Scienza greco-romana. Architettura
Architettura
Le fonti dell’architettura greca e romana sono di tipo sia archeologico sia testuale; sebbene le evidenze archeologiche siano numerose, soprattutto per certi luoghi e periodi storici, tuttavia presentano delle gravi insufficienze. Degli edifici antichi costruiti in mattoni di fango e legno sono rimaste soltanto le fondamenta, mentre tutti gli altri hanno perduto i soffitti lignei e le murature in pietra. Disastri naturali e successive ricostruzioni hanno devastato intere città come Antiochia e Alessandria, per non parlare del furto dei rivestimenti protettivi in marmo e delle coperture di metallo che ha rovinato molti edifici romani in mattoni e calcestruzzo. Alcuni templi, tra cui il Partenone e il Pantheon, devono la loro sopravvivenza al fatto di essere stati trasformati nei secoli successivi in chiese cristiane, un processo che però ha imposto gravi costi agli edifici antichi. Tuttavia, gli storici possono ancora ricostruire lo sviluppo dei principali tipi di edifici e dell’antica urbanistica oppure congetturare sulla relazione tra teoria e pratica.
Le testimonianze scritte sono persino più incomplete. Molti architetti antichi hanno scritto trattati, ma soltanto due di essi sono giunti fino a noi: il De architectura di Vitruvio (pubblicato intorno al 22 a.C.) e il De aquaeductu urbis Romae di Frontino (97 d.C.). Tuttavia Vitruvio, fortemente influenzato dalla teoria e dalla pratica ellenistiche, nomina molti architetti suoi predecessori e occasionalmente ne riporta dei brani; il suo scritto in dieci libri, dedicato ad Augusto, contiene tutto ciò che egli sapeva sulle scienze a lui contemporanee applicate all’architettura e all’ingegneria. Vitruvio tratta esaurientemente l’architettura sia teorica che pratica: i materiali, l’urbanistica, i cinque ordini architettonici, gli edifici pubblici sacri e civili, le abitazioni private e l’architettura del paesaggio; gli affreschi, gli stucchi e gli altri ornamenti; gli acquedotti e gli impianti idrici; l’astrologia, l’astronomia e gli orologi solari; infine le scienze civili e militari, dagli organi idraulici alle macchine belliche. Frontino, invece, ha scritto i suoi due libri sugli acquedotti come manuali per i magistrati delle acque. Egli descrive gli acquedotti della sua epoca, ne elenca le caratteristiche tecniche, e spiega le leggi e le procedure che ne presiedono la costruzione, la manutenzione e l’uso.
Infine, sono rimaste iscrizioni che documentano la costruzione di molti templi greci e alcuni esempi di veri e propri capitolati d’appalto lasciati da architetti. Esistono anche alcune piante di marmo romane e stampi per mattoni, che aiutano a determinare la data di molti edifici imperiali.
L’architettura greca potrebbe essere considerata come una scultura astratta inserita in un paesaggio. Era una creazione della pólis, la città-stato indipendente, e del suo centro religioso, il santuario. Sorta nel VII sec. a.C., è divenuta presto un’arte relativamente conservativa, dedicata a rifinire e perfezionare un numero sempre crescente di tipi di edifici pubblici e in seguito anche privati. Molti di questi edifici erano in pietra, preferibilmente calcare (abbondante nelle zone abitate e colonizzate dai Greci) le cui imperfezioni erano ricoperte con uno strato di stucco. Gli edifici in marmo erano diffusi soltanto nelle vicinanze di grandi cave: ad Atene, Paro, Nassos e, in seguito, a Pergamo, Efeso e in altre città costiere dell’Asia Minore. Porte e tetti erano di legno e le tegole in genere erano di terracotta.
Gli ordini ionico e dorico hanno avuto origine nel VII-VI sec. a.C., stabilendo il sistema del pilastro e dell’architrave quale nucleo dell’architettura greca. Le loro origini sono oggetto di controversia; è comunque certo che hanno conservato qualcosa delle precedenti strutture in legno. Dalla loro nascita in poi, gli architetti hanno concentrato l’attenzione sulle relazioni sia strutturali sia proporzionali tra le colonne e gli architravi, giungendo perfino a determinare la sequenza della costruzione dal colonnato verso l’interno. I templi in pietra più antichi, nonché le tesorerie, gli altari, i propilei, i portici, le sale riunioni, gli acquedotti, i serbatoi e le mura cittadine in pietra risalgono al VI secolo. I primi teatri e i primi bagni pubblici compaiono nel secolo successivo, contemporaneamente a una pianificazione sistematica della città. L’ordine corinzio, una variante di quello ionico, nasce intorno al 400 a.C., anche se inizialmente è stato utilizzato soltanto per gli interni.
I ginnasi e le palestre risalgono al IV sec. a.C., quando i governanti e le aristocrazie delle regioni periferiche di Licia, Caria e Macedonia hanno iniziato ad affidare agli architetti greci la costruzione di tombe monumentali, di palazzi e di lussuose case private. Le monarchie ellenistiche, che sono venute dopo le conquiste di Alessandro Magno (356-323), hanno ampiamente incrementato la richiesta di questo genere di edifici, producendone di nuovi, come l’enorme faro dell’isolotto di Faro ad Alessandria e le biblioteche reali della stessa Alessandria e di Pergamo. Quello di Faro è uno dei tre edifici greci che sono stati inclusi tra le sette meraviglie del mondo; gli altri sono la tomba di Mausolo (il Mausoleo) ad Alicarnasso in Caria, che risale al IV sec., e il secondo tempio di Artemide a Efeso, leggermente successivo. Alessandria ha prodotto anche altre, autorevolissime, innovazioni: rielaborazioni degli ordini, come le facciate segmentate, le trabeazioni curve, i frontoni spezzati, le cornici a modiglioni e gli appartamenti a più piani.
I nomi degli architetti sono stati registrati per la prima volta nel VI sec., quando l’architettura ha cominciato a richiedere una competenza specializzata, e di questi ne sono rimasti oltre un centinaio. Sfortunatamente, non sempre è chiaro quali fossero le loro responsabilità, che certamente variavano a seconda del progetto e del periodo. Nei casi più estremi l’architetto poteva essere progettista, capomastro, ingegnere, imprenditore, sovrintendente ai lavori e caposquadra; erano richieste una certa sensibilità alla tradizione, una capacità concettuale e organizzativa, la conoscenza della geometria e della matematica, oltre alla comprensione delle tecniche di scavo, di lavorazione della pietra, di carpenteria, di ingegneria e di costruzione. L’originalità non era un fattore fondamentale, anche se si poteva manifestare nell’audace soluzione a problemi di carattere tradizionale, mescolando vari ordini o tipi di edifici oppure inventandone di completamente nuovi. Non esistevano associazioni professionali o religiose di architetti che corrispondessero, per esempio, a quella degli Artisti Dionisiaci (attori), né esisteva un sistema di tirocinio formale.
Gli architetti sono stati assunti su commissione fino al IV sec. a.C., quando in alcune città sono state costituite delle cariche permanenti. In generale i salari, almeno nei casi in cui sono stati registrati, erano bassi, dal che si può dedurre o che questo tipo di lavoro non fosse molto valutato, oppure che molti architetti fossero ricchi e desiderassero soltanto una ricompensa nominale. Quest’ultimo caso è possibile, poiché le classi dell’alta borghesia greca disprezzavano sia l’attività manuale e pratica, sia gli uomini che lavoravano a pagamento – «un tipo limitato di schiavitù» (Aristotele, Politica I, 13, 1260 b1-3). Inoltre le responsabilità e l’impegno intellettuale richiesti dall’architettura (superiori a quelli richiesti dalla scultura o dalla pittura) spiegano l’attrazione che essa esercitava sui membri della classe agiata, mentre i requisiti teorici indicano che molti architetti dovevano avere per lo meno una certa istruzione, e che perciò è possibile che appartenessero a una classe abbiente. I trattati scritti da Teodoro di Samo e da Chersifrone e Metagene di Creta sui grandi templi del VI sec. di Era a Samo e di Artemide a Efeso rientrano tra le prime opere greche in prosa. L’ateniese Filone, oltre a essere ricco e a poter vivere senza lavorare, era un retore preparato, poiché il discorso da lui tenuto all’Assemblea sul suo arsenale del Pireo (330 a.C. ca.) è stato, secondo l’opinione generale, un capolavoro di eloquenza. In base a questa particolareggiata descrizione dell’Arsenale data da Filone, unita ad altri testi, si può dedurre che gli architetti dei progetti basati su un finanziamento pubblico riferivano sempre a una commissione edile, che avrebbe autorizzato, finanziato, e seguito il loro lavoro. I progetti erano aperti alla competizione pubblica e comportavano capitolati d’appalto e disegni. Filone dà le misure della pianta del suo arsenale, gran parte del prospetto, e molti singoli dettagli, ma tace in maniera sconcertante su elementi d’importanza capitale come il fregio dorico e la distanza interna tra le colonne.
Di conseguenza è necessario estrapolare dalle misure degli edifici che restano ancora in vita, dalle tecniche progettuali e dalle sagome incise su alcuni di essi (in particolare, sull’antico tempio ellenistico di Apollo a Didime), nonché dalle iscrizioni e dall’opera di Vitruvio. A quanto pare, l’architetto si assumeva la responsabilità generale del progetto, disegnava la pianta di base secondo certe formule matematiche e geometriche relativamente semplici, stabiliva le proporzioni fondamentali del prospetto, e poi risolveva la maggior parte dei problemi di costruzione in maniera del tutto ad hoc. Normalmente evitava modelli in scala o disegni dettagliati, dal momento che non soltanto gli edifici erano per lo più sufficientemente stereotipati da consentirgli di fare a meno di tali aiuti, ma il loro margine di errore, una volta ingranditi di trenta o cinquanta volte, avrebbe superato di gran lunga il livello di tolleranza accettabile sia per sé stesso, che per i suoi tagliapietre e il suo pubblico. Le piante e i prospetti semplificati, con le dimensioni principali annotate in piedi e pollici, erano dunque considerati molto più efficienti; un’iscrizione ateniese specifica che questi disegni non dovevano superare un cubito (45 cm ca.) di larghezza. Per gli elementi che si ripetevano, come capitelli e modanature, l’architetto avrebbe potuto anche fornire alla squadra di operai campioni e sagome (paradeígmata) da copiare. Questa procedura aveva il duplice merito di superare la relativa grossolanità della notazione matematica greca, nonché la scomoda tecnica computazionale che essa comportava, e di legare insieme gli elementi principali dell’edificio in una serie di proporzioni razionali connesse l’una a l’altra. Come osserva Vitruvio (De architectura, VII, praef., 11), questa ricerca della perfetta symmetría o «commensurabilità delle parti» ha ispirato molti dei trattati scritti da architetti. Tra questi i più importanti sono: il testo di Teodoro sul suo tempio ionico di Era a Samo (550 a.C. ca.); quello di Chersifrone e Metagene sul loro tempio di Artemide a Efeso (530 a.C. ca.); quello di Ictino e Carpione sul Partenone (440 a.C. ca.); quello di Teodoro di Focea sulla sua thólos dorica di Delfi (380 a.C. ca.); quello di Satiro e Pitide sul Mausoleo d’Alicarnasso (360 a.C. ca.); quello di Pitide sul tempio ionico di Atena a Priene (340 a.C. ca.); quello di Filone sull’arsenale (330 a.C. ca.); e infine quello di Ermogene sui templi ionici di Artemide a Magnesia e di Dioniso a Teo (200 a.C. ca.).
Della symmetría si sono occupati anche gli scultori greci, tra i quali Policleto (attivo fra il 460 e il 420), Eufranore (395-325 ca.), e Senocrate (inizio III sec. a.C.). Questi testi trasmettevano le nozioni di base del mestiere, consentivano all’esecutore di prevedere l’aspetto finale dell’opera e infine facilitavano le correzioni permettendo di calcolare in anticipo le loro ripercussioni sull’intero sistema o piuttosto, su quelle parti previste dalla tradizione, tenuto conto del fatto che alcuni elementi rimanevano sempre al di fuori dei canoni. Due metodi usati per calcolare le piante dei templi dorici illustrano la relativa semplicità del sistema. I primi architetti ricavavano le dimensioni dello stilobate dal numero delle colonne, metodo che forniva un semplice rapporto tra la larghezza e la lunghezza della piattaforma (per es., 6:16), ma che sfortunatamente riduceva le distanze tra le colonne sui lati. Di conseguenza, alcuni architetti della fine del VI sec. hanno esteso arbitrariamente lo stilobate in modo che il suo rapporto fosse di 6:16,5 o perfino di 6:17. Presto però è emerso un altro sistema, basato su un intercolunnio uniforme. L’architetto prima sceglieva in termini di piedi la distanza interassiale standard e il numero delle colonne (per es., 6:16), poi progettava lo stilobate moltiplicando la distanza interassiale per il numero degli intercolunni frontali e laterali (qui, 5 e 15), quindi addizionava metà del diametro inferiore delle due colonne poste alle estremità. Il fatto che in questo modo lo stilobate perdesse le ben definite proporzioni era ignorato.
Il Partenone è l’unico tempio classico che è riuscito a conciliare questi due sistemi. I suoi architetti, Ictino e Carpione, hanno ottenuto questo risultato scegliendo la formula chiave x=2n+1 per il rapporto tra il diametro inferiore della colonna e l’interassiale, il numero delle colonne, e lo stilobate; il primo era 4:9, il secondo 8x17 e il terzo sempre di 4:9 (ottenuto spostando drasticamente le colonne d’angolo verso l’interno). Questa ‘contrazione dell’angolo’ risolveva in modo conveniente un altro problema: il cosiddetto conflitto dello spigolo. Su questo punto infatti venivano a scontrarsi due norme: (1) i triglifi devono essere posti al centro sopra le rispettive colonne, e (2) a ogni angolo il fregio dev’essere arrotondato da un triglifo. Le soluzioni possibili – le quali infrangevano la norma (1) – erano: (a) mantenere uniforme la distanza tra le colonne estendendo però le metope poste alle due estremità in modo che i rispettivi triglifi risultassero spostati in fuori fino a che l’ultimo veniva a toccare l’angolo; (b) mantenere il fregio uniforme ma ridurre gli intercolunni degli angoli, come nel Partenone; (c) mescolare (a) e (b). Sebbene il dorico postclassico si sia progressivamente sempre più basato su formule e moduli, gli architetti non sono mai riusciti a ridurre questo problema a una formula, tanto che Vitruvio (in questo conformandosi a Ermogene, fedele fautore dello ionico) lo cita come il difetto che vizia l’intero ordine.
Le altezze erano calcolate in maniera simile. L’architetto si concentrava sulle relazioni verticali tra pilastri e architrave, ossia tra il diametro inferiore della colonna, la sua altezza, e l’altezza della trabeazione. La variabile principale era la colonna, che si è andata assottigliando man mano che gli architetti hanno cercato forme più snelle e meno massicce. Così, l’altezza delle colonne doriche è aumentata, passando dai 4 diametri inferiori di alcuni templi dell’inizio del VI sec. ai 5,5 della fine del V sec., per arrivare agli oltre 7 diametri della Pergamo ellenistica. Di conseguenza sono state modificate sia la distanza tra le colonne sia l’altezza della trabeazione, in modo tale che tutto il sistema rimanesse coerente con una symmetría ben stabilita. Nel Partenone, gli architetti sono riusciti ancora una volta a conciliare tutti questi fattori in un rapporto tra altezza e larghezza della facciata di 4:9. Una tale coerenza era tuttavia molto rara. I cosiddetti perfezionamenti (ossia deviazioni ben calcolate dalla linea orizzontale e verticale) divennero presto normali e potevano raggiungere una grande complessità. Nel Partenone, l’intera piattaforma ha una leggera forma a cupola, che dà luogo a una corrispondente curvatura nella trabeazione. I principali elementi verticali sono tutti lievemente inclinati verso l’interno, e anche le colonne si assottigliano e curvano leggermente nel profilo (entasi). Queste deviazioni sono estremamente tenui, e alcuni elementi superiori le controbilanciano inclinandosi verso l’esterno. La massima convessità – nei lati lunghi dello stilobate – è minore di 10 cm, e le pendenze sono quasi infinitesimali: orizzontalmente, arrivano a 1 su 450 nella parte frontale dello stilobate, a 1 su 750 nei lati, e a 1 su 600 negli architravi. Verticalmente, l’inclinazione verso l’interno è di 1 su 250 nei gradini, di 1 su 150 nelle colonne, e di 1 su 80 nelle trabeazioni e nelle pareti della cella, mentre l’inclinazione verso l’esterno è di 1 su 100 nella cornice orizzontale, di 1 su 20 nelle antefisse, e di un sorprendente 1 su 140 (2 mm ca.) negli abachi dei capitelli delle ante. Sia Vitruvio sia gli altri autori forniscono delle giustificazioni contraddittorie per questi perfezionamenti. Anche gli studiosi moderni non sono concordi e discutono, per esempio, se, viste contro il cielo, siano le linee orizzontali a sembrare curve o quelle verticali a sembrare concave. Alcuni paragonano queste linee a muscoli flessi e allungati, che rendono la struttura apparentemente viva, come se reagisse ai carichi imposti su di essa. Quest’idea è concorde sia con la tendenza insita nei Greci ad antropomorfizzare, sia con la tesi di Vitruvio che gli architetti abbiano calcolato i rapporti tra colonna e architrave in primo luogo in base alle proporzioni del corpo umano.
È ancora oggetto di controversia il modo in cui questi perfezionamenti venissero pianificati. Ciononostante, le tracce incise sul tempio di Segesta del V sec. indicano che molte delle curve sono catenarie. Se questo fosse vero, ed esse fossero state realmente progettate tendendo un filo tra due chiodi, tutto potrebbe essere stato fatto col solo compasso. Dare, per esempio, la forma a cupola a una piattaforma, comporterebbe la posa in opera di un solco spianato orizzontalmente, o euthyntēría, sul quale è collocata la prima linea di gradini con le superfici superiori non rifilate in modo da consentire la curvatura; tracciare una linea orizzontale da un’estremità all’altra della linea dei gradini; allungare il filo tra le due estremità; usare un compasso per misurare gli intervalli che separano la linea dal filo che si curva in basso all’altezza delle giunture tra i blocchi; proiettare infine questi intervalli sopra la linea negli stessi punti. Duplicando la curva del filo come fosse un’immagine allo specchio, queste calibrature (forse gli scamilli impares di Vitruvio) stabilivano l’altezza di ogni angolo del blocco del gradino, e quindi l’inclinazione della sua superficie superiore. Qualora la piattaforma fosse stata troppo lunga per compiere una sola operazione, l’architetto avrebbe potuto tendere il filo su un quarto della superficie e poi moltiplicare per quattro.
I problemi di ingegneria scaturiti da tutto ciò sono stati formidabili. Si sono sviluppate tecniche specializzate per estrarre, trasportare, tagliare ed erigere le pietre, mentre antichi architetti greci come Teodoro andavano fieri delle loro ‘invenzioni’ di torni, fili a piombo, squadre a triangolo, gru e altri congegni. Il Partenone illustra la grandiosità dello sforzo, sebbene la maggior parte dei templi greci fosse più piccola e meno elaborata. Migliaia di tonnellate di marmo sono state selezionate ed estratte dal monte Pentelico, per poi essere trasportate lungo circa 15 km prima in discesa e poi di nuovo in salita sull’Acropoli. Molti blocchi rifiniti pesavano più di 5000 kg, e alcuni (per es. i capitelli e gli architravi) quasi 10.000 chilogrammi. Decine di migliaia di blocchi, dai 506 tamburi del colonnato esterno alle 8957 tegole di marmo del tetto, hanno dovuto essere tagliati, squadrati e rifiniti fino a raggiungere tolleranze talmente impalpabili da superare tutte quelle oggi in uso. Per esempio, le giunture della piattaforma sono così strette (<0,01 mm) che un microscopio con una capacità di ingrandimento di 60 volte non riesce a penetrarle, mentre le superfici che congiungono i tamburi delle colonne, più di 1000 in tutto, deviano dal piano meno di 0,05 mm e hanno perimetri che si discostano dall’orizzontale meno di 0,15 millimetri. Gli architetti miravano a far sembrare che ogni elemento più grande fosse come un monolito, sebbene poi mitigassero l’uniforme, accecante bianchezza del prodotto finale con un leggero puntinismo e, dove appropriato, con sfumature di colore.
Gli edifici di tipo specializzato hanno prodotto alcune innovazioni tecniche di considerevole importanza. Nei propilei di Mnesicle (438-432 ca.) ad Atene alcuni architravi erano talmente lunghi che avrebbero potuto spaccarsi sotto il peso delle sovrastrutture. Mnesicle, per le facciate doriche i cui intercolunni centrali erano più larghi del normale di un’unità metopa-triglifo, ha escogitato per il fregio un sistema di doppia trave a sbalzo, riuscendo non soltanto a mettere in equilibrio blocchi lunghi più del normale (composti ciascuno da tre triglifi e due metope) sopra le due colonne mediane, in modo che il loro peso non poggiasse sul tratto di architrave non sostenuto, ma anche a dimezzare lo spessore della parete del frontone. Nell’interno, gli architravi ionici dovevano sostenere le estremità dei massicci travi del soffitto in pietra non soltanto direttamente sopra le colonne ma anche nel centro degli intercolunni. Di conseguenza Mnesicle ha incassato delle sbarre di ferro nelle superfici superiori degli architravi, sostenendole soltanto alle estremità in modo da alleviare interamente il centro della campata del loro peso.
Questi stratagemmi dimostrano i limiti del sistema del pilastro e dell’architrave. L’alternativa consiste nell’arco e la volta, i quali però fino al periodo romano sono stati usati di rado sul terreno. Le volte a modiglioni compaiono nel V sec., mentre la vera volta risale alla fine del IV sec. quando è usata nelle monumentali tombe macedoni. Le campate, sostenute da cumuli di terra, superavano raramente 4 m, e si appoggiavano semplicemente sulle tradizionali facciate dorico- ionico delle tombe. La più grande di queste volte, alta 6,5 m, sovrasta l’anticamera della Tomba Grande di Lefkadia (300 a.C. ca.). Mentre risalgono al II sec., sia la più grande volta ellenistica in superficie, larga 7,35 m, che si trova a Pergamo, sia il primo archivolto ornamentale sulla porta della città di Priene, largo poco più di 6 metri. Sebbene tutte queste costruzioni suscitino una certa impressione, nessuna si avvicina alla campata di 24,5 m del Ponte Fabricio sul Tevere a Roma, costruito nel 62 a.C.
L’architettura romana è una sintesi creativa tra due diverse tradizioni, entrambe importate: l’etrusca e la greca. Nei secoli VI e V a.C., i Romani hanno adottato il tempio etrusco con il suo alto podio, il portico profondo, l’ordine toscano, nessun fregio, il tetto in aggetto, e acroteri a travi di colmo; inoltre, hanno ripreso la casa in stile ad atrio, oltre che trarre profitto dalla perizia etrusca nel progettare ponti, acquedotti, e fogne. Nel II sec. a.C., i Romani hanno cominciato a importare architetti greci e ad adattare i modelli degli edifici greci più importanti, mescolando alle varianti della pianta etrusca i prospetti dei templi dorici, ionici e corinzi, oppure modificando radicalmente il disegno dei teatri greci e delle loro terme. Tra i nuovi tipi di edifici, tipicamente romani, inventati in quest’epoca vi sono la basilica, il circo-anfiteatro, l’arco di trionfo e la villa.
Come materiali da costruzione, dal periodo dei re (753- 510) fino a quello medio repubblicano (202 a.C.), erano prevalentemente usate le tenere pietre vulcaniche locali, come il peperino e il tufo, oppure i mattoni di fango e il legno. Successivamente per le sovrastrutture, e in alcuni casi anche per le fondamenta, si sono cominciati a preferire nuovi materiali: il travertino (un calcare duro di Tivoli), il marmo bianco proveniente dalla Grecia, i mattoni cotti al forno e il calcestruzzo. Il marmo di Carrara è stato utilizzato per la prima volta sotto Augusto. Sempre Augusto ha inoltre cominciato a importare marmi colorati su larga scala, soprattutto per i decorativi rivestimenti esterni. Pietre durissime, come il porfido e il granito, compaiono nel corso del I e del II sec. d.C.
Rispetto ai loro predecessori greci, si sa assai poco degli architetti romani – a eccezione di Vitruvio, la cui carriera rimane però oscura e che non ha goduto di un successo professionale. A partire dal II sec. a.C., gli architetti erano solitamente degli schiavi greci, mentre dopo Augusto essi erano dei liberti imperiali. Tuttavia, molti dei più eminenti architetti dell’Impero erano romani ed è stato sempre un romano, Cossuzio, a progettare, già nel 170 a.C., il colossale tempio di Giove Olimpo donato dal re Antioco IV di Siria ad Atene. Come in Grecia, il termine ‘architetto’ includeva progettisti, imprenditori, ingegneri, e geometri. Sebbene in generale un certo grado di specializzazione fosse piuttosto diffuso, nei singoli casi questo può essere raramente assicurato. Alcuni, come Vitruvio, praticavano la professione in privato, mentre altri lavoravano per l’esercito o per l’amministrazione statale imperiale. Pochi erano intimi degli imperatori, come nel caso di Severo con Nerone o di Apollodoro di Damasco con Traiano, mentre uno era egli stesso imperatore: Adriano. Questi è stato uno dei costruttori romani più prolifici, tanto da organizzare la sua squadra architettonica su linee paramilitari e da risentirsi talmente per le critiche rivolte da Apollodoro ai suoi progetti da farlo uccidere (secondo le fonti).
Vitruvio consiglia all’architetto di imparare la geometria, la matematica, la misurazione topografica, la logistica, la contabilità, e la tecnica del disegno, che all’epoca comprendeva non soltanto piante e prospetti ma anche prospettive colorate «per dare un’impressione dell’opera che propone». Progetti in marmo e in mosaico dimostrano che i Romani si servivano di convenzioni architettoniche in uso ancora oggi: le pareti sono racchiuse tra due linee piene, le pareti di confine sono indicate chiaramente, le finestre sono due linee piene che non interrompono il muro, mentre le porte sono degli intervalli nei muri, e così via. Non ci è rimasta nessuna delle prospettive tracciate dagli architetti, ma gli affreschi ne riportano l’aspetto. Non conosciamo una prospettiva che sia assolutamente lineare (ossia con un unico punto di fuga), anche se vi sono alcuni dipinti in cui la maggior parte delle linee ortogonali si focalizzano verso un unico punto, mentre in altri convergono su una zona o su un asse di fuga posti al centro.
Una serie di strumenti da architetti, ritrovata a Napoli, comprende compassi a punte fisse, regoli pieghevoli lunghi un piede, compassi da tracciatore, pesi a piombo e infine delle sagome, o dei disegni in scala naturale, di alcuni particolari. Si tratta di strumenti tuttora in uso. Alcuni di questi disegni di particolari sono incisi sul tempio di Caracalla dedicato a Dioniso a Pergamo (216 d.C. ca.), come prima a Didime. Alcuni mosaici mostrano degli architetti all’opera, circondati da strumenti e intenti a sorvegliare gli operai. Frontino aveva due dozzine di specialisti tra i suoi dipendenti, compresi architetti, ingegneri, assistenti, segretari e impiegati, mentre tra i suoi lavoratori si trovavano anche misuratori, livellatori, esperti in tubature, addetti ai serbatoi, ispettori e quanti si occupavano di riparare le strade.
Gli architetti hanno continuato a usare il sistema del pilastro e dell’architrave, soprattutto in Oriente, dove i Greci mantenevano una posizione di preminenza nella professione. Tuttavia sia i Greci che i Romani si servivano anche di innovazioni ellenistiche quali il sistema modulare e le forme esuberanti del ‘barocco’ alessandrino, mentre per le facciate spesso preferivano l’ordine corinzio. Nel I sec. d.C. è stato inventato l’ordine composito, un misto di ionico e corinzio, divenuto in seguito uno degli ordini prediletti dal Rinascimento. La vera rivoluzione è avvenuta però nella progettazione degli interni, causata dalla generale accettazione del calcestruzzo. Quest’ultimo alla fine del I sec. d.C. ha cominciato ad avere una crescente importanza anche per gli esterni e per la fine del II sec. aveva già iniziato a relegare gli ordini a un ruolo prevalentemente decorativo, applicato soltanto in alcuni edifici.
Nel corso del III sec. a.C., gli architetti romani avevano sviluppato un versatile aggregato di calce viva, sabbia e pietrisco (opus caementicium) che consentiva di costruire forti muri di pietrisco, intonacati con la malta. Una versione perfezionata ottenuta usando pietre irregolari ma dalle superfici lisce (opus incertum) è stata utilizzata già nel 204 a.C. nel tempio della Magna Mater al Palatino. Nel corso del I sec. a.C. questa ha ceduto il passo a pietre le cui superfici erano squadrate a forma di piramide e poi disposte regolarmente a diamante (opus reticulatum), a loro volta soppiantate da un rivestimento di mattoni a strati (opus testaceum) nel corso del I sec. d.C. Quando gli architetti augustei hanno scoperto che, sostituendo la sabbia con polvere vulcanica o pozzolana di Pozzuoli, l’aggregato riusciva a indurirsi in condizioni di umidità e perfino sott’acqua, il calcestruzzo è subito entrato a far parte dei materiali da costruzione maggiormente usati. Nonostante ciò, gli architetti romani spesso preferivano coprire tutte le parti esterne – escluse quelle puramente funzionali – con un ulteriore strato di rivestimento di marmo (sia bianco che colorato) e quelle interne con marmo, affreschi e mosaici.
La buona disposizione dei Romani nei confronti del calcestruzzo era in pieno accordo con la loro mancanza di pregiudizi verso le forme curve dell’arco o dei suoi derivati, ossia la volta e la cupola. Nel II-I sec. a.C., gli architetti repubblicani hanno compiuto esperimenti in cui mescolavano calcestruzzo e forme curve: per esempio, i portici del santuario della Fortuna a Preneste (Palestrina), costruiti in opus incertum rivestito di stucco, mettono in evidenza le volte a botte degli emicicli sostenuti da colonnati ionici in marmo, mentre il grandioso portico del tempio di Jupiter Anxur a Terracina poggia interamente su massicce volte a botte di opus incertum, attraversate da archi che creano un effetto aereo, traforato. Il Tabularium, collocato sulla collina del Campidoglio a Roma, all’interno ha una volta a botte di calcestruzzo, mentre l’imponente facciata di tufo è composta da archi incorniciati da trabeazioni e mezze colonne incassate. Questo tipo di facciata ibrida, chiamata ‘fornice’, è divenuta presto enormemente popolare, rimanendo tale fino ai tempi nostri.
Augusto, uomo di gusti classici, preferiva il marmo e il sistema del pilastro e dell’architrave, utilizzando il calcestruzzo soltanto dietro le quinte. Il suo vanto di aver trovato Roma una città di mattoni e di averla lasciata una città di marmo è tutt’altro che esagerato. I suoi più audaci successori hanno inaugurato la rivoluzione architettonica romana.
Il principale innovatore è stato Nerone, che dopo il grande incendio di Roma del 64 d.C. affidò a Severo e a Celere la costruzione della sua Domus Aurea in un parco espropriato alle rovine fumanti della città. Oggi resta soltanto l’ala dell’Esquilino, sepolta sotto le Terme di Traiano – anch’esse ormai un parco. La Domus Aurea, fronteggiata da un portico a colonne di marmo tradizionale, è stata costruita in opus testaceum ricoperto da un rivestimento di affreschi, mosaici e marmi; vi abbondano le volte a botte, le mezze cupole, e gli archi; vi è una stanza ottagonale, di 12 metri di diametro, che come soffitto ha una cupola di calcestruzzo in cui si apre un lucernario circolare (oculus) che poggia su otto strutture murarie di opus testaceum, a loro volta aperte su una serie di stanze rettangolari. Queste stanze, illuminate da lucernari nascosti dietro gli estradossi della cupola, conferiscono all’insieme un senso di spazio e di luce, che era stato ulteriormente ravvivato da affreschi e mosaici, ormai scomparsi.
È in questo periodo che la progettazione di interni diventa uno dei punti di maggior interesse per gli architetti romani, tanto che le due generazioni seguenti hanno lasciato come testimonianza una serie di edifici rimasti, per la loro audacia innovativa, potenzialmente ineguagliabili fino ai tempi moderni. Tra essi sono le Terme di Tito (75-80 ca.); il palazzo del Palatino di Domiziano (90-96); le terme e i mercati di Traiano (100-110 ca.); il Pantheon di Adriano (118-128); la villa di Adriano a Tivoli (118-137).
Adam 1995: Adam, Jan Pierre, La construction romaine: matériaux et techniques, Paris, A. et Picard, 1995.
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