SCIENZA GIURIDICA, REGNO D'ITALIA
Premessa. La prima metà del Duecento costituisce per la storia della scienza giuridica un'età d'intenso dinamismo creativo. Il metodo di studio e d'insegnamento introdotto dai glossatori bolognesi del secolo precedente giunge alla sua piena affermazione e alla sua conclusione con la gigantesca tela della Glossa di Accursio. La scienza dei canoni raggiunge il vertice delle sue potenzialità lavorando sul ricco e recente materiale casistico e normativo delle collezioni di decretali, culminate nel LiberExtra del 1234. La fioritura delle legislazioni statutarie cittadine ‒ talora messe a punto da giuristi di formazione dotta ‒ suscita questioni di interpretazione e di applicazione che la dottrina ormai affronta nella pratica come nella scuola. La capillare e pervasiva presenza del notariato nei negozi tra privati come nelle funzioni pubbliche e giudiziarie sollecita alla composizione di formulari, a loro volta specchio non solo delle diverse consuetudini locali ma anche della dottrina di chi li ha composti. Il diritto feudale e il diritto longobardo sono oggetto di svolgimenti analitici e sistematici connessi ma distinti rispetto a quelli dei due grandi filoni del diritto romano e del diritto canonico. Anche fuori d'Italia ‒ in Francia, in Inghilterra, in Germania ‒ vedono la luce in questo periodo alcune opere di sintesi destinate a rimanere per secoli testi di riferimento imprescindibili per la pratica come per la dottrina giuridica.
I civilisti. Le due ultime generazioni di glossatori portano l'opera delle precedenti generazioni della scuola a un approdo definitivo. Ci limiteremo qui a rammentare pochi nomi di particolare rilievo. Centrale è senza dubbio la figura di Azzone, il maestro bolognese che per oltre un quarantennio, dalla fine del sec. XII agli anni Trenta del Duecento, costituì l'attrazione maggiore dello Studio bolognese che compiva in quegli anni il primo secolo di vita. La tradizione che ha trasmesso la notizia del successo didattico di Azzone ‒ un successo tale da costringerlo a tenere talora lezione in una piazza cittadina per l'affollamento degli scolari, provenienti da ogni parte d'Europa ‒ dà ragione di un impegno eccezionale non solo nell'insegnamento (di lui si disse che si ammalava solo nei periodi di vacanza), ma anche nella stesura di opere presto divenute classiche.
La Summa Institutionum e soprattutto la Summa Codicis, scritte nei primi anni del sec. XIII, riuscirono a coniugare così felicemente sintesi e completezza, acume giuridico e chiarezza espositiva da dissuadere i giuristi delle generazioni successive dal tentativo di competere con il capolavoro del maestro bolognese. Si spiega così il fatto che l'opera sia rimasta sul tavolo di lavoro dei giuristi per ben cinque secoli, più volte edita anche dopo la diffusione della stampa. Né meno significative sono le altre opere di Azzone: i Brocarda, le Quaestiones e ancor più la Lectura Codicis, scritta sulla base degli appunti presi a lezione dall'allievo Alessandro di S. Egidio: un'opera che Savigny considerò come esemplare del metodo esegetico-analitico della scuola dei glossatori. Molto importanti anche gli apparati al Codice e al Digesto Vecchio, tuttora inediti.
Azzone si dichiarava poco amante dei lenocini stilistici, a differenza di autori come il Piacentino o come il suo stesso maestro Giovanni Bassiano, che avevano coltivato le arti liberali e che nel loro modo di scrivere e di argomentare si erano compiaciuti di mostrare le tracce di una cultura non solo giuridica. Azzone si impose con autorità indiscussa non solo nelle opere di sintesi, ma anche nell'affrontare e nel risolvere le più diverse questioni di diritto. E non di rado le sue tesi e le sue scelte su temi controversi fecero scuola e furono recepite anche nella pratica. Come ‒ per citare due soli esempi tra i tanti possibili ‒ là dove egli dichiarò sanabile in appello la nullità della sentenza di primo grado (Azzone, LecturaCodicis, Parisiis 1577, ad C. 7.64.1, quandoprovocatio, l. datam), e nella distinzione introdotta riguardo all'ipotesi di una conoscenza diretta, da parte del giudice, di fatti della causa non allegati dalle parti, a seconda che tale conoscenza fosse acquisita nella veste di giudice ovvero in sede privata (Id., Summa Codicis, Lugduni 1567, ad C. 2.10, ut que desunt advocatis).
Numerosa ed eletta fu la schiera dei suoi allievi, molti dei quali divennero a loro volta maestri celebri: tra di essi vi sono civilisti quali Accursio e Jacopo Balduini, feudisti (Jacopo d'Ardizzone), autori di opere pratiche (Martino da Fano, il provenzale Bernardo Dorna) e anche canonisti di rilievo quali Goffredo da Trani e Giovanni Teutonico.
Appena più giovane di Azzone fu un altro maestro bolognese attivo sino agli anni Trenta del Duecento, Ugolino dei Presbiteri, autore di vasti apparati al Codice e alle tre parti del Digesto, tenuti in grande considerazione dai contemporanei. Un allievo divenuto a sua volta maestro, Jacopo d'Ardizzone, lo definì "uomo d'ingegno acutissimo". Un personaggio di indubbio rilievo fu Carlo di Tocco, di origine beneventana, allievo dei glossatori Piacentino, Giovanni Bassiano e Ottone Pavese alla fine del sec. XII, professore a Bologna e forse a Piacenza, autore di un commento ai primi quattro libri del Codice giustinianeo conservato in un manoscritto parigino (Parigi, Bibliothèque Nationale, ms. Lat. 4546), tuttora inedito. Più tardi egli tornò nel Meridione e ivi compose, tra il 1208 e il 1215, un apparato alla Lombarda destinato a grande fortuna e autorità.
Ad Accursio si deve l'opera che tra tutte era destinata ad affermarsi come il testo base dell'intera scuola della Glossa. Accursio, professore nello Studio di Bologna, dedicò decenni di lavoro alla composizione di un gigantesco apparato all'intero Corpusiuris. Dopo oltre un secolo di incessante lavoro, infatti, la quantità di glosse e di apparati che i maestri bolognesi di quattro generazioni avevano elaborato sui testi era tale da rendere difficile e faticoso, anzi sovente addirittura impossibile, il loro esame complessivo. Perciò Accursio volle incorporare in un unico testo il meglio del lavoro precedente, scrivendo un apparato che per ognuno delle migliaia di passi del Codice, del Digesto, delle Istituzioni e delle Novelle desse conto, in forma compiuta e ordinata, delle diverse esegesi e delle diverse interpretazioni avanzate dai maggiori maestri bolognesi. Egli attinse prevalentemente all'opera del suo maestro Azzone e del maestro di questi Giovanni Bassiano, nonché ad altri glossatori a lui vicini nel tempo, tra i quali in particolare Ugolino dei Presbiteri. Più parco fu nel riportare le glosse delle prime generazioni di maestri, che pure non dimenticò, anche perché i giuristi successivi avevano continuato a citarli. Va aggiunto che sul metodo di lavoro di Accursio e sulle sue fonti la ricerca storica è tutt'altro che compiuta, sicché il problema della paternità di molte sue glosse è tuttora insoluto.
Prese forma così quella che sarà ben presto chiamata Glossa Magna ‒ ricca di circa centomila glosse, a loro volta frutto della fusione di un numero ben maggiore di glosse precedenti ‒ che diverrà la Glossa ordinaria ai testi civilistici. Le doti di completezza, di chiarezza, di ordine nella sistemazione della materia sono evidenti a chiunque si accosti all'apparato accursiano. Le qualità dell'opera sono d'altronde testimoniate dal suo immediato e straordinario successo. Migliaia di manoscritti, dispersi nelle biblioteche storiche di tutta Europa, mostrano come la Glossa ordinaria sia stata utilizzata ovunque dalla metà del Duecento in poi. E con la diffusione della stampa, dalla seconda metà del Quattrocento, la Glossa venne più e più volte edita. Con essa sia il giurista dotto che il giurista operativo, giudice o avvocato, ricevevano un'informazione chiara e ordinata, oltre che completa, delle interpretazioni di ogni passo del Corpus, sicché i cinque volumi corredati ai margini con l'apparato accursiano divennero lo strumento di lavoro indispensabile per chiunque in Europa avesse a che fare con la compilazione giustinianea. E questo per oltre cinque secoli, sino all'età delle moderne codificazioni.
La vitalità della dottrina giuridica civilistica della prima metà del Duecento si manifestò peraltro anche in direzioni diverse, lungo vie percorse dalla scienza dei dottori e lungo vie predisposte per le necessità della pratica.
Una figura ancora poco nota ‒ le sue glosse sono inedite in alcuni manoscritti, tra i quali quello conservato a Oxford, Bodleian Library, Laud. Lat. 3 ‒ è quella di Simone Vicentino, professore, presente a Padova e a Vercelli nel terzo decennio del Duecento, che fu tra l'altro anche giudice d'appello nelle giurisdizioni del dominio dei marchesi d'Este (Schrage, 1987). Giurista di grande valore fu Jacopo Balduini, allievo di Azzone, professore a Bologna nel secondo decennio del secolo. Egli esercitò anche funzioni di podestà a Genova nel 1229 e contribuì in modo determinante alla rielaborazione dello statuto dell'importante città marinara: un evento eccezionale nella scuola dei glossatori. Delle sue lezioni e teorie non molto si è salvato, ma non mancano manoscritti con additiones siglate "Ja. Bal." all'apparato accursiano, mentre numerosi spunti teorici di Balduini sono riferiti da Odofredo, che fu suo allievo anche se non sempre ne accolse le opinioni scientifiche. Inoltre Balduini scrisse testi destinati alla pratica processuale, tra i quali alcuni trattati di diritto processuale e un manuale di istruzione per gli avvocati (Sarti, 1990). Ne risulta una figura di giurista originale, autore di interpretazioni acute e di teorie di indubbio rilievo. A lui risale tra l'altro la distinzione tra le disposizioni di legge decisorie e le disposizioni ordinatorie (Neumeyer, 1901-1916): una distinzione di basilare importanza nel processo di separazione, che era stato avviato dai glossatori, tra le norme di diritto sostanziale e quelle di diritto processuale.
Con Balduini si concretizza una tendenza in parte divergente dalla linea accursiana, forse addirittura alternativa rispetto ad essa (Bellomo, 1992), che ebbe una diramazione inattesa ma densa di significato con l'insegnamento di un allievo di Balduini, Guido de Cumis, passato da Bologna a Orléans dopo una divergenza con il grande Accursio (Meijers, 1959). E proprio a Orléans fiorirà nella seconda metà del sec. XIII la scuola di pensiero che, per merito precipuo di Jacques de Revigny e di Pierre de Belleperche, porrà le basi del metodo del Commento.
Professore famoso e celebrato fu a Bologna per un trentennio, dal 1234, un contemporaneo di Accursio, il già ricordato Odofredo Denari. Egli lasciò una serie di vaste Letture ai Digesti e al Codice, edite a stampa nel sec. XVI, che offrono un'immagine viva dell'insegnamento bolognese e delle sue tradizioni. Non poche tra le notizie sulle prime generazioni di maestri della scuola dei glossatori, a cominciare da Pepo e da Irnerio, si debbono agli incisi odofrediani, rivolti agli scolari cui egli si indirizza ogni volta con l'espressione "or signori", per poi passare al latino dell'esposizione esegetica.
Va sottolineato come la prima metà del Duecento abbia conosciuto in Italia diversi altri centri di studio, accanto a Bologna. A Modena, sede già operante dai primi anni Ottanta del sec. XII per iniziativa di Pillio da Medicina, nei primi decenni del Duecento insegnarono i lombardi Alberto Papiense e Uberto da Bobbio, autori di glosse e di significative opere di taglio pratico non ancora sufficientemente studiate. Mantova fu attiva sul terreno del diritto longobardo nonché in tema di diritto delle azioni sin dal sec. XII. A Vicenza dal 1204 insegnò a studenti italiani, inglesi, provenzali e tedeschi il glossatore Cacciavillano, allievo di Azzone. Nel 1215 un contrasto acceso tra gli scolari lombardi e i toscani determinò la partenza da Bologna di questi ultimi e il loro trasferimento ad Arezzo, dove Roffredo (v. Roffredo da Benevento), di cui diremo, divenne professore e compose alcune delle sue opere. A Padova dal 1222 si trasferirono, sempre da Bologna, studenti e professori, dando inizio a uno Studio destinato a grande e duratura fortuna. Vercelli fu a sua volta sede di studi superiori a partire dal 1228, data di un patto concluso tra il comune e un gruppo di studenti provenienti da Padova: ivi insegnarono Omobono da Cremona, Uberto da Bobbio, Uberto di Bonaccorso, Giuliano da Sesso (Sorrenti, 1999). Anche a Reggio Emilia vi fu la presenza attiva di giuristi dotti (Gualazzini, 1952). E a Napoli Federico II promosse dal 1224 il primo Studio generale di fondazione statale (v. Studio di Napoli).
Anche per Piacenza vi sono indizi consistenti per il sec. XII di un insegnamento sia romanistico che longobardistico: forse qui il Piacentino ebbe tra i suoi uditori Carlo di Tocco, il quale a sua volta verosimilmente proprio a Piacenza ‒ ove i beneventani trovavano in quegli anni la miglior formazione longobardistica ‒ fu maestro del già ricordato Roffredo Epifani (1170 ca.-1233 ca.), anch'egli nativo di Benevento. Questi, dopo aver insegnato a Bologna e ad Arezzo, fu avvocato celebre e professore a Napoli e forse anche a Roma (Bellomo, 1985), per fare infine ritorno a Benevento nei suoi ultimi anni. Fu autore di una raccolta di Quaestiones che si caratterizzano per la stretta connessione con casi concretamente verificatisi nella pratica (l'esperienza professionale gli forniva molti spunti), per questo da lui qualificate come Quaestiones de facto emergentes. Roffredo compose inoltre, in tempi diversi della vita, due vaste trattazioni dedicate rispettivamente al processo civile e al processo canonico (Libelli de iure civili, Libellide iure canonico). Roffredo rappresenta assai bene, nella sua dinamica carriera di professore e di avvocato, la mobilità dei giuristi dotti italiani di questa età. Diritto longobardo e diritto romano convivono in alcune parti della penisola ‒ in una parte della Lombardia, nel ducato beneventano ‒ così come convivono scritti rivolti alla scuola e opere dirette ai bisogni della pratica.
Nella seconda metà del Duecento l'opera dei giuristi prese sovente la forma di "aggiunte" o "supplementi" alla Glossa accursiana, la quale veniva ormai illustrata nella scuola insieme con il testo, in ragione dell'autorità grande della quale godeva presso i pratici. E autore di suppleciones al Codice e al Digesto fu, tra gli altri, Guido da Suzzara, professore a Napoli, Reggio Emilia, Bologna (Martino, 1991). A lui risale la prima formulazione di un'altra teoria divenuta celebre e destinata più tardi a immensa fortuna, la teoria che distingueva gli statuti (e quindi le disposizioni legislative in generale) concernenti le persone da quelli relativi ai beni, con effetti ben distinti nei due casi, quanto alla validità delle rispettive disposizioni nei riguardi dei forestieri (Neumeyer, 1901-1916).
I canonisti. L'età federiciana vide la fioritura di un'intensissima produzione normativa di diritto canonico e di un'altrettanto intensa produzione dottrinale. I frutti maturi della decretistica, dopo la fitta produzione di glosse e di apparati del trentennio dal 1160 al 1190, avevano trovato un punto d'arrivo nella grande Summa di Uguccione da Pisa, professore a Bologna prima di divenire vescovo di Ferrara, il quale si avvalse di un impiego massiccio e capillare delle fonti romanistiche (Cortese, 1995), pur certo non trascurate né da Graziano né dai primi decretisti. Fiorente già in Italia, in Francia e nell'Inghilterra normanna, poco più tardi, nei primi anni del Duecento, questo filone produceva fuori d'Italia alcune importanti opere di commento sistematico al Decreto di Graziano: in Francia la SummaEcce vicit Leo, in Germania l'apparato Animal est substantia.
Ma nel frattempo era lievitata con intensità sempre crescente l'altra grande fonte del diritto canonico. Le decretali pontificie ‒ che con il pontificato di Alessandro III, il senese Rolando Bandinelli, avevano alimentato negli anni dal 1159 al 1191 la produzione dello iusnovum: ben settecento sono le decretali che ci rimangono di questo papa, su un totale di millecento decretali per l'intero sec. XII ‒ erano state aggregate, insieme con decretali più antiche e con altre più recenti, nella Compilatio I del 1190. E negli anni seguenti, lungo il primo quarto del Duecento, quattro altre raccolte di decretali (le Compilazioni II, III, IV, V) si erano aggiunte alla prima, con un possente apporto dell'altro grande papa giurista del primo ventennio del secolo, il toscano Lotario di Segni, Innocenzo III, al pontificato del quale risale inoltre il IV sinodo lateranense del 1215 (v. Lateranense IV, concilio).
Attraverso un complesso e duttile meccanismo di decisione i casi innumerevoli che affluivano a Roma dall'intera cristianità occidentale venivano vagliati e per così dire disossati per evidenziarne i profili propriamente giuridici. Lo schema della decisione nei suoi profili giuridici veniva quindi espresso nella decretale che affidava per lo più a un prelato di fiducia della Curia romana, operante nella diocesi in questione o in una diocesi geograficamente prossima, l'istruttoria e l'accertamento puntuale dei fatti. In altri casi erano i vescovi locali a interpellare il papa su punti controversi di diritto e da Roma giungeva la risposta. Ed è naturale che la pronuncia papale, una volta conosciuta, divenisse poi fonte autorevole per casi consimili, riproposti a Roma ovvero pendenti nelle diverse curie diocesane.
È da notare che la cultura legale dei pontefici giuristi e dei loro collaboratori di Curia si coglie in molte decretali, che non di rado appaiono costruite sul fondamento di un'articolata intelaiatura dottrinale.
Si veda, ad esempio, la decretale in cui il grande giurista Sinibaldo Fieschi, di cui diremo, risolve una delicata questione relativa al diritto del vescovo di disporre di una prebenda dopo che la S. Sede ne aveva delegato ad altri il potere di disposizione (Liber Sextus 3.7.1). La risposta negativa del papa, consegnata nella decretale, si fonda sull'analogia con le disposizioni in tema di scomunica, con un procedimento argomentativo che si avvicina molto alle tecniche di un giurista dotto, quale in effetti egli fu al più alto livello. Vi sono casi in cui proprio una decretale scioglie autoritativamente il nodo di una discussione che su un punto di diritto si era svolta in precedenza tra i dottori. In altri casi un dubbio interpretativo nato a proposito di un intervento pontificio viene superato con una successiva decretale (così ad esempio in Liber Extra 5.39.31).
Si comprende come questo complesso di testi pontifici sia stato molto presto riunito in collezioni alle quali i giudici ecclesiastici locali e la stessa Curia romana si ispiravano per le loro pronunce giudiziarie. E si spiega come un papa anch'egli esperto giurista, Gregorio IX, abbia ordinato al canonista spagnolo Raimondo di Peñafort di riunire in un solo corpo le cinque Compilazioni, dando origine così a quel LiberExtravagantium che dal 1234 costituirà per secoli, con il Decreto di Graziano, la fonte fondamentale del diritto della Chiesa latina. L'inclusione di centinaia di decretali in un'unica collezione canonica ne mutava strutturalmente la fisionomia e la natura. Da decisioni su casi singoli, esse divenivano tessere di un mosaico molto più vasto, suscettibili di integrazioni, di collegamenti trasversali, di interpretazioni sistematiche, di tecniche analogiche, di teorizzazioni che ne ampliavano e ne approfondivano la portata: analogamente a quanto i glossatori avevano compiuto con i rescritti e con i responsi dei giuristi imperiali di Roma, trasmessi nel Codice e nel Digesto di Giustiniano. Anche se va osservato che il LiberExtra ha mantenuto il carattere di una raccolta di testi nati dalla pratica, con disparità evidentissime quanto alle differenti materie trattate, alcune delle quali, pur di grande importanza, si trovano appena accennate nella raccolta.
Come per il Decreto di Graziano, anche sulle collezioni di decretali si sviluppò molto presto un lavoro di interpretazione e di approfondimento dottrinale compiuto da un folto gruppo di giuristi italiani e non italiani, i decretalisti. Vi fu una fioritura straordinaria di opere canonistiche, da parte di giuristi provenienti da tutta Europa. Il tedesco Giovanni Teutonico, professore a Bologna, compose prima del 1215 un grande apparato al Decreto; gli inglesi Riccardo e Alano glossarono il Decreto di Graziano e la Compilatio I; gli iberici Lorenzo Ispano, Bernardo di Compostella, Vincenzo Ispano, Giovanni de Deo e Giovanni di Petesella scrissero sul Decreto grazianeo e sulle Decretali; il provenzale Pietro de Sampsona fu professore a Bologna e commentò tra l'altro le decretali di Innocenzo IV; il boemo Damaso raccolse una serie di Questioni. Bartolomeo da Brescia, allievo di Ugolino dei Presbiteri e di Tancredi, compose l'apparato che divenne la Glossa ordinaria al Decreto grazianeo, in larga misura derivata dall'opera di Giovanni Teutonico. Il parmense Bernardo Botone scrisse l'apparato che costituì la Glossa ordinaria al LiberExtra. Goffredo da Trani, professore a Bologna e forse a Napoli di diritto canonico, giunto al cardinalato nel 1244, fu autore di una fortunata Summa alle Decretali gregoriane e, negli anni Quaranta del secolo, di un apparato allo stesso LiberExtra tuttora inedito (Bertram, 1971).
Sono, questi, solo alcuni degli autori di opere giuridiche di alto valore che videro la luce nel corso della prima metà del sec. XIII. Due nomi, peraltro, spiccano su tutti.
Il genovese Sinibaldo Fieschi, appartenente alla famiglia feudale dei conti di Lavagna, fu canonico a Parma dal 1216 al 1224 (Piergiovanni, 1967), studiò diritto civile e canonico a Bologna e fu poi per lunghi anni uditore di Curia presso la S. Sede, ove il cardinale Ugolino di Ostia, poi papa Gregorio IX, si avvalse ripetutamente delle sue eccellenti competenze giuridiche e diplomatiche. Divenuto papa nel 1243, nel periodo più drammatico del contrasto tra l'imperatore Federico II e la Chiesa, Innocenzo IV mostrò una determinazione ferrea nel combattere con le armi del diritto le posizioni e le pretese imperiali. Nonostante questa intensa attività, svolta in gran parte lontano da Roma ‒ dopo il concilio di Lione del 1245 egli operò a lungo ad Anagni ‒ il papa trovò il tempo e le energie per emanare una serie di decretali che entreranno più tardi nel LiberSextus di Bonifacio VIII. Ma soprattutto egli scrisse negli anni del suo pontificato un vasto commentario al Liber Extra che divenne molto presto una tra le opere più celebri della canonistica. Gli spunti e le analisi di Sinibaldo toccano tutti gli istituti del diritto canonico e anche molti istituti civili.
Per citare solo alcuni esempi, egli valorizzò la duplice fonte di legittimazione, locale e universale, della carica notarile quando asserì che i notai di nomina imperiale e papale potevano rogare ovunque, mentre quelli di nomina cittadina erano abilitati a operare solo nel proprio comune; e riconobbe espressamente il valore della consuetudine anche su questo terreno (così Innocenzo IV, Apparatus in V LibrosDecretalium, Francofurti ad Moenum 1570 [rist. anast. 1968], a Liber Extra, X, 2.22.15 cum P). Inoltre sostenne, contro la tesi di altri canonisti, il principio della distinzione tra foro ecclesiastico e foro secolare, negando la liceità di un ricorso al vescovo avverso la pronuncia di un giudice laico (ibid., a Liber Extra, X, 1.29.38, significantibus; a X, 1.33.6, solitaebenignitatis; a X, 2.2.7, verum). La sintetica teorizzazione della persona giuridica (universitas) come "persona ficta" diede a sua volta un supporto concettuale a questa figura fondamentale del diritto con ramificazioni che giungono all'età moderna (ibid., a Liber Extra, X, 2.20.57, praesentium [tibi authoritatem]).
Piemontese di nascita fu Enrico da Susa. Già scolaro a Bologna di Jacopo Balduini, poi professore di diritto canonico a Parigi, Enrico divenne vescovo di Sisteron e in seguito di Embrun. Nel 1262 fu nominato cardinale di Ostia (di qui il nome di Ostiense che da allora lo caratterizzò). L'opera sua più celebre, la Summa alle Decretali di Gregorio IX, completata tra il 1250 e il 1253, divenne quasi subito un testo di riferimento fondamentale per i canonisti, in ragione della sua completezza e della sua chiarezza; il perfetto dominio delle due leggi, la canonica e la romana, e la chiara distinzione tra l'ambito della teologia e quello proprio del diritto canonico sono tra gli elementi che spiegano questa perdurante fortuna. Molto importante è anche la grande Lectura dell'Ostiense allo stesso LiberExtra, né va dimenticato il commento-lettura da lui composto alle decretali di Innocenzo IV. Il suo pensiero politico-giuridico (Rivera Damas, 1964), in particolare sui rapporti tra Impero e papato, oscilla tra una posizione ierocratica sostenitrice del primato papale e una riproposizione della tesi gelasiana sulla pari e distinta dignità delle due supreme autorità in capo, rispettivamente, all'imperatore e al pontefice romano (Ostiense, Summa aurea, Venetiis 1574 [rist. anast. Torino 1963], tit. qui sint filii legitimi, § qualiter, nrr. 9-10, col. 1388).
La cultura giuridica del notariato. Ogni indagine sulla cultura giuridica del Duecento italiano non può prescindere dalla realtà storica del notariato (v. Notai, Regno d'Italia). Presente ovunque, negli affari privati come nel processo, nei negozi del comune come nelle transazioni commerciali, il notaio è uno dei protagonisti di una stagione fiorente del diritto. Nell'Italia comunale era il comune a intervenire nella nomina dei notai, i quali ben presto si organizzarono su base corporativa: la legittimazione imperiale diretta o indiretta, quando vi fu, costituì un elemento ‒ non irrilevante, ma di portata ormai limitata ‒ di un processo di nomina e di controllo della professione che aveva nel comune e nella corporazione dei notai i suoi fulcri.
Da dove il notaio traeva le conoscenze tecniche che gli erano indispensabili per la redazione degli atti? Ben poco sappiamo della formazione notarile nell'età di transizione dalla charta all'instrumentum; ma è del tutto verosimile che il mestiere si apprendesse essenzialmente con la pratica condotta per alcuni anni presso un notaio, come d'altronde da secoli avveniva. Occorre qui soprattutto richiamare l'attenzione su un aspetto che si connette con questo, perché riguarda i modelli di atti (i 'formulari') di cui nella nuova età il notaio poté disporre per la propria attività quotidiana.
Una tradizione degna di fede attribuisce a Irnerio stesso la stesura di un formulario, purtroppo perduto, che la storiografia ha datato all'anno 1116. Il primo formulario bolognese a noi giunto è posteriore di quasi un secolo, e risale al 1205. Un decennio più tardi, un notaio originario di Perugia, Rainerio, pubblica a Bologna un formulario di atti notarili che chiaramente rivela la cultura giuridica e la modernità del suo autore. Non solo la tipologia degli atti è ormai molto più ricca, ma viene superata la concezione tradizionale per la quale bastava al notaio, fondamentalmente, la corretta nozione di quattro atti: la compravendita, la permuta, l'enfiteusi e il testamento.
Rainerio contempla una tipologia ben più articolata, nella quale trovano spazio gli atti dotali, gli atti di giurisdizione volontaria (tutele, cure), gli atti giudiziari (dal momento che erano ormai i notai a redigerli in tribunale), e inoltre atti unilaterali (promesse, confessioni di debito) e persino negozi di diritto feudale e di diritto longobardo vivi nella pratica coeva dell'Italia centrosettentrionale. L'architettura dell'opera rivela le conoscenze dottrinali dell'autore (che forse fu allievo di Azzone), in quanto le diverse formule vengono sistemate in modo nuovo, adottando tra l'altro la fondamentale distinzione tra dominio diretto e dominio utile, introdotta dalla dottrina bolognese dei glossatori. Rainerio sottopose in seguito la sua opera a un'accurata revisione, predisponendo una seconda edizione molto ampliata, giuntaci incompiuta. Egli svolse a Bologna un ruolo di spicco. Alla sua iniziativa risale tra l'altro l'istituzione della "matricola" dei notai bolognesi, iniziata nell'anno 1219 e da allora regolarmente aggiornata.
Già allora era da tempo in funzione a Bologna una scuola di notariato, ben distinta dalla Scuola universitaria di diritto; una scuola nella quale insegnarono nel corso del Duecento, oltre a Rainerio e ad altri, due grandi maestri di notariato: Salatiele e Rolandino dei Passeggeri. Il primo compose una vasta opera nella quale tutta l'arte notarile era illustrata non soltanto con formule, ma con una glossa che ne chiariva analiticamente i risvolti giuridici. Il secondo fu autore di un testo al quale doveva arridere un successo immenso: la Summa totius artis notariae, scritta intorno al 1255. L'opera di Rolandino comprende la Summa Aurora, divisa in dieci capitoli, e due trattati minori (Tractatus notularum; Tractatus de officio tabellionatus in villis vel castris: degli anni 1256 e 1268). Essa fu accompagnata da un commento composto in parte dallo stesso Rolandino, in parte da Pietro da Anzola e da Pietro Boattieri, e una tale forma si impose subito quale testo di riferimento autorevolissimo ‒ sia nell'insegnamento presso le scuole di arte notarile, sia nella pratica dei singoli notai ‒ per la razionalità dell'impianto e per la completezza delle formule e del commentario che le accompagnava, tali da rispondere a qualsiasi problema che potesse sorgere nella redazione di ogni tipo di atto. Trascritta innumerevoli volte ‒ nelle biblioteche europee se ne conservano ancor oggi oltre duecento manoscritti medievali (Dolezalek, 1972) ‒ e, dalla fine del Quattrocento in poi, ripetutamente edita a stampa, la Summa rolandiniana costituì per l'intera età del diritto comune, al pari delle Summae di Azzone e della Glossa di Accursio, il punto di arrivo di un fortunato e utile genere letterario, il formulario notarile.
Non solo Bologna produsse formulari. Ancora nel Duecento, in non poche località nelle quali la nuova cultura giuridica si era ormai imposta vennero scritti formulari notarili: così avvenne tra l'altro ad Arezzo, a Firenze, a Padova, a Verona, a Belluno e anche fuori d'Italia. Ad esempio, il formulario di Giovanni da Bologna fu scritto in Inghilterra per tentare di introdurre colà il notariato e il diritto comune di stampo bolognese. Sono opere diverse tra loro, ma tutte significative: in esse si riflettono, in modo talvolta anche contraddittorio, da un lato alcuni caratteri delle specifiche prassi locali ‒ non affatto identiche nono-stante i comuni caratteri della cultura romanistica ‒, dall'altro la cultura e le proposte di modifica di questa medesima prassi auspicate dagli autori dei singoli formulari. Non è semplice stabilire, caso per caso, se la formula coincide o no con la prassi effettiva. Per la Provenza, ad esempio, la formula di Bertrand du Pont che fonde il feudo franco e il feudo "onorato", o retto, non è seguita dal vescovo di Avignone (Giordanengo, 1976).
Nell'attività giudiziaria dei comuni, se pure in tempi diversi e con modalità non identiche, il ruolo del notaio divenne presto altrettanto indispensabile, perché solo la sentenza autenticata dalla firma notarile aveva valore di piena prova ed esimeva l'interessato dal compito gravoso di provarne l'esistenza tramite testimoni. Inoltre, nel corso del Duecento venne via via crescendo in misura rilevantissima la tipologia degli atti giudiziari che dovevano essere compiuti per iscritto: ad esempio, il libello contenente la pretesa dell'attore, la fissazione di termini alle parti, la nomina di delegati del giudice, la pronuncia di sentenze interlocutorie, l'atto di appello, le misure di esecuzione delle sentenze e così via. Di questo processo di affermazione della scrittura nei procedimenti giudiziari e amministrativi ‒ del quale la recente storiografia ha messo bene in evidenza l'importanza (Kommunales Schriftgut in Oberitalien, 1995) ‒ il notaio fu indubbiamente il vero protagonista, perché la sua presenza attiva garantiva l'autenticità dell'atto.
Lo studio dei diritti particolari. Le discussioni dei glossatori sul ruolo della consuetudine mostrano che i maestri bolognesi ebbero ben presente, sin dalle prime generazioni, la questione dei diritti particolari, nel loro problematico rapporto con le fonti romane del Corpus iuris. E tuttavia fu solo in una fase successiva, nel corso del Duecento, che la dottrina giuridica iniziò a dedicare a queste fonti ‒ le fonti giuridiche locali da un lato, talune fonti giuridiche speciali dall'altro ‒ un'attenzione pari all'importanza che esse rivestivano nel diritto coevo.
L'importanza pratica e il rilievo anche politico dei rapporti feudali spiegano come già i glossatori se ne fossero occupati. Dopo che alla fine del sec. XII Pillio da Medicina ebbe composto negli anni modenesi un primo commento ai Libri feudorum (v.) ‒ il fondamentale testo delle consuetudini feudali scritto in Lombardia intorno alla metà del sec. XII ‒, essi furono dotati di un apparato di glosse composto da Jacopo Colombi, un giurista del quale si hanno testimonianze per il periodo 1221-1244. Di questo apparato ‒ secondo una tesi tradizionale, oggi peraltro revocata in dubbio (Weimar, 1990) ‒ si sarebbe servito Accursio per l'apparato ai Libri feudorum inserito nella sua Glossa Magna. Intorno al 1240 un altro giurista, di famiglia veronese ma studente di Azzone e poi professore a Bologna, Jacopo di Ardizzone, non solo diede un ordine nuovo al testo, ma compose nel terzo decennio del secolo una Summa feudorum ove la materia è trattata con un costante doppio riferimento alla consuetudine (che in materia feudale era tutt'altro che uniforme) e alla normazione romanistica, cui egli dichiarava di ricorrere "ubi deficit usus feudorum" (Jacopo d'Ardizzone, Summa feudorum, Astae 1518 [rist. anast. Torino 1970], 1. 4 de contentione feudi, p. XXXvb). È in effetti caratteristico il fatto che tutti gli autori del tempo, come d'altronde quelli che seguiranno, trattino bensì la materia sulla base delle specifiche regole che caratterizzavano la natura dei feudi ‒ in tema di investiture, di giurisdizione, di successione e così via ‒, ma sempre con il supporto puntuale delle fonti del diritto romano. Le argomentazioni dei giuristi sono invariabilmente intessute di citazioni del Corpus iuris, nonostante si tratti di istituti che nessun riscontro potevano trovare nel diritto di Roma.
Lo stesso diritto canonico non poté evitare di occuparsi a più riprese della tematica dei feudi: la forma dell'investitura feudale ‒ sintetizzata in un documento noto come Epistula Philiberti ‒ venne riportata nel Decreto di Graziano (C. 22, q. 5, c. 18). Anche le Decretali pontificie ne trattarono (LiberExtra 3. 30). E così pure i glossatori decretisti e i massimi decretalisti (anzitutto Enrico da Susa e Sinibaldo Fieschi). Non sorprende perciò di riscontrare nei feudisti il richiamo di norme canonistiche e anche di norme statutarie: ancora Jacopo d'Ardizzone cita una norma statutaria veronese sull'alienazione del feudo, richiama il divieto di alienazione dei feudi della Chiesa e inoltre ‒ ciò è indicativo delle funzioni anche pratiche della dottrina ‒ espone una "cautela" con la quale un vassallo accorto ("peritus") poteva aggirare tale divieto (Jacopo d'Ardizzone, Summa feudorum, 1. 2 utrum ex necessitate, p. XXIrb-va).
Fuori d'Italia, nella Francia meridionale le prime elaborazioni dottrinali della materia feudale si ebbero solo a partire dalla metà del Duecento, allorché il marsigliese Jean Blanc ("Johannes Blancus") scrisse una summa di diritto feudale (Giordanengo, 1988); a Bologna negli stessi anni un altro francese, Jean de Blanot, dedicava alla materia una trattazione apposita. E quando certi autori giunsero, nel corso del Duecento, a fissare per iscritto le più importanti consuetudini di alcune regioni d'Europa ‒ basti menzionare Philippe de Beaumanoir per il Beauvaisis, Eike von Repgow per la Sassonia, Henry Bracton per l'Inghilterra ‒, anche le istituzioni feudali specifiche di tali paesi formarono l'oggetto di pagine centrali in ciascuna di tali opere.
Un secondo settore nel quale la dottrina giuridica prese a esercitare un ruolo di analisi e di scavo fu quello degli statuti cittadini. Nel Duecento, in effetti, ogni città italiana aveva ormai un proprio Liber statutorum che raccoglieva le principali consuetudini locali di diritto privato, penale e processuale, nonché le di-sposizioni innovative introdotte per via legislativa, attraverso specifiche decisioni dell'assemblea, all'interno della città. La fonte statutaria aveva, come è naturale, la priorità avanti al podestà e agli altri giudici cittadini: all'inizio del loro mandato, costoro giuravano ('a libro chiuso', prima ancora di conoscerne il contenuto) di applicare nei loro giudizi anzitutto gli statuti della città, e solo in via sussidiaria il diritto romano comune, le leges, delle quali pure nessuno disconosceva la vigenza (v. Podestà del comuneitaliano).
Nasceva allora, per giudici e avvocati, un duplice ordine di esigenze. Da un lato, vi era la necessità di interpretare la norma statutaria, che non poteva venire applicata senza un concomitante lavoro interpretativo: la prescrizione ingenua di taluni statuti, che imponevano al giudice di applicare la norma 'secondo la lettera' ‒ prout litera iacet ‒, non aveva alcuna possibilità d'essere accolta, perché applicare una norma senza interpretarla era naturalmente impossibile. Le questioni discusse dal parmense Alberto Galeotti intorno alla metà del Duecento (cui seguiranno, nella seconda metà del secolo, le più complete "quaestiones statutorum" di Alberto da Gandino) testimoniano come l'applicazione della legislazione statutaria ormai ovunque presente nelle città italiane imponesse l'intervento di giuristi dotti.
Ad esempio, uno statuto che consentisse al minore, nono-stante ogni norma contraria passata o futura, di concludere un accordo di pace anche senza l'autorizzazione del tutore doveva applicarsi anche dopo l'approvazione di uno statuto contrario? È caratteristico il fatto che per risolvere questioni di questa natura Galeotti ‒ e così pure tutti i giuristi successivi ‒ si appoggiasse ai testi della compilazione giustinianea e del diritto canonico (Alberto Galeotti, Margarita quaestionum, 41, nrr. 7-8, in G. Durante, Speculumiuris, IV, Augustae Taurinorum 1578, App., p. 111va).
D'altro lato, si imponeva il compito non facile di tracciare il confine tra la normativa statutaria e il diritto della compilazione giustinianea: Alberto da Gandino sostenne il principio per il quale l'interpretazione analogica poteva ammettersi per gli statuti che non fossero contrari al diritto comune, non invece per quelli che gli fossero contrari (Alberto da Gandino, Questiones statutorum, a cura di E. Solmi, in Bibliotheca Iuridica Medii Aevi, III, Bononiae 1901, nr. 23, p. 166). Il che, combinato con il principio della necessaria interpretazione della norma, conduceva a un'applicazione amplissima del diritto romano anche nelle materie disciplinate dagli statuti, le quali non solo ricevevano la corretta integrazione interpretativa dalle fonti giustinianee, ma venivano regolate da queste stesse fonti ogni volta che la norma statutaria, contrapponendosi a quella di diritto comune, non era suscettibile di interpretazione analogica.
Importa sottolineare che, se all'origine le trattazioni dottrinali sul diritto statutario furono determinate da esigenze pratiche, in seguito la loro importanza divenne tale che nessun maestro poté permettersi di ignorarle nell'insegnamento universitario: non solo dunque nei pareri legali scritti dai maestri su commissione, ma anche nelle lezioni dalla cattedra.
Con la fioritura della dottrina dei glossatori civilisti, la dottrina longobardistica non scomparve d'un tratto. Un giudice attivo a Mantova intorno alla metà del sec. XII, Ariprando, aveva dedicato alla raccolta sistematica degli editti e dei capitolari longobardi e franchi ‒ la Lombarda ‒ un commentario composto in collaborazione con un giurista Alberto, forse suo allievo. E Vaccella, anch'egli mantovano, aveva composto poco più tardi un'opera che mirava a risolvere le contraddizioni interne alle leggi longobarde. Inoltre, alcuni manoscritti della Lombarda dei secc. XII e XIII contengono ricchi apparati di glosse ‒ sui quali ancora non si è sufficientemente soffermata l'attenzione degli studiosi ‒ che mostrano come le leggi longobarde venissero studiate e interpretate secondo metodologie non difformi da quelle proprie dei coevi civilisti. Carlo di Tocco, già ricordato, fece a sua volta un uso larghissimo delle proprie conoscenze romanistiche nel redigere, nel secondo decennio del secolo, l'apparato alla Lombarda che mantenne a lungo grande autorità, tanto da accompagnare come glossa ordinaria le edizioni cinquecentesche degli editti longobardi e dei capitolari carolingi.
Sono le testimonianze estreme dell'attenzione dedicata alle fonti legislative longobarde nell'Italia settentrionale. Quanto ai contenuti, non pochi profili del diritto longobardo ‒ nel diritto penale, nel diritto di famiglia e delle successioni e in altri campi ancora ‒ si mantennero a livello di consuetudini, sino a venire incorporati negli statuti cittadini e a sopravvivere, così, ben oltre l'età medievale: ad esempio riguardo alle pene sul furto, al tentativo di reato, alle composizioni pecuniarie, al duello giudiziario, alle successioni legittime.
La dottrina sul processo. Anche la letteratura sul processo ebbe sviluppi molto rilevanti nel corso del Duecento. Va anzitutto sottolineato che in tutti gli apparati di glosse degli autori già menzionati, sia civilisti che canonisti, così come in tutte le Summae, il processo e le sue regole occupano uno spazio molto largo, anche se la sistematica tradizionale dei testi civilistici giustinianei ne distribuisce la materia in libri e titoli disparati. Ma soprattutto, accanto alle opere di dottrina in senso stretto, la fitta serie degli ordines iudiciorum e degli ordines iudiciarii (le due denominazioni nate, rispettivamente, dalla terminologia romanistica e da quella canonistica), già fiorente alla fine del sec. XII, si sviluppò ulteriormente nei primi decenni del nuovo secolo.
Alcuni trattati di procedura, composti a Bologna per il foro ecclesiastico, ebbero particolare successo anche fuori d'Italia, come attesta l'alto numero dei manoscritti. Il portoghese Giovanni de Deo, già ricordato, è autore, nel secondo quarto del secolo, di un'opera di procedura, le Cavillationes, diretta in particolare agli avvocati delle cause di diritto canonico. La maggior fortuna fu però raggiunta dall'opera di Tancredi, che intorno al 1216 scrisse sempre a Bologna un trattato di procedura subito apprezzato, tanto che fu poi riveduto per metterlo in sintonia con la grande codificazione delle decretali pontificie (Liber Extravagantium) del 1234; un testo, quello di Tancredi, che in virtù della sua particolare chiarezza e completezza ottenne grande successo, non solo per chi si occupava dei processi di diritto canonico ma anche per quelli delle corti laiche. Esso fu infatti molte volte trascritto, più tardi ripetutamente stampato e persino tradotto dal latino in francese e in tedesco.
Negli stessi anni vedevano la luce anche opere volte a illustrare aspetti particolari del processo, come gli scritti dedicati alle funzioni dell'avvocato, redatti dal bolognese Jacopo Balduini già ricordato, da Bonaguida di Arezzo, da Uberto di Bonaccorso professore a Vercelli, dall'irlandese Guglielmo da Drokeda professore a Oxford e da diversi altri autori. La produzione di opere processualistiche è nel corso del Duecento davvero ricchissima (v. il repertorio di Fowler-Magerl, 1984 e 1994). Sono quanto meno ancora da richiamare le due opere già citate di Roffredo Epifani sul processo civile e sul processo canonico.
Inoltre, alcuni dei più importanti testi di Arsnotaria, di cui si è detto, inclusero tra le formule suggerite ai notai anche quelle relative al processo, dal momento che la sua intera articolazione scritta veniva affidata appunto ai notai.
Se il Liberformularius di Ranieri da Perugia, di cui si è detto, era ancora nella sua prima versione rivolto soprattutto alla fase di esecuzione del processo, la successiva versione dedicava invece all'intera materia ben più attenzione. Ma soprattutto il grande Rolandino inserì nella sua Arsnotaria una compiuta serie di formule per il processo sia civile che penale. Un giurista pur così attento alle esigenze della pratica, quale fu Rolandino, incorporò d'altra parte nelle sue formule anche talune posizioni e tesi dei maestri universitari del tempo, da Azzone a Ugolino ad Accursio con la sua Glossa. Inoltre la fortuna grandissima dell'opera rolandiniana ebbe l'effetto di diffondere largamente in Europa il modello processuale bolognese che l'autore aveva fissato nelle sue formule: ivi comprese la numerose disposizioni tratte dagli statuti di Bologna della metà del Duecento, che in molti punti ‒ per esempio in tema di cauzioni, di prove, di esecuzione ‒ derogavano sensibilmente rispetto alla disciplina romanistica trasmessa dal Corpusiuris.
Conclusione. Il Duecento costituisce in Europa una grande stagione della scienza del diritto. Nel giro di non molti decenni (in qualche caso, nell'arco di pochi anni) videro la luce alcune tra le massime opere di sistemazione delle fonti giuridiche, rimaste poi a lungo sul terreno, lette, citate e utilizzate per secoli. Nel diritto romano, le Summae di Azzone e la grande Glossa di Accursio; nel diritto canonico, la Summa di Enrico da Susa e l'apparato di Sinibaldo Fieschi; nella pratica notarile, l'Ars notaria di Salatiele e la Summa di Rolandino dei Passeggeri; nella procedura, l'Ordo di Tancredi. Ma nello stesso periodo nacquero anche il Sachsenspiegel di Eike von Repgow e lo Schwabenspiegel, ove trovarono espressione in certo senso definitiva il diritto consuetudinario della Sassonia e della Svevia; e poco più tardi la Coutume de Beauvaisis di Philippe de Beaumanoir, gli Établissements de Saint Louis, il Livre de Jostice et de Plet, limpide sistemazioni delle consuetudini della Francia settentrionale. E Las Siete Partidas di Alfonso X il Saggio di Castiglia. E ancora, al di là della Manica, la grande trattazione De legibus et consuetudinibus Angliae di Henry Bracton, che diede un'efficace cornice sistematica ‒ non affatto estranea alla tradizione romanistica e all'influsso bolognese ‒ alla common law inglese di recente formazione.
Opere di diritto romano e di diritto canonico, dunque, accanto a opere dedicate a diritti particolari. Per le prime, l'esigenza che le fece nascere fu quella di mettere ordine nella selva delle tante indagini analitiche condotte nel corso del primo secolo della Scuola bolognese. Per le seconde, una tra le ragioni che ne può spiegare la genesi risiede nel fatto che l'affermazione sempre più estesa della nuova scienza giuridica, fondata sulle fonti giustinianee, rappresentava una sfida per i diritti locali e per il fenomeno consuetudinario, in presenza di giudici e avvocati formati sul Corpus iuris. Sicché la redazione scritta delle consuetudini ‒ quanto meno di quelle alle quali le comunità locali maggiormente tenevano e che più nettamente si di-staccavano dalla disciplina dei testi romani ‒ costituì un modo efficace per metterle al sicuro dalla formidabile concorrenza del diritto dotto.
Fonti e Bibl.: le più recenti trattazioni d'insieme sulla dottrina dei civilisti sino alla metà del Duecento sono opera di E. Cortese, Il diritto nella storia medievale, II, Il Basso medioevo, Roma 1995, pp. 57-196; H. Lange, Römisches Recht im Mittelalter, I, Die Glossatoren, München 1997, che dedica specifici capitoli a ognuno dei personaggi della Scuola, tra i quali Azzone (alle pp. 255-270) e Accursio con la sua grande Glossa (alle pp. 335-385); A. Errera, Forme letterarie e metodologie didattiche nella scuola bolognese dei glossatori civilisti tra evoluzione ed innovazione, in Studi di storia del diritto medievale e moderno, a cura di F. Liotta, Bologna 1999, pp. 33-106; A. Padoa-Schioppa, Italia ed Europa nella storia del diritto, ivi 2003, pp. 123-180. Ma sono ancora preziose le opere classiche di C.F. von Savigny, Geschichte des römischen Rechts im Mittelalter, I-VII, Heidelberg 1815-1850 (Aalen 1986; trad. it. Storia del diritto romano nel medioevo, I-III, Torino 1854-1857); e di M. Sarti-M. Fattorini, De claris Archigymnasii Bononiensis professoribus a saeculo XI usque ad saeculum XIV, I-II, Bononiae 1888-1896 (Torino 1962). Per la ricognizione preliminare dei manoscritti è strumento indispensabile G. Dolezalek, Verzeichnis der Handschriften zum römischen Recht bis 1600, I-IV, Frankfurt a.M. 1972. Per una riconsiderazione critica della scienza giuridica nell'età federiciana, con particolare riferimento alle linee di pensiero e di scuola alternative rispetto alla corrente dominante del filone azzoniano e accursiano, v. il saggio di M. Bellomo, La scienza del diritto al tempo di Federico II, "Rivista Internazionale di Diritto Comune", 3, 1992, pp. 173-196. Sulla natura giuridica dello Studiumgenerale rispetto ai centri minori di studio del diritto, con particolare riferimento alle precise teorizzazioni dei canonisti di questa età, cf. P. Nardi, Le origini del concetto di 'Studium generale', ibid., pp. 47-78. Restano importanti per l'età qui considerata le ricerche di K. Neumeyer, Die gemeinrechtliche Entwicklung des internationalen Privat- und Strafrechts bis Bartolus, I-II, München 1901-1916. Alcune indicazioni relative a singole figure di giuristi: su Accursio e la sua Glossa, Atti del Convegno internazionale di studi accursiani, I-III, Milano 1968; F. Soetermeer, L'ordre chronologique des apparatus d'Accurse sur les Libri ordinarii, in Id., Livres et juris-tes au Moyen Âge, Goldbach 1999, pp. 247-272; su Jacopo Balduini, N. Sarti, Un giurista tra Azzone e Accursio, Iacopo di Balduino (…1210-1235) e il suo Libellus instructionis advocatorum, Milano 1990; su Simone Vicentino, A. Rigon, Su Simone Vicentino 'Iuris civilis professor' arsegino e Giovanni 'de Correda' cremonese, "Quaderni per la Storia dell'Università di Padova/Istituto per la Storia dell'Università di Padova", 11, 1978, pp. 121-124; E.J.H. Schrage, Symon Vicentinus, un docteur très excellent du XIIIe siècle, "Tijdschrift voor Rechtsgeschiedenis", 55, 1987, pp. 297-320; J. Hallebeek, Symon Vicentinus Quaestiones ad auth. Sacramenta Puberum, "Rivista Internazionale di Diritto Comune", 3, 1992, pp. 93-124; su Roffredo da Benevento, G. Ferretti, Roffredo Epifanio da Benevento, "Studi Medievali", 3, 1908-1911, pp. 230-287; M. Bellomo, Intorno a Roffredo Beneventano: professore a Roma?, in Scuole diritto e società nel Mezzogiorno medievale d'Italia, a cura di Id., Catania 1985, pp. 137-181 (ora in Id., Medioevo edito e inedito, III, Roma 1998, pp. 7-54); P. Erdö, Cause su diritti primaziali nella pratica di Roffredo da Benevento, "Studi Medievali", 26, 1985, pp. 881-888; su Carlo di Tocco, P.S. Leicht, Glosse di Carlo di Tocco nel Trattato di Biagio da Morcone, in Id., Scritti, II, 1, Milano 1948, pp. 123-155; E. Cortese-G. D'Amelio, Prime testimonianze manoscritte dell'opera longobardistica di Carlo di Tocco, in Atti del Convegno 'I Glossatori' (Milano-Varenna 1971), ivi 1973, pp. 85-90; G. D'Amelio, Carlo di Tocco, in Dizionario Biografico degli Italiani, XX, Roma 1977, pp. 304-310; G. Astuti, L'apparato di Carlo di Tocco alla Lombarda, in Id., Tradizione romanistica e civiltà giuridica europea, a cura di G. Diurni, III, Napoli 1984, pp. 1593-1622; su Uberto da Bobbio, L. Sorrenti, Uberto da Bobbio e la giurisdizione sugli scolari, "Rivista Internazionale di Diritto Comune", 4, 1993, pp. 211-219; su Giuliano da Sesso e sullo studio giuridico di Vercelli nel secondo quarto del sec. XIII, L. Sorrenti, Tra scuole e prassi giudiziarie, Giuliano da Sesso e il suo 'Libellus quaestionum', Roma 1999; su Guido da Suzzara, G. Capilupi, Guido da Suzzara, "Bollettino Storico Mantovano", 4, 1959, pp. 3-36; P. 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Kuttner, Repertorium der Kanonistik (1140-1234), Città del Vaticano 1937 (1981); G. Le Bras-Ch. Lefebvre-J.D. Rambaud, L'âge classique, 1140-1378, Sources et théorie du droit, Paris 1965; e le annate del "Bulletin of Medieval Canon Law", dal 1971. Inoltre, P. Erdö, Teologia del diritto canonico, un approccio storico-istituzionale, Torino 1996. Sull'apparato di Goffredo da Trani, M. Bertram, Der Dekretalenapparat des Goffredus Tranensis, "Bulletin of Medieval Canon Law", 1, 1971, pp. 79-83. Per Innocenzo IV, V. Piergiovanni, Sinibaldo dei Fieschi decretalista. Ricerche sulla vita, "Studia Gratiana", 1, 1967, pp. 125-154; sui manoscritti dell'Apparato al LiberExtra, M. Bertram, Zwei vorläufige Textstufen des Dekretalenapparats Papst Innozenz IV., "Juristische Buchproduktion im Mittelalter", 119, 2002, pp. 431-479; per Enrico di Susa, Ch. Lefebvre, Hostiensis, in Dictionnaire de droit canonique, V, 29, Paris 1953, pp. 1211-1227; Il cardinale Ostiense. Atti del Convegno internazionale di studi su Enrico da Susa detto il cardinale Ostiense, Susa 1980; sulla vita, N. Didier, Henri de Suse en Angleterre, in Studi in onore di Vincenzo Arangio Ruiz, II, Napoli 1953, pp. 333-351; Id., Henri de Suse évêque de Sisteron, "Revue Historique de Droit Français et Étranger", 31, 1953, pp. 244-270; Id., Henri de Suse prieur d'Antibes, "Studia Gratiana", 2, 1954, pp. 595-617; F. Soetermeer, 'Summa archiepiscopi alias Summa copiosa', Some Remarks on […] the Summa Hostiensis, "Ius Commune", 26, 1999, pp. 1-25; sul pensiero, A. Rivera Damas, Pensamiento político de Hostiensis, Estudio jurídico-histórico sobre las relaciones entre el Sacerdocio y el Imperio en los escritos de Enrique de Susa, Zürich 1964; per i manoscritti, M. Bertram, Handschriften der Summe Hostiensis, "Bulletin of Medieval Canon Law", 16, 1986, pp. 96 ss.; Id., Handschriften und Drucke der Dekretalenkommentar (sog. Lectura) Hostiensis, "Zeitschrift der Savigny-Stiftung für Rechtsgeschichte. Kan. Abt.", 75, 1989, pp. 177-201; K. Pennington, Popes, Canonists and Texts, 1150-1550, Aldershot 1993, saggi XVI, XVIII, XVIII. I formulari notarili e le Artesnotariae hanno formato oggetto di molti studi; una sintesi critica in G. Orlandelli, Appunti sulla scuola bolognese di notariato nel secolo XIII, "Studi e Memorie per la Storia dell'Università di Bologna", n. ser., 2, 1961, pp. 3-54; Id., La scuola di notariato tra VIII e IX centenario dello Studio bolognese, in Studio bolognese e formazione del notariato, Milano 1992, pp. 23-59. L'edizione del primo formulario di Ranieri da Perugia, a cura di A. Gaudenzi, in Bibliotheca Iuridica Medii Aevi, II, Bononiae 1892, pp. 27-73; la seconda edizione ampliata in L. Wahrmund, Quellen zur Geschichte des römisch-kanonischen Prozesses im Mittelalter, III, 2, Innsbruck 1917; l'edizione dell'opera di Salatiele è a cura di G. Orlandelli, Salatiele, Ars notarie, I-II, Milano 1961. Su Rolandino, ampia serie di ricerche specifiche in Rolandino e l'Ars notaria da Bologna all'Europa. Atti del Convegno internazionale di studi, a cura di G. Tamba, ivi 2002. Per la Provenza, G. Giordanengo, Bertrand du Pont, notaire d'Avignon, et son formulaire (2e quart du XIIIe siècle), "Annales de l'Université des Sciences Sociales de Toulouse", 24, 1976, pp. 317-327. Sulla moltiplicazione delle procedure richiedenti atto scritto notarile, avvenuta nei primi decenni del Duecento comunale italiano, v. i saggi contenuti in Kommunales Schriftgut in Oberitalien, Formen, Funktionen, Überlieferungen, a cura di H. Keller-T. Behrmann, München 1995. Per la più antica letteratura feudistica è pur sempre da vedere E.A. Laspeyres, Über die Entstehung und älteste Bearbeitung der Libri Feudorum, Berlin 1830; inoltre E. Seckel, Quellenfunde zum lombardischen Lehenrecht, Festgabe der Berliner juristischen Fakultät für Otto Gierke, Breslau 1910, pp. 51-168; E.M. Meijers, Les glossateurs et le droit féodal, in Id., Études d'histoire du droit, III, Leyde 1959, pp. 261-277; P. Weimar, Die Handschriften des 'Liber feudorum' und seiner Glossen, "Rivista Internazionale di Diritto Comune", 1, 1990, pp. 31-97; M. Montorzi, Diritto feudale nel basso medioevo, Torino 1991; G. Giordanengo, Le droit féodal dans les Pays de droit écrit, Roma 1988. La dottrina antica sugli statuti è stata studiata da A. Solmi, Alberto da Gandino e il diritto statutario nella giurisprudenza del secolo XIII, in Contributi alla storia del diritto comune, ivi 1937, pp. 341-416; M. Sbriccoli, L'interpretazione dello statuto, Milano 1969; C. Storti Storchi, Appunti in tema di 'potestas condendi statuta', in Statuti città territori in Italia e Germania tra medioevo ed età moderna, a cura di G. Chittolini-D. 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