SCIENZA GIURIDICA, REGNO DI SICILIA: L'EREDITÀ DI FEDERICO II
Nell'età angioina, apertasi poco dopo l'ingresso di Carlo I a Napoli con la 'rifondazione' dello Studio nell'ottobre del 1266, la cultura napoletana poté giovarsi della benevolenza della corte verso i letterati, dei costanti rapporti con la Francia e dell'importazione di docenti orleanesi di diritto (Simone di Parigi e Pierre de Ferrières furono logoteti di Carlo I e di Carlo II), che fecero conoscere le perle delle novità oltremontane. Per la 'facoltà' giuridica fu un discreto periodo, le numerose chiamate di luminari forestieri ne tennero a freno la provincializzazione e dalle sue aule uscirono magistrati e funzionari di livello egregio. Sin dall'inizio grandi nomi di docenti: Guido da Suzzara tra il 1266 e il 1270 e Andrea Bonello (v.) fino al 1271.
I docenti di diritto canonico e civile (1268-1400) elencati da Gennaro Maria Monti (s.d. [ma 1924], pp. 78-84) sono centocinque: abbastanza, tenuto conto dell'incompletezza della lista, per dubitare che la scuola abbia avuto vita tanto grama quanto lo stesso Monti crede (ibid., p. 76); impressiona, ad esempio, l'assembramento di professori alla laurea di Iacopo di Belviso nel 1298 (Maffei, 1979, pp. 62 s.). Quanto a Guido da Suzzara, si sa che il re affidò a lui e a Bonello un arbitrato (ibid., p. 94); non fu invece Guido (come vorrebbe D'Amelio, 1972, p. 39) ma il precedente G. ad 'allegare' nella regia Curia. La quaestio olomoucense del maestro emiliano, ricordata da Federico Martino (Ricerche sull'opera di Guido da Suzzara. Le 'supleciones', Catania 1981, p. 46 n. 79), sulla validità dei privilegi concessi da Manfredi, fu redatta a Reggio, ma presumibilmente sulla traccia di una consultazione resa a Napoli. Un inciso della quaestio mostra sentimenti filosvevi (al nome di Manfredi aggiunge "cuius anima patris et filii sit benedicta"), il che richiama alla mente la nota leggenda, ora sfatata, della sua difesa di Corradino (Monti, s.d. [ma 1924], pp. 94 s.; D'Amelio, 1972, p. 36). Tra gli altri docenti stranieri spicca Dullio Gambarini di Alessandria; omesso da Monti, del quale Meijers e i suoi allievi hanno pubblicato otto glosse al Digesto (Iuris interpretes, 1925, pp. 79-84) in cui sono richiamati giustizieri e baiuli. Altri manoscritti (i vaticani Arch. S. Pietro A 31 e A 33) sono stati segnalati da D'Amelio (1972, p. 155), che di Dullio ha anche edito un paio di quaestiones napoletane (1980, pp. 33 s.). Una sua lectura dei Tres libri ora perduta, di cui Mario Montorzi (Attorno e oltre il feudo, in corso di stampa) tenta una parziale palingenesi sfruttando le ripetute allegazioni di Niccolò Spinelli e di Giovanni Piazza, potrebbe essere stata scritta almeno in parte a Napoli. Così anche la sua Margaritade feudis, un repertorio d'uso della glossa ai Libri feudorum di probabile ispirazione forense, di composizione alluvionale e di discreto successo (J. Acher, Notes sur le droit savant au moyen âge, "Nouvelle Revue Historique de Droit Français et Étranger", 30, 1906, p. 125; E.H. Kantorowicz, De pugna [1937-1939], in Id., RechtshistorischeSchriften, Karlsruhe 1970, p. 269, e Id., The King's Two Bodies, Princeton, N.J. 1957, p. 278 n. 10); l'ha ora egregiamente studiata Montorzi che ne ha predisposto un'edizione (Attorno e oltre il feudo). Un tractatus de pugna segnalato nel Verzeichnis di Dolezalek non è che parte della Margarita. Dullio incontrò forse Carlo I in Piemonte e lo seguì nel Mezzogiorno; si sa che tra il 1293 e il 1297 egli si trovava di nuovo nella sua Alessandria (M. Montorzi, Diritto feudale nel basso Medioevo, Torino 1991, pp. 32 s. e n. 92, e Attorno e oltre il feudo). L'insegnamento napoletano di Riccardo Petroni da Siena è testimoniato da Cino da Pistoia (Monti, s.d. [ma 1924], p. 96) e va situato prima del 1298 (dato che il futuro cardinale partecipò alla redazione del Liber Sextus di Bonifacio VIII). Alle ventisei glosse al Codice giustinianeo del Vat. Lat. 1428 (edite in Iuris interpretes, 1925, pp. 219-228) si deve aggiungere quella siglata Riccardo d'Isernia erroneamente posta nella serie di Benedetto (ibid., p. 52). Più o meno negli stessi anni dovette fare una breve apparizione nello Studio di Napoli Iacopo d'Arena; Origlia (1753-1754, I, p. 167) lo trova in una cedola del 1295-1296. Summonte colloca nel 1296 il tentativo di chiamata di Dino del Mugello (R. Bargioni, Dino da Mugello, Firenze 1920, pp. 12 s.) che quell'anno declinò l'invito, ma Meijers (1925, pp. xxxiii-xxxv) ha buone ragioni per non escludere un suo breve professorato partenopeo prima del 1279 o tra il 1284 e il 1288. Chi certamente diede lustro alla didattica napoletana fu il bolognese Iacopo di Belviso, allievo di Dino (S. Caprioli, Belvisi, Giacomo, in Dizionario Biografico degli Italiani, VIII, Roma 1966, pp. 89-96), che il 5 dicembre 1298 conseguì a Napoli il dottorato negatogli a Bologna per ragioni politiche e per via di uno statuto balordo (Maffei, 1979, pp. 34-42); la solenne cerimonia è descritta dal Maffei (ibid., pp. 62 s.). Savigny (Storia del diritto romano nel Medio Evo, II, Torino 1854, pp. 591 s. [Geschichtedes römischen Rechts im Mittelalter, V, Heidelberg 18502]) ha diffuso la falsa notizia di una prima laurea a Aix nel 1297, che Maffei ha smentito. Dal 1298 fino almeno al 1302 Iacopo insegnò a Napoli da cattedra ordinaria, nel 1301-1302 impartiva lezioni sul Digestum vetus. Una tradizione narra che il re chiese nel 1301 al comune bolognese di adoperarsi presso il collegio dei dottori al fine di procurargli una licentia docendi; ottenutala Belviso rimpatriò (entro la fine del 1304: S. Caprioli, Belvisi, Giacomo, pp. 90 s.). Non redasse a Napoli la Lectura Authenticorum, opera alluvionale, né la Lectura feudorum, ritenuta da Savigny anteriore al 1310, ma con tutta probabilità alcune quaestiones (inc. Regia constitutione cauetur omnibus uolentibus contrahere matrimonium [Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Arch. S. Pietro, cc. 250rb-251rb] / Regia constitutione cauetuir quod qui alium uulnerauerit manum cum qua percussit amittat [ivi, Arch. S. Pietro, cc. 67va-69rb e 239va-241va; Chig. E. VIII. 245, cc. 106vb-108ra] / Regia constitutione cauetur quod qui armis prohibitis percusserit aliquem [ivi, Arch. S. Pietro, cc. 249ra-250rb; Chig. E. VIII. 245, 87ra-va] / Rex concessit priuilegium seu beneficium ciuitatibus uel ciuibus Regni sui [ivi, Arch. S. Pietro, cc. 74ra-75vb e 224vb-225va; Chig. E. VIII. 245, cc. 85vb-87ra] / la qu. Dominus rex dedit comiti castrum in feudum [ivi, Arch. S. Pietro, cc. 222ra-223vb; Chig. E. VIII. 245, c. 268rb-vb] fu disputata a Bologna ma su un caso de facto visto a Napoli [riferimenti nella recensione di Cortese a Maffei, 1979, ora in Scritti, II, Spoleto 1999, rispettivamente pp. 1453 e 1451, nrr. 39, 40, 41, 42 e 11]). Infine il più celebre dei forestieri investiti nell'età angioina di una cattedra fu Cino da Pistoia, che la coprì però solo dall'ottobre 1330 all'estate del 1331; la pessima impressione che riportò dei napoletani ebbe sfogo in una sua malevola canzone satirica (G.M. Monti, Cino da Pistoia giurista, Città di Castello 1924, p. 50).
Se è possibile che si sia talvolta discusso di ius Regni anche nello Studio ‒ potrebbero essere scolastiche, per esempio, la quaestio di Andrea Bonello sul feudo quaternato edita da Liotta (1970) e quelle sopra citate di Iacopo di Belviso ‒, l'interpretazione del Liber Augustalis restò principalmente affidata ad alti magistrati. Uscito dopo il 1271 dalle mani di Bonello maestro razionale, il 'vecchio' apparato cadde in quelle di Marino da Caramanico (v.), giudice della Magna Curia, che lo rielaborò (1278-1285). Vecchio e nuovo apparato, si badi, costituiscono tappe redazionali di un'opera e non due opere d'autore, essendo l'interpretatio di complessi legislativi vigenti e molto usati, per sua natura, alluvionale, a tradizione aperta e sempre in fieri. Marino cancellò la paternità di glosse precedenti, ne eliminò altre, a poche conservò la sigla originaria e parecchie ne aggiunse. Gli apporti suoi e degli altri oggi si distinguono male; li potrebbe individuare solo l'edizione critica auspicata, forse utopisticamente, da Calasso.
La culla delle glosse sono in genere le lezioni, e anche l'apparato di Marino è dedicato ai socii fideles, ossia agli studenti. Si sa che questa dedica ha indotto Calasso a fare di lui un professore nello Studio (19573, pp. 158-160), ma i diplomi angioini, che non omettono di dare il titolo di professor ai docenti e agli ex docenti, attribuiscono a Marino solo la qualifica di iudex, sicché, se egli insegnò le leggi federiciane, lo fece o privatamente o presso la Magna Curia alla quale fu aggregato dal 1278.
Dopo Marino l'albero della glossa continuò a metter rami, crebbe cioè per viam additionum. Solo il commento di Andrea d'Isernia (v.), composto poco dopo il 1309, ebbe completezza e organicità tali da meritare in qualche manoscritto e in qualche stampa il titolo di lectura Constitutionum, e da essere scelto come secondo apparato al Liber Augustalis nelle edizioni del Cinquecento.
Gli apparati e i proemi di Andrea d'Isernia e di Marino sono stati ritenuti precipua espressione di quell'interessamento al diritto pubblico che marcherebbe, agli occhi della storiografia, la scienza del Mezzogiorno. Almeno in parte si tratta della conseguenza della centralità assunta nella prassi giudiziaria dal Liber Augustalis che, lasciando ai diritti comuni i problemi privatistici, aveva convogliato l'attenzione su quelli legislativi, feudali, amministrativi, fiscali, giurisdizionali e di politica ecclesiastica, ossia sui problemi della sovranità regia e, appunto, sul diritto pubblico. Il fatto che, pur in presenza di importanti incarichi pubblici, Andrea continui a sfoggiare fino alla morte quel titolo di professore di diritto che aveva conseguito nel 1290, non significa che tutte le sue opere scientifiche siano nate nello Studio. Nulla di accademico hanno di certo i Riti, che sono evidentemente legati al suo ufficio di maestro razionale, né la sua opera feudale composta durante il regno di Carlo II rubando il tempo, com'egli stesso dichiara, ai gravi impegni di magistrato, e nemmeno la lectura del Liber Augustalis che non ebbe origini didattiche o tutt'al più le ebbe da corsi tenuti fuori dallo Studio. Da lezioni accademiche provengono unicamente i pezzi sul Codice e sul Digesto di cui scampoli sono stati editi dagli allievi di Meijers (Iuris interpretes, 1925, pp. 231-233), da Cortese (1978, pp. 266 s.) o sono stati segnalati da D'Amelio (nel ms. Ross. 582; 1972, pp. 155 s.); è possibile, ma difficile, che abbiano un legame con la Scuola i Singularia (Giustiniani, 1787-1788, II, p. 168; Capasso, 1869, p. 84). Quanto alle opere processualistiche che gli sono attribuite, il De ordine iudiciorum (Giustiniani, 1787-1788, II, p. 168) non si è mai visto, il De questionibus habendis (Vat. Lat. 11605, cc. 121ra-122vb) non è che il Tractatus de tormentis con varianti (Cortese, 1978, p. 227 n. 89), la questione Quidam eodem momento dedit uni plures alopas (Vat. Lat. 10726, c. 36v) sembra settentrionale. Solo il De flagranti crimine (inc. Queritur quis dicatur captus in fragranti crimine) dovrebbe essere suo (Cortese, 1978, p. 227 n. 89).
Andrea fu sopravanzato negli onori e preceduto sulla cattedra dal grande Bartolomeo da Capua (v.), professore e poi onnipotente logoteta e protonotario. Molti suoi commenti a costituzioni federiciane sono stati inseriti nel secondo apparato cui si dà il nome di Andrea; se si aggiungessero i frammenti editi da Tommaso Grammatico, le cui attribuzioni a Bartolomeo non sono però sempre esenti da sospetti, ne risulterebbe un bel complesso. Da protonotario e logoteta egli dovette anche esercitare un controllo sull'interpretazione del Liber: un suo pezzo sulla forbannitio ha lasciato sussistere l'indirizzo ai giudici della Vicaria ‒ chissà in quanti altri il protocollo è caduto ‒ rivelando d'essere un'istruzione impartita dietro loro richiesta nella forma di parere-quaestio.
Quaestiones sullo ius regium sono frammiste ai singularia aggiunti alla sua Glossa aurea delle Costituzioni edita più volte. Qui sono contenuti anche parecchi pezzi di giuristi coevi (Giovanni Vacca, Niccolò Ruffolo, l'abate Ansaldo Trara) e posteriori (Giovanni Grillo, Pietro Piccolo da Monteforte, Marcello Bono, Panfilo Molle, Giovanni Petrucci ["de Petrucia"]); taluni portano la sigla di Andrea d'Isernia, ch'era stato peraltro il primo proprietario del libro (passato poi nelle mani del suo discendente Leonardo), dal quale l'editore cinquecentesco della Glossa di Bartolomeo dichiara di aver tratto parte del materiale. Il parere reso in veste di logoteta e protonotario da Bartolomeo, dietro richiesta della Vicaria, verte sulla forbannitio di un omicida contumace ed è edito senza protocollo in Grammatico (1562, cc. 169v-170v) e completo in Cortese (1978, p. 266).
Intorno a Bartolomeo e Andrea, stelle maggiori, il firmamento giuridico brulica di astri minori. Additiones varie all'apparato di Marino passeranno timidamente nell'edizione Suganappo del 1533 e consistentemente in quella Sarayna del 1559, altre saranno pubblicate nella poco attendibile miscellanea di Grammatico nel 1562.
Francesco di Telese, l'allievo di Guido da Suzzara confuso da Ciccaglione con l'immaginario Franchisio di età federiciana, fu in cattedra intorno al 1275, contemporaneamente vicecancelliere tra il 1274 e il 1278 e, con Andrea padre di Bartolomeo da Capua, procurator fisci nel 1282 (C.P. Durrieu, Les archives angevines de Naples, I, Paris 1886, p. 218 n. 9; Iuris interpretes, 1925, p. 169); come professore scrisse glosse alle Istituzioni e al Codice giustinianeo edite in Iuris interpretes (1925, pp. 171-180), da magistrato forse il paio di singularia inseriti tra quelli di Bartolomeo da Capua, certo le glosse al Liber Augustalis edite da Grammatico (Capasso, 1869, pp. 106 s.). Niccolò Ruffolo, maestro camerario e procuratore della Curia nell'ultima età sveva, divenne professore celebratissimo nell'età angioina (ma l'unica testimonianza documentaria è del 1295; biografia in Iuris interpretes, 1925, pp. 93-95); un gruppo di glosse alle Costituzioni è stato pubblicato da Grammatico; insieme con Andrea Bonello è tra i pochi napoletani citati da Baldo (in C. 1.4.6 [1.7.7], de episcopali audientia, l. Addictos, nr. 5). Di Giovanni Vacca di Amalfi, il cui nome è spesso storpiato in Baccaro o Baccan o Bacca o Varra, sappiamo che fu in cattedra tra il 1271 e il 1276, di lui conosciamo singularia e glosse civilistiche (Capasso, 1869, p. 94; D'Amelio, 1972, pp. 95 n. 48, 155); la sua partecipazione all'esegesi delle Costituzioni, se vi fu, fu minima. Quattro glosse di Tommaso da Brindisi sono state tramandate da Grammatico (cc. 32rb, 35ra, 48rb-va, 61rb; Capasso, 1869, p. 95 ne cita due). L'inserimento, poi, di Bartolomeo Bonello, dal 1270 giudice della Magna Curia, nella schiera dei commentatori delle Costituzioni lascia perplessi, perché la sola, breve glossa a stampa sotto il suo nome (edita in Grammatico, 1562, c. 67vb) o è pesantemente interpolata o non è sua (Capasso, 1869, p. 95). Tra i successivi va ricordato Giovanni Grillo, forse discepolo di Bartolomeo da Capua, poi in cattedra fino al 1306, maestro razionale nel 1326 e viceprotonotario fino al 1342; taluni suoi singularia si trovano sparsi tra quelli del maestro, parecchie glosse si leggono sia nelle stampe del Liber, sia nella raccolta di Grammatico (1562, ma almeno il pezzo di c. 95va non gli appartiene). Giovanni di Lando, professore tra il 1319 e il 1349, magister rationalis e anch'egli viceprotonotario, lodatissimo da Luca da Penne, ha lasciato solo una glossetta edita da Grammatico (ibid., c. 93ra). Di Biagio Paccone da Morcone, allievo del vescovo-giurista Benvenuto di Milo da Morcone negli anni 1320 (Nicolosi Grassi, 1984, p. 80), nominato iuris peritus e advocatus nel 1331, consigliere regio nel 1338 e deceduto nel 1350 (G. Abignente, in De differentiis inter ius Longobardorum et ius Romanorum tractatus, a cura di Id., Napoli 1912, pp. XVIII s.), sempre citato con il solo titolo di iudex, ci sono rimaste tre o quattro glosse edite da Grammatico (e riprodotte nelle tarde edizioni delle Costituzioni). La più lunga e importante (1562, cc. 109va-110vb, in l. Si maritus, de poena uxoris) è però troppo infarcita di citazioni di giuristi tardoquattrocenteschi per essere sua. Di Sergio Donnorso, personaggio di rilievo, professore, maestro razionale e viceprotonotario ai tempi di Giovanna I (Capasso, 1869, pp. 97 s.; Cortese, 1978, p. 207 n. 32), si hanno due glosse nelle stampe delle Costituzioni e una nella silloge di Grammatico (1562, c. 89vb); gli si assegna, si dica per inciso, anche un trattato sulle lettere arbitrarie angioine che fu scritto in realtà da un Nicola de Ursone (Cortese, 1978, pp. 206-208).
Ai tempi di Giovanna I (1343-1381) due personaggi spiccano tra i commentatori delle Costituzioni. A Pietro Piccolo da Monteforte (v.) risalgono tante additiones che, solo a raccogliere e ordinare quelle a stampa (nel Grammatico e nel Liber Augustalis), se ne costruirebbe un considerevole apparato. Il secondo è Lallo di Tuscia (v.), autore d'una sorta di lectura poi edita autonomamente. Tra gli altri grandi del tempo, Luca da Penne ci ha lasciato poche righe sulla costituzione Baiulos et omnes nelle edizioni del Liber e sulla Maiestati nostrae nel Grammatico (1562, c. 111va), mentre Napodano Sebastiani si è dedicato unicamente alle consuetudini napoletane e ai capitoli angioini.
Luca da Penne dovette addottorarsi a Napoli con Enrico Acconzagioco nel 1345 ma dichiara proprio dominus anche Simone da Borsano, che si addottorò quindici anni dopo di lui: Montorzi (1984, pp. 336 s.) congettura acutamente che Luca gli abbia dato quell'appellativo per essere stato al suo servizio ad Avignone nei primi anni Settanta, quando Simone era referendario di papa Gregorio XI. Corrispondente di Petrarca e cultore di umanesimo, Luca si professa iudex ed è quasi sicuro che non sia mai salito in cattedra; il suo maestoso commentario ai Tres libri del Codice giustinianeo lo tenne occupato a lungo e non fu completato prima del 1371 (D. Maffei, La biblioteca di Gimignano Inghirami e la 'Lectura Clementinarum' di Simone da Borsano, in Proceedings of the Third International Congress of Medieval Canon Law, Città del Vaticano 1971, p. 235 n. 71, poi in Id., Studi di storia delle Università e della letteratura giuridica, Goldbach 1995, p. 185 n. 71). Morì con tutta probabilità nel 1390 (notizie e bibliografia su Luca da ultimo in Caravale, 1998, pp. 208-210). Tra i minori, un Giovanni Grisone di Amalfi ha lasciato due o tre glosse presumibilmente della seconda metà del Trecento; Marino Frezza celebra i fasti della famiglia Grisone di cui conobbe l'ultimo discendente, ma trae notizia di Giovanni solo da una cronaca amalfitana (Marino Frezza, De subfeudis baronum, Venetiis 1579, c. 79a). Del salernitano Matteo della Porta, professore, consigliere di re Roberto e luogotenente della Curia tra il 1331 e il 1374 (G. D'Amelio, Una falsa continuità: il tardo diritto longobardo nel Mezzogiorno, in Per Francesco Calasso. Studi degli allievi, Roma 1978, p. 380 e n. 24), Grammatico riporta una sola glossa (Capasso, 1869, p. 105 n. 1).
A cavallo tra Tre e Quattrocento, con gli ultimi Angiò-Durazzo, la Scuola decadde a tal punto che la stessa Giovanna II ne lamentò l'inefficienza. Per evitare che anche la qualità del ceto forense si deteriorasse, la regina istituì il 15 maggio 1428 il celebrato collegio dei dottori, organo di controllo dell'accesso alle magistrature. Nominò a farne parte, tra gli altri, Giovanni Crispano, giurista e vescovo di Teano (tra il 1418 e il 1443; Cortese, 1985, p. 111), che compare nel Grammatico e nelle stampe tarde del Liber Augustalis come autore di additiones. Poi, si sa, dopo la morte di Giovanna nel 1435 insurrezioni e guerre sconvolsero ulteriormente Scuola e società, né Alfonso d'Aragona, giunto a Napoli nel 1443, fece gran che per risollevare le sorti della giurisprudenza. Fondatore di Studi ‒ nel 1434 aveva istituito quello di Catania e dato il placet a Messina ‒ e appassionato di umanesimo e di libri, non sembra avesse per il diritto il trasporto che aveva per le lettere; quando si accorse che a Napoli le cattedre scarseggiavano, si preoccupò prima della teologia e della medicina e solo nel 1451 ne istituì una giuridica, che affidò incautamente a un oscuro padovano, Francesco de Pellatis (De Frede, 1957, p. 43). Malgrado tutto, però, i buoni giuristi napoletani non vennero a mancare; se ne contavano tra i magistrati e occasionalmente venivano dati anche in prestito allo Studio; Antonio Guindazzo, Tommaso Vassallo, e specialmente Giovanni Antonio Carafa e Paride dal Pozzo sono buoni nomi. Alla fine del regno di Alfonso emerse anche Antonio d'Alessandro che, destinato a ricoprire cattedre e altissime magistrature, rappresentò altresì nella Napoli aragonese, insieme con la famiglia Arcamone, la continuità dello studio del Liber federiciano.
D'Alessandro si addottorò a Bologna il 27 aprile del 1454 (C. Piana, Il 'Liber secretus iuris Caesarei' dell'Università di Bologna 1451-1500, Milano 1984, p. 30; la notizia della laurea ferrarese [Giustiniani, 1787-1788, I, p. 39] è erronea; cenni sulla produzione in Cortese, 1985, pp. 37 s., 52 s., 70). Parente del celebre e più giovane Alessandro (1461-1523) autore dei Geniales dies (Maffei, 1956), Antonio compare l'anno stesso della laurea su una cattedra dello Studio partenopeo (Collegio di Spagna, ms. 259, cc. 1-46v, il suo corso del 1456 nel ms. 177, cc. 5-152). È generalmente accettato che nel 1465 sia stato assunto nel Sacro Regio Consiglio, la suprema magistratura creata da Alfonso, e ne sia diventato il presidente al momento della nomina a "protonotaro" nel 1480. Fu presidente della Sommaria dal 1488 al 1495 secondo Toppi, ma la storiografia tende a sospingere indietro al 1471 il suo primo ingresso nella Regia Camera. Morì il 26 ottobre 1499 (cf. F. Nicolini, Saggio di un repertorio bio-bibliografico di scrittori nati o vissuti nell'antico Regno di Napoli, Napoli 1956, pp. 584-588, oltre che F. Petrucci, D'Alessandro (Alessandri), Antonio, in Dizionario Biografico degli Italiani, XXXI, Roma 1985, pp. 733-735). Il suo contributo all'interpretazione del Liber sta in una manciata di glosse edite da Grammatico (non tutte ricordate da Capasso, 1869, pp. 92 s.). Il transito delle Costituzioni dall'epoca di Giovanna II d'Angiò-Durazzo a quella dell'aragonese Ferrante parrebbe essere stato più che altro un affare della famiglia Arcamone: Grammatico (ibid., p. 93) ci tramanda una glossetta di Francesco, giudice della Vicaria e consigliere di Giovanna II, un gruppetto di glosse di Pietro, forse suo fratello, e uno più folto di Agnello, figlio di Francesco, autorevole presidente della Regia Camera nel 1466, ammesso al Sacro Consiglio, a quanto dice Toppi, nel 1469, nel 1479 gratificato di feudi da re Ferrante e infine incarcerato nel 1486 in seguito alla congiura dei baroni (Toppi, 1655-1656, I, pp. 203-206). A sentire Pietro Giannone le additiones di Agnello sarebbero state tra le prime andate a stampa a Napoli.
D'Alessandro raggiunse gli apici della carriera sotto Ferrante (Ferdinando I, 1458-1494). Il regno di quest'ultimo, che sin dal 1448 aveva appreso i rudimenti delle leges giustinianee da Paride dal Pozzo, vide l'epicentro della cultura napoletana spostarsi dall'umanesimo al diritto. Se la 'rifondazione' dello Studio generale, ordinata da Ferrante e consacrata da papa Paolo II il 18 gennaio 1465, sembrò dapprima rispecchiare i vecchi amori umanistici di Alfonso, la Scuola finì presto coll'istradarsi sui tradizionali binari privilegiati della giurisprudenza e, cosa alquanto singolare, tutta la società colta venne di conseguenza investita da un'ondata di entusiasmo anche per Federico II e il suo codice.
All'esplicita conferma della vigenza del Liber Augustalis, data dal re con la prammatica di Foggia del 25 dicembre 1472, fecero eco le editiones principes uscite dall'officina del dotto prete strasburghese Sisto Riessinger, quella dell'apparatus di Andrea d'Isernia nel 1472 ‒ l'anno medesimo della prammatica di Foggia ‒ e quella dello stesso Liber Augustalis curata nel 1475 da Francesco Del Tuppo. Ma ancora più significativo risulta essere l'episodio delle riduzioni del Liber a epitomi in volgare; la rara eleganza dei manoscritti ne conferma la provenienza da un giro nobiliare e di corte; l'esemplare di Madrid, Biblioteca Nacional, ms. 568, è addirittura libro di studio di un principe del sangue.
A segnare, inoltre, il passaggio dall'età aragonese al viceregno sta un gruppetto di additiones, edite da Grammatico e databili non prima del 1499, dovute a Diomede Mariconda ‒ figlio di Andrea, luminare della Scuola e del foro ‒ che due allievi, di cui uno è Grammatico, ci dicono professore; alla fama di cui godette Diomede presso i contemporanei corrisponde un pressoché totale silenzio presso i posteri (Maffei, 1991, pp. 7-12).
Parallelamente ai fervori della corte e del palazzo, inconsuete iniziative di studi federiciani si accesero nello Studio. In libri di recollectae tenuti da scolari compaiono note ad alcune costituzioni dell'imperatore, o credute di lui, in particolare alla famigerata Sancimus (v. Protimesi), che fa a questo modo la sua comparsa sulla scena accademica napoletana. Tra il 1475 e il 1477 essa meriterà un corso universitario e un fortunato trattato di Matteo d'Afflitto (v.), celebre allievo di Antonio d'Alessandro. Ma ben altro omaggio d'Afflitto renderà a Federico, fuori dai corsi accademici, con il mastodontico commentario al Liber Augustalis che compose in vecchiaia, tra il 1510 e il 1513. Sebbene variamente criticata, l'opera segnò il culmine del trionfale ritorno del legislatore svevo, ormai all'ombra del vicereame, al ruolo di protagonista sulla scena della giurisprudenza. Un ritorno al quale tutta la prassi si dimostrò sensibile.
Marino della Porta sul finire del Quattrocento, poi nel secolo seguente Panfilo Mollo, Cesare de Perrinis, curatore di edizioni del Liber, Marco Antonio Polverino, Nicolò Superanzio e Bartolomeo Vinciguerra sono abbastanza documentati sia negli apparati editi, sia dal solito Grammatico, mentre Giacomo Agnello de Bottis compare nell'edizione veneziana del 1590 del Liber Augustalis. La raccolta di Tommaso Grammatico, giudice di Vicaria e consigliere regio (dal 1552 fino alla morte, ultraottantenne, nel 1556), contiene un complesso di suoi pezzi tanto consistente da poter essere definito l'ultimo grande apparato.
Con il Cinquecento anche il Regno subì la moda della trattatistica monografica che investì singole leggi e rubriche del Liber federiciano; questo, per di più, continuò la sua paziente infiltrazione nello Studio. Un'ulteriore novità metodica cinquecentesca fu il disegno di quadri unitari del composito ius Regni ‒ cioè Liber Augustalis, capitoli angioini, prammatiche spagnole in continuo aumento, riti dei supremi tribunali ‒ ove il tutto, per l'emergente gusto del 'sistema', venne amalgamato in architetture di rubriche tematiche secondo lo schema del Codice di Giustiniano.
Si sa che Giovanni Vincenzo d'Anna, professore intorno al 1558, sottopose talune rubriche e leggi del Liber Augustalis a repetitiones (Giustiniani, 1787-1788, I, pp. 72 s.; Capasso, 1869, p. 108), ossia a lezioni-conferenze fuori dai corsi normali. Le monografie sono invece extrascolastiche, talune scritte da autori di discreta fama presso i contemporanei, come Federico Vivaldi, Giovan Tommaso Minadoi canonista e, tra Cinque e Seicento, Muzio Recco (Capasso, 1869, pp. 111-113). Pietro Folliero (Follerio) pubblicò a Venezia nel 1568 i Commentaria […] super Constitutionibus, Capitulis, Pragmaticis et Ritibus Regni, in cui una gran varietà di norme e commenti venne per la prima volta costretta entro uno schema di rubriche prese dal Corpus iuris. Nel secolo seguente, tra il 1605 e il 1643, Carlo Tapia, sollecitato anche dal succedersi delle collezioni di prammatiche, pubblicò in ben sette volumi e con analogo metodo una raccolta sistematica imponente dello ius Regni che avrebbe voluto intitolare, in omaggio a Filippo III, Codice Filippino: cosa sconveniente, secondo Giannone (1723, lib. XXXIV, c. 7), trattandosi di opera privata non commissionata dal sovrano: la si chiamò Ius regni. Se il sec. XVII si chiude con la monografia di Francesco d'Andrea sulla costituzione federiciana Ut de successionibus (Napoli 1694), il XVIII si apre con l'auspicio di Gaetano Argento, presidente del Sacro Consiglio, di una nuova codificazione (P. Del Giudice, Storia del diritto italiano, Frankfurt a.M.-Firenze 1969 [1923], p. 176).
Sono, questi, i primi segnali dell'esigenza di un 'codice' nuovo, se non un primo passo verso l'idea illuministica della codificazione.
Ma il Liber Augustalis si difese ancora bene per tutto il Settecento, come dimostra l'attrazione che continuò a esercitare sull'editoria. Se la stampa del 1773, curata da Antonio Cervoni, costellata di errori e dipendente da quella del 1590 di Sarayna, ha odore di stantio, è invece fresco di modernità il minuto esame cui Carlo Pecchia nel 1778 sottopose ‒ al metro della "ragion grammaticale" e del buon senso ‒ il testo vulgato, proponendo poi una massa di correzioni letterali (in appendice al primo volume della sua Storia [1778-1783]). L'edizione Canciani del 1781 le accolse, quella di Carcani del 1786 no: ma sbandierò a sua volta un'esigenza filologica esibendo accanto al vulgato il testo greco, ch'è il più vicino a quello melfitano.
L'affiorare del gusto filologico intorno al Liber Augustalis sembra rivelare il presentimento del suo prossimo destino, ch'era di passare dalle mani dei giuristi in quelle degli storici. Il decreto del 22 ottobre 1808 di Gioacchino Murat, in effetti, segnerà la sua condanna a morte come fonte normativa e lo trasformerà, appunto, in oggetto di storiografia.
Fonti e Bibl.: T. Grammatico, In constitutionibus, capitulis, et pragmaticis regni Neap. et ritibus Magnae Curiae Vicariae additiones et apostillae, Venetiis 1562; N. Toppi, De origine omnium tribunalium, I-III, Napoli 1655-1666; P. Giannone, Istoria civile del Regno di Napoli, I-IV, ivi 1723, lib. XVI, cc. 4 e ss.; lib. XXVIII, cc. 4 e 5; lib. XXXII, c. 8; XXXIV, c. 7; lib. XL, c. 5; G.B. Tafuri, Istoria degli scrittori nati nel Regno di Napoli, I-III, ivi 1744-1760; G. Origlia, Istoria dello Studio di Napoli, I-II, ivi 1753-1754 (Bologna 1973); C. Pecchia, Storia civile e politica del Regno di Napoli, I-IV, ivi 1778-1783: I, lib. 2, capp. 32-36 e appendice; E. D'Afflitto, Memorie degli scrittori del Regno di Napoli, I-II, ivi 1782-1794; L. Giustiniani, Memorie istoriche degli scrittori legali del Regno di Napoli, I-III, ivi 1787-1788 (Bologna 1970); B. Capasso, Sulla storia esterna delle costituzioni del Regno di Sicilia, estr. da "Atti dell'Accademia Pontaniana", 9, 1869; L. Palumbo, Andrea d'Isernia. Studio storico-giuridico, ivi 1886; F. Ciccaglione, Le chiose di Andrea Bonello da Barletta alle costituzioni sicule, "Il Filangieri", 13, 1888, pp. 287-314; E. Cannavale, Lo Studio di Napoli nel Rinascimento, Napoli 1895 (Sala Bolognese 1980); G. Salvioli, Intorno all'opera di Biagio da Morcone, "Archivio Storico Napoletano", 40, 1915, pp. 374-385; Storia della Università di Napoli, Napoli 1924; G.M. Monti, L'età angioina, ibid., pp. 78-96; E.M. Meijers, Introduzione, in Iuris interpretes saec. XIII, ivi 1925, pp. XVII-XXXIX (ora, con il titolo L'Università di Napoli, in Id., Études d'histoire du droit, III, Leyde 1959, pp. 149-166); G.M. Monti, Le origini della Gran Corte della Vicaria e le codificazioni dei suoi Riti, in Id., Dal secolo sesto al decimoquinto. Nuovi studi storico giuridici, Bari 1929, pp. 121-252; Id., Intorno a Marino da Caramanico e alla formula 'rex est imperator in regno suo', "Annali del Seminario Giuridico-Economico. R. 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