Scienza greco-romana. Armonica
Armonica
Dallo studio delle fonti greche si evince che i fenomeni musicali iniziarono a essere considerati secondo un approccio che possiamo definire 'scientifico' almeno a partire dal V sec. a.C., e che nel IV sec. gli studi su questo argomento avevano già raggiunto un notevole sviluppo teorico. Per quel che riguarda i successivi trecento anni, abbiamo scarse testimonianze di lavori importanti in questo settore, mentre ci è rimasto un considerevole numero di trattati che risalgono al periodo dell'Impero Romano. Tuttavia, la maggior parte di questi lavori più recenti risulta essere di seconda mano, non si rivela originale, né contribuisce a far progredire sostanzialmente la materia oltre il livello già raggiunto nelle opere del V e IV secolo. In questa sede concentreremo quindi l'attenzione sul periodo più antico, mentre per l'età successiva esamineremo l'unico trattato di importanza scientifica essenziale che possediamo, per poi esporre nelle linee fondamentali lo sviluppo della scienza armonica fino alla fine dell'Antichità classica.
Secondo Aristosseno di Taranto ‒ filosofo attivo nella seconda metà del IV sec. a.C. ‒ la melodia musicale presenta, nella sua struttura, una conformazione straordinariamente regolare che non trova eguali in nessuno altro oggetto di percezione sensoriale. Quando la voce che canta dispone in sequenza le note e gli intervalli "mantiene la forma della combinazione che a essa è naturale, non cantando semplicemente un intervallo qualsiasi dopo l'altro" e si "muove di un movimento appropriato alla sua natura, non disponendo gli intervalli a caso". Ogni strumento musicale "condivide, per quanto gli è possibile, la stupefacente regolarità che caratterizza la natura dell'armonia". Queste asserzioni compaiono negli Elementa harmonica, scritti da Aristosseno alla fine del IV sec. a.C., quando forse già da cento anni erano in corso studi importanti sulla scienza armonica. Aristosseno esprimeva idee fortemente personali, e perciò le sue parole non si possono considerare esattamente come un'espressione tipica del pensiero greco; tuttavia, da queste sue osservazioni si possono dedurre le caratteristiche generali e le finalità di questa scienza così poco conosciuta.
In ambito teorico, i Greci suddividevano l'insieme dei fenomeni musicali in diversi settori; Platone, nella Repubblica, propone infatti una suddivisione in parole, melodia e ritmo, che sarà spesso ripresa e talvolta ampliata. Occorre notare che la parola 'armonia' non compare mai in tali classificazioni nel suo significato moderno, poiché questo era sconosciuto nell'Antichità; l'armonica non è quindi lo studio dell'armonia, e non s'interessa alla musica nella sua globalità: suo oggetto d'indagine è la melodia. Ma che cos'è una melodia? Alcune sequenze di suoni intonati formano melodie o parti di esse, mentre altre no; qual è la differenza? L'armonica si proponeva di rispondere a queste domande. Gli scienziati armonici greci non si curavano molto della forma delle frasi melodiche o del profilo complessivo di un 'motivo gradevole', poiché al centro dei loro interessi stava ciò che Aristosseno chiama la natura dell'armonia (letteralmente, 'l'armonizzato', tò hērmosménon). Le strutture che stanno alla base della melodia ‒ ovvero le armonie, o schemi di note e di intervalli che forniscono le risorse mediante le quali è possibile costruire un numero qualsivoglia di melodie ‒ sono caratterizzate dalla regolarità. Potremmo pensare che esse siano l'equivalente di ciò che chiamiamo scale (termine approssimativamente corrispondente al greco systḗmata) e in alcuni casi questa concezione si rivela abbastanza corretta, ma spesso può trarre in errore, poiché queste strutture non sono sempre concepite come sequenze lineari, nel modo suggerito dalla parola scala. Per avere un'idea più chiara, si può pensare alla preparazione di uno strumento per l'esecuzione di una melodia: accordando le corde di una lira, per esempio, o scegliendo un flauto i cui fori per le dita siano perforati in un certo modo, si rende disponibile un assetto di note e di intervalli; queste disposizioni realizzate sugli strumenti musicali portano in sé concretamente le 'armonie'.
Il concetto di armonia
Il progetto centrale dell'armonica greca era quello di identificare e analizzare quegli schemi di armonia che presentano, in varie forme, la 'regolarità' che soggiace a tutte le melodie autenticamente musicali e di distinguerli dalle disposizioni di note e intervalli armonizzate male e prive di musicalità; nei vari tentativi di realizzare questo progetto, venne alla luce un gran numero di problemi e difficoltà. Un modello di armonia dell'ampiezza di un'ottava, per esempio, potrebbe essere analizzato come una combinazione di strutture più piccole. È legittimo modificare queste strutture o sostituirle con altre? Oppure combinarle di nuovo in modi differenti? E, in caso affermativo, cosa distingue una combinazione musicale da una priva di musicalità? Inoltre, nei vari stili musicali, tutti profondamente radicati nella pratica culturale greca, si utilizzavano intervalli di ampiezza differente e si ordinavano le parti che li componevano in molti modi diversi. Nessun singolo schema 'ideale' di armonia avrebbe potuto comprendere in sé i principî di tutte le melodie musicali; ciononostante, se ciascuna di esse si fonda su strutture che condividono la particolare regolarità connaturata al mélos, come si può spiegare questa regolarità? Quali sono i principî generali comuni a tutte le armonie musicali che, per quanto vari, possano distinguere queste ultime da ogni fenomeno non musicale? Vi sono relazioni intelligibili tra una forma e l'altra di armonia? È possibile che nell'ambito di composizioni complesse siano usati in sequenza diversi schemi di armonia; si può distinguere tra modi musicali e non musicali di formare tali sequenze, svelando le leggi che regolano la pratica della modulazione melodica (metabolḗ)?
La melodia musicale ha una regolarità insita nella sua natura (phýsis): quando la voce canta una sequenza lineare di note, ovvero una scala musicale, si muove attraverso uno schema di intervalli che dal punto di vista musicale è naturale (physikós) e che non è quindi né arbitrario né casuale. Aristosseno non utilizza dunque incidentalmente la parola phýsis, ma la carica di importanza e di enfasi. Quando sottolinea che la melodia e l'armonia hanno una propria natura, egli attinge intenzionalmente alla concezione scientifica di Aristotele e fa riferimento alla nozione aristotelica degli enti che esistono secondo natura. Tre aspetti di questa concezione assumono in questo contesto una particolare rilevanza. In primo luogo, asserire che un certo ente possiede una natura o esiste secondo natura equivale a dire che è determinato, che esso può essere in linea di principio oggetto di indagine scientifica e che se ne può dare una definizione; comporta inoltre che le distinzioni tra esso e le altre cose siano reali in senso oggettivo, siano presenti nell'ordine della Natura e non siano semplicemente prodotte dalle decisioni, dal gusto, dalla tradizione o dalla fantasia dell'uomo; implica infine che il comportamento di questo ente sia regolare e gli sia proprio intrinsecamente, ossia sorga dal suo essere, dalla sua natura e non dipenda quindi da costrizioni accidentali o esterne.
Avvalendosi di idee tipicamente aristoteliche per formare la base della sua teoria armonica, Aristosseno affrontava questi temi in modo nuovo; in un senso più generale, però, le sue ipotesi erano comuni a tutti gli scienziati armonici greci, i quali nel tentativo di distinguere chiaramente tra ciò che è musicale e ciò che non lo è, di enumerare in modo esaustivo le armonie e di scoprire i principî su cui si fonda il loro comune carattere musicale, presupponevano comunque che la distinzione tra i fenomeni musicali e non musicali avesse realtà oggettiva e non dipendesse dalle preferenze culturali dell'uomo. Così alcuni scrittori, in particolare Platone e i suoi seguaci, tendevano a negare che la 'cattiva' musica (per es., sentimentale o lasciva) fosse 'vera' musica, se non forse in un senso sminuito, distorto o degenerato; e bollavano chiunque la preferisse a quella 'vera' come persona non musicale, insensibile e incapace di comprendere la differenza tra genuino e contraffatto. È significativo che, in maniera corrispondente, questi scrittori usassero chiamare 'scopritori' piuttosto che 'inventori' quei musicisti innovatori le cui composizioni erano giudicate nobili e ammirevoli. Grazie all'acume della percezione e dell'intelligenza e grazie all'abilità tecnica di cui erano dotati, questi compositori potevano portare alla luce aspetti sconosciuti di ciò che la musica è veramente.
Nel pensiero greco arcaico la musica era considerata divina e si credeva che giungesse agli uomini per ispirazione degli dèi. Come in molte altre sfere dell'esperienza, gli eventi, in principio ritenuti manifestazioni dell'attività divina, furono poi concepiti come aspetti della Natura da comprendere scientificamente, così anche la musica divenne un centro di interesse per l'indagine scientifica. Essa fu vista come un fenomeno da considerare in maniera oggettiva e da esaminare empiricamente e concettualmente, alla stregua di tutti gli altri.
La scuola pitagorica
Non restano molte testimonianze di pratiche o teorie che risalgano con certezza a un periodo anteriore al IV secolo a.C. Un passaggio della Repubblica di Platone testimonia che nella scienza armonica coesistevano due approcci notevolmente differenti fin dalle primissime fasi del suo sviluppo, e che all'inizio del IV sec., se non prima, essi erano considerati radicalmente diversi. Tutti i successivi studi greci nel campo dell'armonica possono poi essere ricondotti (con le debite distinzioni) a una delle due tradizioni scientifiche che si svilupparono dalle scuole di pensiero menzionate da Platone; possiamo perciò assumere le sue osservazioni come un valido punto di partenza. Nel dialogo platonico, Socrate così argomenta con Glaucone: "non sai che anche l'armonia oggi non è studiata meglio? Ché misurando e ponendo fra di loro in relazione gli accordi e i suoni percepiti dall'orecchio, si fa, come gli astronomi, una fatica che non viene a capo di nulla. Sì, per gli dèi! ‒ esclamò ‒ e ridicola anche: essi parlando di non so quali mai sfumature, e tendendo l'orecchio come se cercassero di cogliere le voci del vicinato, gli uni affermano che fra due suoni ne sentono ancora un altro intermedio che è, appunto, l'intervallo più piccolo e che deve servire da misura; gli altri sostengono invece che uguale ai precedenti è quel suono mediano; solamente che tanto i primi quanto i secondi dànno più valore all'orecchio che non all'intelletto. Tu parli ‒ dissi ‒ di quella brava gente che tormenta le corde e, torturandole, prova e riprova tirandole sui piroli. Ma per non farla troppo lunga con la stessa immagine, parlando dei colpi di plettro che i musici dànno alle corde e delle accuse che lanciano alle corde, non soltanto, ma dei rifiuti e delle proteste delle corde stesse, lascio andare quest'immagine e dico che non voglio parlare affatto di quei musici, ma di coloro [i pitagorici] che sopra dicevamo avremmo interrogati sull'armonia, ché essi si comportano come gli astronomi: proprio perché vanno cercando il numero in quegli accordi che colpiscono l'orecchio, ma non risalgono a quella che è la vera problematica dell'armonia e che consiste nell'esaminare quali siano i numeri sinfonici e quali no, perché gli uni sì e perché non gli altri" (Platone, Respublica, 531 a-c).
I teorici che Socrate si propone di criticare, quelli che paragona agli astronomi all'inizio e alla fine del brano, erano identificati poco prima nel testo come pitagorici. Le persone che Glaucone descrive con ironia, e Socrate con pesante sarcasmo all'inizio della risposta, non sono evidentemente le stesse; infatti, Socrate dice esplicitamente che non erano questi coloro ai quali si riferiva. Platone tenta in ogni modo di dipingere le loro attività come banali e assurde, ma si deve tenere presente che il giudizio potrebbe essere stato dettato dagli intenti specifici di questa parte della Repubblica, piuttosto che da fatti storici.
Sia il paragone con l'astronomia che i riferimenti di Socrate agli "accordi che si odono" mirano a sottolineare che l'attenzione di questi pitagorici era focalizzata sugli oggetti della percezione sensoriale e non sulle astrazioni della matematica pura, o quantomeno non esclusivamente su di esse. Nondimeno essi si occupavano di numeri e misuravano le note le une in rapporto alle altre, in un chiaro tentativo di esprimere le relazioni tra di esse in termini quantitativi. Più specificamente, il passaggio suggerisce che questo tentativo era messo in pratica assegnando una misura quantitativa a ciascuna delle note che delimitano un intervallo musicale qualsiasi, in modo che la relazione tra le loro altezze potesse essere rappresentata come una relazione tra numeri, i "numeri che esprimono questi accordi che si sentono".
Il fondamento di questo metodo di esprimere le relazioni tra altezze può essere rintracciato in una serie di scoperte che molte fonti attribuiscono allo stesso Pitagora e che comunque fecero il loro ingresso sulla scena intellettuale greca nel circolo dei pitagorici, alla fine del VI secolo. Le esponiamo di seguito nel modo più semplice. Se una corda tesa su un supporto è pizzicata, essa produce una nota. Inserendo un ponte sotto la corda in modo da dividerla in due parti uguali e pizzicando la corda dimezzata, la nota che si ottiene è esattamente un'ottava più alta di quella di partenza. Se si sposta il ponte all'altezza dei due terzi della corda e si pizzica la parte più lunga, si ottiene la quinta giusta superiore rispetto alla prima nota. Infine, collocando il ponte a tre quarti della corda, l'intervallo tra l'altezza ottenuta pizzicandone la parte più lunga e la nota originaria è di una quarta giusta. Questi risultati non dipendono dalla lunghezza assoluta della corda, dal suo spessore e dal suo grado di tensione, purché essi rimangano costanti nel corso di tutto l'esperimento. È possibile ottenere risultati analoghi facendo vibrare altri strumenti, per esempio flauti di differente lunghezza, dischi di metallo di diverso spessore e così via.
I pitagorici trassero da queste osservazioni tre importanti conclusioni, la prima delle quali sembra averli colpiti con la forza di una rivelazione. Gli intervalli di ottava, quinta e quarta rivestivano un'importanza fondamentale in tutte le strutture musicali greche e possedevano inoltre una proprietà acustica particolare, cui davano il nome di symphōnía (concordanza), che i Greci non percepivano in nessun altro intervallo minore dell'ottava. Essi dicevano che due note che sono in un accordo reciproco, quando sono suonate simultaneamente si fondono in modo tale da rendere impossibile una loro percezione separata, in quanto le loro caratteristiche differenti si fondono in un'unità armoniosa. Le osservazioni dei pitagorici mostravano che queste relazioni acustiche, fondamentali per la musica e perfettamente coerenti fra loro, corrispondono in modo esatto ai rapporti più semplici fra numeri interi, ovvero 2:1 all'ottava, 3:2 alla quinta e 4:3 alla quarta. Questi tre rapporti sono formati dai numeri della 'tetraktýs della decade', ovvero da 1, 2, 3, 4, la cui somma fa 10, numero di primaria importanza. La constatazione di questi fatti fece pensare che relazioni numeriche siffatte fossero alla base di ogni forma esistente di unità armoniosa e di ordine positivo, sia in un corpo sano che in un'anima virtuosa, e persino nei movimenti delle stelle e dei pianeti. Queste scoperte ispirarono molte speculazioni metafisiche e numerologiche, nonché alcune ricerche matematiche assai fruttuose. Esse suggerirono inoltre che le relazioni fra suoni intonati hanno una buona forma musicale soltanto fintantoché si conformano a certi principî della matematica e che sono l'espressione sonora di relazioni in qualche senso privilegiate e significative dal punto di vista matematico. In questo modo la ricerca dei principî che regolano le strutture musicali si tramutò in un'indagine sulle relazioni matematicamente ben ordinate fra numeri.
In secondo luogo, visto che i risultati restavano immutati per ogni tipo di corda, indipendentemente dalle sue dimensioni e dalla sua intonazione assoluta, tutti gli intervalli musicali potevano essere identificati in maniera coerente e precisa riferendoli ai rapporti corrispondenti. Per mezzo del linguaggio dei rapporti era possibile quindi definire qualsiasi intervallo con esattezza scientifica; inoltre i processi matematici mediante i quali i rapporti potevano essere manipolati, una volta compresi, potevano essere usati per rappresentare con precisione i modi in cui si dividono e si combinano gli intervalli musicali.
Infine, il fatto che gli stessi risultati potessero essere ottenuti per mezzo di canne, dischi, o altri corpi vibranti, al posto delle corde, offrì un solido fondamento all'idea che i rapporti siano in un certo senso rapporti fra le stesse altezze dei suoni e che caratterizzino gli intervalli indipendentemente dalle sorgenti che producono i suoni. Le altezze delle note che distano un'ottava 'stanno' nel rapporto 2:1 e non sono meramente generate da corpi le cui dimensioni rilevanti stanno in quel rapporto. L'altezza è quindi un attributo quantitativo e le relazioni fra altezze sono rapporti fra quantità.
I teorici del IV sec. diedero varie interpretazioni di quest'idea nel contesto della fisica del suono. Essi asserivano che i suoni sono movimenti trasmessi a partire da un impatto iniziale attraverso un mezzo, solitamente l'aria. L'altezza di un suono dipende perciò dalla forza o dalla velocità del movimento (o, secondo un punto di vista alternativo, dalla rapidità con cui si susseguono gli impatti distinti prodotti sull'aria da una sorgente di vibrazioni) e i rapporti che caratterizzano gli intervalli sono rapporti fra i valori della variabile che determina l'altezza delle note. Archita di Taranto, matematico del IV sec., fu l'iniziatore di questo tipo di teorie, che furono poi elaborate da Platone, da Aristotele e da molti altri. Il successore di Aristotele, Teofrasto, le criticò aspramente, e tuttavia durante tutto il resto dell'Antichità esse furono diffusamente accettate e furono regolarmente usate per spiegare come i rapporti fra numeri possano esprimere la vera natura degli intervalli musicali.
Sulla base di questo complesso di idee si sviluppò una scienza armonica che cercava di identificare tutti i rapporti e gli schemi di rapporti presenti nelle armonie musicali e di scoprire i principî matematici che i rapporti e i sistemi di rapporti di una buona composizione musicale manifestano. Non vi è però traccia di indagini di questo tipo anteriori agli scritti di Filolao di Crotone, che risalgono alla fine del V sec., e alle notevoli ricerche di Archita, dell'inizio del IV.
L'indirizzo empirico
Platone si preoccupa di dipingere l'altro gruppo di teorici dell'armonica menzionati nella Repubblica come empirici della peggiore specie. Occorre però osservare che, come nel caso dei pitagorici, il loro progetto comportava la 'misurazione' e la quantificazione degli intervalli; nella Repubblica si dice infatti che, ascoltando, essi cercavano un principio che rendesse possibile la misurazione. Nel contesto greco una ricerca di questo tipo richiedeva una serie di innovazioni linguistiche e concettuali, poiché il linguaggio che i Greci usavano nella pratica e nella critica musicale non forniva un buon punto d'appoggio per descrivere in modo quantitativamente esatto le relazioni fra note. Gli unici espedienti utili a questo scopo erano quelli ideati dai pitagorici, che gli studiosi aderenti a questo secondo punto di vista, però, respingevano. Nel greco comune dell'epoca, si usava l'aggettivo oxýs (acuto, affilato) per indicare i suoni che noi chiamiamo 'acuti' o 'alti', e barýs (pesante) per quelli 'gravi' o 'bassi', e non c'era modo di misurare l''acutezza' di una nota o di rapportarla alla 'pesantezza' di un'altra. Inoltre i raffronti quantitativi fra una relazione di altezza e un'altra (per es. fra una quarta giusta e una quinta giusta) non trovavano spazio negli schemi linguistici esistenti. I termini che si usavano per esprimere le relazioni fra altezze indicavano il numero di corde che un esecutore doveva attraversare su una lira per suonare le note richieste e non si riferivano a nessuna proprietà uditiva delle relazioni stesse. Essi erano dià tessárōn "attraverso quattro (corde)" e dià pénte "attraverso cinque", mentre l'ottava era chiamata dià pasõn, "attraverso tutte"; si usavano anche altre locuzioni, ma non erano più vantaggiose a tal fine. La parola corrispondente al nostro termine cruciale "intervallo", diástēma, comparve per la prima volta soltanto alla fine del V sec., e non fu usata in contesti musicali prima di Archita e Platone, ovvero prima del IV secolo.
Dalla descrizione di Platone risulta evidente che questi teorici affrontavano il problema della quantificazione in maniera completamente differente dai pitagorici: essi tentavano di identificare infatti "il minimo intervallo con cui si deve misurare", ovvero cercavano un'unità di misura. E una siffatta nozione non trova posto nell'armonica dei pitagorici; essa appartiene piuttosto a un modo di pensare che Aristosseno attribuisce ad alcuni suoi predecessori. L'altezza è rappresentata come un continuo lineare, in una dimensione analoga allo spazio geometrico. Le note sono concepite come punti su questa linea e gli intervalli come distanze fra questi punti. Aristosseno riferisce che questi teorici esponevano le loro analisi delle armonie per mezzo di grafici, i quali avevano la forma di linee rette divise in intervalli, corrispondenti ciascuno a un quarto di tono (díesis). Si dice che l'eminente musicista Stratonico utilizzò per primo questi diagrammi all'inizio del IV sec. per insegnare la teoria armonica. Su di essi era possibile confrontare immediatamente fra loro le ampiezze degli intervalli e gli schemi di intervalli composti dalle note dei vari tipi di armonia.
Anche dagli scritti di Aristotele si evince che a quel tempo il díesis di un quarto di tono era stato scelto come l'unità di misura cui allude Platone. Anche se questa procedura può sembrare semplice e priva di problemi, non bisogna sottovalutarne l'importanza. Si è già rilevato come essa comportasse un mutamento radicale nel modo di pensare le relazioni fra altezze, e alcune storie dipingono in maniera efficace le difficoltà che la nuova concezione pose alle menti greche, anche nei secoli successivi: Porfirio, per esempio, racconta le ridicole sciocchezze che dicevano gli insegnanti di armonica, tentando di spiegare la teoria di Aristosseno ai loro allievi. Il nuovo modo di descrivere le relazioni fra altezze non sostituiva una rappresentazione metaforica con una raffigurazione perfettamente aderente alla realtà, ma era piuttosto una nuova metafora; infatti, le altezze non sono alla lettera situate in una dimensione spaziale e le note non sono punti su una linea. Inoltre, la nuova metafora non aveva neppure quel carattere 'naturale' che spesso le è stato attribuito; essa fu congegnata in maniera artificiale e dovette essere assimilata dall'immaginazione. Si può osservare al riguardo che non vi è motivo di supporre che questa dimensione lineare sia stata concepita dai teorici greci come una linea verticale che va dall'alto verso il basso. Tracce di un'immagine di questo tipo possono essere rinvenute soltanto occasionalmente in pochi testi minori, mentre l'idea che le testimonianze fondamentali suggeriscono è se mai quella di un modello basato sul movimento orizzontale (avanti e indietro da un punto di partenza dato).
Tale metafora era importante perché rendeva possibile il confronto degli intervalli sotto il profilo quantitativo, offrendo al contempo una struttura concettuale all'interno della quale i teorici greci potevano, con un certo sforzo immaginativo, inserire e reinterpretare la loro esperienza percettiva degli intervalli e dell'altezza dei suoni. Per converso la rappresentazione degli intervalli come rapporti numerici proposta dai pitagorici, pur consentendo una considerazione quantitativa del fenomeno, non coglieva affatto il modo in cui le relazioni fra altezze sono recepite dall'orecchio nell'esperienza musicale concreta. Perciò, secondo Aristosseno, la descrizione pitagorica delle relazioni fra altezze, se è vera per quanto riguarda gli eventi fisici che sono alla base del suono, non può dire nulla circa le relazioni che noi percepiamo come musicali, né è possibile, per mezzo dei principî matematici che governano la costruzione elegante dei rapporti e la loro combinazione ordinata, determinare ciò che è musicale e ciò che non lo è. La melodia musicale è un fenomeno puramente uditivo, che può essere colto esclusivamente mediante l'ascolto e il carattere musicale degli intervalli non è percepito in guisa di rapporti fra velocità di movimento. I principî che governano effettivamente le strutture della melodia devono potersi applicare alle note e agli intervalli musicali così come sono percepiti dall'orecchio e a quelle loro qualità che si possono ascoltare e apprezzare dal punto di vista musicale.
Tuttavia, la realizzazione delle misure cui si riferivano questi ricercatori empirici presenta serie difficoltà; essa richiede innanzitutto che l'ampiezza degli intervalli sia valutata esclusivamente dall'orecchio. Il brano di Platone spiega come potessero accendersi delle dispute nel tentativo di fissare un'unità di misura, in quanto alcuni sostenevano che fra due note esistesse un intervallo discernibile, altri che non ve ne fosse alcuno; inoltre, anche se questo problema fosse stato risolto, si doveva assumere che l'intervallo che l'orecchio identifica come unità rimanesse costante nel tempo. Dovendo scoprire l'ampiezza di un qualsiasi intervallo maggiore dell'unità si doveva riprodurre questo intervallo unitario in maniera accurata e fedele, per molte volte e a differenti livelli di altezza, in modo da trovare quante volte esso entrasse nello 'spazio' occupato dall'intervallo maggiore. Ma l'orecchio privo di aiuto mancava della precisione e della costanza che questi compiti richiedevano; da questo punto di vista l'approccio pitagorico presentava evidenti vantaggi. Una volta che un intervallo sia stato messo in correlazione con un rapporto di lunghezze di una corda, l'uso di una semplice unità di misura permette infatti di ricostruirlo con un elevato grado di precisione. In più le sue relazioni con altri intervalli possono essere calcolate matematicamente.
Un altro problema gravava in egual misura su entrambi i punti di vista, dato che per misurare gli intervalli di armonie autenticamente musicali, occorre lavorare su campioni reali (come suggerisce l'osservazione di Platone, per cui i pitagorici "cercano i numeri" nelle relazioni musicali che sono percepite effettivamente dall'orecchio); ma quali esemplari sono 'corretti', posto che nessun musicista accorda uno strumento ogni volta allo stesso modo? Aristosseno osserva con una certa enfasi che le armonie realizzate sugli strumenti reali non vanno considerate come modelli affidabili. Egli osserva anche che i suoi predecessori empirici volevano rappresentare le strutture delle armonie esclusivamente sulla base dell'osservazione, senza stabilire alcun principio dell'organizzazione melodica da cui fosse possibile dedurre le versioni corrette. Essi non possedevano perciò alcuna procedura sistematica che permettesse di decidere se una variante empirica fosse dotata di una certa autorevolezza e se fosse naturale.
Il metodo dei pitagorici ‒ e fra i maggiori scienziati armonici pitagorici occorre ricordare Filolao e Archita ‒ presentava rischi di opposta natura: poiché essi assumevano che tutte le relazioni autenticamente musicali corrispondessero a eleganti rapporti fra numeri interi e le strutture delle armonie fossero governate da principî matematici, accadeva spesso che adattassero i dati empirici affinché risultassero coerenti con le loro idee matematiche precostituite. In periodi successivi, gli oppositori dei pitagorici li accusarono sistematicamente di sostenere che le relazioni che rientravano nelle loro formule razionali dovevano essere corrette, sebbene risultassero inaccettabili all'orecchio, e che nessun'altra avrebbe potuto essere genuinamente musicale, anche se gradevole all'orecchio e usata regolarmente nella pratica.
Filolao di Crotone (n. 470 ca.-m. tra la fine del V sec. e l'inizio del IV) si occupò di questi argomenti nell'ambito di una serie di speculazioni metafisiche più ampie in cui il principio della harmonía giocava un ruolo fondamentale. Il termine significa buona combinazione, coordinamento, e indica anche l'armonia musicale; quando Filolao parla di musica, lo usa specificamente per indicare l'ottava. Il motivo di questa scelta non risiede esclusivamente nel fatto che le note che delimitano l'ottava si combinano in modo particolarmente appropriato, ma dipende anche dal fatto che l'ottava contiene al suo interno l'intera struttura dell'armonia musicale (e metafisica). L'analisi dell'ottava si tramuta perciò nell'analisi della stessa armonia e, per estensione, dei principî che rendono possibile la costituzione di un cosmo a partire da una massa di elementi dissimili.
L'analisi di Filolao, o meglio ciò che ne è rimasto, è breve: "L'ampiezza di harmonía è una syllabḗ (una quarta giusta) e una di'oxeĩan (una quinta giusta). Il rapporto fra di'oxeĩan e syllabḗ è 9:8. Da hypátē (la nota più bassa dell'ottava) a mésē vi è una syllabḗ, da nḗtē (la più alta) a trítē vi è una syllabḗ, da trítē a hypátē vi è una di'oxeĩan. L'intervallo fra trítē e mésē è 9:8, syllabḗ è 4:3, di'oxeĩan è 3:2 e l'ottava (dià pasõn) è 2:1. Così harmonía è composta da cinque parti di 9:8 e due diéseis, di'oxeĩan da tre parti di 9:8 e un díesis, syllabḗ da due parti di 9:8 e un díesis" (Filolao, fr. 6, in DK 44 B 6).
In questo brano solamente quattro note sono collocate in maniera esplicita all'interno dell'ottava: la nota più alta, neátē (la forma nḗtē è più comune), quella più bassa, hypátē, e due note intermedie, la prima, mésē, collocata una quarta giusta al di sopra della più bassa, e la seconda, che qui è chiamata trítē, una quinta giusta al di sotto della più alta. Fra le due note intermedie vi è un intervallo che in seguito sarà chiamato tónos, tono. Fra mésē e la nota più alta dell'ottava, come fra trítē e la più bassa, vi è una quinta giusta. Il tónos, perciò, è la differenza fra una quinta giusta e una quarta giusta. La maggior parte dei teorici più tardi, a prescindere dall'indirizzo cui faceva capo, costruì il proprio sistema ordinato sulla base di questa semplice struttura; le quattro note principali restano al loro posto (furono poi chiamate note 'fisse' o 'immobili'), mentre all'interno di ciascuna delle quarte giuste sono collocate altre due note. L'intera armonia è divisa in due gruppi di quattro note, situati rispettivamente nella parte superiore e inferiore dell'ottava, l'ampiezza di ciascuno dei quali coincide con un intervallo armonico di quarta. Questi gruppi si chiamano tetracordi.
Filolao assegna a ciascuno di questi intervalli un rapporto. Quelli corrispondenti all'ottava, alla quinta e alla quarta (rispettivamente 2:1, 3:2, 4:3) erano noti da lungo tempo nella tradizione pitagorica, e quello del tono (9:8) è calcolato direttamente dalla quinta e dalla quarta (4:3×9:8=3:2). Filolao spiega anche da quanti toni è composto ciascuno dei tre accordi e queste osservazioni ci possono far supporre quale fosse la collocazione delle note rimanenti, che non avevano nome, all'interno del suo sistema. Per esempio, un tono sotto mésē vi sarà una nota, e due toni sotto ve ne sarà un'altra. In questo modo si dà luogo a uno schema che si ritrova comunemente negli scritti posteriori di matematica, inclusi il Timeo di Platone e la Sectio canonis di Euclide. È interessante notare che Filolao non assegna alcun rapporto al díesis, l'intervallo che rimane dopo aver sottratto alla quarta due toni interi, ciascuno dei quali corrisponde al rapporto di 9:8, e che è chiamato altrove leĩmma, "resto". Le fonti, da Platone in poi, spiegano che il rapporto corrispondente a questo intervallo è in realtà 256:243 (dato che 9:8×9:8×256:243=4:3); ma questo è poco attraente dal punto di vista matematico, se confrontato con i rapporti 3:2, 4:3, 9:8, e forse per questa ragione Filolao non focalizzò l'attenzione su di esso. Non vi è dubbio, comunque, che lo conoscesse, e che sapesse che esso corrisponde a un intervallo che potremmo chiamare semitono, nonostante non sia esattamente la metà di un tono. La somma di due diéseis di Filolao (256:243×256:243) è infatti minore del tono di 9:8; altrimenti sarebbe stato possibile identificare l'ottava con sei toni mentre in effetti 9⁶:8⁶ è maggiore del rapporto dell'ottava 2:1 (è possibile trovare le dimostrazioni di queste proposizioni e di altre a esse collegate nella Sectio canonis).
La costruzione di Filolao e le versioni complete che ne sono state date nelle fonti posteriori riflettono molto probabilmente una forma di armonia che era effettivamente usata nella pratica. Al musicista essa offre il vantaggio che le sue note possono essere accordate, a partire da una nota data, solamente per mezzo di salti di ottava, di quinta e di quarta (questi intervalli, a detta di Aristosseno, possono essere stimati dall'orecchio molto più accuratamente degli altri), dal momento che né il tono né il leĩmma richiedono indipendentemente una costruzione. Aristosseno e altri autori spiegano che per aumentare di un tono una nota è sufficiente salire di una quinta e scendere di un quarta; il leĩmma, invece, è semplicemente ciò che rimane in una quarta dopo due passi successivi di un tono. Per i pitagorici questa soluzione era soddisfacente anche dal punto di vista teorico, dato che la controparte matematica del movimento tra semplici accordi è la manipolazione dei tre rapporti elementari 2:1, 3:2, 4:3. Il rapporto di 9:8, assai meno attraente, e quello di 256:243, del tutto anomalo, emergono come conseguenze secondarie di tali manipolazioni dei primi quattro interi, e non devono essere introdotti e giustificati indipendentemente. L'intera struttura della harmonía è quindi contenuta nei tre rapporti primari, e nelle loro interrelazioni.
La critica a Filolao e la creazione dei modelli 'diatonico', 'cromatico' ed 'enarmonico'
Le ricerche di Archita di Taranto, importante filosofo e matematico della scuola pitagorica, elevarono notevolmente, all'inizio del IV sec., il livello di elaborazione delle analisi armoniche di questa tradizione. Il lavoro di Filolao fu giudicato carente almeno sotto tre aspetti. Anzitutto, se il suo schema poteva offrire una riflessione accurata sulla pratica musicale (e Archita manifestamente pensava il contrario), certamente ignorava altre forme di armonia conosciute comunemente. In secondo luogo, nonostante la struttura del suo sistema e la sua reticenza a parlare del rapporto del leĩmma (quel che egli chiama il díesis) suggerissero fortemente l'idea che vi fossero alcuni rapporti preferibili in qualche modo dal punto di vista matematico, Filolao non forniva argomenti validi per assegnare ad alcuni rapporti uno status superiore a quello degli altri. Inoltre, egli non aveva cercato in alcun modo di identificare principî matematici che permettessero di distinguere fra strutture ben formate, costruite con rapporti appropriati dal punto di vista matematico e musicale, e disposizioni erronee di quegli stessi rapporti o di altri simili.
Archita affrontò tutti questi problemi con una notevole finezza matematica, e grazie al suo lavoro sulla matematica dei rapporti riuscì a dimostrare almeno un teorema (ma forse anche più d'uno) d'importanza fondamentale per questo genere di scienza armonica. Egli adottò il modello implicitamente proposto nella costruzione di Filolao, nel quale ogni armonia è composta da due gruppi di quattro note, ciascuno dell'ampiezza di una quarta giusta (4:3), disposti rispettivamente nella parte superiore e in quella inferiore dell'ottava. Questi due tetracordi sono separati dall'intervallo di un tono, il cui rapporto è 9:8. Le armonie differiscono solamente per ciò che riguarda la disposizione e l'ampiezza degli intervalli interni ai loro tetracordi.
Claudio Tolomeo, astronomo, matematico e geografo del II sec. d.C., che è la nostra fonte per questo aspetto specifico del lavoro di Archita, gli attribuisce l'analisi di tre modelli di armonia, chiamati rispettivamente 'diatonico', 'cromatico' ed 'enarmonico'. Nelle teorie armoniche successive, a cominciare dalle discussioni approfondite di Aristosseno, tutte le forme di armonia saranno incluse in una di queste tre categorie o 'generi' (génē in greco). Semplificando la questione, ciò che principalmente le distingue l'una dall'altra è l'ampiezza del più alto dei tre intervalli del tetracordo: in un'armonia enarmonica essa è molto grande (approssimativamente una terza maggiore), mentre i due intervalli più bassi sono in corrispondenza piccoli, in un'armonia diatonica è relativamente piccola (un tono, più o meno), mentre nelle armonie cromatiche è situata fra questi due estremi. I rapporti del tetracordo diatonico di Archita sono, dall'alto verso il basso, 9:8, 8:7, 28:27. Quelli del tetracordo enarmonico sono 5:4, 36:35, 28:27. In quale misura essi corrispondessero ad armonie effettivamente usate nella pratica mu- sicale dell'epoca è materia di dibattito; presentano comunque una caratteristica matematica che manifestamente non è accidentale. Tutti i rapporti hanno la forma (n+1):n, e in ciò essi differiscono da quelli del sistema di Filolao, i cui tetracordi (diatonici) hanno i rapporti 9:8, 9:8, 256:243. Quando Tolomeo loda Archita per aver cercato di salvaguardare i "principî della ragione" nella divisione dei tetracordi, allude proprio a questa caratteristica del suo sistema.
Qual è dunque la particolarità dei rapporti che hanno questa forma? Secondo il punto di vista di Tolomeo, che egli sembra attribuire anche ad Archita, essa ha a che vedere con la qualità matematica della symmetría, ovvero della commensurabilità. Ogni rapporto della forma (n+1):n è tale che la differenza fra i suoi termini è misura del termine minore, ossia è un fattore intero di esso. Il termine maggiore pertanto equivale al termine minore più una frazione unitaria dello stesso. Così nel rapporto 3:2 il termine maggiore è uguale al minore più una metà di esso, nel rapporto 9:8 esso è uguale al termine minore più un ottavo di esso e così via. La differenza fra i termini è in effetti una misura di entrambi e li lega reciprocamente con una relazione che può essere compresa matematicamente. Un rapporto siffatto si chiama in greco epimórios (in latino superparticularis), nome che significa che il termine maggiore contiene il minore e una parte intera (mórion) in aggiunta (epí).
Altri rapporti che presentano un grado paragonabile di symmetría sono i rapporti dei multipli, ovvero i rapporti aventi la forma mn:n. Qui il termine minore è esso stesso un fattore intero del primo e perciò ne è una 'misura' diretta. Un esempio rilevante in proposito è il rapporto dell'ottava 2:1 (il quale, nonostante abbia anche la forma (n+1):n, è da considerarsi rapporto di multipli e non epimórios, dato che la differenza fra i suoi termini equivale all'intero termine minore, e non a una sua parte). Fra i rapporti di multipli si annoverano anche 3:1, che corrisponde a un'ottava più una quinta, e 4:1, che è il rapporto dell'ottava doppia. Nella Sectio canonis di Euclide è enunciato il principio secondo cui il rapporto di ogni accordo deve essere epimórios (3:2, 4:3) o di multipli (2:1 e così via); il resoconto di Tolomeo mostra che questo principio risale ad Archita stesso, se non è addirittura precedente. Questi vi aggiunse un altro principio, che fu adottato dallo stesso Tolomeo: i rapporti dei singoli intervalli di una scala, detti 'melodici', devono manifestare una symmetría di questo tipo. Dato che a nessun intervallo minore dell'ottava corrisponde un rapporto di multipli, i rapporti degli intervalli melodici devono essere tutti epimórioi.
Eppure Archita non mantenne questo principio in maniera coerente; in modo particolare non vi aderì il suo sistema cromatico, come lamenta Tolomeo. I suoi tetracordi hanno infatti la forma 37:27, 243:224, 28:27; ma a dispetto di ciò, si tratta di una costruzione straordinaria. Tolomeo attribuisce ad Archita la precisazione che la seconda nota più alta di questo tetracordo è più bassa di un leĩmma della seconda del diatonico. Il primo rapporto del diatonico è 9:8, perciò 9:8×256:243=32:27. Questa precisazione, considerata congiuntamente all'insistenza di Archita (in sé stessa curiosa) sull'uguaglianza del rapporto più basso in tutti e tre i generi (28:27), determina il rapporto dell'intervallo cromatico centrale. Sulla base di ciò si potrebbe pensare che Archita nel posizionare la seconda nota del suo tetracordo cromatico fosse stato guidato parzialmente dall'osservazione pratica: essa poteva essere intonata salendo di una quinta giusta dal basso del tetracordo (raggiungendo in tal modo un'altezza superiore di un tono, 9:8, alla sua nota più alta) e poi scendendo di una quarta giusta (4:3=9:8×9:8×256:243=9:8×32:27). Si può osservare inoltre che anche se i singoli rapporti degli intervalli del tetracordo cromatico non sono tutti epimórioi, tutte le sue note possono essere ricavate mediante rapporti che lo sono. La nota immediatamente superiore a quella più bassa si trova nel rapporto di 28:27 con la più bassa e la seconda in ordine di altezza si trova nel rapporto di 9:8 con la più bassa (243:224×28:27=9:8). L'anomalia dei rapporti di questo tetracordo potrebbe essere spiegata anche dal fatto che le divisioni cromatiche erano spesso considerate, piuttosto che strutture fisse e indipendenti, 'coloriture' o modificazioni indeterminate di quelle diatoniche.
Ulteriori sviluppi dell'armonica matematica
Ad Archita possono essere attribuiti con certezza altri tre contributi importanti all'armonica matematica. Il primo è la classificazione dei tre tipi di media matematica significativi per l'analisi musicale, ciascuno dei quali definisce una procedura per inserire un numero (e quindi una nota) fra altri due. Secondo la classificazione di Archita un numero, B, è la media aritmetica fra A e C se B−A=C−B; è la media geometrica se B:A=C:B; è la media armonica (o subcontraria) se B−A è frazione di A come C−B lo è di B.
Archita non ha usato esplicitamente queste medie nelle costruzioni armoniche che ci sono rimaste, ma possiamo scoprirle implicitamente all'opera nelle sue analisi dei tre sistemi (enarmonico, cromatico e diatonico); non esistono però prove dirette che egli stesso se ne sia avvalso di proposito in questo contesto. Le medie possono essere applicate nella maniera più ovvia alla divisione elementare dello 'spazio' musicale in una serie di ottave (rapporto 2:1), ciascuna delle quali contiene una nota situata a un intervallo di quarta (4:3) sopra la nota più bassa e un'altra nota allo stesso intervallo sotto quella più alta, come nella costruzione di Filolao. I numeri che rappresentano i limiti di due ottave in una qualsiasi successione formeranno una progressione geometrica, come per esempio 6, 12, 24, in cui 12:6=24:12; 12 è la media geometrica fra 6 e 24. All'interno dell'ottava, rappresentata dal rapporto 12:6, il rapporto 12:9 (=4:3) è correlato all'intervallo di quarta preso verso il basso dalla nota più alta e 9 è la media aritmetica fra 12 e 6 (dato che 9−6=12−9). L'intervallo di quarta situato al di sopra della nota più bassa è rappresentato dal rapporto 8:6 e 8 è la media armonica fra 12 e 6 (dato che 8−6 è un terzo di 6 e 12−8 è un terzo di 12).
Così l'intero sistema di relazioni tra accordi che formano la spina dorsale delle strutture armoniche greche corrisponde a una costruzione matematica edificata sul fondamento di queste tre forme elementari di proporzione. Platone adotta esplicitamente questo approccio nel Timeo, laddove analizza l'organizzazione matematica dell'"anima del mondo" come un'enorme scala musicale o armonia (Timaeus, 35 a-36 c). In essa il filosofo usa la classificazione delle medie di Archita, sebbene i dettagli degli intervalli della sua scala corrispondano allo schema proposto da Filolao, con i tetracordi divisi nei rapporti di 9:8×9:8×256:243.
Boezio (480 ca.-524) attribuisce ad Archita un altro importante contributo, ossia la dimostrazione che non esiste medio proporzionale fra i termini di un rapporto epimórios. Ciò vuol dire che per un qualsiasi rapporto epimórios A:C non esiste un numero intero B tale che B:A=C:B; né esiste una serie di termini L, M, N,…, Z tale che L:A=M:L=N:M= =…= C:Z. Nella terza proposizione della Sectio canonis è enunciata una versione leggermente diversa di questo teorema, ripresa probabilmente da Archita, dalla quale deriva la conseguenza fondamentale per la scienza armonica dell'indivisibilità dell'intervallo formato da un rapporto epimórios in due o più intervalli uguali che siano essi stessi rapporti fra interi.
Gli scrittori greci tendevano a porre la questione in maniera più netta sostenendo che un intervallo di questo tipo non può essere diviso in parti uguali. Il teorema è di importanza primaria, sia perché i rapporti epimórioi rivestono nell'armonica matematica un ruolo centrale, sia per il fatto che la dimostrazione si applica con la stessa validità anche al rapporto dell'ottava. Esso elimina in un colpo solo la possibilità di fondare qualsiasi analisi delle armonie sul principio, apparentemente attraente, della divisione degli intervalli fondamentali (ottave, accordi o toni) in parti uguali; inoltre apre il confronto diretto con i teorici della tradizione empirica, incluso Aristosseno, che erano soliti considerare l'ottava come esattamente equivalente a sei toni uguali e che non avevano esitazioni a dividere il tono stesso in due, tre o quattro parti uguali. L'intero sistema di misura congegnato dai predecessori di Aristosseno si fondava, dunque, sulla divisione dell'ottava in una sequenza di intervalli unitari identici fra loro.
Sempre Tolomeo attribuisce ad Archita, negli Harmonica (1.5), un ultimo importante contributo: un tentativo di dimostrare per mezzo di ragionamenti che i rapporti dell'ottava, della quinta e della quarta devono essere gli stessi che la tradizione pitagorica assegnava loro. Archita mira perciò a modificare lo status delle asserzioni che assegnavano gli intervalli ai rispettivi rapporti, in modo da trasformarle da generalizzazioni tratte dall'esperienza in verità dimostrate scientificamente. L'argomentazione unisce premesse tratte dalla percezione musicale ad altre propriamente matematiche, ed è curioso che sia le premesse matematiche sia quelle percettive implichino giudizi di valore: alcuni intervalli sono 'più belli' di altri e certe frazioni sono 'migliori' di altre. Questo fatto può illuminare in maniera interessante il carattere delle scienze matematiche del IV sec., in particolare di quelle discusse da Platone nel Libro VII della Repubblica.
Più in generale, l'esistenza di questo 'teorema' fa pensare che Archita stesse cercando di dare una solida base razionale alle proposizioni fondamentali della matematica. Se infatti si orientò in questa direzione anche riguardo alle proposizioni i cui fondamenti empirici erano più solidi, è poco probabile che non abbia tentato di offrire una giustificazione razionale di quelle più controverse o più distanti dalla percezione. Sarebbe azzardato sostenere che egli sia riuscito a sviluppare un'armonica completamente assiomatizzata o teorematica, o che abbia soltanto potuto pensare a una cosa del genere; tuttavia i teoremi che ci ha lasciato, la sua classificazione delle medie matematiche e il suo approccio all'analisi delle armonie, sembrano indicare con decisione che il suo lavoro si muoveva in questa direzione.
Il progetto di una scienza armonica teorematica fu portato a compimento nella Sectio canonis, trattato che è attribuito tradizionalmente a Euclide. Autore, datazione e unità di questo testo sono incerti; molto probabilmente si tratta di un documento risalente approssimativamente al 300 a.C., scritto da qualcuno che conosceva in dettaglio il lavoro di Euclide e di Archita (sia stato o no lo stesso Euclide). Il testo contiene una breve introduzione e venti teoremi. L'introduzione illustra le basi fisiche del suono e adotta il punto di vista secondo cui un suono più acuto è correlato a sequenze più rapide di impatti prodotti sull'aria da un corpo sonoro. Le altezze sono perciò connesse le une alle altre da relazioni quantitative e gli intervalli possono essere espressi come rapporti numerici. Nell'introduzione si enuncia anche e si cerca di dimostrare (in maniera piuttosto oscura) la tesi che il rapporto di ogni intervallo armonico deve essere multiplo o epimórios.
I primi nove teoremi sono di carattere puramente matematico e dimostrano diverse proposizioni fondamentali concernenti i rapporti. L'uso ripetuto della parola diástēma è l'unica caratteristica di questi teoremi che sembrerebbe far riferimento a un contesto musicale; bisogna però osservare che questa parola ha vari usi al di fuori del campo della musica e che i teoremi si applicano ai rapporti di intervalli o distanze tanto dello spazio geometrico quanto della melodia. Il primo di questi teoremi dimostra che prendendo due volte un intervallo il cui rapporto è di multipli si ottiene un altro intervallo il cui rapporto è anch'esso di multipli; il terzo dimostra la proposizione di Archita secondo la quale non vi è né uno né più di un medio proporzionale fra i termini di un rapporto epimórios. Queste dimostrazioni dipendono spesso dai teoremi forniti dagli Elementi di Euclide e sono tutte corrette.
Nei teoremi dal numero 10 al 18 si dimostra una serie di proposizioni matematiche che riguardano gli intervalli musicali. Esse implicano alcune semplici supposizioni tratte dall'esperienza musicale (per es., si stabilisce che l'intervallo fra certe note designate è un'ottava), mentre per il resto dipendono esclusivamente dal principio, posto nell'introduzione, che tutte gli accordi hanno rapporti o di multipli o epimórioi, e dall'applicazione diretta delle proposizioni astratte dimostrate nei primi nove teoremi. Per mezzo di queste supposizioni si dimostra, o si cerca di dimostrare, che il rapporto dell'ottava è di multipli e che quelli della quinta giusta e della quarta giusta sono epimórioi; che il rapporto dell'ottava è 2:1, della quinta 3:2, della quarta 4:3, dell'ottava più la quinta 3:1, della doppia ottava 4:1; che il rapporto del tono è 9:8; che l'ottava è minore di sei toni; che l'ampiezza della quarta è minore di due toni e mezzo e che l'ampiezza della quinta è minore di tre toni e mezzo; che il tono non può essere diviso in due o più intervalli uguali; che le note chiamate paranḗtē e líchanos possono essere "trovate per mezzo di accordi", e infine che le note situate negli intervalli fra esse e le note più basse dei loro tetracordi non sono al centro di questi intervalli. Le ultime due proposizioni del trattato, la 19 e la 20, mostrano come sia possibile costruire una scala diatonica completa su due ottave mediante divisioni matematiche della singola corda del monocordo. Queste divisioni sono eseguite geometricamente, avvalendosi soltanto dei rapporti la cui corrispondenza con intervalli musicali è stata dimostrata nei teoremi precedenti. Il risultato è una scala dello stesso tipo di quelle che abbiamo riscontrato nei lavori di Filolao e Platone, composta da tetracordi della forma tono, tono, leĩmma (9:8×9:8×256:243).
Questo trattato ricorda fortemente gli altri lavori di Euclide per il rigore, l'ordine e la forza argomentativa dei ragionamenti, fatta salva un'eccezione, e senza dubbio è degno della sua penna. L'eccezione è il teorema 11, nel quale si cela un errore logico irrimediabile; in una struttura concepita in maniera così compatta questo difetto mina alla base i rimanenti teoremi, poiché tutte le loro dimostrazioni dipendono dalla sua validità. Occorre sottolineare un'altra peculiarità: nel dodicesimo teorema, in cui si dimostrano i rapporti dell'ottava, della doppia ottava e degli altri intervalli armonici contenuti in questa estensione, non è menzionato l'intervallo composto da un'ottava più una quarta giusta, tuttavia non vi è nessuna ragione musicale per la quale gli si debba negare lo status di accordo. La sua omissione non è causata dalla mancanza di importanza melodica, visto che esso abbraccia uno dei sistemi scalari a cui gli autori greci si riferiscono sistematicamente (la gran parte di essi lo tratta come un accordo, e molti asseriscono inequivocabilmente che se un'ottava è aggiunta a un qualsiasi accordo, l'intervallo che risulta è anch'esso armonico; perciò se la quarta è armonica, lo è anche la quarta sommata all'ottava). Il vero motivo per cui l'autore ha taciuto questo argomento appare però evidente: il rapporto di questo intervallo è 2:1×4:3, ossia 8:3, che non è né di multipli né epimórios; perciò se l'intervallo in questione è un accordo, esso costituisce un controesempio diretto dell'importante principio enunciato nell'introduzione, da cui dipendono tutte le deduzioni all'interno dei teoremi 10-18 e la costruzione proposta nel diciannovesimo e nel ventesimo.
Lo scopo di questo trattato è di dimostrare, basandosi per quanto è possibile su mezzi puramente matematici o razionali, proposizioni vere concernenti gli intervalli musicali e le strutture scalari. In esso si cerca di ricorrere il meno possibile a prove tratte dall'osservazione empirica, fornendo soltanto quella quantità minima di dati che un progetto di questo tipo richiede inevitabilmente. La descrizione delle procedure pitagoriche data dalla teorica posteriore; Tolomeide di Cirene (di cui non abbiamo alcuna notizia biografica) in un passo conservato da Porfirio (234 d.C.-inizio IV sec.) rende l'idea del metodo interno a questo trattato: "Pitagora e i suoi successori desideravano accettare la percezione come guida della ragione nella fase iniziale, per fornire per così dire alla ragione una scintilla. Essi pensavano però che la ragione, dopo aver preso le mosse su queste basi, procedesse per suo conto, indipendentemente dalla percezione. Perciò se il sýstēma (scala) scoperto dalla ragione nelle sue indagini non fosse più stato in accordo con la percezione, essi non sarebbero tornati sui loro passi, ma avrebbero demolito le accuse dicendo che la percezione è fuori strada, mentre la ragione da sola ha scoperto ciò che è giusto e ha confutato la percezione" (In Ptolemaei harmonica, 23, 25). Questo brano sembra un resoconto molto accurato delle procedure della Sectio canonis in generale, e del modo in cui il suo autore avrebbe probabilmente risposto alle critiche riguardanti lo status dell'intervallo dell'ottava sommata alla quarta. Nell'età ellenistica, come nei tempi successivi, divenne abituale confrontare le scuole di teoria armonica, riferendosi alle loro metodologie e in particolare osservando lo status di prova che ciascuna di esse assegnava alla ragione e alla percezione. Un certo Didimo, probabilmente vissuto nel I sec. d.C., che Porfirio cita su questi temi assieme a Tolomeide di Cirene, fornì varie distinzioni piuttosto elaborate di questo tipo che hanno un ruolo importante negli Harmonica di Tolomeo.
Compito e metodo dell'armonica
Tornando agli esponenti del IV sec. appartenenti alla seconda importante tradizione, i quali attribuivano maggiore importanza alle testimonianze fornite dall'orecchio musicale, si è già visto come questi teorici empirici considerassero l'altezza un continuo lineare, sul quale le note sono posizioni, o punti, e gli intervalli sono le 'distanze' fra essi. Questi studiosi cercavano di schematizzare le strutture intervallari delle scale o delle armonie usate all'epoca, per mezzo di diagrammi che rappresentavano questo continuo come una retta suddivisa in intervalli regolari, ciascuno dei quali equivaleva a un quarto di tono. Essi avevano analizzato, per esempio, la struttura di base di un'armonia di tipo enarmonico, ma non di quelle degli altri due generi, cromatico e diatonico, suscitando le critiche di Aristosseno. Sembra anche che avessero concluso che i vari modelli alternativi di armonia, noti come harmoníai, fossero tutti riordinamenti di intervalli della stessa ampiezza di quelli presenti nella serie enarmonica di base, trovando inoltre un modo di rappresentarli mediante sette trasformazioni sistematiche l'uno dell'altro. Questa procedura, però, imponeva ai dati una regolarità artificiale piuttosto distante dalla pratica musicale effettiva.
Aristosseno riteneva che il lavoro di questi empirici fosse la principale anticipazione del proprio, ma allo stesso tempo lo criticava aspramente, per via della sua incompletezza, delle occasionali inesattezze che conteneva, e in particolare perché esso non riusciva a cogliere la vera natura del progetto scientifico. Esso si limitava a presentare i risultati in forma quantitativa (diagrammatica o notazionale) e non si cimentava con il compito della spiegazione, ossia non tentava di mostrare come le strutture e i comportamenti della melodia e dell'armonia manifestassero la presenza di un'unica natura regolare, caratterizzata da un modo di essere e da un comportamento coerenti e intelligibili e governata da principî intrinseci. Secondo Aristosseno anche i termini nei quali questi studiosi presentavano i loro risultati ostacolavano un'effettiva comprensione scientifica.
Nonostante sia possibile analizzare quantitativamente alcuni esempi particolari di strutture regolari, come le disposizioni di toni, semitoni, quarti di tono e così via (Aristosseno stesso portò a termine un buon numero di analisi di questo tipo), la natura dell'armonia non si manifesta nel loro carattere di sequenze di quantità. In altre parole, non è l'ampiezza degli intervalli in quanto tale a renderli musicali; essi lo sono perché i loro elementi sono legati l'uno all'altro da relazioni intrinsecamente e irriducibilmente musicali. Il teorico deve esprimere queste relazioni in modo da cogliere quelle caratteristiche che si riconoscono e si apprezzano quando si ascoltano gli intervalli in quanto musica. E per raggiungere questo scopo, avvicinandosi così a una comprensione genuinamente scientifica della melodia e dell'armonia, è indispensabile sviluppare un vocabolario e un apparato concettuale capace di esprimere la natura delle sequenze di suoni in quanto melodie musicali.
Aristosseno, nella sua concezione della scienza armonica, doveva molto ad Aristotele, col quale aveva studiato ad Atene. Secondo la filosofia aristotelica se, per esempio, si considera una qualsiasi pianta dal punto di vista materiale, essa risulta composta da certe quantità di terra, di acqua e di altra materia ordinate in un certo modo. Tuttavia, se essa è concepita esclusivamente in questo modo, è impossibile comprenderne il comportamento naturale in quanto pianta. La percezione di questo secondo aspetto dipende dall'identificazione delle sue parti (per es., radici, foglie, fiori) e dall'analisi del significato che ha l'essere una radice o una foglia nella vita di una pianta; queste operazioni, però, non si compiono descrivendo soltanto la costituzione materiale della foglia. Nessun resoconto simile può infatti fornire una comprensione di ciò che rappresenta l'essenza di una foglia nel funzionamento dell'organismo. Inoltre, visto che una foglia può assumere una grande quantità di forme, qualsiasi descrizione materiale che se ne dia può essere tutt'al più esemplare e non definitiva. Intorno alla scienza armonica, Aristosseno pensava che l'analisi di una struttura musicale incentrata sulle ampiezze degli intervalli fosse analoga a una descrizione puramente materiale di una foglia, cioè omettesse tutto quello che è necessario al fine di comprendere il suo carattere e la sua funzione in quanto manifestazioni musicali.
Secondo Aristotele, per capire che cos'è l'essenza di una foglia è necessario comprendere in primo luogo che cos'è l'essenza di una pianta; per converso, però, la spiegazione della natura di una pianta dovrà includere una concezione della foglia e anche un'analisi del ruolo delle foglie nella vita della pianta. La botanica non può partire da una qualche definizione preconcetta di cos'è una pianta, ma questa definizione deve essere il suo obiettivo sulla base di un'attenta osservazione empirica e della riflessione concettuale sulle strutture, i comportamenti e le interrelazioni delle radici, delle foglie e del resto. Il risultato di queste indagini sarà assimilato gradualmente, fino a formare il quadro di un sistema completo e unificato. Lo stesso vale per l'armonica secondo Aristosseno; essa dovrà prendere le mosse da un'analisi accurata dei vari elementi, delle strutture che si presentano nei sistemi musicali e dei modi in cui essi interagiscono e si rapportano gli uni con gli altri, avanzando gradualmente verso la comprensione del ruolo che ciascuno di essi svolge nell'insieme. In questo modo una comprensione scientifica di ciascun elemento e di ciascuna struttura si svilupperà di pari passo con una comprensione più completa dell'armonia melodica considerata come una natura coerente, intesa quasi nel senso aristotelico di phýsis.
Il lavoro dello scienziato armonico inizia coll'ascolto. Aristosseno insiste decisamente sul fatto che i dati della scienza armonica provengono dalla percezione e non dal pensiero astratto e che l'orecchio deve essere esercitato a percepirli con precisione. È necessario anche coltivare la memoria uditiva, poiché "la melodia consiste in un processo di divenire", la cui comprensione si fonda su dati che si manifestano simultaneamente, o in maniera statica. Dopo una vasta esperienza di ascolto e memorizzazione, lo scienziato inizia, mediante un processo di astrazione e generalizzazione, a considerare alcuni casi particolari come esempi di forme di struttura ricorrenti, pur se variabili, ciascuna delle quali ha il proprio ruolo nel sistema generale dell'armonia musicale. Questa non è più un'attività della percezione, ma un'attività della riflessione razionale sui dati percettivi e sulla loro sistemazione entro concetti funzionali, del tipo di 'genere enarmonico', 'nota più alta del tetracordo' e molti altri. Infine, mediante un controllo completo sia delle caratteristiche delle entità sussunte sotto questi concetti prettamente musicali sia delle loro mutue interrelazioni, diviene possibile ottenere, attraverso ulteriori astrazioni, una gamma di principî cui si devono conformare, per natura, tutte le sequenze melodiche. Da questi principî è possibile dedurre, in guisa di teoremi, un insieme di proposizioni che stabiliscono quali sequenze di note e di intervalli sono melodicamente possibili e quali non lo sono. Queste "dimostrazioni" (apodeíxeis) hanno al contempo carattere probante ed esplicativo, poiché mostrano che la distinzione fra ciò che è melodico e ciò che non lo è non è arbitraria, ma sorge, in forme razionalmente intelligibili, dai principî che governano secondo natura le sequenze melodiche ben armonizzate.
Gli Elementa harmonica
In termini assai generali, i primi due libri degli Elementa harmonica di Aristosseno trattano problemi di metodo. Essi definiscono e analizzano i concetti appropriati, svolgono un esame preliminare degli elementi e delle strutture ed enunciano i principî cui si conformano i sistemi melodici. Il Libro III è composto in gran parte da apodeíxeis derivanti da questi principî. L'opera che ci è giunta è tuttavia incompleta e molti studiosi ritengono che essa non consista neppure dei frammenti di un singolo trattato. Il Libro I e il Libro II non sembrano tanto essere le parti di un'argomentazione continua, quanto piuttosto due differenti tentativi di realizzare la prima parte del progetto; se ciò è vero, il Libro II è senza dubbio posteriore. Nonostante l'argomento dei due libri sia in gran parte coincidente, il secondo tratta in maniera più sistematica e approfondita i problemi metodologici e si avvale di concetti sofisticati che sono assenti nel primo (soprattutto il concetto di funzione melodica, dýnamis). Il Libro III, palesemente incompleto, si interrompe dopo aver introdotto un nuovo argomento.
Nelle parti precedenti dell'opera, Aristosseno aveva promesso di trattare molti argomenti la cui discussione non si trova nel testo così come lo possediamo; senza dubbio egli mantenne le promesse che aveva fatto: infatti, i riassunti dei compilatori posteriori riportano l'essenza delle sue opinioni riguardo a tutti questi temi. Essi non conservano però in alcun modo le sottigliezze concettuali, la ricchezza dei dettagli e le argomentazioni stringenti, spesso polemiche e rissose, che abbondano negli Elementa harmonica. Tra questi resoconti successivi, quelli conservati nella Isagoge harmonica di Cleonide e nel Libro I del De musica di Aristide Quintiliano (scrittore greco, autore di un trattato di musica, la cui epoca è per alcuni il II sec. d.C., per altri il III o addirittura il IV), sono i più completi. Il primo è il più sistematico ma è estremamente sintetico, il secondo è più discorsivo e ponderato, ma l'uso di fonti divergenti e i limiti intellettuali dell'autore sono all'origine di gravi confusioni e oscurità.
Per avere un'idea della portata e della ricchezza delle ricerche di Aristosseno possiamo usare come guida gli elenchi, non identici, che egli stesso compila nel primo e nel secondo libro degli Elementa harmonica, indicando gli argomenti che gli studenti di armonica devono affrontare. Il primo argomento annunciato nel Libro I (che nel Libro II è tralasciato) è "il movimento della voce nello spazio". Qui Aristosseno tratta una questione importante, preliminare a ogni altra discussione dettagliata dei sistemi armonici: espone esplicitamente il concetto di una dimensione quasi spaziale e lineare dell'altezza, concetto che era invece implicito nel lavoro dei suoi predecessori. In questa dimensione la voce che canta si muove da una posizione all'altra. Nella melodia il suo movimento attraverso questo spazio non è continuo, come nel parlato, ma "intervallare" (diastēmatikḗ): essa compare prima in una posizione e poi in un'altra attraversando istantaneamente e silenziosamente la distanza che le separa.
Aristosseno spende molte pagine per illustrare meticolosamente quest'immagine e molti altri concetti a essa collegati, e chiarisce che la descrizione non considera il comportamento del suono come farebbe un fisico ma esprime la natura dell'altezza e del movimento attraverso l'altezza quali si manifestano nell'ascolto musicale; quindi la sua esattezza non dipende dal fatto che la voce possa o non possa muoversi realmente da una posizione all'altra. La melodia musicale esiste esclusivamente nella sfera uditiva. Nonostante Aristosseno non lo dica in maniera così esplicita, il suo approccio mette immediatamente fuori gioco ogni indagine di stile pitagorico. Le ipotesi fisiche cui fanno riferimento i pitagorici, anche se fossero vere, risultano del tutto irrilevanti per ciò che concerne lo studio della melodia musicale in quanto tale.
Questo brano preliminare fornisce anche spiegazioni a proposito della 'tensione' e del 'rilassamento' (concepiti come processi di movimento dal grave all'acuto e dall'acuto al grave, rispettivamente), dell''acutezza' e 'pesantezza' (riferiti a suoni acuti o gravi) e della stessa 'altezza'. In seguito, ma sempre al livello dell'esposizione dei concetti di base, troviamo gli argomenti 'intervallo' e 'nota'. Dell'intervallo Aristosseno fornisce una definizione generale (esso è "lo spazio fra due note che differiscono in altezza") e un elenco delle sue principali differenze specifiche, gran parte delle quali è analizzata in seguito e applicata altrove. Nel Libro I è trattato molto brevemente il concetto di nota, che è "l'incidenza di una voce su un'altezza". Nel Libro II questa definizione lineare è messa in discussione: Aristosseno dice, segno evidente del suo disaccordo, che essa è "quel che i più credono", e propone la concezione alternativa secondo cui una nota non è un'altezza, ma una funzione (dýnamis); promette quindi di esplorare questa nozione in uno stadio successivo della ricerca.
La promessa non è mantenuta nel testo che possediamo, ma l'uso che Aristosseno fa di questo concetto cruciale può consentirci di comprenderlo. Nel caso delle note, il punto centrale è che l'identità musicale di una nota, il suo valore nel contesto di una scala o di una melodia, non dipende né dalla sua altezza assoluta né dall'ampiezza esatta dell'intervallo che la separa da ogni altra nota identificabile. Quest'intervallo può variare solamente entro certi limiti, che Aristosseno cerca di definire, ma all'interno di essi la nota può svolgere lo stesso ruolo melodico ed essere identificata con lo stesso nome greco (come mésē, líchanos, hypátē, ecc.), ovunque essa sia situata. Possiamo confrontare un concetto di questo tipo con quello moderno della 'sensibile di do maggiore'. La nota indicata con questa espressione può essere identificata anche come 'si naturale' e si considera in genere collocata un semitono sotto il do. Tuttavia, l'identificazione che ne facciamo come sensibile non dipende dall'ampiezza esatta dell'intervallo che la separa dalla tonica. Questa nota può mantenere la sua identità funzionale anche qualora l'ampiezza di questo intervallo vari in uno spettro notevolmente grande. Nel contesto greco lo spettro delle variazioni ammissibili, in casi paragonabili a questo, è talvolta molto più ampio: una nota può continuare a essere la stessa nota, líchanos, per esempio, anche se è collocata da un minimo di un tono a un massimo di due toni sotto la nota fondamentale del sistema, mésē.
Queste osservazioni possono dare un'idea della complessità del concetto di nota e di quanto siano spinose le relazioni fra gli aspetti quantitativi e quelli funzionali o dinamici dell'ordine melodico, relazioni che la scienza armonica deve delucidare. Passando poi dai concetti fondamentali alle strutture, Aristosseno si propone di esaminarle suddividendole in tre ripartizioni: generi, systḗmata (che possiamo rendere soltanto in modo molto approssimativo come 'scale') e tónoi (approssimativamente equivalenti alle nostre 'tonalità'). Un argomento correlato è la 'modulazione' (metabolḗ), che si riferisce ai diversi modi in cui una melodia può abbandonare la struttura fornita da un genere, sýstēma o tónos, per assumerne un'altra. Il testo del trattato che è giunto fino a noi espone le regole per la formazione dei systḗmata che sono essenziali ai teoremi del Libro III, pone l'accento sull'importanza del tema dei tónoi e sottolinea quanto esso sia stato trascurato dagli scrittori precedenti. La trattazione completa di Aristosseno è andata perduta, ma le sue linee generali sono conservate in alcune fonti posteriori. I generi sono comunque trattati in dettaglio ed estesamente negli Elementa harmonica.
Si è visto come l'analisi dei generi si concentri principalmente sull'unità del tetracordo, una serie di quattro note la cui estensione equivale all'intervallo di quarta giusta. Nel caso più comune, l'ottava contiene due tetracordi strutturalmente identici, separati da un intervallo di un tono. Aristosseno asserisce che l'ampiezza dell'intervallo fra le due note che delimitano il tetracordo è invariabile, o quasi. Non si tratta, però, di un'eccezione alla tesi secondo la quale le identità musicali dipendono da relazioni funzionali piuttosto che dalle quantitative. L'essenziale della relazione fra queste note non è di avere una determinata ampiezza, quanto di essere udita come un tipo particolare di accordo e la sua identità dipende dal suo carattere musicale, non dalla sua estensione spaziale. Secondo Aristosseno è un dato di fatto che l'estensione entro la quale l'intervallo può variare quantitativamente, continuando a mantenere le sue caratteristiche musicali, è pressoché nulla e perciò la sua ampiezza si può considerare fissa, ai fini pratici. In questa prospettiva, l'ampiezza dell'intervallo sinfonico di quarta, secondo i sostenitori di Aristosseno ma non secondo i pitagorici, equivale esattamente a due toni e mezzo.
Al contrario, le due note interne del tetracordo sono 'mobili'. Prediamo a esempio, come fa Aristosseno, il tetracordo le cui note sono chiamate (dal basso verso l'alto) hypátē, parypátē, líchanos, mésē. Nel Libro I, l'autore offre una descrizione accurata dell'ambito entro il quale possono variare le posizioni di parypátē e líchanos: quest'ultima può variare di un tono, può essere collocata dal minimo di un tono al massimo di due toni sotto mésē o in un qualunque punto intermedio fra questi due estremi; la parypátē può variare invece molto meno, soltanto un quarto di tono, e può essere situata in una qualsiasi posizione compresa tra un quarto di tono e un semitono sopra la hypátē. Aristosseno sottolinea che gli ambiti in cui queste note possono variare sono continui e non vi è posizione, all'interno del rispettivo ambito, in cui non possa esservi una líchanos o una parypátē. Ciononostante, alcune posizioni sono usate nella pratica più di altre e ogni tetracordo composto correttamente, qualunque sia la posizione delle sue note interne, rientra in uno dei tre generi, ossia è enarmonico, cromatico o diatonico. L'identità di genere di ogni tetracordo dipende in definitiva dal modo in cui esso si presenta all'ascolto musicale ma è compito del teorico armonico definire in termini quantitativi, per quanto ciò sia possibile, i confini dei tetracordi dei tre generi. Si deve cioè cercare di scoprire a quale distanza sotto la mésē una líchanos cessa di svolgere la funzione di líchanos diatonica ed è percepita dall'orecchio come cromatica o quando cessa di essere cromatica e diventa enarmonica.
La distinzione fra un tetracordo diatonico e un tetracordo di altro 'genere' si rivela netta. Un tetracordo sarà percepito come diatonico fintantoché l'intervallo fra líchanos e mésē non occupa più della metà dell'estensione del tetracordo stesso. Se questo intervallo è maggiore di un tono e un quarto, allora il tetracordo è cromatico o enarmonico. Questi ultimi due tetracordi si distinguono dal diatonico in quanto contengono un pyknón, che può essere descritto quantitativamente come una coppia di intervalli collocati sul fondo del tetracordo i quali si estendono congiuntamente per meno della metà di una quarta giusta. Tuttavia, come si è detto in riferimento ai casi precedenti, la presenza o l'assenza del pyknón può essere assunta come criterio per operare una distinzione di genere e ciò non per via della sua ampiezza in quanto tale, quanto per il carattere che esso manifesta nell'ascolto musicale. In una prospettiva propriamente musicale il pyknón è identificato dalla natura peculiarmente musicale del suo suono, che gli conferisce una funzione particolare nell'organizzazione della melodia. Il fatto che il suono musicalmente 'compresso' del pyknón possa essere generato soltanto da note comprese in un intervallo minore di un tono e un quarto ha un carattere accessorio e puramente empirico.
Aristosseno non esamina in maniera esplicita la distinzione generale fra tetracordi enarmonici e cromatici. Egli sembra ritenere, comunque, che esista soltanto un tipo di tetracordo enarmonico realmente autentico, nel quale l'intervallo tra líchanos e mésē sia un dítonos (due toni interi) completo. Le melodie costruite sulla base di questi tetracordi hanno per lui una nobiltà ineguagliabile. È possibile che egli abbia voluto considerare il tetracordo enarmonico come definito dal limite di espansione dell'intervallo fra mésē e líchanos. Egli riconosce, forse con riluttanza, che il sistema usato dai musicisti dell'epoca, in cui quest'intervallo è leggermente diminuito (e quindi 'addolcito'), è ancora percepito dal punto di vista estetico come enarmonico e perciò il teorico deve ammetterlo come tale. Coloro i quali usano questo sistema, comunque, 'piegano' il genere enarmonico verso quello cromatico, sfumando di fatto la distinzione fra i due generi. Vi è un passaggio nel quale Aristosseno quantifica l'intervallo che separa la più bassa líchanos enarmonica dalla più bassa líchanos cromatica nella misura di un sesto di tono, dato che la prima è situata un semitono e la seconda due terzi di tono sopra la hypátē. La líchanos enarmonica può variare soltanto nell'ambito di questa minuscola distanza dalla sua posizione limite e perciò ogni líchanos collocata in una posizione compresa fra due terzi di tono e un tono e un quarto sopra la hypátē (dove ha inizio la líchanos diatonica) è cromatica.
Queste distinzioni fanno appello a misurazioni apparentemente precise di intervalli molto piccoli, nonostante il fatto che la metodologia di Aristosseno, insistendo sull'autorevolezza conferita a un orecchio musicale ben esercitato, esigeva che non fosse usato alcuno strumento di misura in ausilio dell'ascolto. Difficilmente possiamo prendere alla lettera tali distinzioni, in particolare se si considera che, a detta dello stesso Aristosseno, nessuna distanza inferiore a un quarto di tono può essere considerata a buon diritto un intervallo musicale. Si tratta di stime, ma di stime quantitative di distinzioni univoche e precise dal punto di vista funzionale o propriamente musicale. Senza dubbio Aristosseno riteneva, comunque, che le distinzioni fra líchanoi cromatiche, enarmoniche e diatoniche fossero nette e oggettive, per un orecchio musicale educato scientificamente.
In un passaggio del Libro II si presenta una determinazione quantitativa di sei differenti divisioni del tetracordo: una di esse è enarmonica, tre sono cromatiche e due sono diatoniche. Esse non sono presentate come un elenco esaustivo di tutte le possibili suddivisioni, poiché il loro numero è illimitato; si tratta soltanto di esempi che rappresentano i sistemi usati più comunemente. Ancora una volta, però, ci troviamo in difficoltà di fronte a queste specificazioni quantitative. Aristosseno non era in possesso di alcun mezzo per determinare se in una delle suddivisioni cromatiche che ascoltava abitualmente gli intervalli del pyknón equivalessero ciascuno a un quarto di tono, in un'altra a tre ottavi di tono, e in un'altra ancora fossero semitoni esatti. Comunque, a meno che la sua trattazione non sia del tutto priva di senso, egli deve essere stato in condizione di affermare che l'orecchio di un musicista sensibile fosse in grado di discriminare per lo meno tre forme di suddivisione cromatica, che si presentavano all'ascolto con caratteri musicali notevolmente differenti e che potevano debitamente essere denominate in maniera diversa. Queste quantificazioni vanno considerate come stime, il cui valore esatto è determinato almeno in parte dalla decisione di Aristosseno stesso di considerare l'intervallo di un dodicesimo di tono il minimo cui ci si può riferire significativamente.
Nel Libro III degli Elementa harmonica, sulla base di alcuni principî molto generali della progressione melodica (enunciati in forme leggermente differenti nel Libro I e nel Libro II), Aristosseno presenta un insieme di teoremi serratamente argomentati, intesi a dimostrare che certe sequenze di intervalli sono possibili sotto il profilo melodico, mentre altre non lo sono. La maggior parte delle sequenze è definita quantitativamente, con alcune illuminanti eccezioni. In altre parti del suo lavoro, di cui possediamo soltanto i resoconti di scrittori posteriori, Aristosseno diede una spiegazione del concetto di tónos ('tonalità') e determinò, per soddisfare la propria curiosità, quanti di essi esistano e quali siano le distanze intervallari che li separano. Egli analizzò anche i vari modi in cui le melodie possono modulare da un tónos o da un genere a un altro; appare evidente come in tutti questi casi egli tentasse ancora di esprimere i suoi risultati in termini quantitativi. È anche chiaro, però, che il nucleo del problema non era stato affatto concepito in modo quantitativo. In tutto il lavoro di Aristosseno l'armonica ha infatti il compito di analizzare i fenomeni con espressioni che possano rappresentare le forme in cui essi, in guisa di melodia, si presentano all'orecchio di un perspicace ascoltatore di musica. La quantificazione è un aspetto secondario; ci si può fidare della sua precisione soltanto nel caso di intervalli il cui carattere musicale coincida con un'estensione di fatto invariante (ossia le sinfonie) o di intervalli che possono essere compresi e definiti in rapporto alle sinfonie (ossia il tono e il semitono).
Negli altri casi, la precisione quantitativa ha scarso significato. Forse le misurazioni di Aristosseno sono utili allo scopo di fornire una mappa intelligibile delle relazioni musicali ‒ a uso delle persone la cui sensibilità musicale sia meno sviluppata della capacità di pensiero astratto ‒ e una guida pratica (pur se approssimativa) per i musicisti e gli scienziati della musica che vogliano ricreare e imparare ad apprezzare i sistemi che egli descrive. Da un altro punto di vista, tali misurazioni sono un tentativo di afferrare mediante parole e numeri le caratteristiche dei 'materiali' nei quali le 'forme' funzionali proprie della melodia possono manifestarsi. L'approccio stesso di Aristosseno comporta che queste descrizioni materiali non possano essere simultaneamente affidabili e precise, poiché, nonostante le forme melodiche siano nettamente distinguibili all'ascolto l'una dall'altra, nessuna di esse è costretta definitivamente nel singolo tipo in cui è percepita né con esso può essere identificata.
Nell'Antichità più tarda, quanti accolsero l'impostazione generale dell'analisi armonica di Aristosseno erano disposti ad accettare anche le sue conclusioni come un commento accurato ed esauriente degli elementi e delle strutture su cui si fondano tutte le melodie. Le esposizioni che troviamo nei 'manuali' di Cleonide e Bacchio il Vecchio e nel Libro I del De musica di Aristide Quintiliano (che risalgono tutti ai primi tre secoli d.C.) sono poco più che sommari della dottrina di Aristosseno. Nonostante vi fossero punti controversi (in particolare circa la natura e il numero dei tónoi) e fossero stati introdotti alcuni perfezionamenti, in questa corrente di pensiero non vi è traccia di uno sviluppo progressivo della ricerca. Le fonti che ci sono rimaste suggeriscono al contrario che le analisi di Aristosseno siano state modificate soltanto nel senso di una semplificazione e ridotte a un sistema immobile eliminando le loro finezze concettuali e metodologiche e i loro fondamenti argomentativi. Invece di essere intese come sforzi iniziali da criticare e sviluppare per edificare nuove costruzioni da modificare di pari passo con il cambiamento delle pratiche musicali, esse furono cristallizzate in una dottrina autorevole, persino in un periodo in cui le strutture dispiegate effettivamente nelle composizioni musicali stavano diventando notevolmente più varie e flessibili, come si può vedere dalle partiture musicali superstiti.
La storia successiva della tradizione che deriva dai pitagorici è alquanto differente. Si tentò innanzitutto di migliorare le 'divisioni del tetracordo' stabilite nel IV e nel V secolo. Non possediamo molte informazioni dirette sui ragionamenti che erano alla base di questi tentativi, né sui criteri adottati per valutarli come miglioramenti; tuttavia si può ritenere con qualche fondamento che le nuove sequenze di rapporti assegnate ai tetracordi diatonici, cromatici ed enarmonici da Eratostene (nel III sec. a.C.) e da Didimo (probabilmente nel I sec. d.C.) fossero congegnate principalmente per corrispondere in maniera più diretta alle analisi quantitative proposte, in termini diversi, da Aristosseno. Allo stesso tempo tali sequenze cercavano di mantenere sia la modalità di rappresentazione pitagorica, sia i principî che Archita aveva sviluppato per disciplinare la forma matematica dei rapporti caratteristici dell'armonica.
Si attribuiscono a Didimo anche alcuni miglioramenti delle tecniche per usare il monocordo, lo strumento grazie al quale i teorici di questa tradizione trasferivano le loro costruzioni nella sfera dei fenomeni auditivi. Le nuove tecniche dovevano in apparenza semplificare il compito di suonare sul monocordo una armoniosa sequenza di intervalli costruiti matematicamente, per fare in modo che le divisioni di Didimo si presentassero all'orecchio dell'ascoltatore in una forma musicale più convincente. Didimo era anche interessato, come si è visto, a entrambe le metodologie contrapposte delle due principali tradizioni armoniche. È possibile che sia stato questo interesse a motivare i tentativi che egli fece, nelle sue divisioni, di coniugare gli aspetti migliori di entrambe: la precisione matematica e l'ordine intelligibile dell'approccio di Pitagora e l'enfasi di Aristosseno sull'autorevolezza dell'orecchio musicale.
Tuttavia, durante il primo periodo dell'Impero Romano gli studiosi di armonica matematica non si interessarono in maniera particolare di ridefinire i modelli di rapporti considerati corretti dagli antesignani di questa tradizione. Teone di Smirne e le sue fonti principali, Trasillo e Adrasto, per esempio, si accontentavano di seguire Filolao, Platone e la Sectio canonis, e accettavano la divisione del tetracordo in 9:8×9:8×256:243, considerandola concettualmente ben composta. Essi non si interessavano tanto alla corrispondenza del sistema con i dati delle esecuzioni musicali effettive, quanto ai suoi fondamenti matematici e alle basi che quelli fornivano alla speculazione astronomica e metafisica. Trasillo e Adrasto descrivono meticolosamente le procedure eleganti e sistematiche mediante le quali questi rapporti potevano essere costruiti geometricamente su una retta, differenziandole da quelle della Sectio canonis. Adrasto analizza inoltre il sistema che ne risulta nei termini di una teoria delle proporzioni e sviluppa un'ingegnosa classificazione delle varie forme di rapporto, mediante la quale vuole giustificare matematicamente l'ordine gerarchico dei rapporti implicito nell'armonica pitagorica. Il libro di Teone fu presentato come un'indagine della matematica soggiacente alla metafisica e alla cosmologia di Platone. Le proposizioni matematiche dell'armonica, in particolare le proposizioni esposte nel Timeo di Platone, sono attinenti al suo lavoro in quanto analisi dell'esempio fondamentale della perfezione astratta e formale che soggiace alla realtà.
Nel Manuale di armonia di Nicomaco di Gerasa, matematico e filosofo della seconda metà del I sec. d.C., è evidente un interesse simile, seppure meno rigoroso, nei confronti delle relazioni fra ordine cosmico e ordine musicale, particolarmente nella sua descrizione dell'armonia delle sfere, la quale traccia la velocità relativa dei pianeti e la distanza relativa fra le loro orbite sul modello matematico di una scala musicale. Diversamente dal libro di Teone, che ha differenti obiettivi, il lavoro di Nicomaco offre una rassegna piuttosto completa, anche se superficiale, della teoria armonica, pur essendo per gran parte legata all'approccio pitagorico. Essa si presenta però soltanto come un'introduzione all'argomento, lasciando molti problemi irrisolti. Da un punto di vista teorico, quest'opera non contiene nulla di nuovo, ma è esclusivamente un compendio di idee comunemente accettate. Inoltre essa è confusa, in quanto accoglie nella propria struttura concettuale essenzialmente pitagorica elementi disparati della teoria di Aristosseno, senza cimentarsi con il compito impossibile di assimilare coerentemente i due approcci.
La trattazione più completa della scienza armonica promessa da Nicomaco nel Manuale è andata perduta. Accenni a essa si ritrovano in autori successivi, in particolare in Boezio. Se la testimonianza di questi autori è affidabile, il suo contenuto non dovrebbe essere stato neanche esso originale; sembra infatti che la trattazione consistesse in un'esposizione accurata ma laboriosa della matematica usata in opere come la Sectio canonis, accompagnata da alcune riflessioni circa il loro significato metafisico. Nulla sembra suggerire che il suo contributo sia stato sostanzialmente innovativo.
Il De musica di Aristide Quintiliano, scritto probabilmente nel III sec. d.C., è un'opera molto più vivace, ampia e attraente. La sua originalità risiede, più che nei dettagli, nell'intenzione dichiarata di voler coprire ogni argomento che possa essere rilevante per il discorso musicale. Per noi, il suo valore principale è l'eclettismo gioioso e indiscriminato, che ha salvato una gran quantità di materiale che altrimenti sarebbe andato perduto. I bizzarri contributi personali di Aristide sono probabilmente confinati nel Libro II, dal sapore pittoresco ed esotico, che indaga il ruolo della musica nell'educazione morale e nella cura psichica e che collega il significato etico delle melodie musicali al carattere delle strutture armoniche soggiacenti. L'ispirazione di questa parte dell'opera è da ricercarsi in Platone ma le analisi specifiche sono condotte in modi che non trovano riscontro da nessun'altra parte e si collegano a speculazioni sull'animo umano più vicine a Plotino e Porfirio che a Platone stesso.
Dei due rimanenti libri, il primo è poco più di un compendio, per quanto di valore, dell'armonica e della teoria ritmica di Aristosseno, mentre il Libro III è basato sulle proposizioni matematiche della tradizione pitagorica. Comunque, fatta eccezione per pochi passaggi in cui sono sviluppate analisi matematiche piuttosto acute, quest'ultimo riguarda principalmente le affinità presunte fra le strutture musicali, concepite come sistemi di numeri o rapporti numerici, e i tipi di armonia che si trovano in altre parti dell'Universo, come nell'ordinamento dei costituenti elementari delle cose, nel ciclo delle stagioni, in un corpo umano in buona salute, nella struttura ben formata di un'anima virtuosa e in una varietà di altre manifestazioni. In molti altri autori è possibile trovare la trattazione di simili argomenti, ma non con una tale profusione e ricchezza. Di queste considerazioni poco o niente è 'scientifico', in quanto esse si fondano su speculazioni numerologiche piuttosto ingenue, in uno stile che risale alle prime fasi della tradizione pitagorica.
Negli scrittori vissuti dopo il IV sec. d.C. si incontrano poche tracce di tentativi volti a portare avanti ricerche originali sull'armonica. I seguaci di Aristosseno non produssero, apparentemente, molto più che ripetizioni e sistematizzazioni della dottrina esistente. L'armonica pitagorica ispirò dei progressi autentici nel campo della matematica pura, ma per il resto fu innovativa soltanto per via di speculazioni sempre più elaborate su questioni genericamente metafisiche. Una sola opera a noi giunta rappresenta un'eccezione, a fronte di questa stagnante situazione generale: i notevoli Harmonica dell'astronomo e matematico Claudio Tolomeo.
Una nuova metodologia
Secondo Tolomeo il compito di chi si occupa dell'armonica è mostrare che l'udito riconosce come belle e perfettamente armonizzate le costruzioni "edificate in accordo con la ragione". Nel suono esistono costruzioni di questo tipo, che sono identificate dai sensi. Poiché sono infuse nella materia, e per via dell'intrinseca incertezza della percezione, queste costruzioni non possono però essere descritte adeguatamente nella loro modalità in quanto oggetti di percezione, né possono essere accuratamente costruite sulla base del solo udito. Il loro carattere uditivo è una manifestazione percettibile della loro forma matematica, nella quale risiede la loro essenza effettiva. La natura di questa forma non è accessibile ai sensi, ma deve essere scoperta per mezzo della ragione.
Le opere che ci sono giunte di Tolomeide di Cirene e Didimo chiariscono che le discussioni sulle differenze fra le varie tradizioni di scienza armonica si erano incentrate sul ruolo che i loro esponenti assegnavano alla ragione piuttosto che alla percezione, o a entrambe, in quanto 'criteri di verità' scientifici. Le riflessioni di Tolomeo su questo argomento lo portarono a rifiutare gli approcci di entrambe le principali scuole di pensiero e a sviluppare ciò che egli chiama una sua nuova metodologia. L'importanza della sua opera risiede sia nella complessità scientifica e nella consapevolezza metodologica delle sue procedure, sia nella cura meticolosa con la quale esse sono applicate a un vasto ambito di argomenti, sia infine nel carattere innovativo delle sue conclusioni.
Tolomeo esamina e critica diffusamente sia i metodi dei suoi predecessori sia i risultati fallaci a cui essi hanno portato. Egli sostiene che Aristosseno si era ingannato circa la natura degli intervalli musicali, aveva ignorato il ruolo della ragione matematica nella scienza e aveva prodotto alcuni risultati impossibili dal punto di vista matematico, mentre altri erano contrari all'evidenza palese dell'ascolto. L'approccio pitagorico, al contrario, concepiva correttamente la natura delle relazioni musicali e dava una piena importanza ai criteri della ragione matematica. La sua concezione dei principî matematici che governano le forme dei rapporti musicali è però inadeguata e nell'applicazione dei principî dà luogo a conseguenze che alla prova dei sensi risultano false. Tolomeo respinge la risposta tipicamente pitagorica, secondo la quale questo fatto dimostra soltanto che il nostro udito è impreciso; poiché è l'udito che fornisce i dati da analizzare e comprendere, è essenziale che i principî matematici che la ragione adotta per lo scopo della scienza armonica siano in armonia con i fenomeni che essi sono chiamati a spiegare.
Il punto di vista di Tolomeo, dunque, mira a dare il giusto peso sia ai criteri razionali che a quelli percettivi. Nessuno dei due va abbandonato, dal momento che essi hanno ruoli differenti. L'ascolto fornisce i dati da esaminare, distinguendo fenomeni come gli unisoni, le ottave, le consonanze, le dissonanze, i sistemi armonici formati più o meno correttamente e via dicendo, ma lo fa senza precisione scientifica. Un altro genere di osservazioni ci garantisce che l'altezza è una variabile essenzialmente quantitativa e che le sue variazioni sono causate dalle corrispondenti variazioni delle dimensioni misurabili dello strumento che produce le note. Per mezzo di uno strumento convenientemente preciso e calibrato accuratamente è possibile produrre affidabili esemplari sonori di ogni relazione musicale espressa razionalmente, ossia matematicamente, come un rapporto di numeri. La facoltà della ragione, mediante l'astrazione sui dati offerti dalla percezione e applicando a essi procedure matematiche, mira a definire la forma matematica che deve soggiacere a ciascuna delle relazioni musicali elementari (unisono, intervallo consonante, intervallo melodico e così via), proponendosi poi di scoprire, per mezzo del ragionamento, i principî matematici che devono governare gli arrangiamenti musicali in quanto rapporti, e i criteri secondo i quali questi arrangiamenti possono essere raggruppati in classi matematicamente distinte. Infine, combina questi principî con altri il cui fondamento non è dato dalla matematica, ma dalla 'percezione accettata comunemente', e ne deriva un insieme completo di sequenze di rapporti che secondo questi criteri sono ben formati.
In questi passaggi (principalmente nel Libro I, ai capitoli 5, 7 e 15) l'argomentazione matematica di Tolomeo è complicata e sottile. Tuttavia con essa non si esaurisce il discorso, poiché la coerenza razionale di un sistema non garantisce in sé stessa che i principî che lo governano siano esattamente quelli che reggono la natura e l'ordinamento degli intervalli musicali. Secondo i criteri di Tolomeo, per esempio, i principî adottati dai pitagorici sono apparentemente razionali, ma non per questo possono essere accettati, in quanto l'orecchio musicale rifiuta le loro conseguenze. È un fatto empirico che dimostra che questi principî, pur essendo razionali, sono semplicemente errati.
Tolomeo insiste sul fatto che a ogni stadio del processo di costruzione della teoria e di nuovo alla fine di esso, le conclusioni generate per via matematica devono comunque essere sottoposte alla verifica della percezione. Tali conclusioni possono essere considerate corrette soltanto se all'orecchio esse appaiono appropriate ai ruoli musicali loro assegnati e formate in maniera esatta. All'inizio dell'opera, l'autore sostiene che, nonostante non sia possibile affidarsi soltanto all'orecchio per costruire esempi esatti di relazioni musicali, il nostro udito è comunque affidabile nel distinguere le relazioni formate correttamente da quelle scorrette, qualora le prime siano state costruite 'per mezzo della ragione' sulla base di procedure matematiche. Allo stesso modo, non è possibile tracciare a occhio un circolo perfetto; se però un circolo è tracciato matematicamente, mediante strumenti appropriati, allora l'occhio riconoscerà immediatamente che esso è superiore a qualsiasi altro circolo che sia frutto di una mera approssimazione.
Le costruzioni della ragione possono essere realizzate accuratamente e offerte all'ascolto soltanto attraverso l'uso di strumenti che possiedano un adeguato grado di accuratezza e che siano adoperati in maniera corretta. Tolomeo dà grande spazio nella sua opera a una trattazione dettagliata di questi strumenti; li studia come congegni pratici che debbono essere progettati, costruiti e utilizzati, e non solamente come astrazioni geometriche alla maniera della Sectio canonis, di Trasillo, di Adrasto e altri. Esamina numerosi aspetti, assai specifici ma fondamentali, della loro costruzione, del modo in cui essi devono essere messi a punto e maneggiati, e degli usi scientifici ai quali possono essere destinati con maggiore efficacia. Mostra una profonda consapevolezza della necessità di identificare ed eliminare le variabili che possono interferire con il loro uso, come le variazioni di spessore di una corda o i piccoli mutamenti nella lunghezza o nella tensione della corda che si verificano quando si modifica la posizione del ponticello.
Tolomeo consiglia le tecniche migliori per evitare cadute significative della sonorità di uno strumento quando, per produrre suoni più acuti, si accorcia la parte vibrante di una corda. Nel cap. 2 del Libro II vi sono poi due affascinanti descrizioni; la prima, che Tolomeo attinge da una fonte precedente, descrive lo strumento meramente come una costruzione geometrica, mentre la seconda, ancora elaborata da Tolomeo, si presenta stranamente disordinata e priva di sistematicità, se considerata sotto il profilo geometrico; essa, tuttavia, acquista significato se considerata come uno schema di istruzioni a fini pratici per qualcuno che desideri effettivamente intraprendere il lavoro di costruzione dello strumento.
Possiamo dunque essere certi del fatto che Tolomeo concepiva i suoi strumenti come strumenti scientifici da utilizzare nella pratica. Stando alle sue dichiarazioni di metodo, essi dovevano essere utilizzati con spirito autenticamente sperimentale e critico per sottoporre a verifica l'attendibilità delle conclusioni dedotte dai principî razionali o per respingere tali principî se non avessero soddisfatto il giudizio dell'orecchio. Ma anche se queste dichiarazioni di intenti non si possono prendere alla lettera, tuttavia esse mostrano senza ombra di dubbio che Tolomeo aveva compreso in pieno l'importanza delle prove sperimentali controllate e che era consapevole delle numerose difficoltà pratiche che le procedure sperimentali comportano. Sembra che strumenti di questa natura non fossero stati usati in precedenza proprio a questi fini, e che fossero stati chiamati in causa per mostrare che i sistemi costruiti matematicamente sono superiori sotto il profilo estetico, piuttosto che per sottoporli a verifica. Possiamo, perciò, nutrire qualche dubbio circa la pretesa di Tolomeo di averli applicati ai suoi stessi costrutti in modo pienamente critico. Questi dubbi sembrano confermati da quanto afferma nel cap. 15 del Libro I, dove sostiene che l'orecchio riconosce tutte le sue costruzioni razionali come perfette e inoppugnabili, mentre nel cap. 16 ritiene che molte di esse si presentano alla percezione come sgradevoli e insolite. Se la seconda affermazione fosse corretta, sarebbe però difficile comprendere quali criteri l'ascoltatore abbia potuto adottare per giudicarle perfettamente composte.
Vi sono tuttavia buoni motivi per ritenere che i pronunciamenti metodologici di Tolomeo fossero in buona fede. Se così non fosse, affermazioni come quella contenuta nel cap. 15 del Libro I avrebbero presumibilmente chiuso il discorso; invece, in tre importanti capitoli (cap. 16 del Libro I, capp. 1 e 16 del Libro II) egli si diffonde in dettagliate discussioni delle forme di armonia che, a quanto dice, erano effettivamente utilizzate dagli esecutori nel suonare la lira e la cetra. Risulta che queste armonie, qualora si stabiliscano i loro rapporti sulle corde di strumenti 'sperimentali', non coincidono con nessuna di quelle dedotte direttamente dai principî razionali. A tali principî esse sono connesse in modi più o meno complessi e in taluni casi rientrano solamente in modo forzato persino nei canoni più generali di razionalità enunciati da Tolomeo. Non per questo, tuttavia, l'autore respinge queste armonie come mal composte, in quanto esse sono esempi di primaria importanza di ciò che l'orecchio accetta come musicale.
I capitoli in questione, dunque, che restano senza eguali nella letteratura giunta fino a noi, non riescono certamente a garantire in modo imparziale che i sistemi razionali tolemaici siano corrette rappresentazioni delle armonie predilette dal nostro orecchio. Sembra piuttosto che grazie ai suoi esperimenti Tolomeo fosse giunto a riconoscere che esisteva un effettivo scarto tra i suoi costrutti teoretici e la pratica musicale, facendo così di tali esperimenti autentiche verifiche empiriche. La sua reazione a questi risultati sperimentali non fu quella di abbandonare le costruzioni matematiche o i principî a esse soggiacenti, e neppure abbandonò le armonie usate nella pratica musicale in quanto imperfette, né considerò inattendibile la nostra percezione di esse; la sua strategia consistette piuttosto nell'assimilare queste armonie, in modo indiretto, all'interno del sistema teorico complessivo, introducendo ipotesi e regole ausiliarie.
Gli Harmonica
Anche l'ampiezza delle ricerche di Tolomeo è straordinaria. A partire dagli elementi fondamentali della melodia (le note, gli intervalli e le loro varie specie), egli discute i generi e le loro varianti, i modi in cui sequenze di note dell'ampiezza di una quarta giusta possono essere nuovamente disposte e combinate in sistemi più ampi, le relazioni fra la posizione di una nota in un sistema e la sua funzione dinamica o melodica, il concetto di sistema 'completo', la natura e il numero dei tónoi (tema di vivace controversia con i suoi predecessori), i modi in cui i tónoi sono collegati l'uno all'altro e al sistema completo o perfetto; e molti altri argomenti ancora.
La parte della sua opera che riguarda direttamente la scienza armonica si chiude con il cap. 2 del Libro III; nei due capitoli seguenti egli riflette sul più ampio significato del concetto di armonia nel Cosmo e presenta alcuni penetranti commenti circa la natura delle scienze matematiche. Nei rimanenti capitoli, applica considerazioni di natura armonica alle discussioni sull'anima umana e a un'esposizione di orientamento astrologico della struttura dei cieli e del moto delle stelle e dei pianeti. Queste parti finali sono assai meno rigorose del corpo principale dell'opera, fatto che non sembra giustificato né dal carattere problematico del tema, né dall'incompletezza del testo rimastoci. Queste ultime parti sembrano un abbozzo superficiale, come se Tolomeo si limitasse a passare in rassegna i temi di un progetto al quale non si sarebbe dedicato fino in fondo. Non bisogna, però, per questi difetti, sminuire i meriti eccezionali del trattato nel suo complesso.
Nonostante la pregevole metodologia e le conclusioni straordinariamente originali e stimolanti, o forse proprio a causa di queste, sembra che l'opera sull'armonica di Tolomeo abbia avuto poca influenza, fino all'epoca bizantina, sul lavoro degli scrittori posteriori. Il Libro I e i capitoli iniziali del Libro II furono discussi da Porfirio in un meticoloso commentario, nel quale si trovano critiche a volte acute alla logica delle argomentazioni di Tolomeo. L'obiettivo di Porfirio era mostrare, in parte per mezzo del ragionamento e in parte poggiandosi su numerose citazioni di scrittori precedenti ancora oggi preziose, che le concezioni di Tolomeo circa la relazione tra i caratteri quantitativi e quelli qualitativi dell'altezza erano errate. Il commentario si propone inoltre di mostrare che le idee di Tolomeo non sono originali e che esse sono basate in larga misura su concezioni prese a prestito, senza riconoscerlo, dai predecessori. È probabilmente vero che Tolomeo occulta la portata del suo debito nei confronti di Archita (l'unico teorico di cui parli con misurata approvazione), come è probabilmente vero che egli ha appreso molto dalla lezione di Didimo, nonostante le critiche che gli muove. Ciononostante, le insinuazioni di Porfirio riguardo a un suo plagio su larga scala sono infondate. Il resto del commentario consiste in gran parte di parafrasi degli Harmonica e non ha la pretesa di far progredire la scienza con nuovi contributi.
Altre tracce occasionali, ma poco significative dell'influenza di Tolomeo si riscontrano negli scritti di vari compilatori: il solo Boezio, l'ultimo scrittore di rilievo dell'Antichità classica, mostra di conoscere a fondo il trattato. Egli si pone il compito di registrare in latino il contenuto essenziale delle discipline che avevano costituito il nucleo dell'istruzione e del sapere greci, e il suo saggio in cinque libri sulla teoria musicale, il De institutione musica, si colloca nettamente nel solco della tradizione pitagorica. Boezio conosce l'approccio di Aristosseno, ma lo respinge. I primi tre libri consistono in una traduzione molto libera o in una vera e propria parafrasi di un lavoro perduto di Nicomaco, mentre nel Libro IV egli potrebbe aver attinto anche ad altri autori della stessa corrente di pensiero. Nel Libro V Boezio afferma di voler presentare una sintesi delle concezioni di Tolomeo, la quale copre (nella forma in cui ci è pervenuta) il contenuto dei primi 14 capitoli degli Harmonica; tuttavia è molto difficile riconoscere in essa l'originale. L'opera di Tolomeo è drasticamente semplificata, spogliata di tutti i suoi tratti caratteristici e ridotta a niente più di un saggio ortodosso di scuola pitagorica. Più in generale, benché il trattato di Boezio esponga in dettaglio alcuni perfezionamenti e particolarità della matematica pitagorica che non avremmo altrimenti conosciuto, esso lascia l'impressione che la scienza armonica abbia fatto pochi progressi dopo il IV sec. a.C.
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