Scienza greco-romana. Filosofia della Natura nella Tarda Antichita
Filosofia della Natura
Durante la Tarda Antichità (200 ca.-700 d.C.) l’Impero romano e i paesi vicini subirono profonde trasformazioni politiche, culturali e religiose. Nel II sec. il periodo produttivo della ricerca scientifica, della scoperta e della formazione di nuove teorie, si era concluso con Tolomeo e Galeno. Ciò non significa che nella Tarda Antichità lo studio della Natura non abbia fatto progressi, ma poiché i filosofi ritenevano che gli strumenti concettuali necessari per la comprensione dell’Universo fisico fossero già stati elaborati – in particolare da Platone e Aristotele e, riguardo all’astronomia e all’armonia musicale, da Tolomeo – la ricerca circa il mondo fisico acquisì uno statuto e uno stile argomentativo fondamentalmente diversi.
I filosofi, pagani e cristiani, continuarono ad affrontare i problemi fondamentali dello spazio, del tempo, del moto e della materia cercando di trovare spiegazioni convincenti di carattere fisico per i fenomeni naturali. In questo senso gli studiosi della Tarda Antichità costituiscono un elemento importante per la trasmissione del pensiero scientifico dall’Antichità al Rinascimento e al mondo moderno. Il metodo impiegato (che in seguito influenzò profondamente la filosofia araba e la scolastica medievale) era principalmente analitico e linguistico, e questo originava quella che si potrebbe definire una filosofia della Natura senza la Natura. Poiché si riteneva che la verità fosse già stata espressa dai predecessori, non sorprende che non sia stato un periodo particolarmente ricco di sviluppi innovativi, invenzioni e nuove teorie, e che gli strumenti preferiti del discorso scientifico fossero rilievi storici o commenti letterari sui testi scientifici classici. Anche se possediamo i commenti di carattere matematico e astronomico di Pappo e di Teone (che vissero ad Alessandria nel IV sec.), la maggior parte di questa letteratura si occupa dei dialoghi di Platone e soprattutto dei trattati di fisica di Aristotele.
Quando nel III sec. Plotino rianimava e riformava a Roma il platonismo, aristotelici, stoici ed epicurei erano già in declino. Plotino non era molto interessato al mondo fisico; la sua preoccupazione principale era la comprensione di problemi di carattere metafisico e dei mezzi attraverso i quali l’anima avrebbe potuto liberarsi una volta per tutte dall’attaccamento al regno della materia. Plotino discute e utilizza le idee sulla fisica di Platone, di Aristotele e degli stoici, ma senza aderire pienamente a nessuna di esse; il suo allievo Porfirio scrisse un commento agli Harmonica di Tolomeo nel quale molta attenzione è rivolta alla differenza metodologica tra ragionamento matematico e osservazione empirica; Proclo, uno dei pensatori neoplatonici più acuti e sistematici, scrisse, assieme agli Elementi di teologia, un trattato molto più breve dal titolo Elementi di fisica, poco più di un riassunto della Fisica di Aristotele.
I neoplatonici della Tarda Antichità erano, almeno agli inizi, solidamente ancorati all’autorevole tradizione speculativa stabilita da Plotino. L’interesse era rivolto a discernere la struttura del mondo spirituale, alle relazioni tra anima e intelletto, al meccanismo mediante il quale l’intelletto, l’anima e la materia emanano dalla fonte divina, da quel principio trascendente che essi chiamavano l’Uno. Il mondo fisico in sé non era oggetto di una ricerca scientifica rigorosa. Tuttavia, i seguaci di Plotino – neoplatonici come Porfirio, Giamblico, Proclo, Damascio, Ammonio di Alessandria e Simplicio – concepirono e perfezionarono gradualmente un curriculum filosofico che imitava, sul piano pedagogico, l’ascesa dell’anima attraverso la struttura metafisica dell’Universo platonico. Dapprima introdotti agli strumenti logico-analitici della filosofia, gli allievi dovevano studiare il mondo materiale attraverso i trattati di fisica di Aristotele (i ‘Misteri minori’) poi gli studenti più dotati avrebbero affrontato lo studio del regno spirituale leggendo i dialoghi di Platone (i ‘Misteri maggiori’). Il curriculum si concludeva con due dialoghi teologici, il Timeo e il Parmenide.
In questo contesto la cultura del commento, nata nei secoli precedenti nei circoli colti di Alessandria, ebbe la sua massima fioritura; la filosofia sopravviveva riproducendo sé stessa, e lo ‘sviluppo’ delle scienze naturali consisteva in una comprensione sempre più profonda di cose già note. Gli studiosi erano interessati, più che alla ricerca, all’insegnamento, svolto prevalentemente attraverso seminari durante i quali gli studenti e il maestro leggevano insieme un testo. Il maestro spiegava approfonditamente i singoli passi, e solitamente i suoi commenti venivano messi per iscritto, da lui stesso o più spesso dagli allievi. Gli imponenti commenti del filosofo aristotelico Alessandro di Afrodisia, che era stato nominato a capo del Liceo di Aristotele ad Atene intorno al 200 d.C. fungevano da modello. Un buon numero di questi tardi commenti neoplatonici ci sono pervenuti, per cui non solo possediamo commenti alle Categorie di Aristotele di Porfirio, Desippo, Ammonio di Alessandria, Simplicio, Filopono e Olimpiodoro, ma possiamo anche vedere come gli studiosi della Tarda Antichità interpretassero, capissero e criticassero le dottine di Aristotele esposte nella Fisica, nel De caelo, nel De generatione et corruptione e nei Meteorologica. Nel mondo di lingua greca la tradizione dei commenti, specialmente di quelli su Aristotele, anche se ebbe una flessione nel VII sec., continuò intermittentemente fino al XII sec. e oltre. Alcuni di questi commenti, come quello di Simplicio alla Fisica, sono un’inestimabile fonte di informazioni dossografiche, spesso insuperabile per ampiezza ed erudizione. Uno degli eventi che ha inciso più profondamente nella cultura della Tarda Antichità è la nascita del cristianesimo e la sua affermazione a spese del paganesimo. Fino al VI sec. i teologi cristiani mostrarono scarso interesse per le scienze naturali, che restarono apparentemente confinate a un numero sempre più ristretto di pagani che si guadagnavano da vivere come filosofi di professione ad Atene, Alessandria e, in minor misura, altrove. Tuttavia, poiché la filosofia della natura era parte integrante del curriculum filosofico (neoplatonico) degli studenti, a molti di questi, tra cui senza dubbio un numero crescente di cristiani, venivano esposte le dottrine dei pagani greci sulla fisica. Così, anche se la filosofia della natura sviluppata in questo periodo appare ‘libresca’, quasi mai originale e innovativa, grandi tensioni e dibattiti nacquero su questioni nelle quali la conoscenza pagana si confrontava con la verità rivelata della Bibbia.
L’impostazione di tipo empirico nello studio dei fenomeni naturali risale almeno al tempo di Aristotele e all’antica scuola medica, ma il discredito del valore euristico della percezione dei sensi e del mondo sensibile in generale influenzava notevolmente i filosofi della tradizione platonica della Tarda Antichità. Sarebbe un errore considerare questi filosofi della natura come dei protogalileiani, intenti a compiere osservazioni precise, esperimenti e calcoli matematici. I testi che ci sono pervenuti parlano di un ridotto numero di esperimenti ad hoc e sappiamo anche di osservazioni del moto delle stelle effettuate con una certa sistematicità. È pervenuta anche una descrizione dettagliata della costruzione e dell’uso di uno strumento astronomico diffuso, l’astrolabio piano, fatta da Giovanni Filopono nel VI sec.; dai riscontri che oggi abbiamo è chiaro che in questo periodo i filosofi della Natura della Tarda Antichità erano soprattutto uomini di lettere, acuti lettori e interpreti eruditi del corpus di testi classici sulla natura. Essere uno scienziato significava innanzitutto essere un letterato; le teorie scientifiche resistevano o crollavano a seconda della solidità con cui erano fondate sull’esegesi letteraria.
Sarebbe un errore pensare che la preoccupazione per l’esegesi piuttosto che per l’osservazione fosse una tendenza della quale gli studiosi della Tarda Antichità non erano consapevoli o che non sarebbero stati in grado di giustificare. L’ipotesi fondamentale, molto diffusa anche se, come si vedrà, non universalmente accettata, era che i filosofi del passato avessero scoperto la ‘verità oggettiva’ formulandola in modo chiaro ed efficace. Da questa convinzione derivano tre idee importanti, che sono alla base dell’ermeneutica neoplatonica: in primo luogo, la nozione della concordia tra i principali filosofi, in particolare tra Platone e Aristotele; in secondo luogo, la dottrina dell’autorità, le figure più autorevoli essendo ancora Platone e Aristotele; infine, la convinzione che il filosofare fosse la via per la salvezza individuale. In termini neoplatonici, l’attività intellettuale individuale volta alla ricerca della verità portava alla liberazione dell’anima dai confini del mondo materiale e ad essere di nuovo uno spirito libero.
L’esempio di uno dei più grandi commentatori, Simplicio, erudito neoplatonico ateniese del VI sec., illustra bene questi punti. Chiunque legga un commento di Simplicio è colpito dalla sconfinata erudizione che percorre tutta la sua esegesi, ma ciò che colpisce maggiormente è il suo modo di trattare la vasta letteratura filosofica greca; egli sostiene infatti che ci sia una convergenza fra i punti di vista di un numero estremamente elevato di filosofi. C’è un postulato alla base di questa posizione, ossia che deve esserci armonia tra tutti i veri filosofi, e compito del commentatore è mettere in luce questa armonia (In Aristotelis Categorias commentaria, 7, 23-32); ogniqualvolta sembra esserci discordanza, l’esegeta esperto può dimostrare che questa esiste solo a livello superficiale. Sotto la superficie un vero commentatore sarà sempre in grado di scoprire il consenso sulla verità, espressa distintamente soprattutto da Platone, «colui che spiega la verità» (In Aristotelis De caelo commentaria, 131, 1). Anche Empedocle diventa così sorprendentemente un proto-neoplatonico; la famosa critica aristotelica della filosofia presocratica è spazzata via da Simplicio con questo argomento: «Poiché noi tutti sentiamo dire che Aristotele rifiutava le idee dei filosofi precedenti, che prima di lui Platone aveva fatto lo stesso, e prima di loro Parmenide e Senofane, occorre rendersi conto che essi si riferivano a voci riportate in modo superficiale, e che essi rifiutavano soltanto ciò che negli argomenti di quei filosofi era apparentemente assurdo; e ciò accadeva perché gli antichi filosofi erano soliti rivelare le loro dottrine in forma enigmatica» (In Aristotelis Physicorum libros commentaria, 36, 25-31). Insomma, spogliando i venerabili predecessori della loro veste enigmatica si scopre la verità neoplatonica che essa nasconde; anche Platone e Aristotele si sono sbagliati non accorgendosi di questa concordia.
L’evidente disaccordo tra questi due giganti della filosofia è spiegato suggerendo come in realtà entrambi mirassero alla stessa cosa ma in modi diversi: il primo, Aristotele, faceva deduzioni a partire dalla percezione dei sensi, mentre il secondo, Platone, si basava sulla teoria dell’intelletto (ibidem, 1249, 13-17).
La concordia tra i filosofi nell’enunciare la verità non significa però che essi siano tutti sullo stesso piano; così, negli scritti di Simplicio s’incontrano spesso giudizi di valore e tutta una serie di epiteti tradisce l’esistenza di una gerarchia basata sul grado di autorità. Al vertice c’è la triade che comprende Platone, il ‘più divino di tutti i filosofi’, assieme al ‘divino’ Aristotele e al ‘divino’ Giamblico. Su un piano leggermente inferiore incontriamo filosofi che meritano un epiteto di grado superlativo: Porfirio, Damascio, Siriano e Alessandro di Afrodisia. Il ‘grande’ Plotino si situa a quanto sembra a un terzo livello, come pure lo ‘stupefacente’ Tolomeo, il ‘persuasivo’ Temistio e Proclo, detto spesso semplicemente ‘il filosofo’. Un buon numero di antichi pensatori, per esempio i presocratici, non hanno l’onore di un epiteto, anche se Simplicio ha di loro una buona opinione. Il materialismo degli stoici è visto naturalmente con sospetto e le loro dottrine sono definite quasi sempre assurde; infine, all’altra estremità della scala, lontani da Platone quanto la materia può esserlo dall’Uno, compaiono gli insolenti cristiani, atei senza cervello che non capiscono nulla di filosofia. I neoplatonici avevano in orrore gli intellettuali cristiani; Porfirio aveva pubblicato una particolareggiata confutazione del cristianesimo e Proclo aveva scritto un libello con l’intenzione di dimostrare che i cristiani sbagliavano nel supporre che il mondo avesse avuto un inizio nel tempo. Ammonio, che insegna ad Alessandria tra il V e il VI sec., può anche permettersi di fare qualche concessione dottrinale ai cristiani, ma il suo allievo Simplicio quando tocca la dottrina cristiana cambia subito di tono, passando all’ironia e al sarcasmo più feroci.
I neoplatonici non vollero avere niente a che fare con il cristianesimo, specialmente dopo il 529, anno in cui l’imperatore Giustiniano, cristiano, chiuse l’Accademia di Atene. Un ovvio motivo di questa aperta ostilità è la perdita di prestigio che i pagani, un tempo costituenti l’élite, dovettero subire in un ambiente divenuto quasi interamente cristiano. Vi è però anche una ragione più profonda, legata all’aspetto morale della filosofia greca e più precisamente alla funzione del neoplatonismo come mezzo di salvezza. I commenti di Simplicio non rappresentano soltanto un grande successo intellettuale; essi avevano anche, e in modo piuttosto esplicito, scopi spirituali e religiosi. I commenti al Manuale di Epitteto, alle Categorie e al De caelo di Aristotele sono infatti opere che si concludono con una preghiera alla divinità. Per Simplicio, lo studio dei testi che egli venerava portava a condividere la conoscenza filosofica, e questa a sua volta accelerava l’avvicinamento dell’anima individuale alla divinità (In Aristotelis De caelo commentaria, 483, 18 seg.); l’opinione diffusa che la filosofia preparasse l’anima al proprio destino mistico derivava ovviamente dal Fedone, e venne sviluppata in tutti i suoi aspetti da Giamblico, Simplicio, Damascio, Olimpiodoro e perfino in tardi commenti presumibilmente cristiani (David ed Elia).
L’ascesa e la salvezza dell’uomo attraverso la filosofia: nulla di più lontano dalla dottrina cristiana. I cristiani credono non nell’ascesa dell’uomo, ma nella discesa di Dio. Al centro della nuova dottrina, a cui aderirono in particolare i monofisiti di Alessandria, stava la convinzione che la venuta di Gesù Cristo era stato l’evento cosmico nel quale il Logos preesistente si era fatto uomo, e quest’uomo con la morte e la resurrezione aveva salvato l’umanità una volta per sempre. Dal punto di vista cristiano la salvezza non dipende dalla pietà, dalla virtù o da altre qualità spirituali, e meno che mai dalla filosofia. Essa è già stata raggiunta in quanto, come riassume brevemente Atanasio ne L’incarnazione del Lógos (21, 3), se il Lógos si è fatto uomo, noi possiamo farci Dio. Per i neoplatonici questa non era altro che una blasfema negazione della superiorità divina (Simplicio, In Aristotelis Physicorum libros commentaria, 29, 3).
Buona parte di quanto leggiamo oggi dei testi ‘scientifici’ della Tarda Antichità era in realtà motivato dall’interesse esplicito di mostrare l’assurdità della fede cristiana mettendola a confronto con la verità sulla quale concordano i grandi filosofi del passato (Simplicio, In Aristotelis Physicorum libros commentaria, 28, 32-29, 5); per lungo tempo i cristiani non ebbero da contrapporre altro che la presunta superiore verità dei loro Testi Sacri. Nel VI sec. almeno uno dei migliori filosofi della Natura si unì a loro: lo studioso alessandrino Giovanni Filopono. Filopono non era soltanto un cristiano monofisita, ma in quanto allievo di Ermia, era anche un filosofo formatosi nella tradizione neoplatonica. I suoi commenti e le sue critiche, assieme alle aspre repliche del pagano Simplicio, sono la testimonianza di una delle controversie intellettuali più vivaci della Tarda Antichità.
Filopono, in quanto cristiano, era libero di respingere la tesi neoplatonica che la filosofia fosse la via per migliorare sé stessi e raggiungere la salvezza individuale. Il suo presupposto escatologico era basato sulla vita e la morte di Gesù Cristo, e sebbene non fosse sua intenzione trasferire direttamente la dottrina cristiana nei commenti ad Aristotele, è chiaro che le sue convinzioni cristiane gli consentivano di considerare i vari temi da una posizione più distaccata e vantaggiosa. Il suo pensiero, emancipato dalla tutela di Platone, di Aristotele e degli altri grandi filosofi greci, non è più costretto ad accettare la loro indiscussa autorità; il suo spirito critico e tenace non ha difficoltà nel rilevare continuamente incoerenze, debolezze, contraddizioni e assurdità del pensiero neoplatonico; è in parte per questo motivo che si trovano nei suoi testi le teorie e le innovazioni più coraggiose della filosofia della natura dell’epoca. Filopono non esercitò praticamente alcuna influenza nel proprio tempo, ma le sue idee dovevano trovare terreno fertile nel XVI secolo.
Alcuni temi della riflessione filosofica erano stati ereditati dai neoplatonici come problematici in sé stessi, quale la necessità di comprendere e concettualizzare la materia, lo spazio e il moto; altri, che i neoplatonici consideravano risolti in modo più o meno soddisfacente, erano tornati alla ribalta sulla scia della polemica con i cristiani, come la questione dell’eternità del tempo, l’esistenza dell’Universo nel tempo e la composizione materiale dei corpi celesti.
Lo spazio
La discussione sullo spazio era cominciata con Teofrasto (372-287) e Stratone di Lampsaco (300 ca. a.C.), il quale criticava la nozione aristotelica di «luogo di qualcosa» (e dunque lo spazio che occupa), come superficie interna del corpo che lo contiene (Physica, IV, 4). Di fronte alla concezione epicurea dello spazio come di un vuoto infinito attraverso il quale si muovono liberamente gli atomi, occorreva dare maggiori spiegazioni sullo spazio come superficie di quanto non avesse fatto Aristotele. La nozione epicurea di un vuoto che si estende indefinitamente era rifiutata da tutti coloro che credevano – con Platone, Aristotele e gli stoici – in un unico Universo geocentrico che abbraccia tutto l’esistente. Ciò però non risolveva il problema, continuamente riproposto, di definire se lo spazio fosse un’entità tridimensionale indipendente, se contribuisse a costituire l’ordine dell’Universo assegnando ai corpi naturali il loro luogo naturale, come pensava Aristotele, o se invece fosse costituito da questi corpi naturali e dalle loro reciproche relazioni. Teofrasto difendeva quest’ultima posizione relativista; Stratone pensava invece allo spazio come assoluto, vale a dire a un vuoto potenziale occupato attualmente dalla massa dell’universo. Nella Tarda Antichità si assiste alla rinascita della discussione su queste diverse concezioni dello spazio; neoplatonici ortodossi, come Giamblico, Damascio e Simplicio, guardavano con favore alla concezione dello spazio come costituito dalle relazioni tra i corpi, sostenendo al contempo l’idea che lo spazio sferico tridimensionale che l’Universo occupa contribuisce all’ordine naturale e alla costituzione dell’Universo stesso; lo spazio ha la capacità di sistemare i corpi naturali nel luogo che loro si addice. Filopono, invece, riprende la concezione di Stratone secondo la quale lo spazio è un’estensione tridimensionale per definizione vuota, anche se nella realtà i corpi non sono mai assenti (In Aristotelis Physicorum libros commentaria, 567-69; 579-81; 632-34). Lo spazio come tale non ha la capacità di disporre i corpi, in quanto è il Creatore che ha assegnato ai corpi una disposizione e un luogo adeguati nell’Universo.
La materia
Il dibattito sul sostrato materiale ultimo dell’Universo risale ai primordi della filosofia greca. Nella Tarda Antichità il concetto di ‘materia prima’, attribuito ad Aristotele, la materia cioè che si suppone soggiacere a tutti i cambiamenti che subiscono gli elementi, era largamente accettato. Quando l’acqua evapora e diventa aria, o la terra si tramuta in fuoco, è necessario supporre l’esistenza di una materia che in un dato momento presenta certe qualità e in un altro momento altre. Ciò però non risolve il problema di cosa sia o come possa essere esattamente definita e concettualizzata la ‘materia prima’; in Aristotele si tratta di un concetto generico e nebuloso, mentre i neoplatonici tradizionalisti, seguendo Plotino, ne avevano una nozione molto più precisa ritenendo la ‘materia prima’ informe e incorporea, Un argomento a sostegno di questa posizione era il seguente: gli enti corporei sono composti di materia e forma, e poiché la materia non è così composta essa non è corporea (Enneas, II, 4, 8). Nel VI sec. si assiste però a una notevole chiarificazione circa il sostrato che sta alla base della realtà: Simplicio e Giovanni Filopono arrivano, per strade diverse, alla conclusione che il sostrato fisico non può essere incorporeo e completamente informe, ma che deve invece trattarsi di una sorta di estensione corporea incondizionata e indefinita; Filopono lo considera un corpo indefinito senza qualità, che chiama ‘il tridimensionale’.
Il moto
Aristotele aveva proposto tre spiegazioni per il fenomeno del moto. La sua ipotesi fondamentale era che qualunque cosa sia in moto deve essere mossa da qualcosa, e che chi muove e ciò che è mosso devono essere in contatto. Egli fa poi una distinzione tra moto naturale e moto violento; il moto naturale può essere animato o inanimato. Nel caso degli animali il moto è dovuto all’‘anima’, mentre per gli oggetti naturali inanimati, come i quattro elementi, la causa è la ‘natura’, secondo la sua definizione di natura come principio di movimento e riposo nei corpi naturali. Se fin qui tutto è plausibile, il moto violento doveva procurargli le più grandi difficoltà: perché, per esempio, una pietra continua a muoversi una volta lasciata dalla mano di chi la getta? La risposta di Aristotele è che, poiché l’oggetto in moto deve essere mosso da qualcosa, è il mezzo stesso che in qualche modo lo spinge lungo la traiettoria: il vuoto dovuto all’aria spostata gira intorno all’oggetto e lo spinge da dietro. Anche se lo stesso Aristotele non era soddisfatto di questa spiegazione, i principî fondamentali della sua teoria dinamica non ebbero rivali per oltre 800 anni.
È ancora Filopono a dar prova dell’acume necessario per criticare la teoria di Aristotele del moto violento: «Quando si lancia una pietra, è spingendo l’aria dietro di essa che la si costringe a muoversi in una direzione contraria a quella naturale, o non è piuttosto colui che getta la pietra che le trasmette una forza che la fa muovere? Altrimenti, che necessità ci sarebbe del contatto della pietra con la mano, o della freccia con la corda dell’arco?» (In Aristotelis Physicorum libros commentaria, 641, 13 segg.).
Filopono prosegue poi con l’esposizione di un esperimento mentale: si immagini un insieme di potenti macchine a vento che cercano di spingere un oggetto. Queste non avranno certamente lo stesso successo di un arco che lancia una freccia, e ciò suggerisce che il moto forzato implica che venga trasmessa all’oggetto una forza motrice, un impetus, e che è grazie a questa forza, che viene gradualmente meno durante il moto, che l’oggetto prosegue il movimento (ibidem, 641-42). Questa famosa teoria dell’impetus, le cui radici possono essere fatte risalire a Ipparco, viene esposta per la prima volta da Filopono in termini estremamente chiari; essa ebbe una profonda influenza sui filosofi della natura più tardi e preparò la strada al concetto newtoniano di inerzia.
In una delle opere successive, un commento fisico-teologico alla storia biblica della creazione, intitolata De opificio mundi e scritta probabilmente fra il 546-549, Filopono unisce ingegnosamente teoria dell’impetus e creazionismo per suggerire una teoria unificata del moto; laddove Aristotele doveva far ricorso alla Natura, all’anima o a un motore esterno costantemente attivo, egli suggerisce che è possibile spiegare ogni movimento, naturale o violento, con l’ipotesi della trasmissione di un impetus. Così come un proiettile si muove in virtù di una forza che gli viene impressa, allo stesso modo Dio, al momento della Creazione, ha dotato i corpi celesti di una forza motrice mettendoli in rotazione; analogamente, ha impresso ai corpi naturali inanimati la tendenza ad andare verso il basso o verso l’alto, e agli animali il movimento che deriva dalle loro anime:
Ci dicano i seguaci di Teodoro da quali testi di ispirazione divina hanno imparato che gli angeli muovono la Luna, il Sole e gli altri corpi celesti, tirandoli da davanti come se fossero animali al giogo o spingendoli da dietro come fanno gli scaricatori nei porti, o entrambe le cose, o portandoli sulle spalle. Niente di più ridicolo. Dio, che li ha creati, non era forse in grado di dotare la Luna, il Sole e gli altri corpi celesti di una forza motrice, così come aveva dotato della tendenza ad andare verso l’alto o verso il basso i corpi leggeri o pesanti, e tutti gli animali dei movimenti che provengono dall’anima che hanno in sé, di modo che non è necessario che gli angeli li facciano muovere a forza? Tutto ciò che viene mosso altrimenti che per natura acquista un moto forzato e contrario alla natura, ed è destinato a perire. Come potrebbero allora corpi tanto grandi e tanto numerosi durare ancora se per così tanto tempo fossero stati trascinati a forza? (De opificio mundi, 28-9)
In questo passo, che suggerisce più che spiegare, Filopono non intende ridurre tutti i movimenti naturali a movimenti violenti in quanto l’attività creatrice di Dio consiste infatti proprio nell’impartire movimenti ‘naturali’; il tentativo di spiegare ogni tipo di moto per mezzo di un unico modello è rilevante e merita di essere ricordato.
L’eternità del mondo
Fin dal celebre poema di Parmenide sulla Natura i filosofi greci sono d’accordo nel ritenere che l’Universo materiale, nella sua forma attuale o in un lungo processo di cicli cosmici, sia sempre esistito e continuerà a esistere per sempre. Aristotele era esplicito in proposito e non soltanto aveva offerto dimostrazioni elaborate dell’eternità del moto e del tempo, ma aveva anche postulato l’esistenza di un elemento celeste assolutamente incorruttibile (v. oltre). La credenza cristiana nell’atto della creazione dal nulla, ben salda nel II sec., si scontrava dunque con la razionalità pagana e i filosofi pagani ebbero a lungo la meglio in questo dibattito. Nel III sec. Porfirio scrisse una confutazione del cristianesimo e nel V sec. Proclo cercò di risolvere il problema una volta per tutte in un minuzioso trattato dal titolo Sull’eternità del mondo contro i cristiani, opera nella quale diciotto argomenti indipendenti tendevano a dimostrare in modo definitivo la verità della dottrina dell’eternità del mondo.
Nella prima metà del VI sec. è ancora Giovanni Filopono che s’impegna a dare al creazionismo cristiano una solida base filosofica con una crociata contro l’eternalismo articolata in tre momenti: comincia con la celebre polemica Sull’eternità del mondo contro Proclo, confutazione punto per punto di ogni singola premessa e deduzione su cui si basava Proclo; segue poi uno scritto ancora più acceso dal titolo Sull’eternità del mondo contro Aristotele, in cui sono analizzati i primi capitoli del De caelo (la teoria dell’etere, v. oltre) e gli otto libri della Fisica (eternità del moto e del tempo); il terzo momento è rappresentato da uno e forse due trattati non polemici, che non ci sono pervenuti, nei quali erano organizzati in modo sistematico argomenti contro l’eternità e in favore del principio della Creazione.
Filopono non prova sentimenti di fedeltà o di rispetto verso le autorità della filosofia; egli esamina minuziosamente i testi come mai era stato fatto nel passato, e molte volte è Aristotele a farne le spese. Apre così la strada ad alcuni celebri argomenti a favore della non eternità; uno di questi, tratto dal Contra Aristotelem, è riportato da Simplicio (In Aristotelis Physicorum libros commentaria, 1178, 7-1179, 26) e si basa sulla nozione di infinito comunemente accettata all’epoca: (1) se l’esistenza di qualcosa richiede la preesistenza di qualcos’altro, allora questo qualcosa non può essere creato senza l’esistenza precedente dell’altro; (2) un numero infinito non può esistere in atto, non lo si può incontrare contando, né lo si può aumentare; (3) nulla può essere creato se la sua esistenza richiede la preesistenza di un numero infinito di altre cose che nascono una dall’altra. Da queste premesse, non del tutto estranee all’aristotelismo, Filopono deduce che concepire un Universo temporalmente infinito, inteso come una concatenazione di eventi connessi l’uno con l’altro, è impossibile. Inoltre, le sfere celesti hanno diversi periodi di rivoluzione e se il Sole avesse attraversato lo Zodiaco infinite volte, la sfera delle stelle fisse dovrebbe aver ruotato un numero di volte pari a 365 volte l’infinito. Filopono considera queste rivoluzioni come successioni di infiniti in atto, e l’idea che si possa aumentare l’infinito o moltiplicarlo è giudicata assurda.
Nei trattati non polemici Filopono fa uso, tra l’altro, dell’argomento aristotelico secondo il quale una capacità infinita non può stare in un corpo finito (Physica, VIII, 10) e da questo argomento deduce che, poiché l’universo è finito, non può avere la capacità necessaria di esistere per un tempo infinito (e questo valeva anche secondo Aristotele).
Fisica celeste
La nozione greca dell’eternità del Cosmo in cui viviamo ha prodotto la dottrina secondo la quale le sfere celesti sono in qualche modo divine, sono cioè sostanze eternamente stabili che non subiscono gli usuali processi di generazione e corruzione. Aristotele nel De caelo sosteneva che i cieli sono di una sostanza superiore a quella dei corpi sempre mutevoli della regione sublunare, e per i cieli egli inventa un quinto elemento, tradizionalmente chiamato ‘etere’, concepito come incorruttibile e capace solo di modifiche locali. Aristotele giunse a questa nozione sviluppando un argomento altamente speculativo, che però non regge a una critica approfondita (cosa di cui si accorgeranno anche alcuni peripatetici più tardi); inoltre, questa dottrina sembra in disaccordo con il punto di vista di Platone, espresso nel Timeo, secondo il quale il cielo è composto delle parti pure e stabili dei quattro elementi, e principalmente del fuoco.
I neoplatonici, sostenitori dell’eternità del Cosmo, sono anche fautori di una dicotomia dell’Universo, per cui una parte di questo viene ad assumere uno statuto ontologico superiore a quello degli ordinari oggetti materiali, come le pietre, le piante e gli animali. Alcuni, e tra questi Simplicio, hanno difficoltà ad armonizzare le dottrine di Platone e di Aristotele sull’argomento, ovviamente divergenti, ma è Filopono, ancora una volta, a sfruttare queste divergenze: nel trattato Sull’eternità del mondo contro Aristotele egli confuta puntualmente la teoria dell’etere. Come la polemica contro Proclo, quella contra Aristotelem è dedicata soprattutto a rimuovere ostacoli a favore dei creazionisti. Se Aristotele aveva ragione a proposito dell’esistenza nella regione celeste di un quinto elemento immutabile (l’etere), come pure riguardo all’eternità del moto e del tempo, qualunque credenza nella Creazione risulterebbe senz’altro ingiustificata. Filopono riesce a scoprire nella filosofia della Natura di Aristotele numerose contraddizioni e incoerenze, falsi ragionamenti e ipotesi improbabili, finendo essenzialmente per schierarsi con Platone: i cieli sono fatti degli stessi elementi dei corpi della regione sublunare, e uno stesso sostrato tridimensionale è alla base di entrambe le regioni del cosmo. L’ulteriore conclusione che egli ne ricava porta acqua al mulino del cristianesimo: poiché non c’è differenza ontologica tra il mondo sopralunare e quello sublunare, è ragionevole supporre che i corpi celesti siano caduchi come quelli sublunari, e se i primi sono stabili è solo in obbedienza alla volontà divina, la stessa per la quale sono stati creati all’inizio dei tempi.
Sarebbe un errore pensare che le speculazioni sulla Natura e l’Universo fossero riservate soltanto a un gruppo di neoplatonici formatisi nella tradizione di Platone, Aristotele e Plotino, il cui numero andava, tra l’altro, gradualmente diminuendo. È certo che quei cristiani i quali contrariamente a Filopono, erano privi della cultura pagana o la rifiutavano in blocco, concepirono teorie della Natura in linea con le loro concezioni. Una testimonianza è fornita da un’opera dal titolo Topographia christiana composta dal viaggiatore e mercante del VI sec. Cosma Indicopleuste, che gli affari spinsero fino in India (donde il soprannome, che significa ‘navigatore indiano’). Il trattato presuppone non soltanto che la teoria fisica debba essere in accordo con le Scritture, ma che essa si possa addirittura dedurre da queste. L’opera è anche in aperta polemica con il dibattito pagano dei Greci sulla Natura; la millenaria teoria di un Universo geocentrico non soltanto è denunciata come sovversiva della verità della Bibbia, ma è anche ridicolizzata come contraria alla ragione: «Ma poiché alcuni insistono nel sostenere che la sfera ruota come un tornio intorno all’albero o come un carro o una macchina intorno all’asse, ci mostrino costoro su cosa poggiano l’albero o l’asse, e su cosa poggia a sua volta questo supporto, e così via all’infinito. In che senso parlate dunque del mondo della Natura? Come fa l’asse a non passare anche attraverso la Terra, che si trova nel mezzo, e a non farla ruotare? » (Topographia christiana, IV, 19).
Cosma riduce il modello matematico astratto delle sfere concentriche che ruotano attorno a un asse a un modello fisico cercando in questo modo di dimostrarne l’assurdità; è inoltre sordo al discorso cosmologico dei filosofi pagani e le sue premesse attingono direttamente dalla Bibbia; se il profeta parla del cielo come di una volta che Dio ha spiegato come una tenda (Isaia, 40, 22), il mondo deve allora essere fatto nello stesso modo. La Terra è di forma rettangolare e le sue estremità sostengono la volta del cielo visibile. Questa struttura è poi resa più complicata per due importanti aspetti: il primo è che per ragioni teologiche vi è un ‘primo’ cielo, che si trova sopra il firmamento visibile e nel quale Gesù Cristo raccoglie i giusti e i beati, mentre il secondo aspetto è che per ovvie ragioni empiriche occorre immaginare il piano della Terra piatta come inclinato di un certo angolo. Guardando da sud, un osservatore immaginario vedrebbe il mondo abitato, da nord, come un muro scosceso; la notte, il Sole passa dietro il muro e il buio copre il mondo abitato. «Abbiamo descritto queste cose il più possibile in accordo con le sacre scritture. Descriviamo ora la sfera come fanno i pagani, e vediamo se può ruotare come essi affermano» (Topographia christiana, IV, 15-16).
I tentativi dei due filosofi cristiani della Natura del VI sec., Cosma e Giovanni Filopono, di confutare la dottrina cosmologica pagana in favore della verità rivelata della fede sono radicalmente opposti. A quel tempo, la concezione del mondo come tabernacolo descritta da Cosma poteva essere recepita da un pubblico più vasto, ma fu lo spirito dell’ingegnosa e colta analisi dell’aristotelismo condotta da Filopono che alla fine prevalse rivedendo la luce, mille anni dopo, nel Rinascimento italiano.
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