Scienza greco-romana. Epistemologia e teorie della Natura nell'eta ellenistica
Epistemologia e teorie della Natura nell'età ellenistica
Nel IV sec. a.C. Aristotele e la sua Scuola avevano elaborato un’ampia gamma di discipline scientifiche e storiche senza distinguerle compiutamente dalla ‘filosofia’ propriamente detta. Nell’età ellenistica, il cui inizio è convenzionalmente fissato nel 323 a.C. (anno della morte di Alessandro Magno), la scienza e la filosofia iniziarono invece a percorrere strade in gran parte diverse, tanto che, benché la teoria eliocentrica dell’astronomo Aristarco (310 ca.-250 ca.) fosse conosciuta dal filosofo stoico Cleante (331/330-232/231 ca.) e ne suscitasse l’indignazione, e benché lo scienziato Eratostene (276/272-196/192) si fosse formato nell’ambito dello stoicismo, i rapporti tra le due discipline erano per lo più irrilevanti. Alessandria, il nuovo grande centro culturale del mondo di lingua greca, attirava la maggior parte dei più autorevoli scienziati, che dipendevano dal mecenatismo dei Tolomei. La filosofia restava stabilmente insediata ad Atene, sua sede fin dai tempi di Socrate (470/469- 399), che rimaneva il più importante punto di riferimento per le varie scuole filosofiche. Qui nacquero e si svilupparono le due scuole più importanti dell’epoca: la Stoa, fondata da Zenone di Cizio (336/335-264/262) e il Giardino di Epicuro (341-270). Sempre ad Atene Crisippo (280 ca.-205 ca.), il più illustre successore di Zenone, sviluppò lo stoicismo trasformandolo in un vero e proprio sistema filosofico.
Accanto a queste scuole, seguitò a esercitare la sua influenza per quasi tutta l’età ellenistica (il cui termine è convenzionalmente fissato al 30 a.C., data dell’inizio dell’Impero romano) l’Accademia fondata da Platone, benché essa abbia effettivamente cessato di esistere come istituzione dopo gli anni Ottanta del I sec. a.C. L’effettiva importanza dell’Accademia nell’età ellenistica ebbe inizio negli anni Sessanta del III sec., quando, sotto la guida (268 ca.-242) dello scolarca Arcesilao di Pitane, essa passò dalla difesa della dottrina platonica alla pratica dello scetticismo dialettico, diretto contro le altre scuole. Questa ‘Nuova Accademia’, conosciuta anche come Seconda o Media Accademia, ha avuto un ruolo di primo piano in alcuni dibattiti di carattere scientifico e, fortunatamente, ci sono pervenuti gran parte degli scritti di Sesto Empirico (fine del II sec. e inizi del III), suo ultimo rappresentante, medico e tenace critico degli stoici e di altre dottrine. Tuttavia oggi sono ritenute molto più importanti le critiche scettiche dei pirronisti, il cui movimento – una rinascita delle idee di Pirrone (360 ca.-270 ca.) – si sviluppò negli ultimi decenni dell’epoca ellenistica.
La ‘fisica’ (physiché), nel significato attribuitole allora dai filosofi, era una disciplina più speculativa che empirica, il cui oggetto era lo studio della ‘Natura’ (phìsis). Quest’ultima era concepita dagli stoici come un principio universale e razionale che regolava tutti i mutamenti, e il suo studio aveva uno scopo fondamentalmente etico: consentire ai filosofi di vivere in profonda armonia con il mondo. Poiché il fine della vita era definito «vivere secondo Natura», la conoscenza della Natura era essenziale per la felicità umana.
Secondo l’analisi degli stoici, il mondo – al più basso livello, vale a dire al di sotto del piano dell’osservazione – era composto da due principî fondamentali: uno passivo, definito ‘materia’, e uno attivo, che informa e modifica il primo, chiamato ‘dio’. Il vero centro della fisica stoica era situato però al livello immediatamente superiore, dove dalla materia e dal dio prendevano forma i quattro elementi: la terra, l’acqua, l’aria e il fuoco, protagonisti dei processi osservabili nel mutamento cosmico. Terra e acqua svolgevano un ruolo fondamentalmente passivo e materiale, mentre aria e fuoco erano attivi e, separatamente o congiuntamente, costituivano lo ‘spirito vificante’ (pneũma) che informava e modellava i due elementi passivi. Così, al livello superiore, i due elementi attivi e i due passivi svolgevano un ruolo analogo a quello svolto, al livello inferiore, rispettivamente dal dio e dalla materia.
L’idea di pneũma come forza vivificante aveva le sue radici nella medicina, ma attraverso l’influenza dello stoicismo essa penetrò nel pensiero antico e nella teologia. Il ‘fuoco artefice’ (pŷr technikón), la più importante manifestazione divina di questo elemento attivo, veniva spesso identificato con la Natura, definita in diversi modi: «fuoco artefice, che procede metodicamente (odõ badízon) verso la generazione» (Diogene Laerzio, VII, 156), o «disposizione mossa da sé stessa, che in base a ragioni seminali (spermatikoì lógoi) produce e tiene insieme tutto ciò che da essa deriva in periodi di tempo determinati [...]» (ibidem, VII, 148). Queste e altre definizioni si applicavano indifferentemente alla ‘Natura universale’ e alla ‘Natura individuale’ – una coppia di concetti ideata essenzialmente per spiegare l’ideale etico espresso dalla massima «vivi secondo Natura».
Secondo gli stoici, il pneũma svolgeva un ruolo di decisiva importanza come veicolo dell’intelligenza che pervadeva e dirigeva perfettamente il Cosmo. Benché pervadesse ogni cosa, esso conosceva vari gradi di ‘tensione’, che ne determinavano tre diversi generi. Il grado meno perfetto era la ‘di sposizione’ (héxis) che dava a oggetti fisici separati una coesione in un’entità inorganica, identificabile con una qualsiasi ‘qualità’ fisica da essi posseduta. A un livello più perfetto, il pneũma diveniva la ‘Natura’ (di nuovo phìsis, ma nel senso più specifico di ‘principio di crescita’) o forza vivificante di un’entità vivente, identificabile con le sue qualità vegetative di base. Infine, al grado più perfetto, il pneũma diveniva l’‘anima’ (psychḗ), vale a dire l’insieme coerente delle proprietà vitali proprie degli organismi animali. Oltre ai singoli animali, il mondo stesso – considerato nel suo insieme come un tutto omogeneo e organico – era concepito come una creatura dotata di anima. La totale penetrazione fisica del mondo da parte del pneũma presupponeva la possibilità della compenetrazione completa di due sostanze – un’idea che gli stoici difendevano e che, in ultima istanza, si basava sull’ipotesi che i corpi (come lo spazio) fossero infinitamente divisibili. Nel pensiero stoico l’identificazione tra il mondo e la razionalità divina s’accompagnava, a prima vista in modo sorprendente, alla tesi materialista secondo la quale tutto ciò che esiste è un corpo e soltanto i corpi sono dotati del potere di interagire, che anche il pneũma divino deve possedere per poter esercitare un’efficacia causale nel mondo. Tuttavia, la fisica stoica non riduceva l’intelligenza a un semplice insieme di qualità corporee, ma sottolineava piuttosto che, oltre ai suoi irriducibili poteri vivificanti e intelligenti, il pneũma doveva essere dotato delle proprietà fisiche di tridimensionalità e di resistenza per poter effettivamente muovere gli oggetti materiali. E ciò veniva applicato anche alla maggior parte delle qualità ed entità astratte: attraverso l’impiego di uno speciale sistema di categorie, quest’ultime considerate come corpi in un certo stato. Per esempio, poiché la virtù era l’intelligenza razionale in un certo stato e l’intelligenza razionale era una parte dell’anima che, a sua volta, era una porzione del pneũma, essa era dunque un corpo. Le uniche entità incorporee nel mondo degli stoici erano il tempo, il luogo, il vuoto e il lektón; quest’ultimo termine equivale approssimativamente al significato di una proposizione o di alcune sue parti, ed è importante notare che, secondo gli stoici, la logica era un insieme di rapporti tra lektá. A queste entità era attribuito un ruolo non interattivo nel mondo, ma si riteneva che ne costituissero, in un certo senso, uno sfondo concettualmente indispensabile.
Il Cosmo degli stoici era sottoposto a cicli vitali prestabiliti culminanti in una conflagrazione cosmica (ekpýrōsis) che, come puro ‘fuoco artefice’, rappresentava il grado più alto di divinità. Da questa massa indistinta di fuoco emergeva alla fine un nuovo Cosmo, identico al precedente in ogni dettaglio: poiché infatti questo era il migliore dei mondi, ogni modificazione non poteva che peggiorarlo. Di qui aveva inizio il processo della cosmogonia, nel quale la materia di fuoco si stratificava nei quattro elementi, che già contenevano in sé i ‘principî seminali’ (spermatikoì lógoi) dai quali sarebbero nate poi tutte le forme vitali. Il mondo degli stoici, dunque, in primo luogo ripercorreva in eterno cicli identici, e in secondo luogo era completamente predeterminato. Dio, come causa immanente universale, predisponeva e imponeva provvidenzialmente ogni dettaglio, dal più importante al più insignificante.
Ma, anche a prescindere dalla provvidenza divina (prónoia), il nesso causale (heimarménē, ‘fato’) era comunque onnicomprensivo, perché negarlo equivaleva a violare la legge fondamentale secondo cui niente accade senza una causa. Le teorie causali degli stoici, che influenzarono profondamente la terminologia e la teoria causale della medicina, distinguevano molti generi di cause; tra queste la coppia più importante era quella formata dalla causa ‘primaria’ (in latino principalis ) e dalla causa ‘procatartica’: la prima era la condizione necessaria all’azione, mentre alla seconda era delegato il suo svolgimento successivo (per esempio, se un cilindro rotola lungo una superficie, la sua forma sarà la causa primaria, ma la spinta iniziale necessaria per dare inizio al processo, sarà la causa procatartica dello stesso effetto). Una coppia alternativa era quella formata dalla causa ‘completa’ o ‘autosufficiente’ (autotelḗs) e dalla causa ‘ausiliaria’ (synergón), che, sebbene non fosse necessaria all’azione della prima, ne intensificava gli effetti (così, se un cilindro rotola lungo un piano inclinato la sua forma è, in questo caso, la causa ‘completa’ del suo rotolare, visto che un corpo cilindrico rotolerà comunque lungo un piano inclinato finché non incontrerà un ostacolo; ma poiché se riceve una spinta esso rotolerà più velocemente, in questo caso la spinta sarà la causa ‘ausiliaria’ del suo rotolare).
Essendo il mondo completamente pervaso dalla razionalità divina, esso, in un certo senso, era identico a dio; così, per gli stoici, la dimostrazione dell’esistenza di dio coincideva con la dimostrazione della perfetta razionalità del mondo. Gli argomenti teologici impiegati per dimostrare questa tesi, molti dei quali ci sono pervenuti, sviluppavano soprattutto i seguenti temi: (a) secondo l’argomento ‘teleologico’, il mondo era simile a un gigantesco meccanismo e, poiché ogni meccanismo costruito dall’uomo doveva aver avuto un ideatore intelligente come, per esempio, il planetario meccanico costruito da Archimede, così a fortiori si doveva presupporre un ideatore per i meccanismi cosmici reali, di cui il planetario di Archimede non era che una semplice imitazione; (b) il mondo era evidentemente colmo di strutture utili non prodotte dagli uomini, come, per esempio, il succedersi delle stagioni, o il maiale (un deposito di cibo ambulante, provvidenzialmente creato per sopperire al bisogno umano di carne fresca); (c) il mondo era talmente bello che non poteva che essere l’opera di un artista esperto; (d ) le apparenti imperfezioni esibite dagli avversari di questa tesi teologica erano o beni mascherati (come, per es., l’esistenza delle belve feroci, che induceva gli uomini a essere più coraggiosi) o le inevitabili conseguenze delle buone strutture (come, per es., la fragilità del cranio umano); (e) era impossibile che questo mondo fosse il risultato di un semplice accidente, come sostenevano le ridicole affermazioni degli epicurei (v. oltre).
Nell’elaborare una teoria dell’inferenza scientifica, gli stoici tentarono soprattutto di conferire una struttura formale agli argomenti del genere di quelli precedentemente citati, che dovevano rivelare la natura segreta del mondo. L’ipotesi dell’intrinseca razionalità del mondo induceva a supporre che la sua struttura potesse essere resa pienamente intelligibile, una volta espressa in una catena logica di ragionamenti pertinenti. Ciò comportava la realizzazione dei seguenti compiti: in primo luogo la definizione della ‘dimostrazione’ come un tipo di argomentazione che da premesse note giunga a conclusioni prima sconosciute; in secondo luogo elaborare un’epistemologia in grado di giustificare la tesi secondo la quale le premesse di queste dimostrazioni possono essere evidenti e riconosciute; infine stabilire e giustificare la validità logica della connessione tra premesse e conclusioni. Una dimostrazione (apódeixis) era «un ragionamento che, per mezzo di premesse convenute, per via di deduzione, discopre una conclusione non manifesta » (Sesto Empirico, Pyrrhoneion hypotyposeon, II, 135- 143); la condizione secondo cui le premesse dovevano essere ‘convenute’ rifletteva la natura dialettica di tutta la logica stoica – sempre pensata in un contesto di domande e risposte e legata alle conoscenze di chi formulava le risposte. Era necessario, pertanto, che le premesse ‘convenute’ fossero ‘evidenti’ o, più correttamente, ‘preevidenti’ (già conosciute); per lo stesso motivo la conclusione non doveva essere preevidente, altri menti non sarebbe stato necessario giungervi attraverso l’argomentazione. Co sì il sillogismo stoico più noto, «se è giorno, c’è luce; ma è giorno; dunque c’è luce », benché valido, non era una dimostrazione, perché la conclusione (che c’è luce) era già preevidente nella premessa (è giorno).
Un’ulteriore condizione esigeva che l’assenso alle premesse dovesse costituire la vera ragione per il successivo assenso alla conclusione. Non era sufficiente formulare premesse idonee per giustificare retrospettivamente una conclusione già accettata per altre ragioni; Sesto Empirico, a questo proposito, cita l’esempio di un sillogismo enunciato per giustificare la fiducia in una promessa di Dio, a cui già si presta fede per motivi dipendenti dalla memoria e dall’abitudine (ibidem, 141). Al contrario, una dimostrazione scientifica doveva essere assolutamente e realmente istruttiva.
Inoltre, era necessario accertare l’esistenza di premesse preevidenti, che venivano divise in verità direttamente ed evidentemente osservabili, e in verità concettualmente evidenti in sé. Una premessa derivata dall’osservazione diretta costituiva il contenuto di una ‘rappresentazione comprensiva’ o ‘catalettica’ (phantasía katalēptikḗ); e una rappresentazione (phantasía) era uno stato di consapevolezza mentale che presentava gli oggetti in un certo modo. Si giungeva a un atto di giudizio solamente quando si sceglieva di ‘assentire’ alla rappresentazione, cioè nel momento in cui la si considerava vera. Secondo gli stoici, alcune rappresentazioni – generalmente quelle ricevute attraverso i sensi – erano innegabilmente vere, poiché caratterizzate da un genere di evidenza che in un certo senso costituiva una garanzia della loro veridicità. A meno di non essere ingannati da false opinioni concomitanti, non si poteva che concordare con queste ‘rappresentazioni mentali’, che divenivano allora la base riconosciuta e preevidente sulla quale poteva essere costruita l’inferenza scientifica (le critiche scettiche rivolte dall’Accademia alla concezione del mondo degli stoici sottolineavano proprio la debolezza del ruolo svolto in questa teoria dalle rappresentazioni che si autogarantivano, v. soprattutto Cicerone, Academica, II, 64-98). Era necessario che in una dimostrazione almeno una delle premesse avesse una forma logica complessa, che non potesse, cioè, esprimere il contenuto immediato di una rappresentazione sensibile. Si trattava in genere di condizionali. In effetti, il metodo scientifico degli stoici si articolava in gran misura in ‘segni’, ciascuno dei quali era «un enunciato, che, preantecedendo (prokathägoúmenon, un termine tecnico che probabilmente designava un antecedente vero) un vero condizionale, è discopritore di ciò che consegue» (Sesto Empirico, Pyrrhoneion hypotyposeon, II, 104). Così, la forma tipica di un’inferenza segnica – la forma consueta di una ‘dimostrazione’ stoica – era «Se p, allora q; ma p, dunque q è», dove ‘p’ era una proposizione vera preevidente che serviva a ‘discoprire’ la verità di ‘q’.
Un esempio di questi condizionali, tratto dalle argomentazioni cosmologiche degli stoici, è illustrato nell’enunciato «Se esiste qualcosa nel mondo che né l’intelligenza dell’uomo, né la sua capacità razionale, né la sua forza, né la sua potenza sono in grado di realizzare, l’artefice di tale realizzazione è certamente superiore all’uomo» (Cicerone, De natura deorum, II, 16). Premesse di questo genere ponevano la grave questione dei criteri attraverso i quali un condizionale potesse essere riconosciuto come verità preevidente; e su questo punto la logica stoica esitava tra due diversi tipi di soluzione. Alcuni stoici – probabilmente i più antichi – per stabilire la validità di un condizionale, adottavano l’assunzione verofunzionale di Filone Megarico, precursore della logica stoica (attivo nel 300 a.C. ca.) secondo cui il condizionale «se p, allora q» è vero se non ha un antecedente vero e un conseguente falso. Ma Crisippo, le cui argomentazioni logiche sarebbero divenute il modello della logica stoica successiva, propose il criterio alternativo noto come synártäsis (‘connessione’), secondo cui un condizionale è vero se la negazione del conseguente ‘contrasta’ (cioè è incompatibile) con l’antecedente.
Il primo criterio, quello verofunzionale, giustificava un’ampia gamma di condizionali per esprimere segni autentici. Un noto esempio enunciava che «se una donna ha il latte, allora ha partorito»; presumibilmente la ragione per cui questo condizionale era ritenuto vero si basava sull’osservazione che quando una donna ha il latte essa ha partorito. In altri termini, questa prima concezione stoica dei segni consentiva le inferenze a partire dai dati osservabili, incluse quelle che si basavano unicamente sulla unione ripetutamente osservata di due generi di eventi o fatti. Questi segni nella tradizione antica erano noti come segni ‘rammemorativi’ o ‘rievocativi’ (hypomnästiká); non è certo però che gli stoici abbiano adottato questa terminologia e che riconoscessero l’autenticità di questo genere di segni.
Una concezione così ampia del ‘segno’ poteva implicare che si considerassero ‘segni’ molte proposizioni la cui verità non garantiva affatto la verità del loro significato (per es., la proposizione «se questa donna ha il latte, allora essa ha partorito dei gemelli» potrebbe essere la base di un’inferenza vera, se per caso sia l’antecedente sia il conseguente fossero veri). Non è dunque sorprendente che Crisippo sostenesse che il ‘se’ doveva esprimere un legame più solido di questo. Sulla base del suo criterio della synártäsis, l’inferenza di un precedente parto a partire dall’attuale lattazione sarebbe fallace, perché non vi è un’intrinseca incompatibilità logica o concettuale tra le proposizioni «questa donna ha il latte» e «non si dà il caso che questa donna abbia partorito». Perciò, riguardo al condizionale citato «se esiste qualcosa nel mondo che né l’intelligenza dell’uomo, né la sua capacità razionale, né la sua forza, né la sua potenza sono in grado di realizzare, l’artefice di tale realizzazione è certamente superiore all’uomo », che, secondo alcune testimonianze, è stato impiegato da Crisippo, egli ha probabilmente sostenuto – benché in modo discutibile (che dire, infatti, delle tele di ragno?) – che è realmente contraddittorio affermare riguardo a qualcosa «nessun essere umano può averla fatta, ma il suo autore non è un essere più che umano». Per stabilire la validità di questi enunciati ipotetici, gli stoici adottavano abitualmente il criterio di verità definito prólēpsis (alla lettera ‘anticipazione’), termine che designava la naturale concezione generica di una cosa, basata sull’esperienza sensibile o sulle nostre innate disposizioni morali. Non essendo artificiosa e dal momento che si supponeva che fosse posseduta in uguale misura da tutti gli esseri umani, la prólēpsis poteva fornire i parametri idonei a giudicare che cosa fosse intrinsecamente necessario o possibile (per es., la prólēpsis di ‘solido’ ci informa che i liquidi non possono fluire attraverso i solidi, rendendo così possibile l’enunciato valido secondo cui «se scorrono sudori attraverso la pelle, ci sono dei pori pensabili» (Sesto Empirico, Pyrrhoneion hypotyposeon, II, 142). I segni basati su una forma così serrata di implicazione erano definiti ‘indicativi’ (endeiktiká), in contrapposizione ai segni ‘rammemorativi’. Anche su questo punto non è certo che tale distinzione fosse mai stata adottata dagli stoici; in ogni caso, un esempio chiarificante del modo in cui questa distinzione veniva spiegata (ibidem, 97-98) è il seguente. Tra le cose non evidenti, alcune sono ‘assolutamente’ (kathápax) non evidenti (per es., se il numero delle stelle sia dispari o pari), alcune sono ‘temporaneamente’ (pròs kairón) non evidenti a causa delle circostanze, e altre ancora ‘naturalmente’ (phŷsei) non evidenti (come, per es., i pori invisibili della pelle, la cui esistenza è desunta dalla traspirazione, ma non può essere osservata direttamente).
Le cose assolutamente non evidenti non possono in alcun modo essere soggetti di inferenza segnica. Le cose temporaneamente non evidenti possono essere rivelate dai segni ‘rammemorativi’ (v. sopra): se a è stato ripetutamente osservato in congiunzione a b, vedendo a ci si aspetta la presenza di b, anche nel caso in cui b non sia immediatamente evidente. Ma soltanto le cose ‘naturalmente’ non evidenti possono essere rivelate dai segni indicativi. Si definisce segno indicativo quello che «per la propria natura e costituzione segnala ciò di cui è segno; così, per esempio, i movimenti del corpo sono segni dell’anima» (ibidem, 101). Non vi è dubbio alcuno che gli stoici concentrarono la loro attenzione, nelle indagini sulla Natura, su quest’ultimo genere di segni, qualunque fosse il nome attribuito ad essi; in effetti, scoprire la causalità divina nella struttura del mondo richiede esattamente questa indagine inferenziale.
Il condizionale è lo strumento logico più efficace di queste inferenze scientifiche, ma tutta la logica stoica è orientata a svolgere la stessa funzione. Le unità di base della logica stoica sono proposizioni semplici, che sono combinate in modo da formare proposizioni complesse. Tra queste ultime si trovano non soltanto le proposizioni condizionali, ma anche le disgiunzioni (‘p oppure q’) e le congiunzioni (‘p e q’) che venivano abitualmente impiegate nella forma negativa («non tutti e due: p e non q»). Un esempio di una coppia complessa di sillogismi stoici che combina condizionali, disgiunzioni e congiunzioni negative è il seguente argomento di Crisippo, a sua volta impiegato per dimostrare l’esistenza di un particolare genere di segni, i segni divinatori:
I. a) Se gli dèi esistono e non fanno sapere in anticipo agli uomini il futuro, o non amano gli uomini, o ignorano ciò che accadrà, o ritengono che non giovi affatto agli uomini sapere il futuro, o stimano indegno della loro maestà manifestare agli uomini segni delle cose che avverranno, o nemmeno gli stessi dèi sono in grado di manifestare questi segni.
b) Ma non è vero che non ci amino (sono, infatti, benefici e amici del genere umano); né è possibile che ignorino ciò che essi stessi hanno stabilito e predisposto; né si può ammettere che non ci giovi sapere ciò che accadrà (ché, se lo sapremo saremo più prudenti); né essi ritengono che ciò non si confaccia alla loro maestà (niente è, difatti, più glorioso che fare il bene); né essi non possono prevedere il futuro.
c) Dunque, non si dà il caso che gli dèi esistano ma non manifestino segni degli eventi futuri.
d ) Ma gli dèi esistono.
e) Dunque manifestano i segni.
II. a) E non si dà il caso che se ci manifestano dei segni non ci indichino le strade della conoscenza scientifica dell’inferenza segni - ca (perché in questo caso il loro manifestarsi dèi sarebbe inutile).
b) E se ci indicano la strada, non si dà il caso che la divinazione non esista.
c) Dunque c’è la divinazione. (Cicerone, De divinatione, I, 82-83)
Questo genere di sillogismo complesso ha un ruolo centrale nella speculazione scientifica degli stoici; era dunque di primaria importanza per la logica stoica stabilire la validità formale di queste inferenze. Bisognava, prima di tutto, elencare i cinque argomenti ‘indimostrabili’, che erano considerati l’unità costitutiva irriducibile di tutti gli altri argomenti, che, a loro volta, dovevano essere dimostrati attraverso la riduzione a uno o a più indimostrabili. Per eseguire questa riduzione, venivano impiegate quattro regole, definite thémata; per comodità, nel seguente elenco di indimostrabili adottiamo l’espediente, utilizzato dagli stoici, di sostituire alle singole proposizioni i numeri ordinali:
1. Se il primo, allora il secondo. Ma il primo. Dunque il secondo.
2. Se il primo, allora il secondo. Ma non il secondo. Dunque non il primo.
3. Non entrambi, il primo e il secondo. Ma il primo. Dunque non il secondo.
4. O il primo o il secondo. Ma il primo. Dunque non il secondo.
5. O il primo o il secondo. Ma non il secondo. Dunque il primo.
Una congiunzione è considerata verofunzionale; cioè, il suo valore di verità è determinato esclusivamente dalla verità dei singoli membri; così, nella logica stoica la congiunzione negativa, enunciata al punto 3, finì per sostituire il condizionale ‘filoniano’ (v. sopra). I motivi per ricorrere a una congiunzione negativa potevano essere i più diversi: Crisippo (Cicerone, De fato, 15) pensava che essa potesse esprimere più efficacemente del condizionale una legge astrologica, come quella che enunciava «se qualcuno è nato al sorgere della Canicola [la stella Sirio della costellazione del Cane maggiore], costui non morirà in mare»; e ciò si verificava presumibilmente perché la credibilità di queste leggi si basava sulla generalizzazione empirica secondo cui nessuno nato al sorgere della Canicola muore in mare, generalizzazione che non implicava né esigeva un nesso concettuale tra i due membri del condizionale. In altri casi si poteva però giungere a una congiunzione negativa per considerazioni esclusivamente concettuali – come, per esempio, nella coppia di sillogismi complessi enunciati nel precedente punto I c.
D’altro lato, il condizionale finì in breve per essere considerato dai logici stoici non come verofunzionale: cioè la sua validità veniva determinata dal rapporto tra le proposizioni da cui era composto, indipendentemente dal loro singolo valore di verità. Ciò accadeva anche per la disgiunzione, enunciata ai punti 4 e 5; nella logica stoica, in modo inconsueto, ogni coppia disgiuntiva doveva essere necessariamente formata in modo che uno dei due membri fosse vero, e l’altro falso. E questa condizione pone il problema del modo in cui dovevano essere analizzate le disgiunzioni multiple, come quelle precedentemente citate al punto I a.
Questi schemi d’inferenza furono utilizzati dagli stoici soprattutto per sviluppare il loro programma filosofico: per dimostrare la divinità e la razionalità del mondo, il carattere onnicomprensivo del nesso causale (o fato), la natura del bene e così via. Soltanto sporadicamente sconfinarono nel territorio della scienza propriamente detta e in una di queste rare occasioni essi si scontrarono con i medici sulla questione della localizzazione dell’hēgemonikón, la ‘facoltà egemonica’ dell’anima.
Gli stoici dovettero in più occasioni subire gli attacchi dei loro più autorevoli critici contemporanei, gli scettici della Nuova Accademia, su questioni di carattere scientifico. Un’arma particolarmente insidiosa, utilizzata da questi critici, era il sorite o ‘argomento del mucchio’ (quanti chicchi sono necessari per costituire un mucchio di frumento? Non due, e neppure tre o quattro – e così via per incrementi graduali fino a giungere alla conclusione assurda che neppure diecimila chicchi costituiscono un mucchio). Gli argomenti ‘graduali’ erano impiegati per sfidare l’avversario, che doveva determinare con precisione il punto di passaggio da una qualità a quella opposta; essi erano anche utilizzati per contestare molte distinzioni che gli stoici consideravano fondamentali nella loro analisi del mondo, in particolare quella tra il divino e il non divino. Se una massa cosmica come il mare (che veniva identificato con Posidone) è divina, dovranno esserlo anche i fiumi, i ruscelli, e così via tutti i corsi d’acqua fino alle pozzanghere. Dove si situava, secondo gli stoici, la linea di demarcazione? Cicerone, a sostegno del punto di vista della Nuova Accademia, generalizza l’obiettivo di tali critiche:
La Natura è quella che non ci ha dato alcuna cognizione dei limiti e, quindi, neppure la possibilità di stabilire fin dove si può arrivare in certi argomenti, e ciò vale non soltanto nell’ambito del ‘mucchio di grano’, da cui è nato il nome ‘sorite’, ma neppure quando si pretende da noi una risposta minuziosa in qualche altro campo della realtà – se per esempio uno sia ricco o povero, famoso ovvero oscuro, se gli oggetti siano molti o pochi, grandi o piccoli, lunghi o corti – noi non abbiamo la possibilità di rispondere con certezza in merito alla quantità che si debba aggiungere o sottrarre. (Cicerone, Academica, II, 92)
In difesa dello stoicismo, Crisippo scrisse diversi libri, che sono andati tutti perduti, per tentare di risolvere il sorite; possiamo quindi ricostruire soltanto in parte le soluzioni adottate dagli stoici per definirlo. È certamente significativo che gli stoici si attenessero alla norma di riformulare le inferenze che enunciavano un sorite in modo da ridefinire la loro validità logica. Invece del condizionale, «se n sono pochi, allora n+1 sono pochi», impiegato dai loro avversari dell’Accademia, gli stoici abitualmente proponevano il ‘congiuntivo negativo’: «non entrambi (n sono pochi e n+1 non sono pochi)». Ciò ci rammenta l’insistenza di Crisippo (v. sopra) sulla necessità di riformulare in questo stesso modo le leggi astrologiche, e implica il riconoscimento da parte degli stoici che non vi fosse alcuna incompatibilità nell’affermare, per esempio, che 6 erano pochi ma 7 no. Un’inferenza possibile è che, secondo il loro punto di vista, nella natura delle cose vi sono punti che indicano il passaggio da una qualità all’altra, anche se in alcuni casi è al di là delle capacità umane riuscire a identificarli. Quest’ultima ipotesi, a sua volta, potrebbe spiegare la tattica consigliata, secondo alcune testimonianze, da Crisippo, che consisteva nel rifiutarsi di rispondere a ogni ulteriore domanda, una volta che il sorite avesse raggiunto i casi marginali.
Per quanto riguarda la concezione stoica della scienza, il termine fondamentale è téchnē, che designa la ‘conoscenza acquisita’ o ‘abilità’. Quest’ultima è lo stato mentale dell’esperto, ossia «uno stato (héxis) che procede metodicamente con le rappresentazioni». La singolare associazione ‘con le rappresentazioni’ veniva operata, come si è detto, per distinguere la capacità umana dalla Natura stessa, che è anch’essa uno stato – del mondo – che procede metodicamente, ma senza le ‘rappresentazioni’ (soprattutto sensibili), che caratterizzano l’intelligenza umana. D’altro lato, una conoscenza acquisita è un corpo di cognizioni, potenzialmente condiviso tra molti individui esperti, definito come un complesso organico di cognizioni unificate dalla pratica per il conseguimento di scopi utili per la vita. Rispetto alla semplice conoscenza acquisita, che ogni persona può possedere in misura minore o maggiore, la scienza propriamente intesa (epistḗmē) si differenzia in quanto è la perfetta comprensione di un soggetto che si riscontra solamente nei saggi (un insieme di persone quasi vuoto, come gli stoici erano costretti ad ammettere, più importante per loro come paradigma che come realtà). Soltanto i saggi posseggono la scienza, perché soltanto loro sono in possesso di un insieme completo di cognizioni che si sostengono reciprocamente e che congiuntamente precludono la possibilità dell’errore.
La condizione che una scienza – che si trattasse di una conoscenza acquisita o di una ‘scienza’ nel significato più rigoroso del termine – dovesse servire al conseguimento «di scopi utili per la vita» era fondamentale per lo stoicismo, per il quale non si davano assolutamente scienze ‘pure’. Le conoscenze acquisite giudicate essenziali alla filosofia, che includevano le scienze fisiche e dialettiche, venivano in realtà valutate in base al loro contributo a una vita felice; e la scienza più importante era la virtù morale, concepita come un insieme di capacità basate su teoremi, regole e altri principî non meno, per esempio, della medicina o dell’astrologia. In ciò echeggiava la tesi di Socrate secondo cui la virtù era ‘scienza’ (epistḗmē); diversamente dalla medicina e dall’astrologia, tuttavia, la virtù era esclusivamente una ‘scienza’ nel significato più rigoroso del termine, e non una semplice conoscenza acquisita. Si poteva essere più o meno competenti in medicina o in astrologia, ma non nelle virtù morali: secondo l’analisi stoica, chiunque fosse peggiore di un altro in rettitudine e in coraggio non era in alcun modo giusto e coraggioso, ma, al contrario, ingiusto e codardo.
Il rifiuto delle scienze pure può spiegare la sorprendente mancanza di attenzione da parte degli stoici per la matematica. Il loro iniziale interesse per la geometria, per esempio, sembra essersi esaurito nel risolvere i problemi del continuo, difendendo, contro le critiche di Zenone di Elea e degli epicurei, la coerenza matematica dell’infinita divisibilità delle grandezze (Plutarco, De communibus notitiis contra Stoicos, 1078 e - 1080 e; Sesto Empirico, Adversus mathematicos, X, 121-126; 139-142). Soltanto successivamente, con Posidonio (v. oltre), le scienze matematiche furono reintegrate nel programma filosofico stoico.
3. L’epicureismo
Epicuro pose le fondamenta di una filosofia che avrebbe esercitato la sua influenza nel mondo greco-romano per oltre cinque secoli. Essa nacque nell’ambito dell’antica tradizione atomistica, il cui più importante rappresentante era stato Democrito (attivo dalla metà alla fine del V sec. a.C.), ma modificò un certo numero di significative caratteristiche di questo sistema filosofico. Contrariamente a quanto è accaduto per le opere di Democrito, alcuni testi di fisica epicurea ci sono pervenuti completi, e ci consentono di ricostruire nei dettagli i principî e la pratica del metodo scientifico di Epicuro. È il caso delle due epitomi di fisica – la Lettera a Erodoto e la Lettera a Pitocle – e dello straordinario poema di Lucrezio (I sec. a.C.), De rerum natura.
La fisica epicurea analizza il mondo fino ai suoi componenti primitivi e, a partire da una combinazione di premesse empiriche evidenti e di intuizioni primarie, sostiene che: (1) il mondo ha delle entità costitutive eterne; (2) niente esiste al di là dei corpi e dello spazio; (3) lo spazio è – per sua propria natura – puro vuoto, anche se talvolta alcune sue parti sono occupate dai corpi; (4) si deve supporre l’esistenza di componenti invisibili dei corpi, non compenetrati dal vuoto, che sono assolutamente uniformi e indivisibili, cioè ‘atomi’ (átomos da témnō più alfa privativo, letteralmente ‘non tagliato’); (5) questi atomi, un numero infinito dei quali si muove incessantemente nello spazio infinito, aggregandosi tra loro possono aver creato sia il nostro mondo sia infiniti altri mondi e tutto ciò che fa parte di questi ultimi, inclusa l’anima e tutte le proprietà mentali e fenomeniche. In un mondo che non conosceva il microscopio, il postulato che affermava l’esistenza di un intero mondo al di là della soglia della percezione sensibile indusse l’atomismo a sviluppare una base metodologica estremamente articolata. Inoltre, la prospettiva scientifica dell’epicureismo fu caratterizzata dalla decisione di escludere dal mondo la causalità divina e di ricercare spiegazioni naturalistiche per tutti i fenomeni. Fra le più importanti innovazioni introdotte dagli epicurei nel vecchio atomismo di Democrito, in primo luogo va ricordato che, mentre Democrito non aveva chiarito se gli atomi fossero composti da parti matematicamente distinguibili, i testi di Epicuro sono molto espliciti su questo punto. Gli atomi, che hanno forme e dimensioni differenti, sono le più piccole unità in cui possono essere effettivamente scomposti i corpi; ma un atomo, a sua volta, è riducibile a un numero finito di piccole unità, ognuna delle quali è matematicamente la grandezza assoluta più piccola, nota come il «minimo nell’atomo». L’esigenza di presupporre l’esistenza di questa grandezza minima – e cioè di sottolineare che le grandezze sono divisibili soltanto in un numero finito di parti – nasceva dal famoso paradosso di Zenone di Elea secondo il quale, in un continuo infinitamente divisibile ogni grandezza, per quanto piccola, sarebbe composta da infinite parti, e di conseguenza sarebbe impossibile attraversarla in un tempo finito, oppure considerare finita la grandezza in quanto tale.
In secondo luogo, Epicuro pensava che le rigide leggi causali dell’atomismo di Democrito – secondo le quali ciascun moto di ogni atomo è determinato dalle sue proprietà fisiche, dalla sua attuale traiettoria, e dalle collisioni che inevitabilmente tutto ciò produce – riducessero la mente umana a un semplice automa, e che ciò fosse incompatibile con l’effettiva esistenza della nostra autonomia razionale e con la nostra libertà morale. Egli dunque concludeva che si dovesse presumere l’esistenza di un minimo grado di indeterminazione nel moto degli atomi, definito parénklisis (‘declinazione’ o ‘deviazione’, il clinamen dei latini), grazie alla quale essi potessero imprevedibilmente deviare dalla loro traiettoria verso un percorso adiacente. Si riteneva che l’ipotesi della deviazione degli atomi fosse necessaria a rendere compatibile l’atomismo con i fatti dell’esperienza umana e che, allo stesso tempo, non fosse in contrasto con l’ordine del mondo naturale, dato che una minima deviazione non sarebbe stata sufficiente a provocare un caos macroscopico.
In terzo luogo, si riteneva che tutti gli atomi si muovessero eternamente alla stessa velocità, dal momento che il vuoto non offriva loro resistenza. Le variazioni macroscopiche nella velocità degli oggetti in movimento erano provocate dalla densità relativa del mezzo, dell’acqua o dell’aria per esempio, essendo la densità del vuoto uguale a zero. Nello spazio intercosmico, gli atomi si muovevano cadendo verticalmente, in virtù del loro peso, verso il basso (il movimento ‘verso il basso’ era la direzione universale, mentre gli stoici e altri filosofi ritenevano che la direzione universale fosse quella relativa al centro del mondo). Quando un grande numero di atomi entrava in collisione (a causa di deviazioni imprevedibili, dato che essi cadevano parallelamente) formando aggregazioni complesse come il nostro mondo, essi continuavano a muoversi alla stessa velocità nel vuoto, ma secondo traiettorie complesse che determinavano una serie di collisioni che si ripetevano regolarmente.
In quarto e ultimo luogo, Democrito era giunto alla conclusione che le qualità fenomeniche, come per esempio il colore, non appartenessero alla natura oggettiva delle cose, ma che fossero semplici rappresentazioni prodotte dall’interazione tra le strutture atomiche e i nostri organi sensoriali. Epicuro concordava con Democrito nel ritenere che gli atomi non avessero colore, profumo, ecc., ma sosteneva che tali proprietà fossero effettivamente reali, quantunque a un diverso livello della realtà. Così, mentre le scoperte di Democrito lo avevano indotto allo scetticismo riguardo alla possibilità di fare assegnamento sui sensi, Epicuro riuscì a dimostrare che i dati che derivano dai sensi ci offrono l’accesso a un certo genere di realtà, dalla quale possiamo prudentemente procedere alla deduzione della natura dei componenti invisibili del mondo fenomenico. Ciò costituiva il fondamento del suo metodo scientifico.
Ma Epicuro non si limitò ad asserire, genericamente, che i sensi costituiscono una base attendibile su cui costruire l’inferenza scientifica. La sua controversa massima, riguardo a quest’argomento, è che «tutte le sensazioni sono vere»: non esistono assolutamente sensazioni illusorie. Il metodo scientifico deduttivo non deve stabilire quali dati sensibili siano da accettare e quali da rifiutare, ma piuttosto determinare ciò che si può legittimamente dedurre a partire da essi in ciascun caso. Al limite, persino le sensazioni subite nei sogni possono essere considerate ‘vere’, anche se, naturalmente, ciò che può essere dedotto a partire da esse riguardo al mondo esterno è rigorosamente limitato. Si considerano vere le sensazioni che derivano dal contenuto della rappresentazione primaria dell’esperienza sensibile (per es., la percezione di una macchia di colore rossa e rotonda), e non il giudizio basato su di esse (per es., che il Sole sta tramontando). Il modo a noi più congeniale per comprendere la ‘verità’ di queste sensazioni in ambito attuale è quello dell’analogia fotografica; una fotografia, infatti, può non corrispondere alla forma o ad altre caratteristiche dell’oggetto rappresentato, ma sarà comunque considerata ‘vera’ perché è una registrazione oggettiva della figura formata dalle onde luminose che arrivano all’obiettivo della macchina fotografica. Così, la fotografia è una testimonianza autentica dell’oggetto esterno ed è, entro i propri limiti, veridica; se essa c’inganna, ciò accade a causa delle deduzioni erronee che sono tratte a partire da essa, ma di per sé la macchina fotografica non mente. Ugualmente è importante capire che, nella teoria di Epicuro, la ‘verità’ in questione è rappresentativa e non proposizionale.
Tutte le sensazioni sono spiegate con l’intervento esterno della materia atomica (analogo a quello delle onde di luce nel paragone con la fotografia). Nella visione, il caso paradigmatico della sensazione, la materia atomica giunge sotto forma di flussi di ‘immagini’ (in greco eídōla, in latino simulacra), che sono i flussi degli atomi superficiali dei corpi incessantemente liberati ad alta velocità in tutte le direzioni; questi atomi, giungendo agli occhi, producono la visione. Inoltre, nel caso di visualizzazioni mentali – come quelle dei sogni e dell’immaginazione – le più sottili tra loro entrano direttamente nell’anima attraverso i ‘pori’ del corpo. La ‘verità’ delle nostre impressioni visive è vera, come sempre nel pensiero greco, relativamente al mondo esterno; tuttavia, essa è considerata una testimonianza veridica, non delle proprietà dell’oggetto percepito attraverso la vista, ma dello stato delle immagini che provengono da esso nel momento in cui giungono all’occhio. Ciò prende in considerazione la distorsione delle immagini provocata dalla distanza percorsa e dalla densità del mezzo che devono attraversare, senza però diminuire la veridicità dell’impressione visiva. Se vediamo in lontananza una forma indistinta, o un remo che, immerso nell’acqua, sembra piegarsi, stiamo semplicemente registrando le immagini nel modo in cui esse giungono ai nostri occhi. In effetti, come ha affermato Epicuro (Sesto Empirico, Adversus mathematicos, VII, 208), è inammissibile sostenere che una visione è vera soltanto se registra gli oggetti come essi sono effettivamente, così come lo è pretendere che ascoltiamo correttamente qualcuno che parla solamente se udiamo il suono della sua voce come esso è all’interno della laringe!
Ma anche tenendo conto di questa concezione abbastanza plausibile della percezione ‘vera’, come poteva Epicuro essere certo che non esistessero sensazioni false, che semplicemente non corrispondevano a nessun oggetto esterno o che non rappresentavano correttamente le immagini da cui derivavano? Egli anticipò questa critica impiegando alcuni argomenti esclusivamente aprioristici a favore della verità di tutte le sensazioni. L’affermazione che tutte le sensazioni sono vere, infatti, è dimostrata escludendo le due seguenti possibilità alternative: (1) che tutte le sensazioni siano false; (2) che alcune sensazioni siano vere e altre false. La prima possibilità è esclusa perché ci impedirebbe del tutto l’accesso alla verità, privandoci inoltre del sostegno della ragione, che è impotente senza il supporto delle informazioni dei sensi. In questo modo si perviene a un assoluto scetticismo, a una posizione che si nega da sé: non soltanto si dimostra non valida nella pratica, ma non può neppure essere coerentemente enunciata, poiché chi la propone deve rinunciare a ogni pretesa di comprendere le fondamentali nozioni conoscitive relative al vero e al falso, al certo e all’incerto. Allo stesso modo è rifiutata anche la seconda possibilità perché implica l’assoluta arbitrarietà di ogni tentativo di distinguere le false sensazioni dalle vere. Come si può rifiutare una sensazione? Solamente attraverso i sensi, su cui si basa ogni processo argomentativo. Ma una sensazione non può indurre il rifiuto di un’altra sensazione, perché quando due sensazioni entrano in conflitto è completamente vano tentare di discernere quale delle due sia vera e quale falsa. Inoltre, un’ulteriore riflessione ci mostra che le sensazioni non entrano mai in conflitto tra loro: nessun senso è mai in disaccordo con un altro, poiché ciascuno di essi testimonia di un suo oggetto particolare che non condivide con gli altri. L’udito non può mettere in dubbio le testimonianze della vista sul colore, o la vista mettere in dubbio le testimonianze dell’udito sui suoni. Persino un oggetto così ‘comune’ della percezione come la forma non può rappresenta - re, a rigore di termini, una materia di disaccordo tra i sensi, poiché la vista rende percettibile la forma di una macchia di colore, il tatto la forma di un corpo solido, e nella maggior parte delle situazioni non vi è ragione che queste debbano essere identiche. Persino sensazioni distinte provenienti da un singolo organo di senso non possono essere in disaccordo, poiché possiedono tutte in partenza la stessa validità nel riportare i dati relativi ai loro rispettivi oggetti immediati.
Quindi la falsità non è una peculiarità delle impressioni sensoriali – essa compare soltanto al livello della «opinione aggiunta» (tò prosdoxazómenon) – per mezzo della quale l’osservatore interpreta i dati primari in suo possesso. Tuttavia, uno dei rischi a cui andava incontro un empirista epicureo, era, come avverte Lucrezio (IV, 467-468), quello di non riu - scire facilmente a distinguere una semplice impressione dei sensi da un’impressione già interpretata dal pensiero. Ciò che si ritiene oggettivamente evidente potrebbe in effetti contenere già una componente di giudizio, e in questo senso il primo compito dell’empirista nella costruzione dell’inferenza scientifica era quello di decidere quali fossero i dati garantiti dalla percezione sensibile.
Ma se rivolgiamo la nostra attenzione a ciò che resta della teoria e della pratica epicurea dell’inferenza scientifica, vengono alla luce importanti problemi irrisolti. Come si è detto, tutte le inferenze devono essere costruite a partire da ciò che è oggettivamente evidente attraverso la percezione, e i primi esempi citati da Epicuro di tali premesse includono le seguenti asserzioni: (1) i corpi esistono e (2) essi si muovono. Ora, la tesi (1) sembra indiscutibile, poiché un corpo è l’oggetto immediato e particolare del senso del tatto; ma la (2), che i corpi si muovono, non sembra un dato diretto di nessun senso. Epicuro, forse, avrebbe dovuto ammettere che questa è un’inferenza dedotta dalla constatazione di una discontinuità tra sensazioni successive; inoltre, come sottolinea eloquentemente Lucrezio (nel Libro IV), sia nella veglia sia nei sogni vi sono molte illusioni nelle quali le cose sembrano essere in movimento mentre in realtà non lo sono. Le inferenze scientifiche epicuree, dunque, erano frequentemente basate su dati empirici sul mondo rappresentati non dai contenuti delle sensazioni in quanto tali, ma dalle interpretazioni di questi contenuti (che le cose si muovono, che gli oggetti sferici si muovono più facilmente di quelli frastagliati, che tutti i corpi composti sono scomponibili, che gli oggetti che cadono seguono traiettorie parallele e così via). Questi, in via di principio, sono giudizi soggetti a cadere in errore e, dal momento che gli epicurei li consideravano verità empiriche certe, dobbiamo presumere che avessero acquisito questo rango attraverso valutazioni razionali, sperimentazioni, generalizzazioni, ecc. La tesi secondo cui tutte le sensazioni sono vere non giustifica di per sé queste premesse empiriche; piuttosto essa serve a riaffermare, nei confronti della sfida degli scettici, che possiamo disporre di criteri necessari a confermare la loro veridicità.
Partendo da queste premesse, fondate su una solida base empirica, la fisica epicurea costruiva numerose inferenze per dimostrare conclusioni ‘non evidenti’. Tutte le inferenze segniche (sēmeiḗseis) partono dall’evidente per giungere al non evidente (v. sopra, sugli stoici). Quelle dal visibile all’invisibile (a) sono spesso causali (c), come le inferenze che partono da un effetto evidente per giungere alla sua causa invisibile: per esempio le inferenze che dall’osservazione della regolarità dei processi naturali dimostrano l’esistenza di elementi primari immutabili (Lucrezio, I, 149-264) o che dall’evidenza dell’autonomia psicologica dell’essere umano deducono l’esistenza dell’indeterminazione (la ‘declinazione’) del moto dei nostri componenti atomici. La nozione di ‘causa’ non è esplicitamente teorizzata nei testi epicurei che ci sono pervenuti e le cause atomiche dei fenomeni ‘macroscopici’ sono probabilmente identificate in alcuni casi con le condizioni necessarie e in altri con le condizioni sufficienti alla produzione di tali fenomeni. Nella metodologia epicurea sono più importanti le inferenze analogiche (d ), che si basano sull’evidente per dimostrare l’invisibile. Un caso elementare è quello della determinazione delle forme atomiche: se la forma degli atomi da cui sono composti i liquidi è considerata levigata, mentre quella degli atomi che costituiscono le sostanze viscose è considerata ruvida e irregolare, ciò si deve soltanto alle inferenze analogiche basate sull’osservazione a livello fenomenico del comportamento degli oggetti che presentano rispettivamente queste forme. Un altro esempio, più complesso e impegnativo, del punto (d ) è l’argomento analogico a sostegno della tesi che afferma l’esistenza di una grandezza minima (v. sopra). Aristotele aveva esposto il problema secondo cui le grandezze minime e perciò prive di parti, se esistevano, non potevano essere adiacenti l’una all’altra, come avrebbero dovuto necessariamente essere per formare grandezze maggiori; esse non potevano congiungersi né attraverso le loro parti (poiché non avevano parti) né per intero (altrimenti sarebbero state coestensive e non adiacenti). La soluzione di Epicuro (Ad Herodotum epistula, 58-59) si basa sull’osservazione di un fenomeno analogo, il «minimo concepito dai nostri sensi», vale a dire la più piccola grandezza osservabile: ogni grandezza visibile può essere scomposta in una serie di parti minime visibili, e queste ultime saranno viste in una sequenza ordinata in modo che i suoi singoli membri non si tocchino né con le loro parti (poiché non hanno parti visibili) né con l’intera figura. Questo modello di adiacenza superava il dilemma di Aristotele e risolveva il problema di stabilire un contatto tra le parti minime ‘subatomiche’. L’analogia non dimostra l’esistenza di grandezze minime assolute – stabilita precedentemente, su basi esclusivamente teoriche, rinviando al paradosso di Zenone sull’infinita divisibilità – ma conferma che queste parti minime possono essere suscettibili di giustapposizione per costituire grandezze maggiori, con buona pace di Aristotele.
In entrambi gli esempi sopra citati, quindi, l’inferenza analogica dal visibile all’invisibile è efficacemente impiegata per svelare la natura delle strutture atomiche e sub-atomi- che. In altri contesti, è ugualmente importante l’inferenza (b) basata su verità macroscopiche non direttamente indagabili. Sia le inferenze induttive (e), sia le inferenze riguardo al passato e al futuro (h), si ritrovano continuamente nei testi epicurei, benché non siano discusse teoricamente da nessun successore di Epicuro, con l’eccezione della difesa dell’analogia sostenuta da Filodemo (v. oltre). Tra le numerose induzioni degli epicurei figurano le generalizzazioni secondo cui tutti i corpi composti sono scomponibili e che i corpi che non incontrano una resistenza si muovono spontaneamente verso il basso. È probabile che Epicuro raggruppasse questo tipo di generalizzazioni nella categoria definita ‘attestazione’ (epimartýrēsis), il cui significato è che esse possono ricevere una conferma positiva, in antitesi a ‘non controattestazione’ (ouk antimartýrēsis), cui si ricorre per spiegazioni relative a ciò che si trova al di fuori della sfera dell’esperienza diretta (v. oltre). Per quanto riguarda le inferenze che partono dal presente per giungere al passato o al futuro, esse possono essere causali (da effetti attuali a cause passate, o da cause attuali a effetti futuri) oppure analogiche (per es., dalla generazione biologica qual è attualmente, alle origini della vita, o dalla scomponibilità di tutti gli attuali corpi composti alla futura distruzione del mondo).
La specifica importanza delle inferenze relative al passato si deve all’impegno con cui gli epicurei combattevano l’interpretazione teleologica: se l’origine del mondo e di istituzioni umane quali il linguaggio e le leggi non è un risultato della benevolenza divina, la possibilità che essi abbiano avuto origine da una successione di eventi fortuiti deve essere dimostrata a partire dai dati attualmente disponibili. Tuttavia, ancora una volta queste categorie di inferenze, benché largamente impiegate, non sono esplicitamente di scusse nei testi epicurei che ci sono pervenuti. L’unica categoria di inferenze a essere ampiamente spiegata e sostenuta teoricamente è quella che da processi familiari e naturali dimostra l’esistenza di analoghi processi in altre regioni del mondo, inaccessibili a un’indagine diretta ( g). I fenomeni da spiegare, noti collettivamente come tà metéōra (‘le cose che stanno in alto’), sono soprattutto i moti dei corpi celesti, ma anche fenomeni atmosferici come il tuono e il fulmine, e perfino fenomeni terrestri come il terremoto, i vulcani e le rocce magnetiche. Erano enigmi a cui i fisici greci tentavano tradizionalmente di dare una soluzione, ma la loro specifica importanza nel pensiero di Epicuro si deve alla circostanza che, più di qualsiasi altro argomento, essi erano comunemente considerati (persino da molti filosofi) come la prova certa dell’intervento divino nel mondo. Epicuro intendeva invece dimostrare che tutti questi fenomeni possono essere spiegati, in via di principio, per mezzo di leggi naturali. La conclusione che essi non fossero effettivamente di origine divina si basava su argomenti diversi, in particolare su quello secondo cui il governo del mondo è incompatibile con la natura beata della vera divinità. Ma quest’argomento è inefficace se non si può dimostrare almeno la possibilità di una spiegazione di origine non divina; a questo proposito fa la sua comparsa una delle più importanti caratteristiche della metodologia epicurea: il principio della citata ‘non controattestazione’. L’intuizione iniziale di Epicuro è che le teorie che spiegano i fenomeni inaccessibili a un controllo sensibile non possano essere dimostrate direttamente attraverso mezzi empirici, cosicché l’impossibilità di trovare una controprova sarà il migliore, se non l’unico, metodo per confermarle. I predecessori di Epicuro, in modo particolare i cosiddetti physiológoi (VI-V sec.), avevano avanzato numerose spiegazioni fisiche dei fenomeni in questione ed Epicuro constata che, sottoposte a un esame, quasi tutte queste spiegazioni si dimostrano coerenti con i fenomeni conosciuti e verificabili. Per esempio, rispetto alla domanda ‘che cosa provoca i fulmini?’ Epicuro riassume le diverse possibilità come segue:
Il fulmine può verificarsi (a) per il raccogliersi insieme di un gran numero di venti, e il loro ruotare vorticosamente e infiammarsi, così che una parte di essi erompa e cada con violenza verso il basso, tale erompere essendo causato dalla maggiore densità dei luoghi circostanti per l’ammassarsi delle nuvole. Anche (b) può avvenire per via del fuoco roteante che cade, così come può avvenire anche il tuono, quando questo sia sovrabbondante e infiammato in modo particolarmente violento, sì da rompere la nube per il suo non potersi ritirare nei luoghi circostanti, data la forte pressione delle nuvole le une contro le altre. Si può supporre (c) che anche in molti altri modi possa prodursi il fulmine. Si rifugga dal mito, semplicemente, il che potremo fare soltanto se sapremo compiere inferenze segniche seguendo bene i dati dell’esperienza, per spiegarci le cose che sfuggono ai nostri sensi. (Ad Pythoclem epistula, 103-104)
Questo elenco di spiegazioni era stato esplicitamente compilato da Epicuro come aiuto per la memoria dei lettori che conoscevano già una trattazione più esauriente (andata purtroppo perduta) della sua fisica. Dalla spiegazione di Lucrezio (VI, 219-422), più lunga, e in parte differente, si può però scoprire qualcosa riguardo alle cose ‘evidenti’ su cui potevano essere costruite le inferenze segniche; per esempio, l’affermazione che il vento può produrre il fuoco, come è detto al punto (a), è confermata dal fenomeno familiare di un proiettile di piombo, che si riscalda a causa dell’attrito con l’aria, e dal fenomeno delle scintille sprigionate dalla pietra e dal ferro (VI, 300-322). Ugualmente, è chiaro dai termini usati da Epicuro per enunciare il punto (b) che egli aveva presente la ventilazione delle fiamme in una fornace. Così, a proposito del rifiuto della spiegazione mitologica, contenuto nella conclusione del brano citato, Lucrezio indica quali fossero le considerazioni che Epicuro aveva in mente affermando che i fulmini non potevano realmente essere manifestazioni della collera degli dèi, poiché, se così fosse stato, essi non li avrebbero scagliati in modo indiscriminato, sprecandone molti in luoghi disabitati e colpendo talvolta i templi a loro dedicati (VI, 379-422).
Queste molteplici spiegazioni possono dare l’impressione di essere possibilità alternative e che, di conseguenza, soltanto una di esse possa essere effettivamente vera. Tuttavia, Epicuro si dimostra in più occasioni piuttosto esplicito nell’affermare che il metodo impiegato in questi casi stabilisce delle verità, non soltanto delle possibilità, e Lucrezio precisa che le diverse spiegazioni del fulmine non si escludono reciprocamente. Epicuro, spiegando un certo ‘tipo’ di fenomeno, non ha motivo di escludere la possibilità che vi siano cause differenti in occasioni differenti; ciò è però meno plausibile per fenomeni specifici come, per esempio, l’orbita del Sole o le fasi lunari. In questi casi egli ricorre alla seguente posizione difensiva (Lucrezio, V, 526-533): l’Universo è infinito e contiene un numero illimitato di altri mondi; quindi ogni processo causale che sia stato dimostrato come intrinsecamente possibile deve effettivamente verificarsi in qualche luogo dell’Universo. Che tutte le cause di un fenomeno, o molte di esse, agiscano nel nostro mondo, o che soltanto una agisca qui ma altre altrove, diviene così una questione marginale.
Tralasciando i fenomeni celesti, nella fisica vi sono indubbiamente casi in cui Epicuro considera vera nella sua totalità una pluralità di spiegazioni, tutte «non contestate dai fenomeni ». Un chiaro esempio è quello delle cause dei ‘simulacri’ (eídüla) che danno origine alla visione e all’immaginazione, a proposito dei quali afferma infatti che questi sono prodotti in molti modi, nessuno «controattestato dai sensi»: essi si generano non soltanto (1) distaccandosi dai corpi, ma anche, per esempio, (2) formandosi spontaneamente tra cielo e terra (Ad Herodotum epistula, 48). Lucrezio spiega, nel Libro IV, che in questi due esempi il principio di non ‘controattestazione’ si riscontra parzialmente (1) nelle analogie dei serpenti, dei vitelli appena nati, ecc., da cui si stacca una membrana e (2) nel fenomeno degli addensamenti spontanei di nuvole che formano figure mostruose. In questo caso, l’esistenza di analogie familiari per due o più spiegazioni ipotetiche dello stesso soggetto è sufficiente a confermare non soltanto la possibilità ma anche la veridicità di tutte le spiegazioni.
Quest’ultimo esempio ci ha riportato indietro, dalle inferenze da fenomeni macroscopici vicini a fenomeni macroscopici che hanno luogo altrove alle inferenze analogiche, da realtà visibili a realtà invisibili. Anche qui, così come nello studio dei fenomeni celesti, Epicuro dichiara che il principio di non controattestazione – o di ‘coerenza’ con le cose evidenti – sarà il suo metodo fondamentale di dimostrazione. Tuttavia è raro che nella fisica atomistica sia accettata una molteplicità di spiegazioni, come nel caso sopra menzionato delle spiegazioni della formazione dei simulacri. Per quanto riguarda la discussione delle questioni fondamentali della fisica, quali quelle relative alla struttura degli elementi costitutivi, Epicuro afferma infatti come fatto molto frequente che soltanto una soluzione sia in accordo con l’intera gamma dei fenomeni (Ad Pythoclem epistula, 86). Tutte le teorie alternative, come quella dei quattro elementi parzialmente adottata dagli stoici, in un modo o nell’altro si dimostrano in contrasto con i fenomeni. Il principio di non controattestazione poteva dunque essere invocato a discrezione per stabilire una singola ed esclusiva verità.
Le caratteristiche principali del metodo scientifico di Epicuro finora evidenziate sono l’enunciazione di dati empirici dimostrati come basi per la costruzione di un’inferenza e l’uso di un’ampia gamma di processi inferenziali, il più importante dei quali è quello dell’analogia. Ne vanno però ricordate altre. Oltre all’accordo con i fenomeni, infatti, una spiegazione deve superare un ulteriore esame, deve cioè dimostrare di poter essere concepibile, e concepibile non ha lo stesso significato di immaginabile. La velocità degli atomi, per esempio, non è immaginabile ma può essere concepita attraverso un’analogia con ciò che si può immaginare. Ciò che è autenticamente inconcepibile, e che quindi deve essere escluso, è che un atomo possa trovarsi in due o più luoghi contemporaneamente (Ad Herodotum epistula, 46-47). Un altro criterio – uno dei tre formali ‘criteri di verità’ di Epicuro (insieme alle sensazioni e alle affezioni) – è quello della próläpsis, che indica il concetto generico e spontaneamente acquisito di una cosa, in gran parte come nello stoicismo. È probabilmente alla prólēpsis di ‘incorporeo’ che Epicuro rinvia nella Epistola a Erodoto (67) quando sostiene che l’anima non può essere considerata come incorporea, perché l’incorporeità, propriamente intesa, è concepibile solamente come proprietà del vuoto. Ci troviamo in presenza di due principî metodologici che sembrano aprioriristici; tuttavia, è importante ricordare l’insistente affermazione di Epicuro secondo cui l’anima (psychḗ) non possiede capacità veramente indipendenti, che non siano in ultima analisi basate sui sensi.
L’empirismo militante degli epicurei può concorrere a spiegare il loro atteggiamento nei confronti delle scienze matematiche, di cui si sono disinteressati ritenendole basate su falsi principî. Per quanto possiamo ricostruire delle loro specifiche obiezioni nei riguardi di queste scienze, sembra che essi criticassero la geometria a causa delle grandezze incommensurabili, quali la lunghezza del lato e della diagonale del quadrato. Secondo il postulato epicureo della grandezza minima (v. sopra), tutte le grandezze devono essere scomponibili in un numero esatto di parti minime e, dunque, sono commensurabili le une alle altre e da ciò sembra conseguire che il quadrato perfetto è una figura matematicamente impossibile (conclusione attribuita a Polieno, collega di Epicuro, ma anteriormente geometra). Sembra che alcuni tardi epicurei abbiano tentato di trovare il modo di reintegrare la geometria nel loro programma filosofico, o forse di sviluppare una geometria non euclidea, ma, purtroppo, non conosciamo alcun dettaglio in merito.
Allo stesso modo, Epicuro criticò energicamente la matematizzazione dell’astronomia. In particolare, egli asserì che i corpi celesti possiedono peculiari proprietà ottiche, grazie alle quali la loro dimensione visibile non varia con la distanza; di qui la sua celebre tesi secondo la quale essi sono realmente così piccoli come ci appaiono. Da questa peculiarità ottica conseguiva che le orbite celesti non fossero correttamente misurabili da nessun osservatore terrestre. Un motivo più ideologico di questo disinteresse per l’astronomia matematica è senza dubbio individuabile nel rifiuto, da parte di Epicuro, del punto di partenza dei matematici secondo il quale le stelle avrebbero una regolarità matematica in quanto divine; ritenere che i cieli fossero divini era per Epicuro la fonte dell’infelicità umana.
4. Filodemo, ‘Sui segni’
Ci sono pervenute alcune parti di un trattato che risale agli ultimi decenni del periodo ellenistico e che testimonia di un vivace dibattito tra gli stoici e gli epicurei riguardo alle questioni precedentemente esaminate. È il trattato Sui segni, scritto dall’epicureo Filodemo (110 ca.-35 ca.). Il papiro su cui era stato compilato, purtroppo danneggiato, è stato ritrovato a Ercolano, dove Filodemo aveva insegnato, ma il dibattito a cui si riferisce, che aveva come oggetto le inferenze segniche, si svolse ad Atene attorno al 100 a.C. Il suo straordinario interesse risiede in parte nella testimonianza del fatto che il confronto tra le due scuole aveva condotto a una maggiore articolazione dei loro rispettivi principî metodologici rispetto a quella che può riscontrarsi nelle opere dei predecessori del III secolo. Il trattato Sui segni espone principalmente i concetti e gli argomenti del maestro di Filodemo, Zenone di Sidone (150 ca.-75 ca.), e di un altro autorevole epicureo, Demetrio Lacone (attivo nel 100 a.C. ca.), insieme agli argomenti avversi di un certo Dionisio, che frequentemente, e verosimilmente, è identificato con lo stoico Dionisio di Cirene.
La posizione degli epicurei è, a grandi linee, la seguente: i segni possono essere considerati indifferentemente cose oppure proposizioni. Per esempio, l’inferenza che dall’evidenza del moto deduce l’esistenza del vuoto può essere ugualmente enunciata affermando che il moto è un segno del vuoto e che l’enunciato «poiché vi è il moto» è un segno dell’enunciato «vi è il vuoto». Al contrario degli stoici, gli epicurei non sono interessati alla questione della precisione delle forme logiche e benché nei loro argomenti il principio di ‘non controattestazione’ sia incessantemente invocato (per quanto non sempre sotto questo nome), esso non ha, dal punto di vista metodologico, la stessa posizione centrale che sembra aver avuto nel pensiero di Epicuro; è utilizzato semplicemente per rafforzare le inferenze, che sono sviluppate prevalentemente su altre basi. Il principio deduttivo più importante è invece quello della ‘similarità’, che si basa sulla seguente intuizione: se x è simile a y, allora, per gli aspetti in cui non emerga una differenza rilevante tra x e y, ciò che è vero per x deve esserlo anche per y. Esso è applicato preferibilmente alle inferenze induttive, esemplarmente illustrate dalla generalizzazione che enuncia: «tutti gli uomini sono mortali». Gli esseri umani sono simili in quanto appartengono alla stessa specie, ma differiscono sotto molti aspetti, tra cui la longevità; tuttavia, come confermano le informazioni di cui disponiamo, la mortalità è comune a tutti gli esseri umani. Uno studio sistematico dimostra che è ‘inconcepibile’ che vi possano essere altri esseri umani, a noi sconosciuti, che siano immortali; ciò vale a dire che nella specie umana non può essere concepita una differenza in base alla quale alcuni dei suoi membri sarebbero immortali. Questo genere di similarità è definito ‘indiscernibilità’ (aparallaxía): sotto gli aspetti rilevanti, non vi è assolutamente nessuna differenza tra il segno (per es., la mortalità degli uomini che conosciamo) e il significato (la mortalità degli esseri umani a noi ancora sconosciuti).
L’altra frequente applicazione del principio di ‘similarità’ è definita ‘analogia’, ed è l’inferenza più usata per dedurre l’invisibile dal visibile. In questo caso emergono differenze sostanziali, generalmente di scala, tra il segno e il significato, ma è ancora ‘inconcepibile’ che qualcosa sia vero per il segno ma falso per il significato. Un esempio tipico dell’uso dell’analogia è l’inferenza che deduce la forma degli atomi dal comportamento dei corpi visibili dotati di una forma simile. Secondo Filodemo, gli stoici criticano questa posizione principalmente perché ritengono che queste inferenze non siano cogenti. Il segno e il significato devono sempre differire sotto qualche aspetto, poiché, se così non fosse, non vi sarebbe motivo di dedurre l’uno dall’altro; e, in via di principio, qualunque differenza può rivelarsi sufficiente a invalidare il confronto. In effetti, è noto che alcune entità sono uniche, sia che si tratti di singoli individui (come, per es., il nano di Alessandria che si diceva avesse una testa enorme e dura come una roccia), sia di tipi unici (come, per es., il magnete che attrae il ferro, e il quadrato di lato quattro, che è l’unico quadrato il cui perimetro sia numericamente uguale all’area). Non si può escludere quindi la possibilità che nella specie umana vi sia un singolo individuo o una razza che siano immortali. Gli epicurei rispondono a questa critica che anche la citazione dei casi unici si basa sul metodo della similarità, che è così confermato piuttosto che invalidato. Si possono costruire molte inferenze valide a partire da oggetti unici: per esempio, gli epicurei sostengono che dall’unicità del quadrato di lato quattro nel nostro mondo possiamo inferire che esso sia un quadrato unico anche in tutti gli altri mondi. La consuetudine, tipica degli epicurei, di considerare le scienze matematiche sullo stesso piano delle scienze fisiche, ci può fare almeno intuire quale sia il criterio di ‘inconcepibilità’ impiegato nelle loro inferenze basate sulla similarità: che un quadrato di quattro piedi sia di ferro, di roccia lunare o di un’altra qualsiasi sostanza, è in ogni caso inconcepibile che le sue proprietà matematiche possano variare, perché le dette differenze sono irrilevanti per queste ultime. Alla base del metodo epicureo della similarità vi è l’estensione di questo stesso principio alle proprietà empiriche come, per esempio, la mortalità.
Le critiche degli stoici riguardano anche l’uso dell’analogia; essi sostengono infatti che se l’analogia dimostra qualcosa, dimostra troppo: per esempio, dal fatto che tutti i corpi visibili sono colorati e distruttibili sarebbe possibile inferire – estendendo l’ambito dal visibile all’invisibile – che gli atomi sono colorati e distruttibili. Gli epicurei replicano che queste conclusioni erronee saranno evitate da chiunque sappia distinguere il livello proprio della generalità per le inferenze segniche. Dalle proprietà generiche si possono inferire soltanto proprietà generiche (cioè quelle senza le quali gli oggetti del genere in questione divengono inconcepibili), così le uniche proprietà totalmente generiche dei corpi saranno la tridimensionalità e la resistenza, di cui si può dunque inferire l’esistenza anche al livello atomico; d’altro lato, il colore non è indissolubilmente legato a tutti i corpi in quanto tali, ma soltanto a un certo genere di corpi.
Gli stoici ammettevano una sola forma di inferenza segnica, cioè l’anaskeuḗ, il ‘metodo dell’eliminazione’. Esso si basa sul principio secondo cui x è un segno di y, soltanto se, eliminando effettivamente y, si ottiene la coeliminazione di x; si può constatare come questo metodo sia una semplice applicazione del criterio di ‘connessione’ di un condizionale valido, già sostenuto da Crisippo (v. sopra). Gli stoici limitavano così i segni a dei fatti evidenti, logicamente connessi ai loro significati in modo tale che un mondo in cui il significato non si realizzasse sarebbe ipso facto un mondo in cui neppure questo fatto evidente si realizzerebbe. Gli argomenti che si basavano sulla similarità non avrebbero soddisfatto questo requisito; infatti, se si venisse a sapere che in un paese sconosciuto esistono esseri umani immortali, ciò non priverebbe ipso facto della propria mortalità il resto dell’umanità. Tuttavia, gli stoici ritenevano che fosse possibile «poiché, per la nostra esperienza, gli uomini sono mortali in quanto uomini, essi sono mortali in ogni luogo»; ed è chiaro che se non si dimostrasse vero che gli uomini sono ovunque mortali, l’antecedente essenzialista, secondo cui la nostra esperienza ci insegna che gli uomini sono mortali in quanto uomini, si dimostrerebbe anch’esso falso. Gli stoici quindi cercavano di enunciare una forma logicamente cogente dell’inferenza segnica, che giustificasse allo stesso tempo l’induzione, impiegando le essenze come segni.
Su questo punto gli epicurei sembrano voler fare una concessione: ammettono che queste inferenze sono in effetti vere inferenze segniche, ma sostengono che gli stoici dimenticano di domandare come debba essere stabilita, in primo luogo, la premessa essenzialista. La risposta è che ciò non può che essere il risultato di un uso continuo e coscienzioso dell’inferenza induttiva attraverso il metodo della similarità. Solamente dopo aver studiato in modo esauriente le similarità che caratterizzano tutta la specie umana, a prescindere dalle variazioni concomitanti, si può inferire a partire da queste, per dimostrare in che cosa consista la natura essenziale dell’uomo, inclusa la mortalità. Questa è un’inferenza segnica attraverso la similarità, basata sulla natura individuale degli uomini per dimostrare la natura essenziale dell’umanità; una volta che si sia completata quest’induzione e che si sia determinata la natura essenziale dell’uomo, l’ulteriore inferenza segnica, che parte dall’essenziale mortalità dell’uomo per dimostrare la mortalità degli esseri umani che ci sono sconosciuti, diviene un passaggio scontato e accessorio, anche se necessario. La vera indagine è stata portata a termine nella fase precedente, determinando la similarità.
Il motivo che indusse gli epicurei a fare questa concessione è evidente: essi non potevano negare che alcune delle loro più comuni inferenze segniche non potessero essere classificate come similarità. Per esempio, «poiché vi è il moto, allora vi è il vuoto» non si basa su nessuna effettiva similarità tra il segno, ‘moto’, e il significato, ‘vuoto’; si tratta piuttosto di un’inferenza dall’effetto alla causa. Se volevano renderla valida, gli epicurei dovevano ammettere una seconda forma di inferenza segnica e il metodo dell’eliminazione sembrava corrispondere alle loro esigenze: un mondo in cui fossero eliminati gli spazi vuoti sarebbe stato infatti ipso facto un mondo in cui niente si sarebbe potuto muovere. Essi affermavano tuttavia che il riconoscimento del ruolo del metodo dell’eliminazione non era che una concessione marginale, e ribadivano che, ancora una volta, la questione fondamentale era quella del modo in cui stabilire in primo luogo che il moto dipendesse sempre ed essenzialmente dagli spazi vuoti, cosicché in assenza di vuoto esso fosse inconcepibile; ancora una volta, la risposta era: impiegando il metodo della similarità. Solamente attraverso l’osservazione di tutti i tipi di moto di ogni genere di corpo, in tutte le circostanze possibili, si poteva giungere alla generalizzazione che, indipendentemente dalle variazioni degli altri aspetti, il moto dipendeva essenzialmente dal vuoto. Una volta stabilito questo, la sua applicazione non era che un passaggio scontato: essendoci evidentemente il moto, doveva esserci lo spazio vuoto. Gli epicurei – dal cui punto di vista ci è narrato il dibattito – si ritenevano dunque vincitori de facto, avendo dimostrato che il metodo dell’inferenza a priori – l’unico valido secondo gli stoici – non era che un banale accessorio del metodo scientifico. Il processo fondamentale su cui si basava ogni inferenza scientifica era, invece, quello della generalizzazione empirica.
5. Epilogo
Nel I sec. a.C. il mondo filosofico subì un mutamento radicale; a partire dagli anni Ottanta, infatti, iniziò il declino di Atene come centro filosofico. Il dibattito filosofico si allontanò dalle sedi di origine delle diverse scuole e si localizzò in gruppi filosofici minori diffusi nel mondo greco-romano, soprattutto attorno a centri culturali come Roma e Alessandria. Alla fine del secolo, l’interesse dei filosofi iniziò a concentrarsi principalmente sullo studio e sull’interpretazione dei classici filosofici; questi ultimi erano rappresentati soprattutto dalle opere di Platone e di Aristotele, benché non vi sia alcun dubbio che gli stoici continuassero a studiare gli scritti di Zenone e di Crisippo, e gli epicurei quelli degli autorevoli fondatori della loro scuola. L’età successiva è definita periodo del platonismo medio e termina con Plotino (203/206-269/270), con il quale convenzionalmente si apre la successiva era neoplatonica. Durante questo periodo il platonismo e l’aristotelismo furono le più autorevoli scuole filosofiche, ma il dibattito che aveva caratterizzato l’età ellenistica seguitò a esercitare la sua influenza.
In questo contesto è assai significativa la figura di Posidonio (135 ca. - metà I sec.), il quale svolse la sua attività di insegnante soprattutto a Rodi e fu non soltanto il più insigne degli stoici della sua epoca, ma anche il più importante scienziato che questa scuola abbia mai prodotto. Le sue indagini esplorarono tutte le più importanti branche delle scienze matematiche, inclusa l’astronomia, ma egli fu anche noto come un appassionato investigatore delle cause. Dopo avere studiato le maree dell’oceano Atlantico a Cadice, riuscì a confermare e a sviluppare la vecchia tesi di Seleuco secondo cui esse erano influenzate causalmente dalla Luna, applicando proficuamente la dottrina stoica della ‘simpatia cosmica’, secondo cui ogni parte del mondo interagisce causalmente con tutte le altre. Egli riformulò la nota massima stoica secondo cui il fine della vita è «vivere secondo natura», sostituendola con «vivere nello studio della verità e dell’ordine del mondo, e contribuire a esso con tutte le proprie capacità».
Nonostante il suo impegno nelle scienze matematiche, Posidonio era inflessibile nel sostenere che esse non fossero parte integrante della filosofia, bensì discipline ancillari: anche se il filosofo e l’astronomo studiano lo stesso identico fenomeno e giungono alle stesse conclusioni – per esempio che la Terra è sferica o che il Sole è molto grande (un tema prediletto da Posidonio e oggetto di una disputa con gli epicurei) – essi procedono in modi completamente diversi. Il filosofo dimostra le sue verità basandosi sulle essenze e sui poteri delle cose o sull’essenza del mondo, mentre le premesse dell’astronomo sono le caratteristiche accidentali degli oggetti in questione (le loro dimensioni misurabili, le velocità, ecc.). Inoltre, il filosofo è interessato alla scoperta delle cause, mentre l’astronomo è maggiormente interessato a scoprire una o più ipotesi che possano «salvare i fenomeni».
Nell’opera scientifica di Posidonio l’analisi matematica dei fenomeni cosmici è subordinata all’indagine filosofica delle cause che sono alla loro base, ed è soprattutto grazie a questo aspetto che la sua opera esercitò la sua influenza nel corso dei due secoli successivi. Egli è, senza alcun dubbio, la principale, se non l’unica, fonte delle Questioni naturali (in gran parte pervenuteci) di Seneca (4 a.C. ca.-65 d.C.), che, in modo inconsueto per uno stoico dell’età imperiale, seguitò a interessarsi alla cosmologia benché ormai l’attenzione dei filosofi si concentrasse principalmente sull’etica. Il trattato, non strettamente dipendente dalla teoria e dalla metodologia stoica, è un esame critico completo delle teorie che spiegavano i singoli fenomeni cosmici; tuttavia, come tutti gli stoici, Seneca sottolinea che lo scopo fondamentale dello studio della Natura è di tipo etico. Un altro autore di opere scientifiche, ancora più profondamente influenzato dalla teoria di Posidonio, è Cleomede, il cui trattato Sul moto circolare dei corpi celesti (di cui è incerta la data di composizione, ma che probabilmente risale al I o al II sec. d.C.) è un’analisi di tipo fondamentalmente stoico dei problemi astronomici e cosmologici. Infine, occorre ricordare che nel periodo compreso tra il 50 a.C. e il 200 d.C. il dibattito fu ravvivato da due correnti scettiche: la Nuova Accademia aveva perso la sua base istituzionale ad Atene, ma il suo punto di vista era rappresentato da due autorevoli interpreti, Cicerone (106-43 a.C.) – le cui opere precedentemente citate furono composte nel 45 – e Plutarco (n. poco prima del 50- m. dopo il 120).
Il De natura deorum di Cicerone è la descrizione di un dibattito tra gli epicurei, gli stoici e i loro critici dell’Accademia, in cui si affrontano alcune questioni centrali di teologia. Lo stesso Cicerone giudicava la teologia stoica probabile ma non dimostrabile e, parlando attraverso la voce di uno scettico negli Academica (II, 110-128), critica coloro che adottano posizioni dottrinali nell’epistemologia e nella fisica, utilizzando l’espediente di esporre sistematicamente i conflitti tra i maggiori pensatori su ogni questione, e domandandosi come possiamo riconoscere quelli tra loro ai quali dobbiamo credere. Plutarco, che è a sua volta un platonico, sviluppa le sue originali interpretazioni delle dottrine di Platone sull’anima del mondo e sui problemi connessi a questa teoria; egli è però anche un fedele ‘accademico’, cioè un seguace della Nuova Accademia, e tra le sue opere più importanti vi sono le critiche della dottrina stoica e di quella epicurea. Nell’opera Sulle contraddizioni degli stoici egli elenca una serie di contraddizioni dello stoicismo classico tra diverse teorie o all’interno di una singola teoria, e in Sulle nozioni comuni contro gli stoici rimprovera agli stoici di aver violato le stesse ‘nozioni comuni’ (un equivalente della próläpsis) che costituivano la base della loro epistemologia.
Allo stesso tempo il pirronismo, tornato in auge con Enesidemo nel I sec. a.C., stava divenendo la più importante forma di scetticismo e gli scritti di Sesto Empirico che ci sono pervenuti sono diretti principalmente contro lo stoicismo. Il Libro VII e il Libro VIII del suo Adversus mathematicos attaccano i principî dell’inferenza scientifica degli stoici, mentre il Libro IX e il Libro X contengono una critica sistematica della fisica stoica; in una serie di trattati (Contro i geometri, Contro gli aritmetici, Contro gli astrologi, Contro i musici) egli critica inoltre i fondamenti delle scienze singole.
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