Scienza egizia. Zoologia e botanica
Zoologia e botanica
L'Antico Egitto, sin dalle origini, ha riservato al mondo animale un'attenzione costante e rispettosa. Nella civiltà egizia gli animali furono osservati, studiati e rappresentati con amorevole meticolosità, poiché erano parte integrante di ogni sfera della vita umana: da quella dell'esperienza del divino e del sacro fino a quella contigua del vivere quotidiano. Il contributo che ciascuno di questi scenari offre alla conoscenza della fauna dell'Antico Egitto e allo studio del suo ecosistema è immenso e ha permesso spesso di trarre utili osservazioni sull'antica distribuzione delle specie animali nella valle del Nilo.
Tutto ciò offre informazioni preziose alla zoologia moderna e attesta le capacità di osservazione della Natura degli antichi Egizi, ma poco permette di desumere sullo status di questa scienza nella civiltà nilotica. L'Antico Egitto non ci ha trasmesso testi che documentino una riflessione epistemologica sulla zoologia, come è invece il caso dei trattati aristotelici. I due manuali che possono legittimamente inserirsi nell'ambito della zoologia hanno finalità pratiche e si collocano in un'area d'intersezione tra indagine sulla Natura e medicina. D'altra parte, questa disciplina non rientrava probabilmente tra quelle studiate nelle istituzioni culturali dell'Antico Egitto, la cui lingua non conobbe un termine generale per indicare gli animali. Del resto al pensiero egizio era estranea una rigida separazione tra questi e gli uomini, giacché entrambi venivano riuniti sotto la comune dicitura di 'viventi' o 'creati'.
Sono proprio i racconti sulla creazione a offrire utili indizi per tentare di ricostruire l'antica classificazione zoologica. Al momento di enumerare gli esseri viventi, solitamente sono citate cinque classi animali: il bestiame di taglia grande e di taglia piccola, gli uccelli, i pesci e una quinta categoria che riuniva ofidi, sauri, lucertole e vermi (ḥfʒw). L'elemento determinante per l'appartenenza all'uno o all'altro raggruppamento era l'habitat: tutto ciò che viveva nell'acqua era compreso nella categoria dei pesci, così come tutto ciò che viveva nell'aria rientrava tra gli uccelli, compresi gli insetti volanti. Pesci e uccelli, abitando aree contigue alla terra, erano spesso associati e trattati insieme, mentre il bestiame e la categoria degli ḥfʒw appartenevano alla terra. Nel sistema geroglifico, l'uso dei determinativi ‒ gli speciali ideogrammi posti in fondo a ogni parola per evidenziare la categoria semantica di appartenenza ‒ permette di apprezzare con maggior dettaglio la tassonomia zoologica egizia e rivela significative eccezioni: gli insetti volanti, per esempio, invece di essere indicati con il segno dell'oca, che generalmente accomuna gli uccelli, hanno un proprio ideogramma; lo stesso avviene per i coccodrilli e le rane. Il criterio di ripartizione in base all'ambiente naturale creava infatti comprensibili incertezze nel caso di animali dal duplice habitat. Un'analoga oscillazione è riscontrabile per le lucertole, sentite come fenotipicamente sospese tra serpenti e coccodrilli.
La tendenza a un'embrionale classificazione zoologica coesisteva con il predominante interesse teorico verso la creazione di sistemi simbolici, nei quali ogni elemento dell'Universo era legato ad altri da un complesso di relazioni, che permetteva di raggrupparlo, contrapporlo o integrarlo con altri insiemi; sul riconoscimento di questa rete di associazioni, opposizioni e complementarità si basava la spiegazione, o le spiegazioni, del mondo dell'Antico Egitto. Era questo tipo di classificazione ‒ la cui importanza nelle società antiche o non alfabetizzate è stata messa in rilievo dalla ricerca di matrice strutturalista, da Claude Lévi-Strauss in poi (Lévi-Strauss 1962) ‒ a rivestire valore ermeneutico, mentre l'embrionale tassonomia zoologica, pur presente nella frammentaria documentazione disponibile, aveva una funzione più descrittiva.
Liste e onomastiká
Presso le società del Vicino Oriente antico, il principio della classificazione trova una delle sue espressioni più tipiche nella struttura di liste e tabelle, abbondanti nell'Antico Egitto e, nella forma più ampia, note col nome greco onomastiká. Purtroppo, le liste superstiti non offrono molto materiale per la comprensione della tassonomia zoologica stabilita in quella civiltà: la più nota, l'onomastikón di Amenemope (1100 ca.), benché verosimilmente includesse gli animali nella rubrica sulla Terra e ciò che è in essa, manca della parte finale e contiene soltanto un'enumerazione delle singole parti dell'anatomia bovina. L'esistenza di tali elenchi, e il fatto che se ne trovino estratti copiati su óstraka (frammenti di terracotta), mostra comunque che la conoscenza dell'anatomia bovina non era solo empirica e tramandata oralmente, ma costituiva oggetto di studio: nell'óstrakon Gardiner 155 per ogni singola parte del bue è detto di quante vertebre o di quante ossa è composta; sempre in questo testo, così come nell'óstrakon Gardiner 156, lo studente aggiunge alcune glosse esplicative ai termini che descrivono la collocazione delle varie parti dell'animale.
Nell'onomastikón del Ramesseo, i cui contenuti sono ampiamente perduti, gli animali sono citati dopo una lista che unisce nomi di piante a nomi di prodotti liquidi (forse di origine vegetale), nel seguente ordine: uccelli, pesci, nuovamente uccelli e un breve elenco di quadrupedi. In fondo alla lista è posta una sorta di appendice, dedicata all'enumerazione di venti diversi tipi di bestiame. Anche questo onomastikón include un elenco di nomi di anatomia bovina.
Il 'Giardino botanico' di Karnak
A est del tempio di Amon-Ra a Karnak, un complesso monumentale eretto da Thutmosi III (XVIII dinastia) ospita sulle sue pareti un insieme di rappresentazioni botaniche e zoologiche noto come il 'Giardino botanico'. Esso si differenzia dalle altre rappresentazioni note di flora e fauna per l'intenzionalità con cui le diverse specie rappresentate sono state selezionate: due testi geroglifici che accompagnano le raffigurazioni ci avvertono infatti che si tratta delle "piante che Sua Maestà ha trovato nel paese di Retenu [Palestina e Siria]" (Beaux 1990, pp. 39-46). Purtroppo, i testi non citano le rappresentazioni di animali frammiste alle piante ‒ 38 uccelli, una gazzella e vari bovini ‒ né lo studio dedicato di recente all'analisi complessiva del monumento ha rilevato un rapporto organico tra la raffigurazione delle piante esotiche o strane e gli animali a esse accostati. Né la gazzella né i bovini presentano aspetti che li differenzino dalle specie diffuse nell'Egitto dell'epoca; per quanto riguarda invece gli uccelli raffigurati, in molti casi, ove siano identificati, sembra trattarsi di uccelli migratori o di specie attestate nelle regioni limitrofe all'Egitto. È perciò possibile che la stessa volontà di rappresentare l'esotico o lo straordinario abbia presieduto alla scelta dei volatili.
Il papiro veterinario di Kahun
Un trattato di veterinaria, in condizioni assai frammentarie, è stato tramandato da un papiro databile intorno al 1850 a.C., noto come 'papiro veterinario di Kahun'. Il papiro, scritto in geroglifico corsivo, è stato rinvenuto insieme ad altri testi scientifici, dedicati a problemi matematici e medici; il poco che resta, per la lucidità e la razionalità dell'esposizione, fa rimpiangere quanto si è perso. Le ricette e i trattamenti descritti sono raggruppati per specie animali e, all'interno di questa prima divisione, per malattie: i frammenti A+B, di cui purtroppo resta solo l'intestazione, trattano la patologia di oche e pesci; tre frammenti (C+H e D) riguardano un animale imprecisato; infine, il frammento più esteso (papiro veterinario di Kahun 34-69) si occupa di due malattie del toro (rispettivamente designate come nfw e wšcw). È probabile che anche la malattia, causata da vermi, citata nell'intestazione del secondo grosso frammento (papiro veterinario di Kahun 17-33) riguardasse i bovini. Lingua e formulario ricalcano esattamente la tradizione dei testi medici dell'epoca; la descrizione dei sintomi, assai dettagliata e ricca di termini tecnici non attestati altrove, è introdotta dalla frase "se io vedo [un toro, ecc.] che soffra della malattia x", cui seguono l'elenco dei sintomi caratteristici e la prescrizione, preceduta dalla formula classica "lo si curi"; è infine fornito nel dettaglio l'elenco delle operazioni da compiere. L'esame clinico dell'animale era scrupoloso e, all'occorrenza, eseguito facendo sdraiare l'animale: se ne osservavano denti, lingua, occhi e perfino la frequenza del battito cardiaco. Sintomi come debolezza, insonnia, astenia erano attentamente registrati.
Il trattato di ofiologia
Ci è pervenuto un testo riguardante i serpenti, che può considerarsi un vero e proprio trattato di ofiologia, risalente agli ultimi secoli della storia faraonica, anche se per contenuti e per forma s'inserisce perfettamente nella tradizionale cultura dell'Antico Egitto. Il testo ci è stato trasmesso in forma quasi integrale in un papiro in scrittura ieratica, conservato al Brooklyn Museum, e, per completezza e ricchezza di informazioni, non ha confronti nella manualistica antica (Sauneron 1989).
Il documento non offre elementi certi di datazione ma, su base paleografica, può essere collocato nell'ambito del IV sec. a.C.; la tradizione scientifica e medica a cui attinge potrebbe però risalire a epoche ben più antiche. Nel testo, infatti, in una delle formule relative agli antidoti si afferma che si tratta di uno scritto rinvenuto all'epoca del faraone Neferkara Pepi II (2246-2152). Tale affermazione, se da una parte rientra nell'usanza egizia di attribuire ai testi mirabolante antichità, potrebbe nel caso specifico testimoniare la filiazione del trattato da un filone di studi assai più antico: non è inverosimile che l'epoca delle piramidi (all'incirca tra il 2750 e il 2300), così ossessionata nelle sue formule magiche dal problema della difesa dai rettili e da altri animali velenosi, avesse prodotto il primo nucleo scritto di osservazioni sui serpenti e sui rimedi contro il loro veleno.
Il trattato si presenta articolato in due sezioni organicamente connesse e redatte l'una di seguito all'altra: una particolareggiata descrizione dei rettili, del loro morso e degli effetti dei morsi, con indicazione della prognosi, e un elenco di antidoti. Secondo la consuetudine della manualistica egizia, il trattato fu compilato per uno scopo eminentemente pratico: il rettile e gli effetti del suo morso erano accuratamente descritti per poter prestare alla vittima le cure appropriate. Tuttavia l'intento pragmatico non impedì allo sconosciuto autore di organizzare la materia secondo i canoni della riflessione scientifica del tempo, come mostra l'attenzione ai principî della classificazione e l'associazione di ciascun rettile a una precisa divinità. In questo modo l'utente colto trovava un immediato riferimento a quel complesso sistema di relazioni su cui nell'Antico Egitto si basava la teoria generale dell'Universo. Non ci troviamo dunque di fronte a un prontuario destinato a un praticante di villaggio, ma piuttosto a uno dei trattati conservati nelle biblioteche dei templi. Il documento, in effetti, è pervenuto al Brooklyn Museum come parte di un lotto di papiri che sembra aver fatto parte degli archivi di un santuario dell'antica Eliopoli.
Lo specialista a cui era riservata una tale conoscenza era 'l'incantatore di Selkis', un'antica carica associata alla dea-scorpione Selkis, in cui sembra di dover riconoscere un ofiologo, nonché un medico specializzato nel riconoscimento e nella cura dei morsi di serpenti e di altri animali velenosi.
Nella sua consistenza attuale, il testo del primo trattato comprende 25 capitoli, ciascuno dedicato alla descrizione di un ofide e del suo morso. Fa eccezione l'ultimo capitolo, dedicato al camaleonte, la cui inclusione si spiega, da una parte, con l'appartenenza dei sauri, insieme agli ofidi, alla categoria degli ḥfʒw; dall'altra parte, con la presunta pericolosità del suo morso. La suddivisione in capitoli appartiene al documento originario. La rubrica finale ne sintetizza infatti il contenuto in questo modo: "In totale: serpenti e analisi dei morsi: 38 capitoli" (capp. XXXVIII, II, XVI). Quattordici sono dunque i capitoli perduti, corrispondenti alla metà superiore del primo foglio del papiro, distrutta. La parte relativa agli antidoti è stata a sua volta divisa dall'editore del papiro in 62 capitoli (capp. XXXIX-C). Mancando la parte ultima e il colophon (l'insieme delle ultime righe, riguardanti lo scriba e cose simili), è impossibile dire se questa parte del testo sia stata tramandata integralmente.
I 25 capitoli superstiti della prima parte del documento presentano una struttura sostanzialmente omogenea, benché non sempre costante. Se se ne volesse tracciare uno schema ideale, traendone gli elementi da più capitoli, ognuno di questi potrebbe essere suddiviso nei seguenti paragrafi:
a) nome del rettile;
b) famiglia;
c) descrizione, articolata nelle seguenti voci: (1) colore (totale oppure o anche di singole parti); (2) forma (della testa, del collo, della coda); (3) taglia; (4) presenza di attributi particolari (come corna);
d) comportamento;
e) aspetto del morso;
f) associazione a una divinità;
g) effetti del veleno;
h) prognosi;
i) indicazioni tecniche dell'intervento medico.
Se si eccettuano gli aspetti specificamente legati alla natura dei rettili, questa struttura mostra notevole consonanza con la tradizione della descrizione scientifica dell'Antico Egitto, quale ci è nota dai pochi resti che ne sono rimasti. Lo dimostra l'uso d'introdurre il nome del rettile con la particella ı̓r, che significa "quanto a", espressione che nel linguaggio scientifico dell'Antico Egitto introduceva in genere il lessema di cui si dava la definizione; in linea con tale tradizione sono inoltre l'associazione dell'oggetto descritto a una data divinità e la fraseologia tecnica della prognosi, che inserisce la scienza dell'incantatore di serpenti a pieno titolo nella gloriosa tradizione medica dell'Antico Egitto.
Nonostante la perdita della parte iniziale del papiro, alcuni indizi fanno presupporre che la materia fosse organizzata secondo una classificazione sistematica di tipo oggettivo; tali indizi sono costituiti dal fatto che il testo raggruppa in capitoli contigui sia gli ofidi dal morso mortale (capp. XV-XIX), sia i rappresentanti della famiglia dei viperidi (capp. XXVI-XXXI), e soprattutto, dalla menzione ‒ purtroppo rara ‒ dell'appartenenza a una data famiglia. Questo, per esempio, è il caso del primo ofide descritto (cap. XIV), che "appartiene al gruppo del cobra e del kʒ-ncy" o del serpente sdb (cap. XX), inserito dal testo nella famiglia dei msw-bdš, probabilmente viperidi. Un altro dato interessante è la suddivisione degli ofidi in maschili e femminili: per lo più il testo si riferisce ai serpenti al maschile, a eccezione di tre casi ‒ il nbd (cap. XXI), l'ḥnp bianco (cap. XXIII) e quello rosso (cap. XXIV) ‒ per cui usa esclusivamente pronomi e desinenze femminili. Non è chiaro se in questi casi si tratti di una vera differenziazione sessuale o di una suddivisione in base a criteri d'ordine simbolico. In altri casi sono descritti o menzionati sia l'esemplare maschile sia quello femminile (capp. XVI, XVIII, XXXI, LXX).
La classificazione egizia manca comunque dell'astratta rigorosità della moderna ofiologia e presenta ovviamente molti limiti: imprecisione nella descrizione dei colori e povertà della relativa nomenclatura; mancata attenzione alla forma e alla ripartizione delle scaglie, che, al contrario, rivestono una grande importanza nell'ofiologia moderna; oscillazioni nello schema descrittivo. Ciononostante, l'interessante confronto posto da chi ha curato la pubblicazione del testo tra la moderna descrizione dei serpenti nella letteratura ofiologica e quella del papiro Brooklyn ha messo in evidenza anche sorprendenti parallelismi. Nella descrizione antica è notevole l'importanza attribuita ad alcune caratteristiche non appariscenti, come, per esempio, lo spessore relativo del collo rispetto alla testa, che è un dato costante nelle descrizioni moderne. Di eccezionale interesse è anche la precisione con cui sono spesso descritti l'aspetto del morso (numero delle punture visibili; eventuale edema o necrosi dei tessuti; ampiezza e profondità della ferita) nonché gli effetti e le conseguenze del veleno. Da questa diversa prospettiva ‒ prioritaria per l'autore del trattato ‒ la classificazione fondamentale è tra serpenti velenosi e serpenti innocui. Tra i primi, il testo distingue ulteriormente le specie dal morso mortale e gli ofidi di minore tossicità. La tossicità, in alcuni casi, può variare a seconda del periodo dell'anno, della quantità di veleno penetrata nell'organismo, della profondità della ferita. A sua volta la prognosi varia in funzione di queste considerazioni: categorica nei casi mortali ("Se morde qualcuno, questi muore subito"; "Inutile compiere esorcismi nei suoi confronti, mai!"; "Abbandona!"); possibilista, con diverse sfumature di ottimismo, e ben più articolata negli altri casi.
Anche l'ordinamento dell'antidotario è subordinato alla classificazione dei serpenti: la scelta dell'antidoto più efficace dipende infatti dalla corretta identificazione del rettile. Le ricette sono perciò raggruppate per tipo di serpente ma, in caso di identificazioni meno certe, l'antidotario presenta trattamenti validi per due o più esemplari, forse affini; esistono anche ricette che il testo considera efficaci per ogni tipo di veleno. I rimedi sono prescritti per uso sia esterno che interno. Riguardo a questi ultimi, le prescrizioni distinguono tra i rimedi da assimilare e quelli da espellere con il vomito (presumibilmente per espellere anche il veleno). Il prezioso contributo che questa parte del trattato potrebbe dare alla storia della tossicologia è purtroppo limitato dalle gravi lacune delle nostre conoscenze sulla lessicografia scientifica dell'Antico Egitto: molti dei nomi di piante, di animali e di minerali menzionati nelle ricette ci sono tuttora ignoti. Nei casi in cui è possibile identificarli, possiamo notare che i vari ingredienti di una ricetta ‒ o i diversi trattamenti adoperati congiuntamente ‒ agivano consapevolmente sul complesso degli effetti tossici del morso: accanto a quelli specificamente diretti a contrastare gli effetti del veleno sull'organismo e aiutarlo a resistere, altri, generalmente d'uso esterno, intervenivano sulla ferita, tentando di limitarne l'infezione, di arginare l'emorragia e di lenire l'edema locale. Molte ricette attestano che il medico era pienamente consapevole riguardo agli effetti dei singoli elementi dosati in un preparato.
Dei 24 ofidi descritti, soltanto una decina si lasciano identificare con un buon grado di probabilità. Tra gli elapidi è possibile riconoscere: Walterinnesia aegyptia Lataste, il cobra nero dal morso mortale, che il trattato designa con il nome gʒny (cap. XVI); Naja nigricollis nigricollis Reinhardt, il celebre "cobra dal collo nero", da identificare forse nel serpente nkı̓ (cap. XXV); Naja haje haje L., il cobra che ornava le corone dei faraoni e degli dèi, il cui nome egizio, ben noto, è riportato dal papiro nella variante crcr (cap. XXXII).
Alla famiglia dei viperidi sono verosimilmente da attribuire il sdb (cap. XX), probabilmente Echis coloratus; la fy-tı̓-cm (cap. XXII), la vipera asiatica, da identificare molto probabilmente con Vipera persica fieldi o Pseudocerastes persicus; la fy nf, letteralmente "vipera soffiante". Serge Sauneron riteneva che le tre macchie blu e verdi descritte dal testo potessero richiamare il caratteristico tridente o disegno a punta di freccia che compare in cima alla testa dell'Echis carinatus, anche noto come "vipera delle piramidi": in questo serpente, il sibilo è dovuto allo sfregamento della carena dentellata disposta lungo l'asse delle scaglie. Sauneron assimilava però la descrizione di questo capitolo, il XXVII, a quella del cap. XXXIII, ritenendo che il "serpente soffiatore" (ḥf nf) di cui si parla in quel capitolo, identificato dal testo stesso come una vipera, fosse di nuovo l'Echis carinatus. In realtà il cap. XXXIII, che dà anche un'ottima descrizione della tipica reptazione laterale del serpente, comune a molte vipere, descrive il rumore prodotto dall'ofide come "simile al soffiare di un fabbro". Questo paragone con il soffio prodotto dal fabbro nell'attizzare il fuoco con il mantice o con i lunghi tubi riprodotti nelle scene dell'Antico Egitto sembra però più adatto a rendere il soffio sonoro dovuto a una brusca espulsione dell'aria trattenuta nei polmoni che è tipico delle grandi vipere africane del genere Cerastes e Bitis. È dunque possibile che i nomi fy nf e ḥf nf si riferiscano a due diversi generi della famiglia dei viperidi. Ai viperidi vanno inoltre assegnate la "vipera cornuta" (cap. XXVIII), senz'ombra di dubbio da identificarsi con la vipera dai cornetti o ceraste cornuta (Cerastes cerastes L.); la "vipera piccola" citata subito dopo la ceraste cornuta e descritta come "sprovvista di corna", due dati che inducevano Sauneron a ipotizzare che si trattasse verosimilmente della Cerastes vipera L., più piccola della precedente e priva delle lunghe scaglie appuntite sopra gli occhi a cui la ceraste cornuta deve il nome. Altri serpenti la cui identificazione egli riteneva probabile sono il "sdb dei campi" (cap. XXXVI), presumibilmente Psammophis sibilans sibilans L., a giudicare dalle bande di colore sul dorso, il ventre dorato, la taglia smilza, il morso innocuo, e il serpente dal nome in lacuna, descritto nel cap. XXXVII, forse Psammophis schokari.
La possibilità di pervenire all'identificazione di tutti i serpenti descritti dal papiro sarebbe di estremo interesse scientifico per valutare eventuali modificazioni subite nel tempo da questa particolare fauna: le liste moderne consacrate ai rettili egizi, consultate da Sauneron, citano da 28 a 36 esemplari di serpenti; il dato più alto è significativamente vicino ai 37 serpenti che il papiro integro descriveva.
Altre tradizioni
Accanto ai due ricordati trattati di veterinaria e di ofiologia, è possibile individuare in altri documenti tracce di osservazioni zoologiche organicamente elaborate e talvolta di teorie scientifiche coerenti, che riguardano prevalentemente osservazioni di tipo etologico, in alcune testimonianze diverse per tipologia e datazione.
Una serie di rilievi frammentari, dispersi in molti musei e collezioni, soprattutto in Germania, provenienti dalla Stanza delle stagioni del santuario solare del re Niuserra (2416-2392) ad Abu Gurob, riporta le scene relative al ciclo delle tre stagioni dell'Antico Egitto: vi sono rappresentati la crescita delle piante, la riproduzione animale, i lavori degli uomini secondo il ritmo stagionale. Oltre a offrire una rappresentazione vivace e assai minuziosa della vita animale nei vari periodi dell'anno, le scene e i testi che le accompagnano registrano le osservazioni degli antichi Egizi sulle abitudini migratorie di alcune specie avicole e dei pesci della famiglia dei muggini (Mugilidae). Solamente la magistrale interpretazione di E. Edel (1974) ha permesso di apprezzare la ricchezza di informazioni celata in questi brevi testi e nei frammentari rilievi.
Le iscrizioni che riguardano gli uccelli migratori menzionano "l'arrivo nel Delta" di numerose specie avicole e distinguono esplicitamente tra quelle che svernavano in Egitto e quelle che vi transitavano nella rotta verso l'Africa tropicale. Le iscrizioni forniscono anche interessanti informazioni sul tipo di alimentazione e sulle abitudini di cova; tra gli uccelli rappresentati si trova anche il pellicano, che attualmente non nidifica più in Egitto. In questi rilievi della Stanza delle stagioni non si trova alcun accenno al luogo di provenienza degli uccelli, mentre questo problema è posto in un testo iscritto sulla volta della cosiddetta Sala del sarcofago, nel cenotafio di Seti I (1306-1290) ad Abido e a sua volta ripreso e rielaborato in un papiro ieratico-demotico d'età romana, il papiro Carlsberg 1. Il breve testo, inciso accanto alla testa della dea del cielo, rappresentata come una donna piegata ad arco, si presenta come una teoria generale del fenomeno degli uccelli migratori, proiettato però nella dimensione mitica della geografia sacra: nidi con uccelli sono infatti rappresentati nelle regioni acquatiche che, a immagine del Delta egizio, si estendono nelle tenebre profonde situate oltre il corpo della dea del cielo Nut. Di questi uccelli il testo afferma che hanno "visi di uomini ma corpo di uccelli. Essi si parlano l'un l'altro nella lingua degli uomini. Ma, non appena giungono a mangiare erbe e a nutrirsi in Egitto, sottoposti ai raggi celesti, assumono aspetto di uccello" (Frankfort 1933, p. 73 tav. 81). I commentatori hanno rilevato un rapporto tra questa singolare rappresentazione e il modo in cui l'iconografia egizia raffigura l'anima (ba), ossia come un uccello con testa umana. È stata inoltre presa in considerazione la possibilità che i misteriosi uccelli altro non siano che le anime dei morti. Del resto, nel testo stesso è specificato che le regioni settentrionali oltre il cielo sono il punto d'incontro con la Duat, l'oltretomba egizio. È evidente però come questa descrizione abbia la sua controparte e verosimilmente la sua origine terrena in ciò che gli Egizi vedevano e sapevano degli stormi di uccelli che giungevano ogni anno in Egitto, prevalentemente da nord e nord-est. Allo stesso modo, altri elementi della zoologia terrestre trovano corrispondenza nella zoologia sacra: così, i testi crittografici del Libro del giorno e della notte collocano nei territori celesti meridionali i babbuini, associati a Punt e alle regioni africane a sud-est dell'Egitto; in quelli occidentali pongono invece gli sciacalli, noti frequentatori del deserto occidentale, e gli uccelli-rḫyt (Vanellus vanellus L.), comuni nell'Africa del nord a ovest dell'Egitto, nello Wadi Natrun e nel Fayyum.
I rilievi della Stanza delle stagioni che riguardano le migrazioni dei muggini attestano che gli antichi Egizi avevano osservato la migrazione primaverile di questi pesci dalle coste del Mediterraneo verso sud, fino a Elefantina, nonché il viaggio di ritorno verso nord, in autunno. Le iscrizioni citano tre nomi di muggini, effettivamente corrispondenti alle tre specie osservate nel Nilo ‒ Mugil cephalus, Mugil capito e Mugil auratus ‒ e ne descrivono "l'entrata" nel fiume e "l'uscita" verso il mare, che gli Egizi attribuivano alla ricerca di particolari piante acquatiche, diffuse nel Delta, di cui i muggini sarebbero stati golosi. Sembrano invece ignorare il fatto che essi si riproducono solo in mare. La risalita del fiume verso Assuan e la presenza dei muggini nel lago del Fayyum erano interpretate come un vero e proprio pellegrinaggio religioso dei pesci ai luoghi di culto del coccodrillo (nel Fayyum) e del Tetraodon fahaka, il pesce dotato della singolare capacità di gonfiarsi venerato a Elefantina, ove era connesso all'inondazione.
Nella scienza medica dell'Antico Egitto le conoscenze erboristiche svolsero un ruolo di primo piano, come attesta l'ampio uso di rimedi vegetali nella farmacopea egizia. I pochi erbari superstiti, tutti di Età Tarda, mostrano una tradizione erboristica che era sostanzialmente orientata a finalità terapeutiche e che probabilmente entrava nel novero delle discipline studiate e tramandate nell'ambito delle 'case della vita', le istituzioni legate ai templi che avevano la funzione di garantire l'integrità della vita del re, degli dèi e dell'intero Universo. Tutto l'ambito delle discipline che concorrevano a tale realizzazione rientrava nel sapere lì coltivato: non soltanto le scienze mediche e sacerdotali ma anche l'astronomia, la matematica, la divinazione e quelle che oggi chiameremmo scienze naturali. Di questa conoscenza, che molto presto dovette essere codificata e tramandata sotto forma di trattati, noi possediamo assai poco; in particolare, per quanto riguarda le conoscenze botaniche la già citata importanza della farmacopea vegetale nella scienza medica, l'innato amore degli Egizi per il mondo vegetale e, infine, i legami molteplici e profondi di alberi e di piante con il mondo del mito e del rituale contrastano con l'esiguo numero di testi scientifici superstiti. Tuttavia, è possibile affermare che già molti secoli prima che il mondo greco intraprendesse il primo tentativo organizzato di classificazione delle piante e di creazione di una morfologia botanica con l'Historia plantarum di Teofrasto (300 a.C. ca.), gli Egizi avevano gettato le basi per lo sviluppo di una botanica scientifica.
La classificazione botanica: liste e onomastiká
L'attitudine all'osservazione, l'abilità nel tradurne i dati in rappresentazioni grafiche, il talento nel cogliere gli aspetti essenziali di un fenomeno, già portati a livelli di estrema raffinatezza nella creazione del sistema geroglifico, contribuirono in maniera significativa alla nascita e all'evoluzione di una tradizione di studi botanici. Se i fattori finora citati fornirono la disciplina e il metodo necessari allo sviluppo di una fitografia, un'altra caratteristica della scrittura geroglifica fu determinante per favorire l'evoluzione di una logica classificatoria: l'esistenza dei determinativi, indicatori di classi lessicali posti in fondo alla parola. Questi indicatori permisero lo sviluppo di una logica classificatoria, offrendo la possibilità di organizzare il reale in elenchi di classi di oggetti.
L'attestazione più antica di una lista di questo tipo è incisa su un blocco proveniente dal tempio funerario del re Djedkara-Isesi, della V dinastia (2350 ca.). Si tratta del frammento di un catalogo di piante, animali e minerali stranieri che testimonia la capacità di superare la classificazione popolare e di realizzare uno schema generale, per stabilire un più ampio sistema di conoscenza botanica. Purtroppo, a causa della frammentarietà dei dati in nostro possesso, non è semplice oggi procedere a una ricostruzione di questo sistema.
Gli onomastiká, che delle liste lessicali sono i successori diretti, testimoniano effettivamente un interesse di tipo puramente teorico per la realtà, scevro da ogni finalità pragmatica; il principio classificatorio che sovrintende alla loro organizzazione non è subordinato a una semplice esigenza di ordinamento ma riveste un preciso valore ermeneutico: gli insiemi che vengono creati, le associazioni che legano gli elementi di un raggruppamento a un altro assumono un valore fondamentale, divenendo i mattoni su cui gli Egizi costruirono la propria spiegazione dell'Universo. Purtroppo nessuno degli onomastiká sopravvissuti riporta in maniera integrale un elenco di elementi vegetali: l'esemplare più completo, anche se incompiuto, l'onomastikón di Amenemope (1100 ca.), sebbene pretenda di fornire l'enumerazione di tutte le cose che esistono, per la sezione dei vegetali finisce poi con lo stilare solamente un elenco di cereali (strettamente associato alle categorie di terra agricola nominate nella rubrica precedente).
Nel più antico onomastikón noto, quello detto del Ramesseo, databile agli inizi del XVIII sec. a.C. (XIII dinastia), la parte iniziale, riservata alle piante e ai liquidi da esse prodotti, è illeggibile; possiamo tuttavia dedurne il contenuto dai determinativi conservati. In questo papiro, i determinativi, separati dalle parole a cui si riferiscono da un intervallo di spazio, fungono da termini chiave di ricerca e di indicizzazione delle parole: la presenza del determinativo del ciuffo d'erba mostra che la sezione ‒ ormai illeggibile ‒ raggruppava i nomi di erbacee. La possibilità di procedere all'identificazione dei nomi delle piante avrebbe consentito di verificare la congruità dell'uso del determinativo e, al tempo stesso, di effettuare la stessa verifica sulle altre sezioni dedicate al mondo vegetale e per noi andate completamente perdute.
La presenza nel sistema grafico egizio di più serie di determinativi per i nomi dei vegetali costituisce lo scheletro di una tassonomia rudimentale, vari segni della quale sono riportati nella tab. 1. È da osservare, peraltro, che i testi specialistici si differenziano consapevolmente per l'uso di certi segni: per esempio, per le specie suffruticose v'è una frequente incertezza tra il simbolo per gli alberi e arbusti a rami diffusi e quello per le erbacee. Certamente, l'ampiezza delle categorie botaniche ricoperta da ciascun determinativo è tale da ridurre il valore di tale classificazione; inoltre, la gamma di fluttuazioni osservabile di testo in testo vanifica in parte l'interesse di questo stesso schema. Una classificazione come quella esposta nella tabella fornisce comunque una prima e antichissima attestazione di classificazione botanica, per quanto su base del tutto empirica, preziosa per identificare i nomi egizi dei vegetali.
Un posto particolare tra le liste di vegetali occupa quella che Ineni, alto funzionario vissuto all'inizio della XVIII dinastia, sul finire del XVI sec., riportò nel portico della sua tomba nella necropoli tebana (tomba n. 81). La lista accompagnava la rappresentazione del giardino di Ineni e forniva nomi e numero degli esemplari di alberi e di arbusti lì piantati: sicomori, palme da dattero e da cocco, fichi, viti, melograni, acacie, carrubi, salici, tamerici, persee, ecc.; preziosa per la sua duplice documentazione, testuale e iconografica, essa permette di precisare ulteriormente la visione relativamente strutturata che gli antichi Egizi ebbero della loro vegetazione.
Accanto all'embrionale tassonomia rivelata dall'uso dei determinativi, degna di interesse è la tendenza a usare i nomi di taluni vegetali come termini generici, preludendo a un primo tentativo di gerarchizzazione: è quanto accade, per esempio, per nht, nome del Ficus sycomorus, che può anche designare gli alberi da frutto in genere, o per ı̓ʒrrt, acino d'uva, poi usato per ogni tipo di bacca.
Echi dell'abbozzo di classificazione empirica riscontrabile nella scrittura possono percepirsi anche nell'iconografia egizia di alberi e di piante estremamente stilizzati, nella quale si esprime l'interesse dell'autore a rappresentare una categoria generale piuttosto che a illustrare le caratteristiche specifiche e particolari della pianta. Tali rappresentazioni stilizzate, spesso additate come esempio evidente delle manchevolezze dell'illustrazione botanica egizia, rivelano piuttosto la volontà di suggerire i soli elementi essenziali di una pianta, in modo da attrarre l'attenzione sulla categoria in cui rientrava, piuttosto che sulle caratteristiche specifiche; esse coesistono con riproduzioni assai dettagliate, in cui emerge viceversa la volontà dell'artista di valorizzare le particolarità di una specie.
Accanto alle liste degli onomastiká, composte di sole parole, esistono liste di vegetali esclusivamente iconografiche, veri e propri erbari pietrificati. L'esempio più celebre è il cosiddetto 'Giardino botanico' di Karnak, che abbiamo ricordato nel paragrafo precedente a proposito delle rappresentazioni zoologiche. Infatti, le sue pareti sono decorate con una serie di rappresentazioni botaniche e zoologiche; i testi che le accompagnano affermano che in esse il re Thutmosi III volle riprodurre le piante straniere trovate nel corso della sua campagna militare nel territorio siriano a nord del Libano e, più in generale, "ogni tipo di pianta straordinaria, ogni sorta di bel fiore della Terra del Dio". Le raffigurazioni uniscono infatti a esemplari esotici per l'Egitto, propri dell'habitat del Mediterraneo Orientale, piante ben note alla flora egizia antica ma notevoli per caratteristiche inconsuete o teratologiche.
Per realizzarne la decorazione fu necessario individuare in precedenza le piante esotiche o straordinarie, osservarle e riprodurle accuratamente, presumibilmente sul luogo, a meno che la spedizione non riportasse indietro esemplari vivi, come era stato fatto per gli alberi produttori della pregiata gommoresina ῾nty, importati da Punt sotto la regina Hatshepsut (1473-1454), e come fece più tardi il sovrano assiro Assurnasirpal II (883-859). Tutto ciò implica una pianificazione meticolosa, con esperti della flora egizia, una fitografia evoluta e disegnatori al seguito della spedizione. Il carattere straordinario dell'impresa è sottolineato dal giuramento per Ra e Amon con cui Thutmosi III garantisce che "tutto ciò ha avuto davvero luogo, non vi è qui nessuna iscrizione mendace: è solo grazie al potere divino della Mia Maestà che è stato possibile che una terra fertile generasse per me questi prodotti".
Glosse erboristiche ed erbari
Quanto esaminato fin qui permette di ipotizzare che già almeno intorno alla metà del II millennio esistevano testi botanici di riferimento, presumibilmente nella forma che assunsero gli erbari antichi, ossia raccolte di descrizioni delle specie considerate, talvolta corredate dai relativi disegni. Resti di erbari in lingua egizia sono sopravvissuti per l'epoca romana e copta e si affiancano agli altrettanto rari erbari greci rinvenuti in Egitto. A favore dell'origine antica e autoctona del genere depongono una serie di glosse esplicative presenti in testi diversi e tratte da erbari.
Si tratta di vere e proprie descrizioni di piante, che lo scriba copiava dai manuali o dagli erbari a sua disposizione quando, nel trascrivere una prescrizione medica o magica, s'imbatteva in nomi di piante a lui ignoti o poco noti. La descrizione più antica, finora, e perciò anche la più importante, compare nel testo del papiro Ebers (papiro Ebers 294=51, 15-19) ed è pertanto da datarsi non oltre la metà del II millennio. La struttura della descrizione presenta già le caratteristiche essenziali delle glosse successive. Altre due glosse sono inserite nella seconda parte del Trattato di ofiologia, vale a dire il repertorio di antidoti per il veleno dei morsi di serpenti (papiro Brooklyn 47.218.48+85, parr. 66a e 90a), databile su base paleografica al IV secolo. Infine, numerose glosse sono riconoscibili all'interno di un papiro demotico magico di età romana (papiro demotico magico di Londra-Leida). Quest'uso non è caratteristico dei soli testi in lingua egizia, ma si ritrova anche in papiri magici greci: un esempio è nel papiro magico greco (Preisendanz 1928-31), dove alle linee 800-801 è riportata la descrizione della pianta kentrĩtis, che era stata citata nelle linee precedenti (774 segg.).
Queste descrizioni presentano una struttura sostanzialmente omogenea, benché non sempre costante; le glosse seguono uno schema prefissato, articolato in diversi paragrafi, evidentemente consolidato da una lunga tradizione scientifica. Il modello ideale della descrizione può essere ricomposto attingendone gli elementi costitutivi alle varie glosse:
a) nome della pianta, eventuale sinonimo o nome straniero ("Una pianta: il suo nome è…" oppure "La pianta x: …");
b) descrizione dell'habitat ("Cresce in moltissimi luoghi"; "Cresce nei giardini" oppure localizzazioni precise: "Cresce nella regione di el-Kharga");
c) descrizione botanica (aspetto generale, stelo, foglie, fiori, eventualmente petali, frutti o semi e altri particolari minori, come presenza di spine, peluria, ecc., eventuali misure; portamento);
d) tempo e modo di raccolta ("Quando si vede che le sue foglie sono simili al 'legno bianco', allora va raccolta");
e) usi e modi di preparazione;
f) effetti collaterali o nocivi ("Se metti il suo latte sulla pelle di un uomo, esso provoca infiammazione").
Nella descrizione botanica, è frequente il ricorso al paragone con altre piante o parti di piante: "la foglia è simile alla foglia della Siriaca" oppure "ha un andamento reptante [cresce sul ventre] come la pianta qʒdt; fa fiori simili al loto", o ancora "la foglia e lo stelo sono pungenti come quelli dell'aparina" e così via. Questo procedimento, che in mancanza di un'identificazione sicura di tutti i nomi citati si trasforma in un circolo vizioso, è comune alle descrizioni botaniche antiche ed è altrettanto sviluppato in Dioscuride. Le piante utilizzate come modelli nel confronto erano probabilmente assai diffuse e note, e ciò rendeva più semplice il riconoscimento di quella descritta.
Negli esempi più antichi (la glossa del papiro Ebers e quelle del Trattato di ofiologia) la necessità di trascrivere una descrizione della pianta citata nella prescrizione si spiega quasi certamente con la relativa rarità del vegetale nominato. Questo è evidente soprattutto nel Trattato di ofiologia, dove le due piante glossate appartengono a un habitat diverso da quello consueto della Valle del Nilo, essendo caratteristiche dell'oasi di el-Kharga. Diverso è il caso del papiro demotico magico di Londra-Leida, dove le glosse sono in genere collegate alla ricorrenza di nomi greci o tradotti letteralmente dal greco, e perciò richiedevano una spiegazione. Che lo scriba non traducesse da un erbario greco è dimostrato dal confronto esclusivo con piante dal nome egizio e assai comuni nella flora egizia, e dall'omogeneità strutturale con la più antica glossa del papiro Ebers. L'abbondanza della nomenclatura greca non indica del resto necessariamente una fonte greca, essendo ormai invalso da tempo negli ambienti colti d'età romana l'uso della terminologia scientifica greca, pur conservando i contenuti della scienza egizia. La struttura di queste descrizioni si ritrova pressoché identica nelle schede che gli erbari tardi dedicano a ciascuna pianta.
Come tutti gli erbari antichi, anche quelli egizi condividono con i testi medici l'interesse essenzialmente terapeutico, ma basano la propria organizzazione logica sulle singole piante invece che sulle malattie o sulle ricette. Ci sono stati tramandati soltanto due erbari: uno in demotico, costituito da vari frammenti di papiro conservati parte in Gran Bretagna (papiro Tebtunis Tait 20) e parte a Copenaghen (papiro Carlsberg 230), proveniente da Tebtunis e databile al II sec. d.C.; un altro, più esteso, parte di un codice copto in pergamena, anch'esso a Copenaghen, databile agli inizi del VI secolo. Più noti, ma altrettanto rari, sono gli erbari greci provenienti dall'Egitto, i quali costituiscono i più antichi frammenti di erbari illustrati che oggi si possono ammirare: il citato papiro Tebtunis II 679, a cui dovrebbero appartenere anche i frammenti di un erbario illustrato pubblicato da W.J. Tait nel 1977, e il codice costituito dal papiro Johnson e dal papiro Antinoopolis 3214, datato al IV sec., con la più antica tavola d'erbario illustrata finora nota.
I frammenti demotici non sono illustrati. Un particolare interessante, rivelato dai soli frammenti di Copenaghen, è la numerazione consecutiva delle varie descrizioni di piante che costituivano l'erbario, la quale, forse, potrebbe essere servita da riferimento a una collezione parallela di riproduzioni delle piante descritte. All'interno di ciascuna sezione, dopo il numero, le descrizioni erano articolate secondo lo schema consueto: nome, aspetto, habitat, prescrizioni in cui era utilizzata la pianta. La provenienza dall'area del tempio di Tebtunis è pressoché certa; questo fa presumere che l'erbario fosse conservato nella biblioteca del tempio, probabilmente insieme a testi medici, anch'essi attestati nelle collezioni di papiri demotici provenienti da quel sito.
I fogli del codice copto di Copenaghen dovevano appartenere a un trattato di mole cospicua, come indica la numerazione alta conservata da alcuni di essi. La descrizione di ciascuna pianta fornisce nome, eventuale sinonimo, cenni sull'habitat, caratteristiche fisiche della pianta; infine, con maggior dettaglio, le prescrizioni relative all'uso medico e, talvolta, indicazioni sul modo di preparazione. La parte medica è preponderante rispetto a quella botanica, che è talvolta assente. Nella denominazione sia delle piante sia delle malattie risulta prevalente l'uso dei termini greci, seguiti non di rado dal nome egizio della pianta.
L'esiguità del numero di testimonianze si spiega probabilmente anche con un'effettiva rarità del genere, dedicato a una pratica, l'erboristeria, che richiede d'essere essenzialmente appresa ed esercitata sul campo, e che ancora oggi presso diversi popoli è tramandata oralmente, e quasi iniziaticamente, dagli addetti ai lavori ai loro allievi. Va comunque notato che in una delle glosse del papiro demotico magico di Londra-Leida, relativa alla pianta kissós (nome greco dell'edera), lo scriba riporta una variante della tradizione relativa al colore del fiore: "Il suo fiore è come d'argento. Variante: d'oro", ciò fa supporre che egli stesse consultando più fonti contemporaneamente.
I tipi di descrizione di piante fin qui visti s'inseriscono in uno schema consolidato di descrizione scientifica. Con le dovute differenze, la stessa tipologia si ritrova nella scheda-modello delle descrizioni di serpenti nel Trattato di ofiologia e ‒ in un'area d'intersezione tra botanica, chimica e fisica ‒ nel trattato sulle piante produttrici di sostanze resinose e sui loro essudati, conservato in due templi egizi, quello di Horo a Edfu e quello della dea Repit a Wannina, l'antica Athribis dell'Alto Egitto. Questa seconda redazione, ideologicamente affine al 'Giardino botanico' di Thutmosi III, riporta in parte anche le raffigurazioni relative alle piante descritte. Inciso in età tolemaica sulle pareti dei cosiddetti 'laboratori' dei due templi (le sale dedicate all'uso rituale degli incensi e delle altre sostanze profumate), il trattato fornisce un'accurata descrizione delle secrezioni o dei prodotti di 28 vegetali (30 nel testo di Athribis, che presenta alcune varianti rispetto a Edfu), rivelando, con più accuratezza dei frammenti di erbari superstiti, non soltanto l'esistenza di una precisa tassonomia, ma anche l'impalcatura teorica su cui questa poggia.
Una grande divisione verticale separa le sostanze trattate in due categorie: le 'nty šw, gommoresine solidificate, tra cui sembrano rientrare tanto i prodotti della Commiphora sp. (mirra) quanto della Boswellia sp. (incenso), e i ḫt (letteralmente, legno), che sembrano designare più in generale le sostanze aromatiche tratte da cortecce o da parti lignee. Nel papiro Harris I, nell'elenco degli ingredienti per la preparazione del kŷphi che il re donava ai templi, sono così definite anche la resina dell'Abies cilicica Carr., del Pinus halepensis Mill. e del nenyb, non identificato con certezza, che nel trattato sulle resine guida la serie dei ḫt. L'ipotesi che con questo nome s'indichino le diverse varietà di storace (resina estratta dal Liquidambar orientalis Mill.) non è unanimemente accettata.
All'interno di questa divisione principale, il testo opera una serie di sottoclassificazioni in base alla qualità (I scelta; II scelta) e alla provenienza geografica: i prodotti di Kush (in quest'epoca probabilmente la regione nubiana e l'interno del Sudan Settentrionale) sono distinti da quelli di Punt e della Terra del Dio, denominazioni ormai prive di connotazioni geografiche reali, che probabilmente coprivano l'area della costa eritreo-somala e l'Arabia Meridionale. Una divisione trasversale separa poi le sostanze utilizzate nel culto (chiaramente le migliori per ciascuna classe) da quelle che ne erano escluse, secondo una scala qualitativa che va dall'uso profano alla bocciatura netta. La classificazione della materia è dunque organizzata secondo due principî: uno legato a un criterio di funzionalità religiosa, l'altro all'ordine fisico-chimico.
Per ciascuna sostanza sono forniti i dati relativi alla categoria di appartenenza, il nome e gli eventuali sinonimi, il colore, l'odore, la descrizione dell'aspetto e, in qualche caso, osservazioni aggiuntive sulla provenienza geografica precisa, il tempo o il modo di raccoglierla, ed eventuali procedure di manipolazione.
Una rubrica di particolare importanza è dedicata all'origine divina della sostanza, secreta da una determinata parte del corpo di una divinità. L'associazione di un elemento a un dio piuttosto che a un altro, a una parte del corpo divino anziché a un'altra, è un dato che trascende il livello mitologico e segna il passaggio dal piano della descrizione a quello dell'interpretazione. Questo dato, che interrompe la serie delle informazioni oggettive, forniva allo studioso dell'Antico Egitto una chiave di riferimento fondamentale per collocare la sostanza in un contesto appropriato; le associazioni traducevano infatti in un linguaggio per lui immediatamente percepibile le affinità tra i diversi elementi che, osservate empiricamente e registrate nel corso dei secoli, potrebbero essere state basate su effettive proprietà di tipo chimico-fisico. Così, le gommoresine solidificate ('nty šw) migliori derivavano tutte dalla divinità solare; le caratteristiche inerenti al colore, alla viscosità e all'odore stabilivano poi ‒ con un codice coerente e perfettamente significativo nell'universo simbolico egizio ‒ da quale parte del corpo divino provenissero. La maggiore fluidità dell'essudato, che dava l'aspetto di lacrima, suggeriva la derivazione dagli occhi; il colore stabiliva se si trattava dell'occhio di Ra, di Horo, di Osiride, di Atum. Meno evidenti, ma certo altrettanto fondate, sono le associazioni basate su altre proprietà. Al dio Seth, che in questa Età Tarda occupa ormai nell'universo religioso egizio un ruolo negativo, sono associate le resine di qualità inferiore; alle ossa del dio quelle di consistenza più dura, e così via.
Questo codice, in gran parte ancora inesplorato, è databile alla più lontana antichità: già nei Testi delle piramidi (Sethe 1960) gli aromi sono sputati dal dio. Nella cosmogonia del papiro Salt 825 (I, 8-III, 4) (Derchain 1965), esclusivamente dedicata alla creazione della materia usata nel culto, ogni sostanza è frutto dei più diversi fluidi corporei degli dèi: pianto, sputo, vomito, sangue, sudore e ogni altro tipo di liquido emanato dal corpo degli dèi cadendo a terra dà vita ai vari prodotti utilizzati nel rituale. Le 'monografie', che fondavano mitologicamente il culto degli dèi e degli elementi sacri a essi connessi per ogni tempio dell'Antico Egitto, costruivano relazioni altrettanto complesse, garantendo un tipo di informazione analogo anche per le piante sacre.
Il fatto che le nostre informazioni su questa classificazione degli elementi siano confinate alla sola materia sacra è frutto più della natura delle nostre fonti ‒ i templi e gli scritti delle loro biblioteche ‒ che di un mancato interesse della riflessione egizia verso gli altri aspetti dell'Universo. Noi possediamo oggi solo poche maglie dell'intricata rete di connessioni così stabilite, ma tale rete doveva permettere di costruire un sistema di relazioni sia tra gli elementi di una stessa categoria (per es., le piante), che tra le diverse categorie (per es., sostanze vegetali, animali, minerali). Laddove possiamo seguire per qualche nodo il percorso labirintico, esso svela relazioni basate su affinità di tipo fisico-chimico, spesso verificate nella millenaria pratica medica.
È interessante che indagini recenti sul De materia medica di Dioscuride (I sec. d.C.) abbiano sostenuto che l'organizzazione della sua materia fosse basata sulle affinità di tipo chimico tra le sostanze. Questo ripropone il problema dei rapporti tra la scienza egizia ‒ in questo caso, quella botanica e chimico-farmacologica ‒ e la scienza ellenistica della scuola alessandrina. Le descrizioni botaniche di Dioscuride presentano molti punti in comune con le descrizioni egizie fin qui illustrate; questa somiglianza è stata finora ignorata per la scarsa accessibilità delle fonti egizie e il mancato riconoscimento dell'esistenza di una letteratura erboristica dell'Antico Egitto. È noto che Dioscuride perfezionò i suoi studi ad Alessandria. Tuttora gli studiosi dell'età ellenistica in Egitto tendono a considerare la scuola alessandrina completamente avulsa dal contesto in cui nacque: secondo queste ricostruzioni, i Tolomei avrebbero con essa creato e incoraggiato una struttura aperta al mondo esterno ma completamente estranea al patrimonio millenario della scienza egizia, che pure, soprattutto per ciò che concerne la medicina e le scienze a essa connesse, era ampiamente riconosciuta nel mondo antico. è opinione diffusa che Teofrasto, allievo di Aristotele, avesse iniziato il vasto lavoro di sistemazione delle conoscenze botaniche a partire dalle esperienze e dai nuovi dati apportati dalle campagne di Alessandro Magno. Questo pone ‒ a monte di Dioscuride ‒ il problema di un eventuale apporto della tradizione orientale ed egizia alla creazione della morfologia e della tassonomia greche.
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