Scienza greco-romana. Diofanto di Alessandria
Diofanto di Alessandria
Nel corso degli ultimi decenni la nostra conoscenza dell’opera di Diofanto di Alessandria è cambiata in maniera considerevole, tanto che il suo stesso statuto risulta profondamente trasformato. Ancora alla fine dell’Ottocento, uno dei migliori specialisti di Diofanto, Paul Tannery, scriveva che questi «a malapena può dirsi un Greco, non è possibile che non abbia subito alcuna influenza orientale; se i suoi scritti non ci fossero stati conservati nella lingua che egli parlava, nessuno potrebbe sospettare che essi siano un frutto del genio ellenico» (Diofanto di Alessandria, Opera omnia, ed. Tannery, v. I, p. 5). Questa opinione era condivisa da altri: per esempio, H. Hankel scriveva che Diofanto «non era un Greco, discendeva forse dai barbari che più tardi hanno popolato l’Europa; se i suoi lavori non fossero stati scritti in lingua greca, nessuno avrebbe pensato ad essi come a un prodotto della cultura greca» (Hankel 1874, p. 157). Per «orientale », Tannery, immerso nell’ideologia dominante del suo tempo, intende sia ‘calcolatore’ che un po’ empirico. Ciò significa che il Diofanto di Tannery è un matematico privo di genio geometrico. A seguito delle sue ricerche, l’eminente storico attenuerà, certo, questa posizione, ma ne conserverà l’essenziale. Oggi, al contrario, il nome del matematico di Alessandria è divenuto l’emblema di alcuni capitoli della ricerca avanzata nella geometria algebrica e nella teoria dei numeri – si parla così dell’analisi diofantea, della geometria diofantea, delle approssimazioni diofantee e così via. Quanto all’opera di Diofanto, per così dire, il suo volume è raddoppiato dopo la scoperta di 4 libri in greco della sua Aritmetica, che si ritenevano perduti (Rashed 1974, 1975, 1984). Altrettanto significativi sono divenuti gli sforzi volti alla comprensione dell’opera stessa. Le interpretazioni, ormai, non si arrestano più al commento logistico, sull’esempio di quelli di Tannery (1893-95) o di Vogel (1981), o algebrico, come quelli di G.H.F. Nesselmann (1842, p. 294 e segg.), G. Wertheim (1890, p. iv) e, in particolare, T. Heath (1885), ma si sono moltiplicate. Con i lavori di I. Bachmakova (1966, 1974, 1990), di A. Weil (1984) e di R. Rashed (1974, 1975, 1984, 1988), le letture del l’Aritmetica si sono diversificate e tentano di sondare la ricchezza nascosta del pensiero matematico e dei procedimenti algoritmici dell’alessandrino. In breve, che si tratti dell’opera stessa o delle sue interpretazioni, la storiografia su Diofanto ha subìto un’autentica trasformazione. Questo mutamento, allora, rende più debole l’antico discorso su Diofanto. C’è un solo punto però che, sfortunatamente, ha resistito a questo rinnovamento: la nostra conoscenza della vita del matematico rimane scarna quale era un secolo fa.
Della vita di Diofanto ignoriamo pressoché tutto; le stesse date rimangono incerte e questa situazione non ha mancato di favorire le congetture più fantasiose. Nel libro che gli è stato attribuito – Numeri poligonali – è citato Ipsicle (Diofanto, Opera omnia, ed. Tannery, v. I, p. 470, linea 27; p. 472, linea 20); d’altra parte, Teone di Alessandria cita Diofanto (ibidem, II, p. 35). Questi, dunque, è un alessandrino vissuto dopo Ipsicle e prima di Teone, cioè dopo la prima metà del II sec. a.C., e prima della seconda metà del IV sec. d.C. Le nostre certezze si fermano qui per cedere il posto a semplici congetture. Per precisare meglio le date di Diofanto sono invocate due testimonianze tarde. La prima risale a Michele Psello (1018-m. 1078 o 1096) del quale nel XIX sec. Tannery ha ricostruito e commentato un frammento, per giungere alla conclusione che Diofanto sarebbe stato un amico di un certo Anatolio, identificato – sempre da Tannery – come Anatolio di Alessandria. Si tratta di colui che nel 270 divenne vescovo di Laodicea (Siria), che lo storico Eusebio di Cesarea loda per le sue conoscenze scientifiche e di cui il matematico Giamblico ha conservato alcuni frammenti di lavori matematici. Spingendo oltre la sua congettura, Tannery, non senza una certa audacia, fa di Diofanto un matematico cristiano diretto discepolo di Dionigi, vescovo di Alessandria dal 248 al 265. La maggior parte degli storici della scienza greca, come F. Hultsch e T. Heath, non hanno accettato questa congettura. L’altra testimonianza è del bio-bibliografo del XIII sec. Abū ̕l-Faraǧ, che afferma, senza fornire le sue fonti, che Diofanto visse sotto il regno di Giuliano l’Apostata (361- 363); è però molto probabile che si tratti di una confusione tra il matematico e un retore dello stesso nome. In mancanza di nuovi argomenti decisivi, ci accontenteremo, per il momento, di ammettere che si tratta di un alessandrino, la cui vita si svolse probabilmente tra il II e il III sec., e durò 84 anni, se si deve credere a un celebre epigramma dell’Antologia palatina attribuito a Metrodoro di Bisanzio (IV sec.).
Nella letteratura storica, sono attribuiti a Diofanto diversi libri che sono suddivisi in due classi: quelli che sono pervenuti nella tradizione manoscritta greca o araba e quelli che gli storici propongono in modo congetturale. I testi Aritmetica e Numeri poligonali rientrano nella prima classe. Ma la differenza tra queste due opere – non soltanto di contenuto ma anche di stile – non può non sorprendere. In ogni caso, Tannery non ha esitato a mettere in dubbio l’attribuzione a Diofanto del libro sui numeri poligonali. Il problema rimane per lo meno aperto. La seconda classe è nata da allusioni furtive di Diofanto o di uno scoliaste. Il primo, un po’ di sfuggita, evoca dei porismi nel Libro V dell’Aritmetica e scrive nel problema 3: «abbiamo nei porismi» (échomen en toĩs Porísmasin hóti) (Diofanto di Alessandria, Opera omnia, ed. Tannery, I, p. 316, linea 6); poi ripete, con qualche variante, la stessa espressione nel problema 5 (p. 320, linea 5) e nel problema 16 (p. 358, linee 4, 5). Sono queste tre occorrenze, situate in uno stesso libro, che hanno spinto Tannery, e con lui gli altri storici, ad attribuire a Diofanto un’opera dal titolo Porismi. Meno verosimile è l’attribuzione a Diofanto di un libro – Moriastica (sulle frazioni) – a partire da uno scolio su un passaggio di Giamblico (ed. 1894, p. 11, linee 9-11; citazione riprodotta nella citata ed. di Tannery, v. II, p. 72: «Oútōs ho Dióphantos en toĩs Moriastikoĩs»). Inoltre, a partire da un altro scolio al libro di Giamblico, J. Christianidis (1991) ha congetturato l’attribuzione a Diofanto degli Elementi di aritmetica (Arithmētikḗ stoicheíōsis), che tuttavia non ci sembra giustificata (Rashed 1994). In realtà è l’Aritmetica che ha assicurato a Diofanto il suo grande destino storico. Quest’opera doveva comprendere 13 libri, secondo i termini stessi di Diofanto nella premessa al Libro I; ma, dal momento che solamente 6 libri sono stati conservati in greco, a partire dall’Ottocento alcuni storici – G.H.F. Nesselmann, H.T. Colebroke, G. Wertheim, H. Hankel, P. Tannery, C. Henry, T. Heath e altri – hanno avanzato diverse ipotesi per tentare di spiegare la perdita degli altri 7 libri, spingendosi talvolta fino a tentare di definirne il contenuto.
D’altra parte, attraverso i bio-bibliografi e i matematici arabi del X sec. era nota l’esistenza di una traduzione araba dell’Aritmetica di Qusţà ibn Lūqā di Baalbek, risalente alla seconda metà del IX secolo. Nel XIX sec. lo storico della matematica F. Woepcke osservò che al-Karaǧī – matematico di Baghdād della fine del X sec. – aveva riassunto i primi 3 libri di questa traduzione che, globalmente, corrispondevano ai primi 3 libri del testo greco pervenutoci. Nel 1971 l’autore del presente capitolo è riuscito a ritrovare a Mashad, in Iran, 4 libri della traduzione araba, tutti perduti in greco; quindi si è potuto stabilire che questi libri, numerati dal IV al VII, seguono nell’ordine i primi 3 libri del testo greco; che la versione araba consta di 7 libri; che i Libri IV, V e VI del testo greco non sono ai loro rispettivi posti e che, inoltre, potrebbero aver subito una certa manomissione (Rashed 1974; 1984, pp. LIX-LXII, nota 63). La situazione attuale dell’Aritmetica può essere globalmente rappresentata così:
Libri greci I II III IV V VI
nessuna traccia in arabo
Libri arabi I II III IV V VI VII
identici in greco e in arabo perduti in greco.
Il riassunto di al-Karaǧī non lascia alcun dubbio sui primi 3 libri dell’Aritmetica perduti in arabo, né sui problemi in essi affrontati e sul loro ordine; ma l’assenza di questi libri, unitamente a un’infelice congettura di Tannery su un ipotetico commento di Ipazia ai 6 libri attuali della versione greca, hanno avuto un effetto devastante. Alcuni storici poco familiari con le tradizioni testuali arabe si sono sentiti autorizzati ad avanzare l’ipotesi secondo cui la versione araba dell’Aritmetica non comprenderebbe che i 4 libri ritrovati; affermazione presto ritirata, non appena sono state presentate le prove della sua non veridicità. Altri hanno suggerito che la versione araba deriverebbe dal presunto commento d’Ipazia, cioè da un commento che non si sa nemmeno se sia mai esistito; dal momento però che i primi 3 libri sono comuni al greco e all’arabo, e dal momento che il Libro IV e il Libro V greci sono – come si vedrà – quelli che sollevano più problemi di autenticità, in questo modo si arriverebbe a una situazione singolare che questi stessi storici non potrebbero ammettere.
Quindi, se da un lato la scoperta di 4 libri della versione araba ha finito col far crollare tutte le interpretazioni sopra ricordate, dall’altro ha posto altre questioni: quando si sarebbero perduti gli altri 3 libri, ammesso che si siano veramente perduti? Importante per la storia di questa versione, una risposta a questa domanda avrebbe l’altro merito di porre fine a ogni speculazione sul numero dei libri che la compongono, e sui loro rapporti con i primi 3 libri greci. Questa risposta è stata offerta dalla scoperta di marginalia su un libro di al-Karaǧī che attestano l’esistenza, ancora nel XVII sec., dei primi 3 libri della versione araba dell’Aritmetica di Diofanto, ancora letti e citati in verbis (Rashed 1994); queste citazioni, anche brevi, aggiunte ad altre fatte da matematici più antichi, come al-Samaw’al (1180 ca.), confermano, salvo alcune varianti dovute alla tradizione manoscritta greca resa in arabo, l’identità delle due versioni, greca e araba. Così come si presenta adesso, l’Aritmetica comprende 10 libri invece di 6; si può quindi sostenere che consta di almeno 10 libri, dal momento che il Libro IV e il Libro V del testo greco devono essere ulteriormente esaminati, per essere sicuri che si tratti soltanto di 2 libri. In ogni caso, questi 10 libri si succedono nel seguente ordine: I, II, III, IV arabi, V arabo, VI arabo, VII arabo; IV greco, V greco e VI greco. Il Libro VI greco si concentra sui triangoli rettangoli numerici e si distingue in qualche modo dagli altri; ma l’ordine degli ultimi tre richiede ancora un esame approfondito. La storia della tradizione testuale dell’Aritmetica contiene ancora un punto decisamente oscuro: mentre Qusţà ibn Lūqā ha avuto tra le mani un manoscritto dell’opera di Diofanto trascritto necessariamente ben prima del IX sec., che comprendeva 7 libri, il manoscritto da cui derivano gli altri libri del testo greco consta di soli 6 libri, di cui solamente i primi 3 si trovano al loro posto. Quando si è prodotto questo incidente? E in quali circostanze? Non abbiamo per il momento alcun modo di saperlo; ma, in compenso, siamo certi del fatto che i libri ritrovati non modificano soltanto l’organizzazione dell’Aritmetica e la sua estensione, ma permettono anche di cogliere meglio le intenzioni di Diofanto e la sua concezione dell’aritmetica.
Qual è esattamente l’oggetto che Diofanto tratta nell’Aritmetica? Di fatto, questa domanda non ha un’unica risposta, poiché di un testo matematico sono possibili due tipi di lettura, certamente non indipendenti: una lettura matematica e una lettura storica (Rashed 1984, v. III, pp. VI-VII; cfr. Allard 1986). Secondo la prima, si tratta di seguire l’impatto dell’Aritmetica sugli effettivi lavori dei matematici nel corso dei secoli. In questo caso occorrerebbe esaminare queste letture, tra loro diverse ma produttrici di nuova matematica, e si arriverebbe così a constatare che per al-Karaǧī nel X sec., per R. Bombelli (m. 1572 ca.) nel XVI sec. e per C.-G. Bachet de Méziriac (1581-1638) un po’ più tardi – per limitarci a loro – l’Aritmetica è un libro di algebra, nel senso in cui questi matematici intendevano allora tale disciplina. Per al-Ḫāzin, sempre nel X sec., per P. de Fermat (1601-1665), sette secoli più tardi, esso è un libro di aritmetica, vale a dire un libro di teoria dei numeri, o, meglio ancora, un libro di analisi razionale diofantea. Allo stesso modo si potrebbero considerare le letture che ne hanno fatto L. Euler (1707- 1783) o G.L. Lagrange (1736-1813). È con quest’ultimo, tuttavia, che si esaurisce la lettura matematica dell’opera; da Lagrange in poi, infatti, l’Aritmetica di Diofanto non è più matematicamente attiva.
Un altro tipo di lettura, non indipendente dalle precedenti, è quella degli storici, che intendono collocare l’Aritmetica cronologicamente; le loro interpretazioni sono altrettanto numerose e, inoltre, si presentano in conflitto tra loro. Tali letture storiche delimitano un ampio spettro che va dalla logistica alla geometria algebrica, passando per la logistica teorica, l’algebra e l’aritmetica. Se per alcuni Diofanto è contemporaneo dei logisti greci, per altri sarebbe non soltanto il predecessore di Fermat, ma anche quello di D. Hilbert (1862-1943), A. Hurwitz (1859-1919) e J.-H. Poincaré (1854-1912), e sarebbe anche l’antesignano di tutti quei capitoli che portano oggi il suo nome.
Prima di esaminare le ragioni di questa molteplicità di interpretazioni dell’Aritmetica e di confrontarle tra loro, occorre descrivere l’opera di Diofanto. In due premesse – una al Libro I e una al Libro IV, secondo il nuovo ordine – la cui collocazione pone alcuni problemi, Diofanto comincia con l’esporre il suo progetto, e dalle sue parole emerge chiaramente l’intento didattico, sempre che si attribuiscano a questo termine due significati sovrapposti. Il primo e più immediato riguarda l’ordine dell’esposizione: si va dal più semplice al più complesso per condurre l’allievo per mano e consentirgli di superare gradualmente le difficoltà. Il secondo significato, più profondo, è di natura teorica: non potendo procedere in aritmetica secondo un’esposizione ‘assiomatica’, il cui modello si trova negli Elementi di Euclide, l’ordine didattico è infatti concepito in modo tale da andare dal più primitivo al più complesso, senza tuttavia fornire alcuna regola di deduzione. Ciò è tanto più importante nella misura in cui lo scopo di Diofanto è quello di costruire una teoria aritmetica – «arithmētikḗ theōría» – i cui elementi costitutivi sarebbero i numeri, considerati come molteplicità di unità, e le parti frazionarie come frazioni di grandezze. Questi elementi della teoria sono presenti non solamente come tali, ma anche come specie di numeri, e si può mostrare che quest’espressione «specie di numero» indica, senza distinzione, tanto la potenza di una molteplicità determinata quanto la potenza di una molteplicità qualsiasi, cioè provvisoriamente indeterminata (ma che sarà, alla fine della soluzione del problema, sempre determinata: si tratta del numero «non detto», «álogos arithmós»). Nella premessa del Libro I, Diofanto definisce queste potenze fino alla sesta e ne dà alcune abbreviazioni (e non, come si è sempre affermato, una rappresentazione simbolica); nel Libro IV, secondo il nuovo ordine, definisce l’ottava e la nona potenza. Egli non nomina mai la settima potenza, e la quinta non compare mai negli enunciati dei problemi dell’Aritmetica. Ciò ci riporta alla nozione, già richiamata, di ‘specie di numero’, Diofanto parla infatti di tre specie: quella del «numero lineare», quella del «numero piano» e, infine, quella del «numero solido», e soltanto a proposito di queste tre specie si riferisce alla «natura» («phýsis») dei numeri. Queste specie generano tutte le altre, le quali devono, alla fine, prendere il nome di quelle; perciò, il «quadrato-quadrato» («dynamodýnamis»), denotato ∆Y∆, è un quadrato («dýnamis»), ∆Y; il «quadrato-quadrato-quadrato» e il «quadrato-cubo-cubo» sono ugualmente dei quadrati; il «cubo-cubo-cubo » è un cubo. Detto altrimenti, le specie non possono essere generate che per ‘composizione’ e la potenza di ciascuna è necessariamente un multiplo di 2 o di 3. Si comprende, allora, l’assenza della settima potenza e come mai anche la quinta potenza non compaia negli enunciati; allo stesso modo, è evidente l’importanza di questo punto, tanto per la formulazione dei problemi quanto per la loro risoluzione.
Una volta definiti i termini della sua teoria aritmetica, Diofanto spiega le operazioni aritmetiche che si possono applicare ai numeri e alle specie. In particolare, egli insiste sulla moltiplicazione e sulla divisione e fornisce la regola dei segni, che può essere riscritta così: (-a)·(-a)=a, (-a)·(-a)=(-a). Tuttavia egli non parla mai di numeri negativi, e tutte le volte che la soluzione di un problema contiene un termine negativo, ne fa il quadrato. Con ciò stesso la composizione dell’Aritmetica è chiarita: si tratta di combinare queste specie tra loro, sotto certe restrizioni e con l’aiuto delle operazioni dell’aritmetica elementare; risolvere i problemi significa cercare di proseguire in ciascun caso «fino a che non resta una sola specie da entrambe le parti».
Data questa nozione di «specie», sarebbe inesatto parlare di polinomio e di equazione polinomiale nell’Aritmetica, nel senso in cui la intendono gli algebristi, soprattutto a partire dal X sec.; a questa limitazione se ne aggiunge poi un’altra: se infatti si esamina in maniera sistematica il testo di Diofanto, si constata che, quando parla di «soluzione», il matematico di Alessandria intende numeri determinati, o, detto altrimenti, razionali positivi. Inoltre, prima d’intraprendere la discussione, egli impone ai numeri dati e ai parametri delle condizioni supplementari in maniera tale che il problema ammetta una sola soluzione razionale: allora il problema è detto «plasmatikós», cioè «convenientemente determinato». Una tale concezione della soluzione spiega perché Diofanto non distingua mai tra problemi determinati e problemi indeterminati, e perché l’esame dei problemi impossibili non compaia mai come tale nell’Aritmetica. In effetti, nella sua opera i problemi indeterminati sono intercalati da problemi determinati e si nota l’assenza di problemi – come quello della somma di due cubi uguale a un cubo – che avrebbero dovuto trovare la loro collocazione in un’opera del genere. Se dunque Diofanto, nelle sue soluzioni, procede mediante sostituzione, eliminazione e spostamento delle specie – in breve, con l’aiuto di tecniche algebriche – l’Aritmetica non è tuttavia un trattato di algebra. Si tratta piuttosto di un libro d’aritmetica, nel dominio dei razionali positivi. È alla cornice relativamente ristretta di questo dominio che, come sembra, va attribuita la principale responsabilità dello sviluppo delle tecniche algebriche, che furono senza dubbio un prezioso aiuto per gli algebristi arabi.
La difficoltà sta nel comprendere quali siano i metodi, o, almeno, quali siano gli algoritmi applicati da Diofanto per risolvere questi problemi, cioè, in ultima analisi, i procedimenti che stanno a monte della organizzazione dell’opera e della sua struttura. Se si vuole rimanere sul terreno strettamente storico, questa difficoltà è insormontabile poiché Diofanto, almeno allo stato attuale delle nostre conoscenze, è un caso singolare, e, di fatto, nella matematica ellenistica non conosciamo alcuna influenza dell’Aritmetica. Un passaggio della Suda ha attribuito a Ipazia un commento del Canone astronomico di Diofanto, ma si sa, dopo Fabricius, che si tratta in effetti di un passaggio alterato, che conviene piuttosto attribuire a Claudio Tolomeo.
Con molta temerarietà Tannery ha modificato il testo per attribuire a Ipazia un commento di Diofanto, dando luogo a una leggenda che ha messo fuori strada molte interpretazioni. In effetti è stato necessario attendere i matematici arabi e gli inizi dell’algebra con al-Ḫwārazmī e i suoi successori, perché l’Aritmetica fosse letta e commentata; ma, per la maggior parte, questi commenti l’hanno interpretata in un senso algebrico, collocandola tra i lavori sull’analisi indeterminata. Essa, d’altra parte, impresse un notevole impulso allo sviluppo di questo settore, che allora fu indicato con un titolo proprio: «fī al-istiqrā'», cioè «analisi indeterminata», come testimoniano i lavori di al-Karaǧī e dei suoi successori.
Ora, questa interpretazione algebrica che – come s’è visto – non è fedele all’opera di Diofanto, ha fatto di quest’ultimo, per così dire, il successore di al-Ḫwārazmī, ed è in seguito sopravvissuta ai matematici arabi. È l’interpretazione che si ritrova presso gli algebristi del XVI sec. come R. Bombelli e S. Stevin, fra gli altri, e anche altrove, presso molti storici della matematica. I suoi sostenitori, al di là delle loro divergenze, concordano nel vedere nei libri di Diofanto una successione di problemi equivalenti, nella stragrande maggioranza, a equazioni (o a sistemi di equazioni) indeterminate di grado inferiore o uguale al sesto – e, dopo la versione araba, al nono – a due o più incognite, e contenenti soltanto quantità razionali. Le soluzioni di queste equazioni devono essere numeri razionali positivi, interi se possibile, sebbene non sia espressa alcuna esigenza su questo punto. L’Aritmetica, infatti, tratta soltanto numeri razionali positivi, non considera mai i numeri razionali algebrici per se stessi, non più, del resto, di quanto faccia con il criterio di razionalità in generale; se, talvolta, Diofanto esamina le condizioni di razionalità, lo fa soltanto per ricercare una soluzione razionale positiva. In definitiva, è in termini di variabili, potenze, parametri e soluzioni generali che è interpretata l’Aritmetica. Pertanto, quando Diofanto cerca di risolvere il problema «dividere un quadrato dato in due quadrati», l’algebrista traduce immediatamente: problema indeterminato di secondo grado a due variabili, equivalente all’equazione x2+y2=a2, e poiché, nel corso della risoluzione, assegna un valore particolare alla a data, ciò è visto come una rappresentazione di un parametro qualsiasi per i casi simili. Certamente questa lettura algebrica non s’inscrive in nessuna tradizione matematica greca e si potrebbe qualificare come anacronistica, ma ciò è assai meno importante del fatto che essa – come del resto la lettura precedente che si basa sulle sole nozioni dell’aritmetica greca – lascia intatta una difficoltà che è stata formulata così da Hankel:
Nel nostro autore non c’è alcuna traccia di metodi comprensivi più generali: ogni questione richiede un metodo del tutto speciale, che spesso non servirà nemmeno per i problemi più strettamente collegati. Risulta perciò difficile per un matematico moderno, anche dopo aver studiato cento soluzioni diofantee, risolvere il centunesimo problema; e se abbiamo tentato, e dopo qualche sforzo andiamo a leggere la soluzione di Diofanto, resteremo sorpresi nel vedere quanto improvvisamente egli abbandoni l’ampia strada maestra, entri precipitosamente in un sentiero laterale e con una svolta repentina raggiunga l’obiettivo; obiettivo il cui raggiungimento spesso non ci lascerebbe soddisfatti; ci aspettavamo di dover salire per un sentiero faticoso ma di essere poi ricompensati con un ampio panorama; invece la nostra guida ci conduce, attraverso vie strette, strane ma piane, a una piccola altura; egli ha terminato! (Hankel 1874, pp. 164-165)
A questo proposito si è parlato di «acrobazie algebriche». In questo caso, a essere in questione è l’unità stessa dell’Aritmetica, nonché i metodi applicati da Diofanto, e l’indeterminatezza di questi ultimi costituirebbe senza dubbio la negazione della prima. Tuttavia sembra sensato ammettere che Diofanto possedesse un numero limitato di metodi, o almeno di algoritmi, grazie ai quali poté concepire e risolvere i circa 400 problemi dell’Aritmetica. Quest’ipotesi sembra avere indotto alcuni storici a ricorrere alle nozioni e al linguaggio della geometria algebrica, non meno anacronistici di quelli dell’interpretazione algebrica che pure, fino ad allora, erano dominanti. Un conto, infatti, è ritrovare nell’Aritmetica nozioni e metodi della geometria algebrica (come si può leggere, per es., negli eccellenti lavori di I. Bachmakova e di A. Weil); tutt’altra cosa, invece, è ricorrere a queste nozioni e a questo linguaggio per individuare i metodi e gli algoritmi senza però attribuirvi i significati geometrici che hanno attualmente. Quest’ultima posizione ci sembra la più corretta, a condizione di restituire il loro più autentico significato storico a questi algoritmi. In base a tale lettura l’Aritmetica si presenterà ‘provvisoriamente’ come lo studio dei punti razionali degli insiemi algebrici irriducibili definiti sul corpo dei numeri razionali, delle superfici e delle ipersuperfici. Tuttavia, se ci si limita al solo caso delle curve, in linea di principio la ricerca nell’Aritmetica è condotta con metodi distinti secondo il genere delle curve: se la maggior parte è di genere 0, esistono tuttavia nei libri greci dell’Aritmetica curve di genere 1 e si ritrovano inoltre due curve di genere 2, una nei libri greci e l’altra nella versione araba.
Per le curve di genere 0, Diofanto determina i punti razionali mediante il «metodo della corda», sotto diverse condizioni che sarebbe troppo lungo esporre in questo articolo (Diofanto di Alessandria, Les aritmétiques, ed. Rashed, v. III, pp. 85-136); per tale motivo ci limitiamo a esporre nella Tav. I alcune considerazioni esemplificative per curve di genere 0 e anche di genere 1.
Questa succinta esposizione mostra che gli algoritmi di Diofanto sono essenzialmente varianti del metodo della corda, una volta che si siano separate le nozioni di geometria algebrica sulle quali esso è basato. Resta intatto il problema storico di sapere come Diofanto abbia potuto elaborare un tale algoritmo; peraltro sappiamo già, il che non è poco, che egli applica un numero limitato di metodi algoritmici, i quali – per di più – sono strettamente imparentati: siamo molto lontani dall’immagine di un Diofanto che procede mediante ‘acrobazie algebriche’.
Nel complesso, l’apporto dell’Aritmetica di Diofanto alla storia della matematica oltrepassa i limiti del capitolo sull’analisi indeterminata costituito dagli algebristi a partire dal X sec. ca. La traduzione araba di sette libri dell’opera, in effetti, ha rappresentato nello stesso secolo un contributo essenziale alla nascita dell’analisi diofantea nell’anello degli interi relativi, cioè nel senso in cui l’intenderanno più tardi C.-G. Bachet de Méziriac e P. de Fermat. Alcuni matematici del X sec., come al-Ḫugandê e al-Ḫāzin, sono stati condotti difatti all’analisi diofantea intera, che comporta lo studio della teoria delle terne pitagoriche, dalla rappresentazione degli interi come somme di quadrati, problema già affrontato da Diofanto; essi hanno anche studiato problemi di congruenza quadratica, hanno enunciato il teorema di Fermat per n=3 e, più tardi, per n=4, e hanno tentato di dimostrarlo, naturalmente senza successo, per il caso n=3 (Rashed 1984b, 1997, vol. II, pp. 73-85). Questi studi di teoria dei numeri sono stati proseguiti più tardi da Bachet, Fermat ed Euler; e al secondo si deve la concezione della «discesa infinita» come metodo di dimostrazione, la quale rende possibile un nuovo sviluppo dell’intera analisi diofantea. L’Aritmetica è ancora matematicamente attiva in Fermat, nel senso che è ancora letta con lo scopo di proseguire la ricerca matematica e non per scrivere la storia della disciplina. Nel momento in cui, in seguito, cesserà d’essere oggetto d’una tale lettura, l’Aritmetica non sarà tuttavia dimenticata dai matematici; non ha forse Lagrange voluto, e intrapreso, un commento dell’Aritmetica? (Rashed 1988). Ed è in questo stesso modo che Euler l’ha studiata attentamente, con la speranza di ritrovarvi l’ordine che sta a fondamento dei problemi esposti (Weil 1984, p. 181). Nel 1847, Karl Gustav Jacob Jacobi ha ancora trovato nell’Aritmetica dei problemi da risolvere matematicamente, come quello dell’impossibilità di dividere un intero della forma 4n_3 (o 4n_1) in due quadrati (Jacobi 1891, VII, pp. 332-344).
Allard 1982-83: Allard, André, La tradition du texte grec des Arithmétiques de Diophante d’Alexandrie, “Revue d’histoire des textes”, 12-13, 1982-1983, pp. 57-137.
– 1986: Allard, André - Chemla, Karine - Morelon, Régis, La tradition arabe de Diophante d’Alexandrie, “L’Antiquité classique”, 55, 1986, pp. 351-375.
Bachmakova 1966: Bachmakova, Izabella G., Diophante et Fermat, “Revue d’histoire des sciences”, 19, 1966, pp. 289-306.
– 1974: Bachmakova, Izabella G., Diophant und diophantische Gleichungen, Basel, Birkhäuser, 1974.
– 1990: Bachmakova, Izabella G., Diophantine equations and the evolution of algebra, in: Nine papers from the International congress of mathematicians, edited by Ben Silver, Providence (R.I.), American mathematical society, 1990, pp. 85-99.
Christianidis 1991: Christianidis, Jean, Un traité perdu de Diophante d’Alexandrie, “Historia mathematica”, 18, 1991, pp. 239-246.
Hankel 1874: Hankel, Hermann, Zur Geschichte der Mathematik im Altertum und Mittelalter, Leipzig, B.G. Teubner, 1874 (rist.: Hildesheim, G. Olms, 1965).
Heath 1885: Heath, Thomas L., Diophantus of Alexandria. A study in the history of Greek algebra, Cambridge, Cambridge University Press, 1885 (2. ed.: 1910) (rist.: New York, Dover Publications, 1964).
Jacobi 1891: Jacobi, Carl Gustav J., Über die Kenntnisse des Diophantus von der Zusammensetzung der Zahlen, in: Gesammelte Werke, hrsg. auf Veranlassung der königlich-preussischen Akademie der Wissenschaften, Berlin, Reimer, 1881-1891, 8 v.; v. VII, 1891, pp. 332-344.
Nesselmann 1842: Nesselmann, Georg Heinrich F., Versuch einer kritischen Geschichte der Algebra, Berlin, Reimer, 1842; pt I.: Die Algebra der Griechen.
Rashed 1974: Rashed, Roshdi, Les travaux perdus de Diophante, I, “Revue d’histoire des sciences”, 27, 1974, pp. 3-30.
– 1975: Rashed, Roshdi, Les travaux perdus de Diophante, II, “Revue d’histoire des sciences”, 28, 1975, pp. 97-122.
– 1984: Rashed, Roshdi, Entre arithmétique et algèbre. Recherches sur l’histoire des mathématiques arabes, Paris, Les Belles Lettres, 1984.
– 1988: Lagrange, lecteur de Diophante, in: Sciences à l’époque de la révolution française. Recherches historiques, édité par Roshdi Rashed, Paris, Libr. scientifique et technique A. Blanchard, 1988, pp. 39-83.
– 1994: Rashed, Roshdi, Note sur la version arabe des trois premiers livres des Arithmétiques de Diophante et sur le problème I. 39, “Historia scientiarum”, 4.1, 1994, pp. 39-46.
– 1997: Histoire des sciences arabes, sous la direction de Roshdi Rashed, Paris, Éditions du Seuil, 1997, 3 v.
– 2000: Rashed, Roshdi, Les catoptriciens grecs. I: Les miroirs ardents, Paris, Les Belles Lettres, 2000.
Tannery 1887: Tannery, Paul, La géométrie grecque. Comment son histoire nous est parvenue et ce que nous en savons, Paris, Gauthier-Villars, 1887.
Vogel 1981: Vogel, Kurt, Diophantus of Alexandria, in: Dictionary of scientific biography, edited by Charles Coulston Gillispie, New York, Scribner, 1970-1980, 16 v.; v. IV, 1971, pp. 110-119.
Weil 1984: Weil, André, Number theory. An approach through history from Hammurapi to Legendre, Boston, Birkhäuser, 1984.
Wertheim 1890: Diophantus Alexandrinus, Die Arithmetik und die Schrift über Polygonalzahlen, übersetzt und mit Anmerkungen begleitet von Gustav Wertheim, Leipzig, B.G. Teubner, 1890.