superiore (nome del destinatario) e inferiore (impronta del sigillo), righe verticali con il testo del decreto. Analogamente, nei manoscritti di culto, nelle litanie gli elementi che si ripetevano erano disposti in righe orizzontali, mentre gli elementi che variavano erano disposti in righe verticali. Una struttura tabellare fu sviluppata nella contabilità (per es., nei papiri di Abusir della V dinastia, datati intorno al 2470 a.C.). Mediante allineamenti verticali e orizzontali le voci erano disposte in righe (giorni) e colonne (oggetti, persone, ecc.). Molte formule della letteratura funeraria (Testi dei sarcofagi, Libro dei morti) riflettono nella loro composizione a elenco tecniche di registrazione burocratica; ne sono esempio le formule del traghettatore (de Buck 1935-61, cap. 398) e della rete (de Buck 1935-61, cap. 474); la divinizzazione delle membra (Libro dei morti, cap. 42); la confessione negativa dei peccati (Libro dei morti, cap. 125). La disposizione era funzionale al reperimento di determinate unità e aveva valore, di conseguenza, soprattutto per la consultazione e la recitazione nel tempio di determinati manoscritti. Testi da imparare a memoria, come le opere letterarie, erano composti in forma più semplice. Anche l'uso di inchiostri rossi o neri era soggetto a regole precise. Si distinguevano quattro funzioni della scrittura rossa: sottolineatura (per es., di somme nei conteggi), articolazione, stacco e differenziazione. Il colore rosso indicava molto frequentemente metatestualità ed era usato per titoli, chiose, correzioni, postille, annotazioni, colophon (come: "ecc.", "e viceversa", "quattro volte"), indicazioni per la recitazione, ecc. A questa categoria appartenevano i punti dei versi, il cui compito era facilitare la recitazione metrica corretta (Lexicon der Ägyptologie, vol. VI, p. 1017 e segg.). Di tali indicatori faceva parte anche il segno della mano per contrassegnare l'unità testuale chiamata ḥwt (propriamente, 'casa'), equivalente a un canto, un capitolo, una strofa. Manoscritti rituali di Età Tarda (dopo il VII sec. ca.) documentano infine una scrittura in versi (anche nel manoscritto londinese dell'Insegnamento di Amenemope).
Significato e filosofia della scrittura
Divinità della scrittura erano considerati gli dèi lunari Thot e Khonsu, nonché Seshat, la dea cui competeva esclusivamente questo genere di sapere. Poiché era in rapporto con la Luna, la scrittura era anche associata alla misurazione del tempo, al calendario, all'astronomia e, inoltre, ai calcoli, alla misurazione e all'amministrazione; essa era poi collegata, in primo luogo, con la capacità di esercitare un potere all'interno di uno Stato burocraticamente organizzato. Imparare a scrivere significava imparare a governare, e ciò valeva per la scrittura in genere. Ai geroglifici si associava, inoltre, un'ulteriore speciale dottrina, legata alla pittografia dei segni: la teoria che il mondo fosse stato composto a imitazione della scrittura e che quindi questa possedesse un significato cosmologico. La totalità delle cose era definita dagli Egizi come: "Tutto ciò che Ptah ha creato e Thot ha messo per iscritto,/ il cielo con le sue costellazioni,/ la Terra e ciò che contiene,/ quello che i monti emettono/ e che l'inondazione del Nilo inumidisce,/ ciò che il Sole illumina/ e ciò che cresce sul dorso della Terra" (Gardiner 1947, vol. I, p. 1).
L'opera congiunta di Ptah, che creava le cose, e di Thot, che le metteva per iscritto, ricorda quella di Dio e di Adamo nell'Eden. Dio creò gli esseri viventi e "li condusse all'uomo per vedere come li avrebbe chiamati: in qualunque modo l'uomo avesse chiamato ognuno degli esseri viventi, quello doveva essere il suo nome" (Genesi, 2, 19). Questa imposizione dei nomi da parte di Adamo e la trascrizione compiuta da Thot svolgevano in realtà la stessa funzione di associare le parole alle cose: Adamo e Thot leggevano dalle cose ciò che esprimevano o scrivevano. Sia la genesi ebraica che quella egizia poggiano sul concetto di una creazione attraverso la parola: ciò suggerisce in entrambi i casi l'idea di un mondo formato secondo il linguaggio. In Egitto, la formazione attraverso il linguaggio assunse il carattere peculiare di essere conforme alla scrittura, cosa che risultava particolarmente facile nel caso di una scrittura pittografica.
La rappresentazione più elaborata di una creazione attraverso la parola si trova nel Testo della teologia menfita (Allen 1988, pp. 42-47), un testo inciso su una stele in basalto nero sotto il re Shabaka (XXV dinastia, fine dell'VIII sec.). Tale cosmogonia interpretava il mondo come un testo che Ptah aveva concepito nel cuore e pronunciato attraverso la lingua: in seguito a ciò il testo si era materializzato nella realtà visibile sotto forma delle cose che corrispondevano ai geroglifici. Questa cosmogonia diverge da quella biblica in due punti. Il primo è il ruolo svolto dal cuore, ossia dalla concezione della creazione secondo un piano prestabilito, cui la Bibbia non fa cenno. Il secondo è il ruolo della scrittura, i geroglifici, ricordato due volte. I due punti sono strettamente collegati: ciò che il cuore pensa non è difatti la forma fonetica delle cose, ma il loro concetto e la loro forma. La scrittura geroglifica riproduce questa forma e si riferisce, per suo tramite, al concetto. La lingua proferisce i concetti pensati dal cuore e presentati in forma visibile dai geroglifici:
E così sono nati tutti gli dèi:/ questo è Atum e la sua Enneade./ I geroglifici furono creati però tutti/ per mezzo di ciò che era stato pensato dal cuore e decretato dalla lingua./ […]/ E così sono stati creati tutti i mestieri e tutte le arti,/ il muoversi delle braccia e il camminare delle gambe,/ il moto di tutte le membra secondo la disposizione/ di queste parole, pensate dal cuore ed espresse dalla lingua, che/ provvedono a tutto/ […]/ E così Ptah era contento, dopo aver creato tutte le cose/ e tutti i geroglifici.
Ptah era il dio degli artisti e degli artigiani: a lui tutto doveva la sua forma immutabile, eternamente riprodotta nella nascita e nella corruzione delle cose e degli esseri viventi, e rappresentata nel segno della scrittura. Thot, dio della lingua, era, di conseguenza, anche il dio della scrittura geroglifica, capace di trasporre i pensieri del cuore nella lingua parlata e scritta. La creazione era concepita come un atto di articolazione: mentale, iconica e fonetica. Assieme alle cose e ai loro nomi nascevano i corrispondenti segni grafici: la totalità della creazione era riassunta nella formula "tutte le cose e tutti i geroglifici". Nel concepire gli archetipi delle cose, Ptah aveva inventato anche la scrittura, che a Thot spettava soltanto di annotare così come, in quanto dio della lingua, gli spettava soltanto di pronunciare i pensieri del cuore.
L'Età Tarda (712-332) conobbe in effetti l'evoluzione della scrittura geroglifica verso un tipo di 'scrittura delle cose' in cui il repertorio dei segni è coestensivo al patrimonio completo delle cose medesime. Questo recupero della dimensione enciclopedico-cosmografica dipende dallo sviluppo dei geroglifici in una scrittura speciale puramente sacerdotale e in una sorta di gioco sacro. Con molto acume il neoplatonico Giamblico (vissuto tra il III e il IV sec. d.C.) ha riconosciuto il platonismo latente del pensiero geroglifico quando, nella Lettera ad Abammone, interpreta il principio simbolico della scrittura egizia come una imitazione della demiurgia divina:
Questi [gli Egizi], imitando la natura dell'universo e la creazione divina, mettono anch'essi in luce mediante simboli alcune immagini delle intuizioni mistiche, occulte e invisibili, allo stesso modo in cui la natura ha imitato in un certo modo mediante simboli i principî invisibili con forme visibili, e la creazione divina ha delineato con immagini visibili la verità delle idee. (De mysteriis Aegyptiorum, VII, 249.15-250.6)
Lo storico ecclesiastico Rufino riferisce che i cristiani avrebbero distrutto il tempio di Canopo perché, con il pretesto dell'insegnamento dei geroglifici, vi era stata istituita una scuola di magia (Historia ecclesiastica, XI, 26).
di Jan Assmann
Critica del testo (cura del testo)
Nell'antico Egitto, i testi che erano trasmessi letteralmente potevano essere tramandati attraverso un intervallo di più di 2000 anni senza deformazioni significative. Ciò si verificava soprattutto per i testi relativi al culto. Nel Museo di Berlino, per esempio, si trova un papiro del VI-IV sec. a.C. con una raccolta di formule cultuali (Möller 1900), la quale compare anche su sarcofagi dell'inizio del II millennio, e i cui singoli testi sono già presenti nelle piramidi della VI dinastia (2360-2190). Il testo tramandato è sorprendentemente integro. I pochi interventi possono considerarsi come una prudente modernizzazione: anche se talora modificano il contenuto originario, non determinano mai palesi insensatezze. Tutto ciò presuppone una grande competenza linguistica e paleografica, nonché tecniche di una scienza elementare definibile, in poche parole, come "cura del testo", il cui compito è di evitare i guasti testuali. Tecniche del genere imponevano che il copista confrontasse la sua copia, in ultima analisi, con l'originale. Così, per esempio, il colophon di un Libro dei morti della tarda XXVIII dinastia (intorno al 400) recita: "È pervenuto dall'inizio alla fine come è stato trovato nello scritto [originale], copiato, confrontato, corretto e bilanciato [nel senso di soppesato] segno per segno" (Naville 1908, tav. 33; Černý 1977, p. 23; Weber 1969, p. 141). Ancora oltre andavano i copisti che confrontavano più originali differenti e inserivano nella copia, come un'annotazione, lezioni divergenti con la formula ky ḏd, "altra lezione" (varia lectio). Note del genere si trovano, ancora una volta, soprattutto in manoscritti del Libro dei morti (Weber 1969, p. 146). La moderna critica testuale ha constatato che alcuni manoscritti si basano su esemplari derivanti da rami diversi della tradizione. Simili contaminazioni derivano dal fatto che gli scribi tentavano di rimediare a lacune, oscurità e incompletezze dell'originale facendo riferimento ad altre versioni il più possibile antiche, e di produrre il testo migliore attingendo a modelli diversi (Rössler-Köhler 1999). Nel caso della tradizione particolarmente accurata del Libro dei morti, verso la fine del Nuovo Regno un lavoro sistematico produsse un nuovo testo canonico a partire dai numerosi rami preesistenti, che costituì il presupposto per la tradizione di Epoca Tarda (Rössler-Köhler 1999).
Faceva parte dei principî di copisti accurati evidenziare come tali le lacune, ossia i brani perduti oppure illeggibili nell'originale, senza produrre un testo dall'apparenza continua. Le lacune erano segnalate come 'cadute' di testo dalla nota "trovato danneggiato" (gm wš), con un verbo (wš) usato per la caduta dei capelli e scritto come un ricciolo. Uguale significato avevano notazioni del tipo "libro senza scrittura" ("nessun testo nell'originale"), oppure "non è presente nulla" (Weber 1969, p. 142). Molte copie riproducono le lacune dell'originale lasciando dei vuoti, detti "spazi" (per es., il papiro Berlino 3022 e il papiro Ebers: Weber 1969, p. 141). Per l'Amduat, il più antico libro dell'aldilà presente nelle tombe regali del Nuovo Regno, tale procedimento fu adottato persino nella decorazione murale che imita il papiro manoscritto.
Le citazioni erano rese riconoscibili soltanto per i brani piuttosto lunghi oppure per testi interi. In questi casi s'introduceva la citazione con la formula ı̓ny r, il cui significato è "aggiunto [riportato] secondo", come mostrano gli esempi seguenti: "altre massime, riportate secondo un altro papiro" (Schott 1990, p. 14 [27]); "riportato secondo il rituale della festa della Valle" (Schott 1990, p. 13 [25]); "riportato secondo il bʒw rc ["Potere di Ra", espressione per Sacre Scritture"] (Schott 1990, p. 13 [25]); "riportato secondo uno scritto del tempio su un papiro con geroglifici; le forme sono state riprodotte come ciò che è sul papiro" (Schott 1990, p. 15 [27]).
Rientrava in primo luogo fra i compiti della cura del testo la capacità di integrare i passi corrotti. Il saggio Amenhotep (figlio di Hapu), vissuto all'epoca di Amenhotep III (inizio del XIV sec.) e successivamente divinizzato per la sua sapienza, dice di sé che "[ri]trovò una massima, anche quando era stata trovata corrotta" (Sethe 1906-58, 1817, 9; Weber 1969, p. 143). Un saggio più tardo dice che "riempie quanto era distrutto nei testi sacri" (Weber 1969, p. 143 n. 427), oppure che "riconnette ciò che si era distaccato e riempie quanto fu ritrovato distrutto". È famoso il caso del Testo della teologia menfita che contiene un testo di altissimo significato. Il re riferisce che "lo trovò come un'opera degli antenati, poiché era mangiato dai vermi. Non lo si conosceva dall'inizio alla fine. Sua Maestà lo copiò allora daccapo, tanto che esso è più bello di quanto non fosse prima" (Weber 1969, p. 141). Il testo presenta modifiche e reinterpretazioni moderne di temi antichissimi. Il mito di Horo e Seth, in cui i fratelli in lotta simboleggiano le due parti del paese e si riconciliano per creare un regno unificato, è reinterpretato e proseguito in questo modo: a Geb, dio del regno, la decisione sarebbe dispiaciuta e, in un secondo arbitrato, egli avrebbe attribuito a Horo l'intero Egitto e a Seth le terre straniere. La cosmogonia di Eliopoli è modificata in maniera tale che il mondo non sarebbe sorto dalla mano e dal seme di Atum, ma dal cuore e dalla lingua di Ptah. Non si hanno qui semplici integrazioni di lacune presenti nell'originale; l'arte filologica dell'integrazione è utilizzata, piuttosto, come un racconto metaforico che fornisce il quadro di riferimento a un testo volto a connettere a miti antichissimi esigenze di significato moderne (la scomunica di Seth e la necessità di riportare a Menfi una cosmogonia modellata su Ptah, dio degli artisti). In Egitto le innovazioni erano accettate soltanto se mascherate da acquisizioni secolari. Altre culture avrebbero scelto probabilmente, per ottenere scopi analoghi, la forma di un commento ai testi. Malgrado ciò non va naturalmente escluso che il racconto metaforico non fosse soltanto la messinscena ingegnosa per reinterpretare tradizioni antichissime, ma che possedesse un nucleo di realtà e si riallacciasse davvero ai resti di un antico papiro.
Commentari e traduzioni (cura del significato)
La cura del significato va tenuta distinta dalle tecniche e dalle qualità della cura del testo, perché non si tratta più di copiare, ma di comprendere; anche in questo caso scribi e dotti egizi si vantavano di analoghe capacità. "Chi spiega passaggi oscuri (ı̓tnw) e difficili (qsnw) sta negli annali come colui che li ha fatti", afferma gloriandosi Hori nel papiro Anastasi I (Fischer-Elfert 1986, p. 21 [v]; brani simili si trovano in Schott 1990, pp. 28-29). "Guarda questi 30 capitoli, […] riempi di essi il tuo cuore, diventa uno che possa spiegarli", dice Amenemope all'allievo (papiro BM 10474, XXVII, 13-14; Lange 1925, p. 134). Il testo non deve essere soltanto imparato, ma compreso, e comprendere significa essere in grado di spiegarne il contenuto ad altri. Un commento del genere va immaginato in forma orale: l'allievo recitava il testo imparato a memoria; l'insegnante vi aggiungeva singoli commenti. È possibile che egli interrompesse l'allievo mentre recitava, con la domanda "che cosa significa?", e che quello dovesse allora fornire la spiegazione. Il cap. 17 del Libro dei morti è redatto sotto forma di un simile dialogo; esso potrebbe essere considerato sia un commentario scritto nella forma di un colloquio di esame (Rössler-Köhler 1995), sia un dialogo di esame vero e proprio, oppure un interrogatorio iniziatico come quello cui viene spesso sottoposto il defunto sulla via dell'aldilà.
Negli accurati manoscritti del cap. 17 del Libro dei morti e del suo antecedente, il cap. 335 dei Testi dei sarcofagi, risaltano le glosse scritte in rosso:
Io sono lo ieri, io conosco il domani./ Che cosa significa?/ Per ciò che riguarda lo ieri, questo è Osiride/ Per ciò che riguarda il domani, questo è Ra,/ il giorno in cui i nemici del signore universale saranno sconfitti e suo figlio Horo sarà insediato come sovrano.
Altra lezione: questo è il giorno della festa "noi siamo rimasti".
Il metodo del commento può essere ricapitolato nei seguenti punti:
a) il commento era inserito nel testo principale;
b) le domande e le annotazioni di varianti erano spesso evidenziate con scrittura rossa rispetto al testo principale, scritto in nero, e alle glosse (alcuni manoscritti su sarcofagi del Medio Regno usavano il rosso per l'intera glossa, comprese domande e varianti);
c) il commento procedeva per lemmi, ossia erano commentate singole parole e formule, ripetute con ı̓r, "per ciò che riguarda…" (per es., "per ciò che riguarda lo ieri, questo è Osiride");
d) la lingua e l'universo concettuale delle glosse erano identici a quelli del testo principale: non si verificava alcuna trasposizione riconoscibile di tipo linguistico o semantico; ciò distingue testi del genere dagli 'interrogatori iniziatici' (v. oltre), in cui oggetti del mondo reale ‒ per esempio: prora, ruota di prua, travi, architrave, galleggiante (della rete da pesca) ‒ erano spiegati attraverso concetti del mondo divino.
Le interpretazioni del commento appaiono tuttavia decisamente oscure rispetto ai concetti spiegati, e si distinguono in tal senso dalle glosse mediche, in cui i termini tecnici sono chiariti con parafrasi tratte dalla lingua corrente. Lo stesso sistema di glosse inserite nel corpo del testo ed evidenziate da scrittura rossa si trova infatti in manoscritti medici; la precisione costituisce allora l'intento principale del commento. Riportiamo un brano di Westendorf in cui è spiegato il principio sotteso alle glosse del papiro Edwin Smith:
in genere, parole che richiedono delucidazioni sono spiegate in una glossa solo quando compaiono per la prima volta. Vi sono però anche casi di glosse ripetute più volte. […] Le glosse seguono comunque sempre uno schema comune: la parola o l'elemento della frase da spiegare sono citati nuovamente, premettendo un 'per ciò che riguarda' e ripetendo possibilmente l'inizio del testo, per essere poi spiegati con la formula 'questo è [oppure significa]'. Nei nostri manoscritti le glosse sono scritte tutte dalla stessa mano: anche da questo si evince che si tratta di copie di originali più antichi. Originariamente le glosse costituivano naturalmente un'aggiunta di una seconda mano, come parzialmente evidenziano forme linguistiche e grafiche più recenti. (Westendorf 1966, pp. 22-23)
Si consideri un esempio tratto dal papiro Smith:
Informazioni sulla frattura del setto del naso.
Quando esamini un uomo con una frattura al setto del naso, il naso è schiacciato, appiattito il volto; il gonfiore aumenta nella parte sovrastante [ossia sulla frattura]. Dalle narici esce sangue: Tu devi allora dire al suo riguardo: è uno con una frattura al setto del naso. Una malattia che curerò.
A questo punto devi pulirgli [il naso] [con] due tamponi di tessuto. Poi devi mettere dentro le sue narici due tamponi di tessuto inumiditi con olio/grasso. Poi devi far[lo] stendere sul suo giaciglio, fino a quando il gonfiore non sia svanito. Poi devi applicargli cuscinetti di tessuto e mediante questi tenere insieme il naso. In seguito trattalo tutti i giorni con olio/grasso, miele, fibre, fino a quando non migliorerà.
[Commento:]
Per ciò che riguarda: il setto del naso.
Questo è: lo spigolo superiore del naso fino alla sua metà, sul lato superiore del naso, all'interno del naso, nel mezzo [tra] delle narici [ovvero delle ali nasali].
Per ciò che riguarda: le due narici [ovvero ali nasali].
[Queste sono:] i due [spazi] laterali del naso che arrivano alla guancia fino alla fine del naso, e terminano [sul] lato superiore del naso. (papiro Smith, 5.10-15; Westendorf 1966, pp. 50-51)
Il commento del papiro Smith ne traduceva la terminologia in lingua normale, spiegando i vari termini mediante la descrizione delle rispettive regioni corporee. Brevi frasi del linguaggio tecnico erano sostituite da descrizioni più ampie, per esempio:
Per ciò che riguarda: Egli cammina incespicando con la pianta del piede.
Egli [?] [ciò] dice [del caso]: egli cammina mentre la pianta del piede è inerte, non gli è gradevole nel camminare, poiché è molle [e] penzola; le punte delle dita sono ripiegate verso l'interno della pianta, esse [le punte delle dita] procedono cercando il pavimento. Egli [?] dice in merito: Costui incespica. (papiro Smith, dal caso 8; Westendorf 1966, p. 44)
Nel papiro Ebers il commento seguiva un altro principio: non si trattava tanto di tradurre, quanto di integrare e modernizzare. Erano fornite indicazioni ulteriori ed erano giustapposte anche informazioni che si discostavano dal tema:
Per ciò che riguarda: l'acqua che da essi [gli occhi] scende. Sono le iridi di entrambi gli occhi ciò che la dà. Un'altra asserzione: ciò che la produce è il sonno in entrambi gli occhi. (papiro Ebers, 99. 8-10 [854c]; Deines 1958, p. 1)
Oppure:
Per ciò che riguarda: quello per cui entrambe le orecchie diventano sorde: ciò che lo produce sono due vasi che portano alla radice dell'occhio.
[Un'altra asserzione:] Per ciò che riguarda: quello per cui entrambe le orecchie diventano sorde: sono quei [vasi] che si trovano sui due lati delle tempie dell'uomo con l'aria-nssw. Ciò significa che il demone della decapitazione dà [l'aria] nell'uomo. E così egli [l'uomo] accoglie per sé il suo [del demone] alito. (papiro Ebers, 99.14-17 [854e]; Deines 1958, p. 2)
Il commento mirava a chiarire e precisare il senso; esplicitava il significato delle espressioni usate nel testo e integrava le informazioni fornite avvalendosi di una forma fissa che si avvicinava al commento lemmatico. Il lemma era evidenziato con ı̓r ("per ciò che riguarda") e con colore rosso.
Un punto controverso è stabilire se le glosse fossero presenti nel testo sin dall'inizio oppure se siano state aggiunte successivamente. "Si è voluto spiegare queste glosse come aggiunte di commentatori posteriori che desideravano avvicinare un'opera ormai quasi incomprensibile ai loro contemporanei. Patrimonio lessicale e formulazione indicano, tuttavia, che non si tratta di una modernizzazione, ma di una precisazione di concetti mediante spiegazioni. Con l'ausilio delle glosse sono definiti termini specialistici che designano parti del corpo e organi, medicinali e operazioni" (Schott 1954, p. 288). Schott ritiene dunque che il commento fosse una parte integrante del discorso scientifico. Nel perseguire la precisione quest'ultimo fa come tale da commento a sé stesso: il commento non subentra al testo in un secondo tempo, ma vi appartiene sin dall'inizio, come accade con le nostre note a piè di pagina.
Occorre distinguere rigorosamente tra il discorso di precisazione del linguaggio medico e un'altra forma di interpretazione, presente nei commentari di culto e negli 'interrogatori iniziatici' (v. oltre), che potrebbe definirsi come un discorso di trasfigurazione. Il principio alla sua base è la correlazione tra due sfere di significato: il mondo rituale e il mondo divino. Il piano del mondo divino costituisce "l'interpretazione sacramentale" della sfera rituale (Assmann 1977, 1991). Le azioni del culto non portano in sé stesse il proprio significato, ma lo ricevono in quanto rimandano a eventi del mondo divino: il culto rinvia a essi che interpretano, a loro volta, le azioni del culto. Attraverso il rimando e l'interpretazione, mondo rituale e mondo divino sono reciprocamente concatenati. La concatenazione si realizza preferibilmente in forma di giochi di parole. Carattere di rimando del culto e carattere interpretativo del mito formano un insieme: azioni rituali, come la purificazione e il nutrimento, significano, per esempio, rinascita e ascesa al cielo. Il processo di interpretazione sacramentale sembra in alcuni punti affine all'allegoria, giacché il significato divino di oggetti, persone e atti costituisce uno strato di senso più alto, nascosto, segreto, una scienza speciale.
L'intero culto egizio è dominato dal principio dell'interpretazione sacramentale. Il rapporto interpretativo del mondo divino con la sfera rituale resta implicito, oppure viene espresso esplicitamente in varie forme come frasi di commento abbinate a "ciò significa". Ne fornisce un esempio il papiro drammatico del Ramesseo, scena 11 (Sethe 1928, pp. 142-146):
Altri mezzi sono le note, come accade nello stesso testo:
oppure la formula del nome, in cui l'elemento rituale ‒ un oggetto, oppure un luogo ‒ era dichiarato nome della divinità alla quale rimandava o che interpretava. Così, a un testo (come tale non conservato) "Gli dèi dicono a Seth: "Porta uno che è più grande di te". Nota: il santuario ṯfʒ-wr", corrisponde la frase ""Porta uno che è più grande di te!", gli dicono in tuo nome ı̓tfʒ-wr" (papiro 627 in Assmann 1984, pp. 104-105). Anche qui è molto chiaro come fosse la lingua a portare e attuare la concatenazione delle due sfere di significato e, in questo modo, l'unità e la significazione della realtà.
Il significato divino del culto rappresentava una specie di scienza segreta in cui l'adepto doveva essere iniziato e ciò emerge dal genere degli 'interrogatori iniziatici', di cui ci sono stati conservati alcuni cenni nella letteratura funeraria. Si tratta, in questo caso, di dialoghi in cui qualcuno è interrogato sul significato divino oppure mistico di determinati oggetti. Oggetti e significati emersi dai commentari rituali sono collegati attraverso il concetto del nome, allo stesso modo di come, nelle massime, lo sono con la formula del nome. In quel caso l'oggetto appare come nome di una divinità; qui, al contrario, il significato divino costituisce il nome dell'oggetto. Il rapporto nominale è reciproco. Esistono anche massime in cui gli oggetti appaiono, come tali, parlanti e interrogano i morti sul loro nome: così, nella formula 404 dei Testi dei sarcofagi, appaiono parti della nave nel campo di giunchi (Faulkner 1973-78, vol. II, pp. 48-57; Barguet 1986, pp. 358-362; Müller 1972; Hornung 1979, pp. 210-211), e, nel capitolo 125 del Libro dei morti, elementi facenti parte del corridoio che porta alla sala del tribunale appaiono nell'atto d'interrogare il defunto chiedendogli il nome oppure le sue corrispondenze divine. Il principio è lo stesso dovunque: un elenco di oggetti di questo mondo da un lato e, dall'altro lato, un elenco di oggetti, persone ed eventi dell'altro mondo, tra i due esistendo un rapporto di rimando e significato. A unire i due mondi è il sapere, la conoscenza della lingua in cui sono conservati i rimandi e i significati. Il parallelo procede non tanto attraverso giochi di parole, quanto mediante equivalenze formali o funzionali, similitudini dell'aspetto o della funzione.
Per questa antichissima forma di commento è essenziale la differenziazione tra due ambiti di significato. In egizio esiste la parola intraducibile sʒḫ (la resa con "trasfigurazione" è soltanto una soluzione di ripiego), che si riferisce alla correlazione tra ambito di significato rituale e ambito di significato divino stabilita con una forma di commento definibile come un 'discorso trasfigurante'. Il commento, l'interpretazione sacrale, rappresenta qui un elemento integrativo del testo: due ambiti di significato, nessuno dei quali può esistere isolatamente, sono messi in relazione e trasformati. Nel discorso di precisazione dei manuali di medicina, invece, è senz'altro possibile immaginare il testo anche privo di commentario: le glosse non ne fanno parte integralmente, ma formano un metatesto. Nei manoscritti questa metatestualità è evidenziata mediante il colore rosso, adibito a tale funzione anche in altri casi, come titoli, postille, indicazioni di recitazione e altri elementi metatestuali.
L'ambito del significato divino forma un corpo di dottrine associato alla sfera dell'occulto. Sebbene non si sappia pressoché nulla per quanto riguarda le forme di consacrazione e d'iniziazione, è lecito supporre che tale conoscenza venisse appresa e richiesta nel corso della formazione sacerdotale, e che i testi funerari imitassero la forma di simili esami. In queste forme di scienza esoterica potrebbe trovarsi un autentico fondamento egizio per la teoria grammatologica di un occultismo sacerdotale riportata dagli autori greci.
Con lo sviluppo del demotico quale scrittura e lingua a sé stante, nella XXVI dinastia (664-525) nasce una nuova forma di commentario, e precisamente la traduzione di testi classici in neoegizio o demotico corredata da spiegazioni che possono variare da singole glosse a commenti sistematici. Siegfried Schott nel 1954 ha descritto ed edito il testo più antico di questo genere, risalente forse al VI sec. e contenente un testo liturgico relativo a un rituale apotropaico in medioegizio, assieme alla traduzione neoegizia e a glosse sparse. L'espressione per "commentare", "commento" è wḥc (letteralmente "sciogliere"), e compare spesso nel titolo degli scritti corrispondenti (Schott 1990, pp. 53-54 [84]-[87]). Il più significativo tra quelli sinora pubblicati è il papiro Carlsberg 1 da Tebtunis (Frandsen 1991), con il commento di una cosmografia contenuta nel cenotafio di Seti I (Lange 1925). È costituito da una traduzione dal medioegizio (a) in demotico (b), con parafrasi esplicative (c):
a) Egli [il dio del Sole] è cinto dalle braccia di suo padre Osiride
b) Egli è cinto dalle braccia di suo padre Osiride
c) Egli fa tutto ciò, ossia l'acqua da cui scaturisce…
a) L'aurora sorge dopo la nascita
b) L'aurora sorge dopo la nascita
c) Egli sorge, ossia Ra, la luce che nasce sul disco solare al mattino quando i suoi raggi sono sul disco solare con la luce menzionata
[…]
a) Così la forma in cui appare diventa grande
b) La forma in cui appare diventa grande
c) Questa è la sua fiamma
a) Così essa nasce nei paesi
b) Egli la fa nascere nei paesi [la fiamma] nella loro regione
c) Non si può nominare il luogo dove egli non la faccia nascere.
(Lange 1925, pp. 22-23)
Il commento cerca di fornire una spiegazione fisica dei processi divini: l'abbraccio di Ra e Osiride è spiegato come il sorgere del Sole dall'oceano che avvolge la Terra. L'interpretazione del testo non è volta qui a un significato occulto, divino (esoterico), ma, al contrario, verso una riduzione a ciò che è naturale ed evidente.
di Jan Assmann
La parola egizia per biblioteca è pr mḏʒt, 'casa dei rotoli' (secondo Diodoro questo termine indica una biblioteca specialistica a carattere religioso, hierà bibliothḗkē) (Bibliotheca, I 49.3). La parola mḏʒt, 'rotolo', deriva, come il latino volumen (da volvere), da una radice che significa "arrotolare, avvolgere", presente anche nell'ebraico megillah, "rotolo librario" (egizio ḏʒ = semitico gl, anche in gilgal, "cerchio") (cfr. Weber 1969, pp. 98-99). I rotoli erano conservati in casse, spesso rappresentate in raffigurazioni. Una di esse è stata rinvenuta in una tomba della XIII dinastia (2000-1780). Il contenuto fornisce un'idea di quale fosse la composizione di una biblioteca privata (manoscritti letterari, Il racconto di Sinuhe, Oasita eloquente, testi sapienziali, testi rituali, inni, testi medici e medico-magici). Si tratta, evidentemente, della biblioteca di un "sacerdote lettore" (h̠rı̓-ḥʒbt) che, in quanto recitava testi letterari, liturgici e magici, svolgeva anche opera di guaritore. La stessa combinazione di culto, medicina, magia e letteratura si ritrova, 500 anni più tardi, in un archivio di famiglia scoperto a Deir el-Medina, che contiene opere letterarie (canti d'amore, il mito di Horo e Seth, un inno al Nilo, dottrina sapienziale), testi medico-magici, rituali (Amenhotep I), letteratura divinatoria (libro dei sogni) (Pestman 1982). Si tratta, in entrambi i casi, di libri di proprietà privata.
Archivi (ḫʒ n sš, "ufficio degli scritti") appartenevano a tutte le istituzioni economiche di qualche importanza (soprattutto i templi) e alle autorità ufficiali (per es., la tesoreria e il luogo di raccolta dei documenti tributari). Gli archivisti custodivano e amministravano i documenti relativi alle persone e al territorio, nonché i protocolli giudiziari. Reperti cospicui di fondi archivistici sono i documenti del tempio funerario di Abusir dedicato a Neferirkara (V dinastia, XXVI-XXIV sec. ca., Posener-Kriéger 1976), i papiri di Kahun (XII dinastia, 2000-1780) e i papiri relativi ai furti nelle tombe (XX dinastia, 1194-1076) (Lexicon der Ägyptologie, vol. II, pp. 862-866).
Ai templi erano annesse biblioteche che contenevano gli scritti necessari per lo svolgimento delle attività corrispondenti ed erano, pertanto, funzionali alla consultazione e al lavoro piuttosto che alla raccolta di volumi. A causa della caducità del materiale i testi tradizionali destinati all'uso reiterato dovevano essere copiati a intervalli regolari. Ciò avveniva negli scriptoria, i più importanti dei quali, le cosiddette 'case della vita' (pr-῾nḫ), erano anch'essi aggregati al palazzo e ai templi. Un'idea di come fossero le biblioteche è data, per l'Età Tarda (712-332), dai cataloghi dei libri delle biblioteche templari conservati epigraficamente e dai reperti provenienti da biblioteche. Da Tebtunis provengono testi rituali, inni sacri, cosmografie e libri geografici, testi di astronomia, magia, testi sapienziali, libri di sogni, medicina, libri sull'amministrazione dei templi, onomastiká, ecc. Anche in questo caso, a indicare la struttura della biblioteca di un tempio è Clemente Alessandrino. Questo autore parla di 42 libri indispensabili che ne costituiscono il patrimonio di base, portati in giro da sacerdoti nelle processioni, e che sarebbero stati redatti da Thot-Hermes. L'articolazione di questo canone di 42 testi in diverse sezioni risulta dall'ordine di processione (Clemente Alessandrino, Stromata, VI, 4, 35.1-37):
Il cantore sa:/ un libro con inni agli dèi,/ un libro con il resoconto della vita del re./
L'astrologo sa:/ quattro libri di astrologia/ sulla disposizione delle stelle fisse,/ sulla posizione del Sole, della Luna e dei cinque pianeti,/ sulla congiuntura e sulle fasi del Sole e della Luna,/ sulle ore del sorgere delle stelle./
Lo ierogrammata sa:/ dieci libri geroglifici sulla cosmografia e sulla geografia, sull'Egitto e sul Nilo, sulla costruzione dei templi, sulle loro proprietà, sul loro approvvigionamento e sulla loro dotazione.
Lo stolista sa:/ dieci libri sull'educazione e sull'arte del sacrificio che trattano di saggezza e devozione, di riti sacrificali, del sacrificio del primogenito, di inni, preghiere, processioni e feste.
Il profeta [alto sacerdote] sa i libri con il massimo impegno, presumibilmente in quanto è l'unico che sia abilitato e chiamato alla loro interpretazione:/ dieci libri ieratici sulle leggi, gli dèi e l'insieme della formazione sacerdotale.
L'elenco segue sin qui un ordine gerarchico ascendente: il profeta riveste il rango più elevato, lo stolista il secondo, lo ierogrammata il terzo, ecc. Vi sono inoltre, secondo Clemente, "6 libri di medicina/ sulla struttura del corpo/ sulle malattie/ sugli strumenti/ sui farmaci/ sulle malattie degli occhi/ sulle malattie delle donne".
Il canone si basa sulle 42 province egizie, così come quello ebraico si basa sulle 24 lettere dell'alfabeto. I cataloghi conservati delle biblioteche dei templi confermano tale struttura. Rimane una questione aperta, e cioè se inoltre siano esistite raccolte di opere letterarie di tradizione nazionale, forse organizzate come biblioteche di palazzo. Questo tipo di biblioteche venne sviluppato dagli Assiri allorché cercarono una legittimazione politica attraverso la loro cultura. Colpisce che, contemporaneamente, anche le epigrafi dei re etiopici facciano uno sfoggio marcato di cultura (Grimal 1980). La biblioteca di palazzo neoassira era, in genere, incentrata sulla molteplicità, sull'abbondanza e sulla completezza, quasi che fosse fondata sull'idea di tesoreria trasferita al mondo dei libri: la biblioteca di Alessandria si collocò proprio nella tradizione di questo genere di biblioteche.
di Jürgen Osing
Il termine onomastiká, in riferimento all'antico Egitto, designa elenchi di parole e di nomi di materie specifiche scritti su papiri, tavolette od óstraka in ordine onomasiologico, ossia articolati secondo determinati criteri (per es., i toponimi della Valle del Nilo enumerati procedendo da sud verso nord). Oltre a tali elenchi vi sono altre liste, non redatte in ordine onomasiologico. La documentazione proviene sicuramente dall'ambito scolastico, in epoca greco-romana, soprattutto templare.
Nel periodo più antico, tutti gli elenchi erano ordinati per categorie, mentre nell'epoca greco-romana erano ordinati spesso in base al suono iniziale, a volte secondo la successione dell'alfabeto egizio, formatosi all'incirca in quell'epoca. Il raggruppamento in base al suono iniziale è orientato sulla pronuncia dell'epoca e non sulla scrittura tradizionale. I lemmi sono per lo più scritti l'uno sotto l'altro, in colonne, ma nei testi ieratici si trovano scritti anche l'uno dopo l'altro in file ininterrotte.
La forma delle liste lessicali è stata tratta, come nell'antica Mesopotamia, dai testi amministrativi. Liste simili, in forma più elaborata e già nota nell'Antico Regno (2750-2190), sono presenti nelle processioni geografiche di nomoí ‒ i distretti in cui era diviso amministrativamente l'antico Egitto ‒ e più tardi anche delle zone montuose che fornivano minerali preziosi; nelle litanie dei nomi di divinità e dei relativi luoghi di culto; nell'enumerazione delle parti del corpo umano dalla testa ai piedi; nei testi funerari e nel Nuovo Regno (1540-1076) anche nelle liriche amorose.
Il più antico onomastikón accertato è quello del Ramesseo (papiro Berlino 10495 A-K), un papiro della XIII dinastia (2000-1780), rinvenuto insieme ad altri di argomento letterario, medico e magico in una tomba al Ramesseo. In base a quanto si afferma al termine, esso includeva 323 lemmi, o più esattamente, considerate due omissioni, 321 lemmi (invece dei 343 del modello), che erano enumerati ponendo una cifra davanti a ogni decina. Si tratta di lemmi che riguardano le piante, i liquidi, gli oli, e ancora le piante, gli uccelli (partendo dalle oche), i pesci, e ancora gli uccelli, i quadrupedi, le fortezze nubiane, le città dell'Alto Egitto (fino al IX nomós), i pani e i dolci, i cereali, le parti del manzo da macello, i minerali e la frutta. Soltanto il capitolo sui pani e i dolci ha un titolo; l'inizio del testo, forse con un titolo generale, non si è conservato. Al termine della lista ‒ sicuramente non per compensare le 20 voci mancanti ‒ sono state aggiunte 20 grafie abbreviate, accompagnate da annotazioni, che si riferiscono a bovini di colori diversi.
In una tavoletta della V dinastia (2520-2360) troviamo 44 strette colonne geroglifiche, separate l'una dall'altra da linee verticali, le quali riportano nel corso di quattro colonne (in un caso cinque e in uno tre) la stessa serie di nomi. Si tratta di un elenco di sovrani a partire da Neferirkara, della V dinastia, fino a Bedja, della II, cioè dal 2400 al 3000 ca. (una riga), seguito da una lista di dèi (tre righe) e di luoghi (sette righe). In altre due colonne, più larghe e suddivise in riquadri, troviamo dettagliate rappresentazioni di oche e di pesci. Redatta in maniera molto accurata, questa tavoletta va essenzialmente considerata come un modello di calligrafia, anche se alla base potrebbe esservi una lista sul tipo dell'onomastikón del Ramesseo.
Molto diffuso era l'onomastikón di Amenemope, tramandato in nove copie, probabilmente tutte incomplete, risalenti alla XXI-XXII dinastia (1080-712) e alla XXVII dinastia (525-404). La versione più lunga è quella del papiro del Museo Puškin, di Mosca (nr. 169), proveniente da el-Hiba, nel Medio Egitto. Le sette pagine conservate riportano 610 lemmi sui seguenti argomenti: il cielo e le stelle, le acque, il terreno, le persone (suddivise gerarchicamente fra gli appartenenti alle famiglie reali, i funzionari di Stato, i sacerdoti, e le altre professioni), la popolazione e l'esercito dell'Egitto, i paesi e i popoli stranieri, la popolazione più umile dell'Egitto, le città egizie, le costruzioni, i terreni coltivati e i cereali, i pani e i dolci, le bevande, le parti e la carne del manzo da macello. La tavoletta porta il seguente titolo:
Inizio dell'insegnamento per comprendere, per istruire colui che non sa, per riconoscere tutto ciò che esiste, ciò che Ptah ha creato e Thot ha scritto: il cielo con le sue stelle, la Terra con quel che contiene, quello che le montagne generano, quello che le acque inumidiscono, tutte le cose sulle quali risplende la luce di Ra, tutto quello che cresce sulla Terra. Questo ha concepito lo scriba del libro divino nella Casa della vita, Amenemope, figlio di Amenemope.
Una tavoletta da scriba, che risale alla XXI-XXII dinastia ed è conservata presso l'University College di Londra, contiene due elenchi che riguardano le occupazioni e le attività di un falegname. Entrambi sono introdotti dall'espressione: "voglio farti sapere" rivolta da un insegnante a un suo allievo. Gli óstraka Cairo CG 25760 e JE 72502, entrambi redatti da uno scriba colto (qn-ḥr-ḫpš.f) della XIX dinastia (1293-1194), contengono liste di impiegati che cominciano con ḥry, "superiore" o con mr "soprintendente".
Ci sono pervenuti in gran quantità elenchi di nomi e di termini redatti, con ogni tipo di scrittura, nell'epoca tolemaica e romana, cioè dal 332. I voluminosi papiri e le tavolette (solo in ieratico) erano sicuramente materiale di supporto per le scuole, ossia degli excerpta per gli insegnanti, mentre i piccoli papiri e gli óstraka in demotico potrebbero essere stati esercitazioni scolastiche collegate ai paradigmi grammaticali e all'esercizio delle frasi.
Inoltre, ci sono pervenute quattro copie, di epoca romana, del 'papiro geografico', due in geroglifico e due in ieratico (una proveniente da Tanis e le altre dall'archivio del tempio di Soknebtynis a Tebtunis). Di tutti e quattro i papiri sono rimasti soltanto dei frammenti, mentre in origine ciascuno di essi doveva essere di notevole lunghezza. Il loro contenuto è un compendio enciclopedico molto dettagliato del sapere sacerdotale, suddiviso in una serie di sezioni, in parte introdotte da titoli. Gli argomenti trattati sono i seguenti: il calendario religioso (la misurazione del tempo, elenchi sistematici con le stelle dei decani, con i mesi, le ore del giorno e della notte, i giorni del mese lunare); la metrologia ed elenchi di divinità; un esauriente elenco concernente la materia sacra (v. oltre) per le capitali e un secondo per altri luoghi dei nomoí; l'inventario dei templi e le offerte, le località sacre, gli animali, gli alberi, i minerali e simili; i sacerdoti e le sacerdotesse; i pesci sacri; le grandi festività dell'anno e di Osiride; i santuari; i funzionari di corte e altre professioni. Ad alcune di queste categorie sono associati i corrispettivi luoghi o divinità. In epoca greco-romana, gli elenchi che riguardano la materia sacra delle capitali e degli altri luoghi dei nomoí sono raffigurati sulle pareti dei santuari sotto forma di processioni di distretti o di 'monografie'.
Su sette delle dieci pagine conservate di un papiro ieratico del II sec. (papiro Berlino 7809/7810+Louvre 11112) sono presenti diversi gruppi di divinità per lo più minori, spesso accompagnate da commenti, oltre alle indicazioni di immagini divine e di funzionari di alto rango; seguono immediatamente tre strette colonne che contengono lunghe liste di sinonimi con definizioni generali per il 'cielo' e le 'stelle'. Alcuni capitoli sono evidenziati da titoli.
Una combinazione dei gruppi suddetti, con l'aggiunta di un dettagliato elenco di verbi, si trova in un papiro del II sec., sempre dall'archivio di Tebtunis, originariamente lungo oltre 10 m, ma pervenutoci in stato frammentario. Il testo si articola in quattro lunghe sezioni, suddivise nel modo seguente:
a) verbi elencati sotto forma di un vocabolario dei sinonimi, ordinato in base a un criterio tematico (per es., lo scrivere, il navigare) o per raggruppamenti semantici e nel contempo in base ai determinativi (come le azioni, il tagliare, la voce, gli stati cattivi, il moto);
b) sostantivi elencati per raggruppamenti tematici e, ancora, in base ai determinativi, in parte accompagnati da note esplicative, con capitoli che riguardano la scrittura, le costruzioni, i toponimi, il terreno, i paesi e i popoli stranieri, il tempo, le malattie, gli oggetti di legno e gli animali; la suddivisione degli animali rispecchia sostanzialmente quella attestata a partire dal Nuovo Regno (e cioè animali di grossa taglia, di piccola taglia, pesci, uccelli e rettili), articolandosi in quadrupedi, coccodrilli, serpenti, vermi, parassiti, uccelli (anche qui partendo dalle oche), pesci e tartarughe;
c) la materia sacra egizia, che comprende elenchi di luoghi, animali e alberi sacri, di divinità, di sacerdoti e simili, in parte accompagnati da spiegazioni dettagliate;
d) un calendario per la suddivisione del tempo, con lunghi elenchi di nomi dei decani, delle ore del giorno e della notte, dei mesi e delle festività mensili e simili, in parte con liste parallele estratte da fonti diverse (occasionalmente accompagnate dal commento "citato da un altro testo").
Nelle sezioni a) e b) (soprattutto nella transizione tra le due) la distinzione tra verbi e sostantivi non è osservata scrupolosamente, anche se è rispettata la suddivisione per gruppi semantici.
Le condizioni frammentarie del testo non consentono di stabilire in quale misura ambiti e campi semantici che non sono stati trattati, come le piante, i minerali, le imbarcazioni, i cibi e le bevande, fossero presenti nei papiri originali.
In generale, si può affermare che il testo è stato concepito come se fosse un'enciclopedia, vista la presenza, nelle sezioni a) e b), di verbi e sostantivi molto rari e l'inclusione di tradizioni diverse nelle sezioni c) e d). Nelle ultime due sezioni, inoltre, i singoli capitoli sono regolarmente introdotti da titoli specifici, mentre nelle prime due ciò accade solo in via eccezionale. Non è chiaro se il titolo posto in apertura (pʒ ʒpd štʒ n wḥc ı̓tn[w], Il segreto compendio [?] sulla spiegazione della [o delle] difficoltà) si riferisca soltanto alle prime due sezioni o a tutto il testo. Quasi l'intero papiro è dotato di glosse aggiunte al di sopra delle righe in caratteri assai minuti, perlopiù in scrittura demotica o ieratica, ma anche già in 'copto antico', ossia in lettere greche completate da caratteri integrativi tratti dal demotico per i suoni assenti nel greco. Come testimoniano queste glosse, la cui funzione era di chiarire la lettura o la pronuncia delle parole o dei nomi presenti nel testo principale, già nel II sec. doveva essere difficile comprendere un testo ieratico tramandato nella forma linguistica classica medio-egizia.
Su due tavolette, una delle quali rinvenuta a Tebe, si conservano brani di un capitolo sui verbi di movimento, a loro volta integrati da simili glosse in demotico e in ieratico.
I papiri degli inizi dell'epoca tolemaica (papiro Cairo CG 31168 e 31169) ritrovati a Saqqara, rispettivamente della lunghezza di sette e dieci colonne (più altre due sul retro), ciascuna di 30-33 voci, contengono elenchi di nomi di località e di paesi, di divinità, di sacerdoti, nonché di nomi propri teofori, cioè riferentesi a una divinità. I lunghi elenchi di divinità sono suddivisi con un titolo generale ('gli dèi') e altri titoli che introducono i capitoli sulle divinità maggiori, indicate con i loro numerosi nomi cultuali (Osiride, [Amon], Horo, [Iside], Ptah, in 31169; [Neith], Min, Thot, Sekhmet, [Atum], Bastet, Anubi, Nefertum, in 31168). Nella lista topografica immediatamente precedente, che nella sua parte finale, la sola pervenutaci, cita località del Basso Egitto e luoghi e regioni fuori dell'Egitto, la nota conclusiva "È finito bene" denuncia la copiatura da un altro manoscritto. Le due colonne di nomi propri teofori, sul retro, formano gruppi con gli dèi Amon, Atum, Iside e "Luna" (ı̓mn, ı̓tm, ʒst, ı̓cḫ) oppure con ı̓w ı̓r.f cʒ n (seguito dal nome della divinità) come primo elemento. Poiché in tutti i gruppi i nomi sono accomunati dal suono iniziale, questo potrebbe essere stato il criterio generale di suddivisione.
L'ordinamento basato sul suono iniziale, ossia sul primo elemento di un nome o di un composto, caratterizza anche altri elenchi di nomi propri teofori, di funzionari e di mestieri, scritti in demotico, e una lista geroglifica molto dettagliata, nel tempio di Dendera, che riporta nomi di Hathor.
Brevi elenchi demotici con i nomi dei mesi, dei giorni del mese o delle località della Valle del Nilo, rispettano un ordine determinato, mentre elenchi di piante, di alberi, di varietà di legni e di manufatti di legno sono suddivisi in gruppi tematici oppure ordinati in base alla lettera iniziale del lemma.
Un elenco demotico, che risale agli inizi dell'epoca tolemaica (332-30) o al periodo immediatamente precedente, riporta nomi di uccelli e di alberi ordinati in base al suono iniziale secondo l'alfabeto egizio:
pʒ hb ḥr pʒ hbyn pʒ rd ḥr pʒ rr […] r pʒ wy ḥr pʒ wrt r pʒ smn ḥr pʒ sry […] r pʒ mnw ḥr pʒ mn[w] "L'ibis sta sull'ebano, l'airone sta sulla vite, […] mentre lo wy sta sulla rosa, l'oca del Nilo sul […], il piccione sul […]". (Smith 1983, pp. 198-213)
Rientrano in una tradizione egizia forse anche le Sei Kiranidi, un'opera greca tardo-antica attribuita al mitico Ermete Trismegisto, in cui compaiono analoghi elenchi ordinati in base all'alfabeto greco. Il libro I si compone di 24 capitoli con elenchi di piante, di uccelli, di pesci e di pietre, raggruppati in base alla lettera iniziale e corredati da note concernenti le loro caratteristiche, simpatie e antipatie. I libri II-VI, articolati secondo lo stesso criterio, sono dedicati ad animali, uccelli, pesci, piante e pietre (con nome, descrizione e loro impiego nella medicina).
Un papiro del I o II sec., ritrovato a Tanis, e originariamente lungo non meno di 1,80 m ca., contiene un lungo elenco dei segni della scrittura geroglifica. Nella parte superstite i geroglifici sono ordinati in 33 strette colonne, di 14 lemmi ciascuna, e contornate da linee verticali. Dietro ognuno, in uno spazio più ampio, è riportata in scrittura ieratica la sua forma corsiva con una breve descrizione del segno, mentre non vi sono note sulla pronuncia o sul suo modo di impiego come ideogramma o determinativo (per es., Sole: "sole del giorno"; Sole con ureo: "sole di Ra"; Sole con corona di punti: "sole che splende"). I geroglifici sono ordinati per gruppi tematici: uomini in piedi, donne, uomini accovacciati, [...] pesci, rettili, quadrupedi, ecc. Un certo numero di geroglifici all'interno di una stretta colonna bordata da linee verticali si ritrova in un altro papiro, anch'esso dall'archivio di Tebtunis e della medesima epoca, del quale si sono conservate soltanto la prima pagina e un frammento di un'altra. I geroglifici sono in questo caso ordinati in base al suono iniziale (nel reperto in questione h/ḥ), tuttavia troviamo anche qui commenti ieratici con delucidazioni sulla loro pronuncia. Il titolo di questo papiro è: "Spiegazione dell'arte dello scrivere, spiegazione dei punti difficili, spiegazione delle cose nascoste, spiegazione delle diffi[coltà]" (wḥc m bʒk tı̓t wḥc qsnw wbʒ ı̓mnw wḥc ı̓[tnw]).
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