SCIENZA GIURIDICA, REGNO DI SICILIA: L'ETÀ DI FEDERICO II
Non si può parlare di scienza giuridica nel Mezzogiorno dell'età normanna. Le poche sillogi del sec. XII di materiale normativo tratto dalle due leggi scritte tradizionali, la bizantina e la longobarda, non sono che prodotti della preistoria della scienza; le poche glosse, per lo più lessicali, non rivelano intenti critico-scientifici; dei due trattatelli sull'ipobolo e il teoretro, che hanno suggerito a Francesco Brandileone l'esistenza di scuole di diritto sin dal sec. X, v'è da dubitare che siano italiani.
La cosiddetta Epitome Marciana (Venezia, Biblioteca Nazionale Marciana, ms. Gr. 172; Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Pal. Gr. 55, a. 1175) e il Prochiron legum (a cura di F. Brandileone-V. Puntoni, Roma 1895), noto anche come Prochiron Vaticanum, costituiscono quanto resta della produzione sicuramente meridionale (probabilmente calabrese) di sillogi normative. Nel codice che riporta il Prochiron sono contenuti i due trattatelli, entrambi editi e illustrati da Brandileone (1931, pp. 62-75, ediz. 83-87), che li ritiene compilati non anteriormente alla seconda metà del sec. X perché solo nella prima metà comparve il teoretro, e non posteriormente al Mille perché descrivono istituti divergenti dal Prochiron e dai documenti dell'età normanna (ibid., p. 74). Proprio questa divergenza suscita perplessità sull'origine italiana dei due piccoli scritti (pur generalmente attribuiti all'Italia: P.E. Pieler, Byzantinische Rechtsliteratur, in Byzantinisches Handbuch, II, München 1978, p. 477).
Tracce di scienza e di scuole fanno la loro comparsa, al tempo di Federico giovanetto, con Carlo di Tocco reduce dalla sua esperienza di studi e d'insegnamento in città settentrionali (v. Scienza giuridica, Regno d'Italia). Com'era già avvenuto nella vecchia Scuola di Pavia, la svolta si verificò in ambienti di longobardisti interessati anche alle leges, ambienti, tra l'altro, che contribuirono non poco a deviare il diritto romano dai vecchi binari isaurico-macedoni della tradizione meridionale su quelli giustinianei in auge al Centro-Nord.
È dubbio se Carlo di Tocco abbia o non abbia frequentato Bologna, probabilmente preferì Piacenza o Mantova. Udì grandi maestri di diritto romano (Piacentino, Cipriano, Giovanni Bassiano e Ottone di Pavia) e presumibilmente anche di diritto longobardo (un misterioso Bar[tolomeo?] o Ber[nardo?]); a Piacenza poi tenne cattedra romanistica ed ebbe allievi del calibro di Roffredo (G. D'Amelio, Carlo di Tocco, in Dizionario Biografico degli Italiani, XX, Roma 1977, pp. 304-310). Forte di una preparazione nei due iura che costituivano i pilastri dell'ordinamento meridionale, al suo rientro in patria compose, dopo il 1207 e prima del 1215 (K. Neumeyer, Notizen zur Literaturgeschichte des longobardischen Rechts, "Zeitschrift der Savigny-Stiftung für Rechtsgeschichte. Germanistische Abteilung", 20, 1899, pp. 250 s.), la summa della Lombarda divenuta poi glossa ordinaria (G. D'Amelio, 1978, pp. 391-397); fu attivo nel tribunale di Salerno (dichiara egli stesso "cum salernitanis iudicibus sedisse": gl. eligantur in Lomb., II.51.11) o di Capua (un Carlo iudex capuanus fa una donazione a Tocco nel 1207) o di Benevento. La summa-apparato palesa intenti didattici.
Se Carlo tenne in qualche centro campano lezioni sulla Lombarda, il manoscritto parigino Lat. 4546 mostra che ne tenne anche sul Codice giustinianeo. Il ms. Olomouc C. O. 210 conferma tale doppio magistero: prima del 1234, e certamente nell'Italia meridionale, un suo allievo commentò la Lombarda utilizzando la summa longobardistica e i romanistici commenti parigini del maestro (Ricciardi, 2001, p. 144).
Si sa che i commenti al Codice siglati K. nel manoscritto parigino (cc. 16-85, fascicolo a sé) ‒ in cui un pezzo richiama Benevento e altri ripetutamente Capua ‒ sono stati attribuiti, per errore di lettura della sigla, a Roffredo da Savigny (Storia del diritto romano nel Medio Evo, II, Torino 1854, pp. 336 s. [Geschichtedes römischen Rechts im Mittelalter, V, Heidelberg 18502]) e a Ugolino da Jean Acher (Six disputationes et un fragment d'une repetitio orléanaise, in Mélanges Fitting, II, Paris 1908, p. 318 n. 72); finalmente Eduard Maurits Meijers li ha rivendicati a Carlo (Sommes, lectures et commentaires [1100 à 1250], in Meijers, 1959, pp. 240 s.). Gli indizi del magistero romanistico di Carlo di Tocco nel Mezzogiorno sono stati segnalati da Ricciardi (2001).
Un'ulteriore, decisiva svolta venne naturalmente dall'istituzione dello Studio di Napoli (v.). Il primo personaggio chiamato ad avviarlo, il 5 giugno 1224, fu lo iudex e magister Roffredo da Benevento (v.), già allievo di Carlo di Tocco a Piacenza, poi maestro a Bologna e Arezzo. Il secondo convocato fu un ignoto Pietro da Isernia che ora tutti, dopo Meijers, identificano con Benedetto d'Isernia (v.).
Nella tradizione manoscritta della lettera istitutiva dello Studio i nomi presentano una ridda di varianti. Anche quello di Roffredo ("de Varano/Guarano", "de Isernia", "de Padua", "de Warcino/Guarcino", "de Sancto Victore", "Angelus": cf. Historia diplomatica, II, 1, pp. 451 s. n. b), ma il suo insegnamento napoletano è confermato dalle glosse civilistiche segnalate da Meijers (1925, pp. xxiii s.); già intor-no al 1229 Roffredo lasciò Napoli. Più misteriosa la questione circa il Pietro (solo in un manoscritto "Benedictus") "de Ysernia", "Hibernia", "Hisbernia". Meijers ha suggerito che il nome Pietro avesse preso il posto, per un errore materiale, di quello di Benedetto (ibid., p. xxii), ma qualche perplessità è rimasta a Besta (1962, p. 452). Mentre Pietro sembra essere un fantasma inafferrabile, Benedetto d'Isernia è invece noto: dopo gli studi a Bologna e l'insegnamento in Toscana, il suo magistero partenopeo è abbondantemente confermato dai frammenti editi dagli allievi di Meijers (Iuris interpretes, 1925, pp. 7-76, in partic. p. 57, nr. 136); a Napoli fu probabilmente maestro di Giovanni Fazioli e di Niccolò Ruffolo (ibid., p. 143, nr. 97). Ulteriori presenze di Benedetto in manoscritti napoletani del Corpus iuris sono segnalate da Giuliana D'Amelio (1972, pp. 155 s., e 1980, pp. 51-54), nonché da Federico Martino (1988, pp. 28 s.), da Manlio Bellomo (Scuole giuridiche, 1997, pp. 117 s.; La scienza del diritto, 1997) e da Giuseppe Speciale (La memoria del Diritto comune, Roma 1994). Rimane un piccolo margine d'incertezza sulla liceità di sostituirlo a Pietro d'Isernia, perché Pietro potrebbe aver dato un debole segnale di esistenza in una quaestio de facto civilistica riportata nel foglio di guardia del ms. Olomouc C. O. 210 (Cortese-D'Amelio, 1999, pp. 306 s. n. 33). È vero però che la quaestio richiama gli iudices communis che a Napoli significavano poco, sicché rimane il solito dubbio che la sigla p. de ys. stia anche qui per b. de ys., e richiami il Benedetto dei tempi di Bologna o di S. Gimignano.
Fu un avvenimento che scisse in due, tra Scuola e foro, l'oggetto delle attenzioni dei giuristi, la didattica accademica svolgendosi, secondo le regole, sul solo Corpus iuris giustinianeo (specialmente Digestum vetus e Codex), le fonti normative di origine locale restando invece riservate ai giudici. Il meccanismo scolastico ebbe un rodaggio stentato e richiese le 'rifondazioni' del 1234 e del 1239 (Arnaldi, 1982, p. 86); dal 1234 furono maestri un Saducco, che va presumibilmente identificato con lo iudex sacri Beneventani palacii del 1229 (Besta, 1962, p. 455), nonché il misterioso Matteo da Pisa di cui si sa soltanto che dopo sette anni di servizio regio, nel 1240, ebbe, benché straniero, il diritto di esercitare l'avvocatura. Al tempo della seconda 'rifondazione' il registro di Federico, al 14 novembre 1239, iscrive la chiamata di Bartolomeo Pignatelli di Brindisi a coprire una cattedra di Decretali, istituita forse per placare i seguaci di Gregorio IX a cinque anni dall'emanazione del Liber Extra e a due dalla seconda scomunica lanciata contro Federico.
Più tardi vescovo di Amalfi e arcivescovo di Cosenza e di Messina, Pignatelli è un alto dignitario del Regno più che un professore (H. Enzensberger, La struttura del potere nel Regno: corte, uffici, cancelleria, in Potere, società e popolo nell'età sveva [1210-1266], Bari 1985, p. 63). L'atto di nomina è ora nell'edizione a cura di Carbonetti Vendittelli (Il Registro della cancelleria di Federico II del 1239-1240, I, Roma 2002, pp. 150 s.). Dell'opera didattica di Pignatelli non è rimasta traccia. La licenza data a Matteo da Pisa di esercitare l'avvocatura (Meijers, 1925, p. xxiii) è riprodotta in Monti (s.d. [ma 1924], doc. viii, pp. 47 s.).
Un altro canonista, il celebre Goffredo da Trani, è accreditato da Meijers di una cattedra di diritto non canonico ma civile; il suo insegnamento è però evanescente. Ancor più lo è il magistero legistico di Uberto di Bonaccorso, buon giurista che però Federico II regalò presto alla città di Vercelli (Meijers, 1925, pp. xxx s.); la sua fugace presenza tra le glosse di Giovanni Fazioli potrebbe indicare un insegnamento di poco conto.
La parentesi civilistica di Goffredo da Trani, allievo di Azzone, sembra confermata da Alberico da Rosciate che ne ricorda una glossa al Codice (ma lo chiama 'Goffredo beneventano' alimentando il sospetto di una confusione con Roffredo); bastano comunque le sue glosse napoletane al Digestum vetus (ibid., pp. xxv s. n. 2) a testimoniare un suo breve insegnamento civilistico partenopeo. Che Uberto di Bonaccorso abbia lasciato Napoli per Vercelli non nel 1232, come proponeva Besta (1962, p. 456), ma tra il 1238 e il 1240, dopo la battaglia di Cortenuova, è stato acutamente proposto da Isidoro Soffietti. Egli ha anche reperito un documento vercellese del 1240 ove Uberto compare come professore in quella città (I. Soffietti, L'insegnamento civilistico nello Studio di Vercelli: un problema aperto, in L'università di Vercelli nel Medioevo, Vercelli 1994, pp. 231-234). Carlo Guido Mor lo suppone studente di Azzone a Bologna tra il 1224 e il 1231, nel 1231 lo trova a Modena e congettura che abbia continuato a insegnarvi fino al 1236 (C.G. Mor, Storia dell'Università di Modena, I, Firenze 1975, pp. 11, 18). A Napoli dovette dunque avere cattedra brevemente tra la prima 'rifondazione' del 1234 e la seconda del 1239. Essendo Uberto indicato con la sola sigla V. nella comunicazione del suo invio a Vercelli, Romualdo Trifone ha immaginato che la lettera designasse un Giacomo Vulture professor iuris civilis, nominato nel 1254 protogiudice di Salerno e Benevento (Scritti minori, Bari 1966, pp. 251): un'ipotesi inconsistente dato ch'è lo stesso Uberto (nei Preludia causarum [o Practica], Lugduni 1540, in pr., c. 1r) a dirsi professore a Vercelli "de mandato maiestatis imperatoris".
Il nome di Martino da Fano è stato aggiunto, un'ottantina d'anni fa, alla lista dei professori stranieri illustri da Meijers, che non poté però accertare date. Nell'ombra resta anche l'avventura meridionale del pisano Giovanni Fazioli o Fagioli, che a Napoli sarebbe stato allievo di Benedetto d'Isernia e poi professore; una glossa al Liber Augustalis attribuitagli nel Cinquecento dal Grammatico parrebbe attestare la sua attività anche nel foro, ma di sicuro il frammento non è suo.
Glosse napoletane di Martino da Fano citano Napoli, Aversa e Salerno, Niccolò Ruffolo riprende da lui una di-stinctio, Bartolomeo da Capua ricorda la risposta di Martino a un quesito posto da una costituzione del Liber Augustalis (Meijers, 1925, pp. xxvi-xxviii): ma qualche dubbio sulla riferibilità di questi indizi al nostro personaggio sono rimasti a Carmelo E. Tavilla (1993, pp. 198-200). Quanto agli anni in cui collocare l'insegnamento, Meijers ha proposto come dies a quo e ad quem il 1234 e il 1254. Si può ridurre un po' l'intervallo: a Fano Martino rimase sicuramente fino al 1238, quando offrì ospitalità a fra Salimbene da Parma (l'erronea indicazione dell'anno 1229 è stata corretta da Tavilla, 1993, p. 195), sicché l'arrivo a Napoli non poté avvenire che con la seconda 'rifondazione' del 1239, o poco dopo. Nel 1254 il giurista era già da qualche tempo ad Arezzo; quell'anno presiedette il collegio dei dottori aretini e lavorò alla riforma degli statuti universitari del 1255 (G. Nicolaj, L'Università ad Arezzo nel medioevo, "Educazione Permanente", 2, 1990, pp. 50 s.). Resta insomma nella sua biografia, tra il 1239 e il 1250, il 'buco nero' di cui parlano Tavilla (1993, p. 197) e Nicoletta Sarti (Martino da Fano ed i suoi 'Notabilia super Institutionibus' [Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, ms. Urb. Lat. 156], "Rivista di Storia del Diritto Italiano", 69, 1996, p. 128), entro il quale andrebbe situato il suo soggiorno napoletano. Bartolomeo Capasso (1869, p. 98) con qualche titubanza introduce tra i maestri il pisano Giovanni Fazioli o Fagioli o Fazeli (1223-1286: F. C. von Savigny, Storia del diritto romano, Torino 1854, pp. 496 s.), Meijers lo fa con sicurezza (1925, pp. xxviii s.). Fermo restando che il nome è comune ‒ già Sarti conosceva un omonimo giurista bolognese trecentesco ‒, sul duecentesco toscano sembrano convergere i fantasmi di personaggi diversi che un filo sottile tende a unificare (Maffei, 1979, pp. 75-80). Il Fazioli o Fagioli pisano è autore di un trattato desummariis cognitionibus, in apparenza non redatto a Napoli, edito più volte (da ultimo da L. Wahrmund, Quellen zur Geschichte des römisch-kanonischen Processes im Mittelalter, IV, 5, Innsbruck 1928 [Aalen 1962]). Che un trattato de feudis ‒ scritto intorno al 1260 e pubblicato nel 1517 dal Thierry sotto il nome di Pierre de Belleperche ‒ sia da attribuire all'autore del desummaria cognitione è stato dimostrato da Maffei; l'opera rivela un'attenzione a fatti della Terrasanta che fa presumere un soggiorno di Fazioli in quella zona. Per di più Maffei ha trovato che un Giovanni di Ancona, autore di una summa iuris canonici reperita da Bertram, e da lui assegnata agli anni 1265-1268 (Johannes de Ancona. Ein Jurist des 13. Jahrhunderts in den Kreuzfahrerstaaten, "Bulletin of Medieval Canon Law", 7, 1977, pp. 49-58), cita l'opera feudistica di Fazioli come "summa nostra de feudis", e a questo punto il giurista descritto da Maffei diventa civilista, feudista e canonista. A parte il problema di conciliare l'origine pisana con quella anconetana dichiarata nella summa canonistica, il personaggio fa prova di un singolare nomadismo tra Pisa, Napoli, la Terrasanta, Ancona e poi definitivamente Pisa, dove nel 1270 è priore degli Anziani e nel 1281 collabora a una riforma statutaria (E. Cortese, recensione dell'opera di Maffei, ora in Id., Scritti, II, Spoleto 1999, p. 258). L'acuta proposta di Maffei che si fosse trattato di un fedele di Federico costretto a migrazioni dopo il crollo del Regno svevo presuppone la presenza di Fazioli a Napoli ai tempi di Federico II. La notizia ch'egli sia stato allievo di Benedetto d'Isernia è fornita da un'additio di Giovanni d'Andrea allo Speculum (già F. C. von Savigny, Storia del diritto romano, p. 497). Non può appartenergli l'unica glossa alle Costituzioni edita sotto il suo nome nella raccolta del Grammatico (c. 104ra-vb), dato che essa cita giuristi settentrionali tre e quattrocenteschi e, tra i meridionali, il cinquecentesco commento di Matteo d'Afflitto. Per l'età di Manfredi, Trifone (Un 'doctor decretorum', 1966, p. 251 n. 3) suggerisce i nomi di due altri professori giuristi: un Giacomo de Vulture, lo stesso ch'egli vorrebbe al posto di Uberto di Bonaccorso già nella lettera federiciana di nomina di un V. a professore vercellese, è retrocesso da Meijers ai tempi di Corrado (1925, p. xxiii); il secondo sarebbe Guglielmo Nasone decretista che, con un audace volo della fantasia, Trifone vede nascondersi dietro la sigla N. di un diploma indirizzato da Manfredi a un decretorum doctor (Un 'doctor decretorum', 1966, pp. 252-256; il diploma è riprodotto in Monti, s.d. [ma 1924], doc. xvi, pp. 58 s.).
Per taluni professori l'unico indizio del loro insegnamento napoletano nell'età sveva è costituito dalle glosse di diritto romano reperite da Meijers, dai suoi allievi, da D'Amelio, da Bellomo, da Martino in manoscritti usati nel Mezzogiorno. Avendo però i libri circolato tra Nord e Sud, non sempre la provenienza meridionale delle singole testimonianze è sicura.
Accanto alla cultura teorica dello Studium si formò presto attorno alla Magna Curia ‒ come all'epoca di Carlo di Tocco si era formata attorno ai tribunali ‒ una valente scientia iudicum alla quale, nel 1231, la comparsa del Liber Constitutionum fu di stimolo.
Il G. glossatore del Liber parla con rispetto dei "iuris periti Magne Imperialis Curie" (Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Vat. Lat. 6770, c. 5rb, gl. Sed ego quero an defensa in rubr. de defensis imponendis et quis eas imponere possit; ivi, Reg. Lat. 1948, c. 10ra la gl. reca la sigla be.; talune stampe riportano il pezzo senza sigla, aggiungono tesi contrarie ma conservano il richiamo dell'imperialis curia [Sarayna, Cervoni, non Suganappo; v. Liber Constitutionum]; Capasso [1869, p. 69] assegna la glossa alla Const. Si quis in posterum). Dato che ai poteri giurisdizionali della Magna Curia si affiancavano mansioni politico-diplomatiche e consultive del sovrano, fu naturale che ne scaturisse la collaborazione all'attività legislativa dell'imperatore evocata da Andrea d'Isernia (che richiama le teorie sostenute "per antiquos qui interfuerunt compositioni constitutionum"; Capasso, 1869, p. 69). Della cerchia eletta facevano parte le massime personalità del Regno, prelati come l'arcivescovo Giacomo di Capua interpellato, con gran dispetto di Gregorio IX, sulle costituzioni relative alla Chiesa e al clero, o come Bartolomeo Pignatelli; tra i laici, Pier della Vigna in testa, dominavano i grandi giustizieri e gli alti giudici: Taddeo di Sessa, accomunato per l'abilità al grande Piero, Andrea Episcopo di Capua, padre del celebre Bartolomeo, avvocato e giudice della Magna Curia tra il 1242 e il 1257, di cui le stampe hanno tramandato una glossa alla Const. Accusatorem (ibid., pp. 96 s.), otto singularia e una noterella/quaestio de facto (su D. 2.8.5, ediz. in Glossa aurea […] Bartholomaei de Capua, Lugduni 1556, p. 432), infine Andrea di Bari, magister iustitiarius Magnae curiae almeno dal 1209, logoteta e protonotario dal 1210 e per più di un trentennio al seguito dell'imperatore. Di lui Santini (1987, pp. 344-346) propone l'identificazione con il Mambro di Bari che, secondo una notizia fornita da Niccolò Ruffolo (Iuris interpretes, 1925, p. 143), avrebbe risposto a una domanda dell'imperatore sull'irrazionalità di una legge dioclezianea (C. 9.16.6[7]): l'ipotesi della confusione tra Mambro e Andrea lascia però scettico Martino (1988, p. 58 n. 7). Sotto il nome di Andrea di Bari sono state segnalate glosse romanistiche che, se fossero sue, ne farebbero un professore nella Scuola, ma Meijers ritiene che la sigla vada letta Andreas de Bar〈ul>o, sembrandogli improbabile che un altissimo funzionario come il barese si fosse ridotto in età avanzata a coprire una cattedra nello Studium (Iuris interpretes, 1925, p. 151). L'ipotesi che l'avesse fatto non disturba invece Besta (1962, p. 455).
Esclusa dalla didattica dello Studium, l'interpretazione del Liber toccò agli alti magistrati; tra i due filoni scientifici quello extraccademico fu di gran lunga il più fecondo, fermo restando che, essendo professori e giudici egualmente funzionari del sovrano, il passaggio da un'attività all'altra era agevole e frequente. Delle due carriere, comunque, quella dei tribunali era la più importante e più prestigiosa.
Quanto ai primi interventi interpretativi sul Liber Augustalis, a prendere per buona la sigla b. o be. di un paio di glosse del ms. vaticano Reg. Lat. 1948, verrebbe da pensare al mitico 'fondatore' dello Studio Benedetto d'Isernia ‒ oltre che cattedratico soprattutto iudex magnae imperialis curiae ‒, ma la paternità delle glosse è incerta.
Nel ms. Reg. Lat. 1948 la lettera b posta alla fine di glosse non ha generalmente funzione di sigla, ma numera la glossa successiva (i pezzi essendo connotati alfabeticamente), fuorché in un paio di occasioni: una volta a c. 9rb (gl. extra Regnum in l. Homines, rubr. de intrantibus regnum: "simile supra de usuris, l. ii imperator. b."); un'altra volta a c. 10ra (gl. iuris gentium in l. Iurisgentium, de defensis, che però nel Vat. Lat. 6770, c. 5rb è la gl. Sed ego quero, e reca la sigla G.: "Sed ego quero an defensa possit imponi conditionaliter […] et in hoc omnes iuris periti imperialis curie conuenerant […] loquitur quando petebat a duobus et sic debebat. be.").
A ogni modo la costruzione dell'apparato 'vecchio' ‒ il cui miglior testimone è il ms. Vat. Lat. 6770 (il napoletano BN III-A-30 ne è una trascrizione tardosettecentesca) ‒ cominciò di buon'ora. Gli diede mano quel misterioso G. o Gui. la cui sigla è sopravvissuta qua e là anche nelle stampe, ma del quale si è persa incredibilmente ogni memoria. Sthamer (1926) senza approfondire e D'Amelio (1972) con buoni argomenti hanno pensato a Guido da Suzzara che fu professore a Napoli, ma in età angioina; Monti ha continuato invece a difendere la tesi di Capasso che G. fosse un autore di età sveva, e ne ha riproposto l'ipotetica individuazione in Guglielmo della Vigna, nipote di Piero, il grande segretario.
Due codici intermedi tra il vecchio apparato e il testo dato alle stampe (Valencia, Biblioteca de la Universitat, ms. 417 e Parigi, Bibliothèque Nationale, ms. Lat. 4624A) sostituiscono quasi sempre alla sigla G. il nome Guido (solo un paio di volte il parigino scioglie in Guillielmus); a Guido da Suzzara farebbe inoltre pensare il fatto che questi fu professore a Napoli tra il 1266 e il 1270 insieme con Andrea Bonello, il coautore dell'apparatus vetus (D'Amelio, 1972, pp. 30-40). Per di più il G. dell'apparato, pur senza evidenziare affinità stilistiche evidenti, ha il gusto del quaerere tipico di Guido, usa la Puritatem già interpolata (ibid., p. 38) e difende, in tema di legalità, le stesse idee dell'emiliano. Ma taluni elementi riportano inesorabilmente il misterioso G. agli anni federiciani: egli invoca la "magna imperialis curia" (Vat. Lat. 6770, c. 5rb; nel Reg. Lat. 1948, c. 10ra, come si è detto, la gl. è siglata be.) e celebra la giustizia o lo "ius novum domini imperatoris" mostrando una reverenza per la dignità imperiale del sovrano che all'epoca angioina sarebbe stata fuor di luogo. Per di più designa ripetutamente Azzone come proprio maestro, cosa che sarebbe difficile riferire a Guido da Suzzara; inoltre delinea la competenza dei giustizieri nei termini del codice di Melfi e non delle successive Costituzioni dello stesso Federico; infine, secondo Capasso (1869, pp. 67-70), una sua glossa siglata comparirebbe nei frammenti cassinesi che riproducono il Liber del 1231. Capasso non ha tentennamenti nello sciogliere il G. in Guglielmo e 'sospetta' trattarsi di "Guillelmus de Vinea" che fu anch'egli giudice della Magna Curia imperiale tra il 1239 e il 1246.
Che G. scrivesse ai tempi dell'imperatore è in effetti assai più che probabile, ma che si chiamasse proprio Guglielmo e fosse per di più un de Vinea è indimostrabile e, per prudenza, dev'essere lasciato nell'incerto. Di lui sappiamo che 'allegava' nella Curia (D'Amelio, 1972, p. 39); si aggiunga, inoltre, che il suo apparato al Liber Augustalis ha tutta l'aria di provenire da corsi extrauniversitari: lo suggeriscono alcuni particolari dello stile e gli innumerevoli richiami della summa Codicis di Azzone usata come manuale di riferimento; il piglio dell'insegnante, inoltre, emerge quando G. si rivolge al suo pubblico apostrofandolo con un "aperi oculos tuos et vide" (Vat. Lat. 6770, c. 35va) che appare significativo. Si può ricordare che, accanto a G., la vecchia storiografia ha inventato un misterioso giurista d'epoca sveva di nome Franchisio, citato una volta nell'apparato vecchio. Ma lo è solo in un'additio che verosimilmente risale ai tempi di Carlo I e allude a Francesco di Telese, allievo a Napoli di Guido da Suzzara nonché maestro e alto funzionario di quello stesso re.
Il ms. Vat. Lat. 6770, cc. 40vb-39vb contiene una gl. iure proprio in l. Constitutionem, de revocatione feudorum, la cui prima parte, accolta dalle stampe, termina con la citazione di un passo della Lombarda siglato K[arolus] e controsiglato G. Un'aggiunta posta di seguito espone il pensiero di Franchiscus (e non Franchisius come voleva Federico Ciccaglione e ripeteva Besta [1962, p. 450]). D'Amelio (1972, p. 40 n. 49) ha sensatamente proposto l'identificazione con Francesco di Telese, in cattedra dal 1275 e avvocato fiscale nel 1282.
Iniziato da G., l'apparato vecchio al Liber Augustalis fu completato da Andrea Bonello (v.) da Barletta, la cui produzione è stata a lungo collocata nell'età federiciana mentre oggi si tende a spostarla nella prima età angioina.
Luca da Penne pretende che Andrea Bonello abbia scritto il commento ai Tres Libri al tempo dell'imperatore (in l. Ordinis, C. de decretis decurionum [C. 10.47(46).2]: "Dominus An. de Barolo qui tempore Federici imperatoris hos libros exposuit"), sia stato avvocato fiscale già di Federico (in l. Qui immunitatem, C. de muneribus patrimoniorum [C. 10.42[41].3]: "et dicit An. se hoc diceret tanquam fisci patronum") e abbia addirittura partecipato alla curia capuana (v. Assise di Capua) del 1220 (in l. Qui fundos, C. de omni agro deserto [C. 11.59(58).9]: "Federicus celebrata curia capuana multa privilegia […] reuocauit de consilio ipsius domini An. de Bar. qui tunc erat fisci patronus"). La presenza alla curia capuana è parsa inammissibile persino a Capasso (1869, p. 70 n. 3) che per il resto crede a Luca: è probabile che questi, almeno nei due ultimi frammenti, abbia alluso ad Andrea di Bari e non di Barletta. Quanto alla data di redazione dell'apparato di Bonello, essa è successiva al suo commento ai Tres Libri (citato nella gl. relinquere alla Const.Hostici exceptione), ch'è a sua volta posteriore al 1266 perché allega i patti d'infeudazione del 1265 tra Carlo I e il papa (Iuris interpretes, 1925, p. 153 n. 2). È presumibile che Andrea abbia dato mano all'apparato al Liber Augustalis dopo il 1271, anno in cui lasciò la Scuola e fu nominato maestro razionale della regia Curia (G. Del Giudice, Codici diplomatici del regno di Carlo I e Carlo II d'Angiò, Napoli 1863, p. 259 n.); il dies ad quem è presumibilmente quello dell'apparizione dell'apparato nuovo di Marino (composto tra il 1278 e il 1285). La terza opera di Andrea si ispira alla tradizione romano-longobardistica di Carlo di Tocco, della quale testimonia la perdurante vitalità. Nell'editio princeps (che coincide con quella veneziana della glossa di Carlo, curata da Giambattista Nenna nel 1536) l'opera compare in calce come Andree de Barulo […] in leges Longobardorum […] commentaria, ma il titolo di Differentiae inter ius longobardorum et ius romanorum, con cui è prevalentemente nota, rispecchia meglio la dichiarata intenzione dell'autore di segnalare agli avvocati esperti di diritto romano i punti in cui le leggi longobarde gli derogavano, in modo da evitare loro brutte figure e la fastidiosa necessità di studiare quelle leggi. Andrea avrebbe insomma inaugurato nel Regno la breve stagione delle Differentiae destinata a chiudersi, intorno al 1330, con quelle di Biagio da Morcone. Difficile datare l'opera: nel proemio Bonello dice di voler sovvenire agli studentibus in iure civili che tuttavia non chiama socii, come farebbe un maestro riferendosi agli allievi; poco oltre narra l'aneddoto dell'avvocatello che, invocando l'applicazione del diritto longobardo, sconfigge in giudizio un grande romanista, e presenta l'episodio come reale dicendo di avervi assistito un giorno che si era trattenuto nel foro: il tutto fa pensare che fosse già magistrato ma avesse da poco lasciato l'insegnamento, ossia che scrivesse non molto dopo il 1271. L'opera ebbe il curioso destino di emigrare al Nord, di essere stampata una volta sotto il nome di Bartolo (a Venezia nel 1541), un'altra con additiones del ravennate Giulio Ferretti (a Venezia nel 1599). Nelle Differentiae è inglobata una longobardistica summa de successionibus ab intestato (edita con qualche variante anche da Donato Antonio de Marinis nel Seicento, al seguito delle sue Juris allegationes insignium juriconsultorum urbis regiae Neapolis, III, Venetiis 1758, p. 514), che compare per lo più a completamento di una parte romanistica (nelle Differentiae di Biagio da Morcone [De differentiis inter ius Longobardorum et ius Romanorum tractatus, a cura di G. Abignente, Napoli 1912, pp. 180-186] e in Iuris interpretes, 1925, pp. 155-162). La sola parte romanistica potrebbe essere di origine scolastica. Secondo il vecchio Origlia (Istoria dello Studio di Napoli, I, Napoli 1753 [Bologna 1973], p. 159), Bonello sarebbe stato annoverato tra i professori ancora nel 1291, secondo Volpicella (1872, pp. 17, 28-30) sarebbe invece morto pochi anni dopo il 1271.
Fonti e Bibl.: B. Capasso, Sulla storia esterna delle costituzioni del Regno di Sicilia, estr. da Atti dell'Accademia Pontaniana, IX, Napoli 1869; L. Volpicella, Della vita e delle opere di Andrea Bonello di Barletta, ivi 1872 (1980); G. Salvioli, Intorno all'opera di Biagio da Morcone, "Archivio Storico Napoletano", 40, 1915, pp. 374-385; G.M. Monti, Per la storia dell'Università di Napoli. Ricerche e documenti, Napoli s.d. [ma 1924]; Storia della Università di Napoli, scritta da F. Torraca et al., ivi 1924; Iuris interpretes saec. XIII, ivi 1925; E.M. Meijers, Introduzione, ibid., pp. xvii-xxxix (ora, con il titolo L'Università di Napoli, in Id., Études d'histoire du droit, III, Leyde 1959, pp. 149-166); E.H. Sthamer, Die vatikanischen Handschriften der Konstitutionen Friedrichs II. für das Königreich Sizilien, in Papsttum und Kaisertum. Forschungen zur politischen Geschichte und Geisteskultur des Mittelalters. Paul Kehr zum 65. Geburtstag dargebracht, a cura di A. Brackmann, München 1926, pp. 508-525; F. Brandileone, Frammenti di legislazione normanna (1886), in Id., Scritti di storia del diritto privato italiano editi dai discepoli, a cura di G. Ermini, I, Bologna 1931, pp. 61-75, ediz. 83-87; E. Besta, Il primo secolo della scuola giuridica napoletana (1926), in Id., Scritti di storia giuridica meridionale, Bari 1962, pp. 451-468; F. Brandileone, Il diritto romano nelle leggi normanne e sveve del Regno di Sicilia (1884), in Id., Scritti di storia giuridica dell'Italia meridionale, ivi 1970, pp. 317-341; F. Liotta, Una quaestio di Andrea Bonello sul feudo quaternato, Siena 1970; G. D'Amelio, Indagini sulla transazione nella dottrina intermedia, Milano 1972; Ead., Una falsa continuità: il tardo diritto longobardo nel Mezzogiorno, in Per Francesco Calasso. Studi degli allievi, Roma 1978, pp. 371-411; D. Maffei, Giuristi medievali e falsificazioni editoriali del primo Cinquecento, Frankfurt a.M. 1979; G. Arnaldi, Fondazione e rifondazioni dello Studio di Napoli in età sveva, in Università e società nei secoli XII-XVI, Pistoia 1982, pp. 81-105; F. Martino, Una 'ignota' lettura toscana di Benedetto d'Isernia, "Quaderni Catanesi di Studi Classici e Medievali", 7/14, 1985, pp. 433-453; H. Dilcher, Introduzione alla ristampa delle Constitutiones Regni Siciliae (editio princeps) a cura di S. Riessinger, in Il 'Liber Augustalis' di Federico II di Svevia nella storiografia, a cura di A.L. Trombetti Budriesi, Bologna 1987, pp. 123-143 (apparso precedentemente come Einführung, in Constitutiones Regni Siciliae 'Liber Augustalis', Neapel 1475, Glashütten-Taunus 1973, pp. 3-21); G. Santini, Giuristi collaboratori di Federico II, ibid., pp. 325-351; F. Martino, Federico II: il legislatore e gli interpreti, Milano 1988; C.E. Tavilla, Homo alterius: i rapporti di dipendenza personale nella dottrina del Duecento. Il trattato De hominiciis di Martino da Fano, Napoli 1993, pp. 198-200, 211-214; O. Zecchino, Le edizioni delle 'Constitutiones' di Federico II, Roma 1995; M. Bellomo, Federico II, lo 'Studium' a Napoli e il diritto comune nel Regnum (1991), in Id., Medioevo edito e inedito, I-III, ivi 1997: I, pp. 139-156; Id., Intorno a Roffredo Beneventano: professore a Roma? (1985), ibid., III, pp. 135-181; Id., La scienza del diritto al tempo di Federico II (1992), ibid., II, pp. 39-62; Id., Scuole giuridiche e università studentesche in Italia (1989), ibid., I, pp. 99-120; E. Cortese-G. D'Amelio, Prime testimonianze manoscritte dell'opera longobardistica di Carlo di Tocco (1974), in E. Cortese, Scritti, I, Spoleto 1999, pp. 297-320; A. Ricciardi, Ancora sul ms. Paris, B.N., Lat. 4546. Carlo di Tocco maestro di diritto romano nel Mezzogiorno?, in A Ennio Cortese, III, Roma 2001, pp. 141-144.