Scienza greco-romana. La medicina nel mondo ellenistico-romano
La medicina nel mondo ellenistico-romano
Il secolo seguito alla morte di Alessandro Magno, avvenuta nel 323 a.C., fu uno dei periodi più ricchi di grandi trasformazioni in tutta la storia della medicina antica. La transizione dal grandioso ma effimero impero creato da Alessandro ai regni dei suoi rissosi successori fu accompagnata non soltanto da importanti mutamenti politici, sociali e culturali, ma anche da significativi progressi scientifici, medici e tecnologici. Nella medicina, l’adozione di nuovi metodi d’indagine del corpo umano, tra cui, in particolare, l’uso sistematico della dissezione umana e delle vivisezione condotta sui condannati a morte, portò a scoperte anatomiche e fisiologiche di fondamentale importanza. Queste produssero, a loro volta, una radicale trasformazione della rappresentazione scientifica del corpo umano e una revisione delle teorie mediche precedenti, destinata a esercitare un’influenza profonda e in alcuni casi durevole sugli sviluppi successivi di questa scienza. I nuovi metodi di indagine, tuttavia, diedero anche origine a numerose controversie e accentuarono i contrasti metodologici che erano una caratteristica della medicina greca sin dai tempi di Ippocrate, come dimostra, per esempio, il trattato ippocratico L’antica medicina. Allo stesso tempo, il primo periodo ellenistico fu caratterizzato anche da un acceso interesse per il passato: per la storia della medicina, per l’esegesi delle opere di Ippocrate e per le teorie e le pratiche di molti altri precursori. La proliferazione di testi di diversa natura dedicati alla storiografia medica, alla dossografia medica e all’esegesi ippocratica, durante e dopo la controversa rivoluzione anatomica e fisiologica, è una dimostrazione della profonda consapevolezza storica dei medici ellenistici.
Il forte slancio in direzione di territori fino ad allora inesplorati e, simultaneamente, un intenso e in parte critico sguardo verso il passato, caratterizzarono dunque le dinamiche della medicina di questo periodo, in perenne oscillazione tra questi due poli. Molte pratiche mediche tradizionali sopravvissero tuttavia inalterate ai cambiamenti sociali, economici e scientifici che interessarono gran parte del bacino del Mediterraneo nell’età ellenistica. L’uso moderno del termine ‘ellenismo’ per indicare il periodo storico che va dal 323, anno della morte di Alessandro, alla battaglia di Azio, nel 31 a.C., è in qualche modo problematico, come ogni periodizzazione, ma ha il vantaggio di segnalare l’avvento di un’epoca per molti aspetti profondamente diversa da quella classica che l’aveva preceduta. Nei nuovi regni fondati dai successori di Alessandro e oggetto delle loro contese si vennero a creare condizioni politiche e culturali del tutto nuove, che consentirono a un tempo la comparsa di straordinarie innovazioni e la persistenza delle tradizioni, l’avvento di importanti trasformazioni e la trasmissione ampia e critica delle conoscenze del passato; in effetti, malgrado l’enorme varietà di teorie e di pratiche mediche racchiusa nel concetto di ‘medicina ellenistica’, tale termine può essere utilmente impiegato per indicare anche un particolare periodo della storia della medicina.
Uno dei numerosi paradossi della medicina ellenistica è rappresentato dalla perdita di tutte le principali opere mediche del periodo, così straordinariamente ricco non solamente di importanti scoperte ma anche di dibattiti destinati ad avere notevoli conseguenze sugli sviluppi della medicina (come, per es., la lunga controversia tra ‘razionalismo’ ed ‘empirismo’). A eccezione di un commentario del I sec. a.C. al trattato ippocratico Sulle articolazioni (De articulis), opera di Apollonio di Cizio, nessuna opera medica ellenistica ci è pervenuta integra. Possediamo però oltre mille frammenti e testimonianze trasmessici da scrittori greci e latini vissuti tra il I e il VII sec., che ci consentono, con le dovute cautele metodologiche, di procedere a una parziale ricostruzione. Ci sono giunte inoltre più di 120 iscrizioni e una ventina di frammenti di papiro, che ci permettono di avere una visione diretta della cultura medica della società ellenistica. Come per altri campi della cultura greca, infatti, anche per la medicina le testimonianze epigrafiche e papirologiche degli ultimi tre secoli a.C. sono molto più numerose di quelle dell’epoca classica.
Tra le iscrizioni ellenistiche pervenuteci vi sono circa cinquanta decreti in onore di medici e oltre sessanta epitaffi e dediche che elogiano o menzionano l’attività medica, che confermano l’alta stima in cui erano tenuti i medici, o almeno alcuni di loro, a livello politico e sociale, malgrado i li - miti della loro téchnē. In un decreto del II sec. in onore di Onasandro, figlio di Onasilo, per esempio, si legge che esso fu approvato unanimemente dall’assemblea, composta in questo caso da 248 cittadini del demo di Halasarna, sull’isola di Coo. Questo decreto, depositato presso un santuario di Apollo, elogia il medico per l’irreprensibilità della sua condotta, la generosità nel soccorrere chiunque ne avesse bisogno, l’infaticabile e disinteressata attività a favore dei malati, la competenza professionale e la vita esemplare. Espressioni analoghe ricorrono in altri decreti onorifici, che garantivano ai medici una serie di privilegi religiosi, civili, cerimoniali ed economici. Non erano rari neppure i riconoscimenti materiali, costituiti in parecchi casi da una corona d’oro.
Vi furono anche casi di medici molto vicini ai centri del potere politico. Nel III sec., per esempio, il re seleucide Antioco I Sotere fu salvato dal medico Metrodoro di Amfipolis, che lo guarì dalle conseguenze di una ferita al collo ricevuta in battaglia. Antioco e suo padre Seleuco compensarono Metrodoro con numerosi riconoscimenti, tra cui la cittadinanza, i diritti di proprietà, l’accesso all’assemblea del consiglio e alle cerimonie sacre, e molti titoli onorifici. Tra i medici legati alla corte seleucide vi furono probabilmente Erasistrato di Ceo, il suo allievo Apollofane di Seleucia, una città della Siria settentrionale, e Cratero di Antiochia. Una statua di Cratero del tardo II sec. reca un’iscrizione che lo descrive come tutore del principe seleucide Antioco Filopatore, ciambellano della regina Cleopatra Thea e «amico primo» del re Antioco. Anche Menandro, che intorno al 160 ricoprì l’incarico di medico di Eumene II alla corte attalide di Pergamo, fu onorato con un decreto; e un altro medico della corte di Eumene, Stratio, fu scelto dal re per una delicata missione diplomatica a Roma (Polibio, XXX, 2, 1-10). Anche alla corte tolemaica di Alessandria non mancarono medici dotati di grande influenza, come un seguace di Erofilo, Andrea di Caristo, che fu ucciso durante la battaglia di Rafia (217) all’interno della tenda del re Tolomeo IV Filopatore.
All’inizio del II sec., Crisermo di Alessandria, un medico della corte alessandrina seguace di Erofilo, accumulò una straordinaria quantità di titoli, tra cui quelli di «congiunto del re Tolomeo» (un’onorificenza che gli dava il diritto di essere ammesso alla tavola del re e di indossare una mitra), «esegeta» (aveva il diritto di indossare una veste di porpora, di dirigere le cerimonie pubbliche e di interpretare le questioni in base alla legge religiosa e alla tradizione), «sovrintendente dei medici» e «amministratore del museo» (Roussel 1937, n. 1525; von Staden 1989, pp. 523-524). Dioscuride Phakas, un seguace di Erofilo vissuto nel I sec. a.C., fu un influente consigliere di due sovrani, Tolomeo XII Aulete e Tolomeo XIII (il fratello più giovane e il marito di Cleopatra, che lo aveva associato al trono). Tra i medici legati alla corte alessandrina nel primo secolo sono ricordati inoltre il già citato Apollonio di Cizio, appartenente alla scuola empirica, e il giovane apprendista Filota di Amfissa, probabile ispiratore della brillante descrizione di Alessandria che si trova nella Vita di Antonio di Plutarco. Un decreto onorifico del 168 a.C., rinvenuto nel santuario di Asclepio a Coo, è dedicato invece al medico tessalo Atenagora di Larissa, per ringraziarlo dell’assistenza medica prestata al pretore romano Gneo Ottavio, comandante della flotta romana durante la guerra contro il re macedone Perseo.
Molti medici ellenistici parteciparono attivamente alla vita istituzionale delle loro città. Alcuni di loro accumularono considerevoli fortune e si distinsero per la loro munificenza, in campo civile e militare. Verso la fine del III sec., per esempio, Filisto di Coo, che praticava la sua professione a Delfi, dove fu onorato con un decreto pubblico e una corona d’oro (Pouilloux 1976, n. 362), donò, a nome suo e dei suoi figli, la ragguardevole somma di quattromila dracme per sostenere il bilancio militare di Coo (Paton 1891, n. 10). La partecipazione dei medici alla vita religiosa della pólis è ben attestata in molte aree del mondo ellenistico, incluse quelle più remote: Samiade, figlio di Menandro, dedicò ad Asclepio un bosco sacro e un santuario nella città di Mastaura, nella Lidia, probabilmente nel III sec. (Le Bas 1972, n. 1663); Massimo, invece, donò un bassorilievo di marmo raffigurante Apollo e un cavallo a un santuario del dio nei pressi di Filippoli in Tracia, dedicandolo «al dio Apollo che presta ascolto» (Mihailov 1961, n. 1467).
La più celebre ‘famiglia’ greca di divinità guaritrici – Apollo, suo figlio Asclepio e la figlia di questi, Igea – continuò a svolgere un ruolo importante nella cultura medica dell’età ellenistica, nonostante l’acuirsi delle polemiche metodologiche e i grandi progressi scientifici compiuti. Non soltanto i medici si proclamavano apertamente devoti di Asclepio ma anche gli ammalati continuarono a dedicare iscrizioni votive allo stesso dio a Epidauro, Lebena (Creta) e in altri santuari, ringraziandolo per averli guariti sia con un intervento diretto, sia rivelando loro una cura appropriata, in genere durante il periodo di incubazione trascorso in un tempio. Esistevano anche altre divinità venerate dai medici; a Cipro, per esempio, alcuni medici dedicavano epigrafi ad Artemide e ad Afrodite, mentre a Giulia Gordos, nella Lidia, è stata rinvenuta una stele di marmo recante un’iscrizione a Zeus, in onore del medico della corte seleucide Apollofane (Keil 1981-89, n. 689).
Un decreto redatto ad Atene nel III sec. (270/269 ca.), ci informa anche della «usanza ancestrale dei medici pubblici di sacrificare due volte l’anno ad Asclepio e Igea, per invocarne la protezione sia su sé stessi, sia sui corpi dei loro pazienti » (Kirchner 1913, n. 722; Cohn-Haft 1956, n. 8). Molti altri decreti di età ellenistica volti a regolamentare il culto di Asclepio e a conferire prestigio ai suoi sacerdoti, oltre a varie iscrizioni (tra cui il celebre Inno di Isillo) che riportano la genealogia di Asclepio e di Apollo o episodi della leggenda di Asclepio, attestano l’importanza culturale delle divinità guaritrici nei regni ellenistici. Gli atti di sacrilegio compiuti contro il culto del Guaritore furono molto rari; tra le poche eccezioni di cui ci sia giunta notizia, vi fu quella del re di Bitinia Prusia II, il quale, dopo aver invaso il territorio del re Attalo II di Pergamo, e poco prima della sua definitiva sconfitta nel 154 a.C., depredò la celebre statua di Asclepio, opera di Firomaco, davanti alla quale soltanto il giorno prima aveva compiuto un sacrificio (Polibio, XXXII, 15, 1-5).
Le testimonianze epigrafiche e letterarie di cui disponiamo riguardano direttamente una piccolissima parte dei medici vissuti nell’età ellenistica, ma dimostrano come almeno alcuni tra loro fossero considerati membri influenti della comunità a cui appartenevano, rispettosi delle sue istituzioni e pronti a partecipare generosamente alla sua vita civile e religiosa. Molte iscrizioni ne lodano le qualità personali e professionali: per esempio, in un decreto emanato nel II sec. ad Amfissa (nella Focide, non lontano da Delfi), Menofanto, un medico pubblico originario di Ircania in Macedonia, è elogiato per la sua condotta irreprensibile, per la buona volontà e l’imparzialità con cui si era prodigato a favore di tutti, per essersi mostrato degno sia della sua città sia della sua professione (Klaffenbach 1968, n. 750). Nel I sec., il medico pubblico Damiade di Sparta è onorato con parole molto simili in un decreto emanato dalla città di Gytheion (nella Laconia), in cui lo si ringrazia per i due anni di servizio e di condotta irreprensibili, durante i quali si era adoperato instancabilmente a favore di tutti («il ricco e il povero, gli schiavi e gli uomini liberi») e si era mostrato riconoscente verso la città che lo ospitava, comportandosi in modo esemplare sia nella sua professione sia nella vita privata (Kolbe 1913, n. 1145).
Data la frequenza delle crisi politiche, non c’è da meravigliarsi che i decreti volti a onorare i medici facessero spesso riferimento a conflitti civili, guerre esterne o assedi. Verso la fine del III sec. (219-217), per esempio, le città cretesi di Gortina e Cnosso emanarono un decreto per onorare il medico Ermia, originario di Coo, che lo aveva inviato a Creta su richiesta dei «vecchi» cittadini di Gortina e dei loro alleati, tra cui Cnosso, per aiutarli nella guerra civile da essi condotta contro il partito dei «giovani» cittadini di Gortina; l’iscrizione esprime la gratitudine delle due città verso Ermia, per le molte vite da lui salvate (Guarducci 1935, n. 7; 1950, n. 168). Un decreto emanato in onore del medico pubblico Diodoro di Samo, tra il 201 e il 197, allude ai meriti da lui acquisiti in occasione non soltanto di un terremoto, ma anche dell’assedio della città, durante la Seconda guerra macedone; malgrado il numero e la gravità dei feriti affidati alle sue cure, si legge nell’iscrizione, Diodoro aveva saputo affrontare l’emergenza dando prova di grande competenza e integrità, senza risparmiare le proprie forze e affrontando qualunque spesa per soccorrere tutti coloro che avevano bisogno di aiuto (Habicht 1957, n. 64; MacCabe 1986, n. 25). Analogamente, come si è detto, il re seleucide Antioco I Sotere guarì da una grave ferita di guerra (ricevuta forse durante una delle sue vittoriose campagne contro i Galati, negli anni 275-274 o 269-268) grazie alle cure di Metrodoro di Amfipolis (Frisch 1975, n. 34).
Ma non sempre le crisi più gravi che i medici dell’età ellenistica si trovarono ad affrontare avevano un’origine politica; nel III sec. a.C. Coo emanò un decreto in onore di Senotimo, che, a quanto pare, non era un medico pubblico, per aver salvato molti dalla morte e aver fatto tutto quanto era nelle sue possibilità per soccorrere i suoi concittadini, senza mostrare alcun favoritismo, durante quella che fu con ogni probabilità un’epidemia: «Quando molti erano stati colpiti da un morbo fatale e quando gli stessi medici pubblici della città si erano ammalati a causa delle terribili sofferenze che li circondavano, e delle cure prestate ai malati, Senotimo infaticabilmente, di sua spontanea volontà, continuò a elargire consigli e aiuto a quanti avevano bisogno di assistenza medica » (Dittenberg 1920, n. 943).
La stima da cui erano circondati molti medici dell’età ellenistica è dunque ampiamente dimostrata dagli epitaffi, i decreti e le dediche che li riguardano. Ma qual era la loro condizione o classe sociale? Le iscrizioni che ci sono giunte indicano che nella maggior parte dei casi si trattava, come nel periodo classico, di liberi cittadini delle diverse città greche, il che non escludeva la possibilità di spostamenti; spesso i medici si recavano infatti all’estero per lunghi periodi di tempo, oppure erano inviati dalla propria città in un’altra, su richiesta degli abitanti di quest’ultima. Non era infrequente, inoltre, il caso di schiavi impiegati dai medici come assistenti: un’iscrizione su un muro del tempio di Apollo a Delfi (156-151) registra l’affrancatura di uno schiavo, Damone, concessa a condizione che acconsentisse ad assistere il suo padrone, il medico Dionisio, per cinque anni, qualora egli ne avesse avuto bisogno, in cambio di vitto, alloggio e vestiario (Bechtel 1899, n. 1899). Nel complesso, anche se in Italia (e in altri territori appartenenti al mondo romano) esistono numerose testimonianze di medici schiavi, nel mondo ellenistico, come nella Grecia classica, la professione medica sembra però essere stata di norma appannaggio dei liberi cittadini.
Un elemento particolarmente interessante delle iscrizioni ellenistiche è la menzione di donne medici. Già nella seconda metà del IV sec. un epitaffio posto sotto un bassorilievo marmoreo raffigurante due donne e quattro bambini descrive la figura centrale del gruppo con queste parole: «Qui giace Fanostrate, levatrice e medico, che [durante la sua vita] non causò del male a nessuno e che dopo la morte è rimpianta da tutti» (Hillert 1990, pp. 77-79 e tav. 10). Le prove della presenza di donne medici divengono più numerose nel tardo periodo ellenistico; molte iscrizioni contengono riferimenti a levatrici, e una del I sec., proveniente da Tlos nella Licia (Asia Minore), rammenta come «Antiochide di Tlos, [...] di fama riconosciuta dal Consiglio e dal popolo di Tlos in ragione dell’esperienza e competenza dimostrate nella téchnē medica, innalzò la sua statua» (Guarducci 1987, pp. 62-163). Si tratta forse della stessa Antiochide a cui un celebre empirico del I sec. a.C., Eraclide di Taranto, dedicò una delle sue opere farmacologiche più importanti, e la stessa di cui Galeno descrive un preparato (K XIII, pp. 250, 341).
L’educazione dei medici si svolgeva a volte all’interno di una famiglia o di un clan, come nell’epoca classica; peraltro altrettanto tipico dell’età ellenistica è il caso di Onasandro, figlio di Onasilo, già ricordato per il decreto emanato in suo onore dai cittadini di Coo. Onasandro iniziò la sua carriera come allievo del medico pubblico Antipatro, figlio di Dioscuride, e fu poi nominato assistente dello stesso Antipatro, con il quale lavorò per molti anni, senza risparmiare sé stesso e i propri beni per aiutare il prossimo e mantenendo una condotta esemplare sia nella vita professionale sia in quella privata. In seguito iniziò la carriera privata, aprendo uno studio medico a Coo, dove si prodigò per aiutare tutti i cittadini bisognosi di assistenza medica, accettando ma non pretendendo mai alcun onorario. Benché non fosse insolito che da una stessa famiglia uscissero diverse generazioni di medici, la carriera di Onasandro è caratteristica dell’epoca ellenistica: quando un medico raggiungeva la celebrità di un Erofilo o di un Erasistrato poteva riunire attorno a sé una ‘scuola’ di apprendisti e assistenti, ma nelle nostre fonti non c’è alcun accenno a un organismo istituzionale o pedagogico assi mi labile alla nozione moderna di ‘scuola di medicina’.
Le apparizioni ufficiali in pubblico dei medici ellenistici non erano limitate alle cerimonie civili o religiose celebrate in loro onore, alle missioni ufficiali o all’esercizio della loro attività professionale all’interno di spazi semipubblici; molti medici tenevano infatti conferenze pubbliche su argomenti più o meno legati alla loro professione. Almeno quattro decreti del II sec. in onore di medici sembrano riferirsi a tali conferenze ed è interessante notare come le iscrizioni relative a questi decreti provengano da un’area molto vasta, che va dall’isola di Andros a Istros nella Mesia (Mar Nero), e da Amfissa nella Focide (a nord-ovest di Delfi) a Perga in Panfilia (Asia minore). Alcune città greche stabilirono una specifica tassa destinata a compensare l’attività dei medici pubblici, menzionata in alcune iscrizioni ellenistiche, di Delfi (263 a.C.) e forse di Coo, e in un frammento di papiro egiziano. I medici pubblici curavano gratuitamente i pazienti più poveri, ma la maggior parte stabiliva un proprio tariffario, che poteva variare a seconda della situazione economica dei pazienti (una condotta esplicitamente raccomandata in alcuni testi medici greci che ci sono giunti).
Conosciamo i nomi di oltre cento medici ellenistici e le fonti più tarde contengono una notevole quantità di materiale di incalcolabile valore, riguardante le teorie e le pratiche di molti di loro, inclusi alcuni medici non riconducibili a nessuna ‘scuola’ in particolare (per es., l’esperto di dietetica Dieuches, l’anatomista Eudemo e il chirurgo Nileo). Le figure di due medici della prima età ellenistica emergono tuttavia con particolare rilievo tra tutte le altre, per il contributo fortemente innovativo da essi fornito al progresso della medicina scientifica: quella di Erofilo (330 ca.-250) e quella di Erasistrato (320 ca.-240), due contemporanei di Euclide, del filosofo stoico Zenone, di Epicuro, del genio della meccanica Ctesibio e dell’astronomo Aristarco di Samo.
Nato a Calcedone, sulla costa asiatica del Bosforo, Ero - filo svolse probabilmente il suo apprendistato sull’isola di Coo sotto la guida di Prassagora. Coo rimase anche nell’età ellenistica un celebre centro di insegnamento della medicina, nel quale si formarono molti dei migliori medici dell’epoca, ma Prassagora è il primo medico postippocratico di Coo a cui si attribuiscano rilevanti progressi scientifici, come, per esempio, una chiara distinzione tra arterie e vene e l’individuazione del battito del polso come fenomeno arterioso. Tra gli allievi di Prassagora alcuni divennero celebri, come Pleistonico, Filotimo e Senofonte, ma nessuno raggiunse una notorietà altrettanto vasta di quella di Erofilo. Come altri membri dell’élite intellettuale greca, Erofilo fu ben presto attratto da un nuovo, scintillante centro della cultura greca, sorto sulla costa settentrionale dell’Africa: Alessandria, la città che, fondata da Alessandro Magno nel 331 a.C., era divenuta rapidamente il centro più avanzato della ricerca scientifica medica, in parte proprio grazie a Erofilo e al suo uso rivoluzionario della dissezione sistematica dei cadaveri e, quasi certamente, della vivisezione sperimentale sistematica condotta sui condannati a morte, come nuovi strumenti di indagine scientifica.
Appare degno di nota il fatto che questi nuovi metodi, così efficaci sotto il profilo scientifico, siano stati utilizzati solamente per il breve spazio di una generazione o poco più, ed esclusivamente da Erofilo e da Erasistrato, prima di essere definitivamente abbandonati (benché la dissezione sugli animali continuasse a essere praticata sistematicamente e, in alcuni periodi – per es., nel II sec. d.C. – su scala ancora più ampia rispetto all’epoca di Erofilo). Questo evento straordinario nella storia della medicina greca presenta molti aspetti ancora enigmatici: in primo luogo, nei circa mille anni di storia della scienza greca antica, questa fu non soltanto la prima, ma anche l’ultima volta in cui fu praticata la dissezione sistematica dei cadaveri. In effetti, tale pratica fu ripresa soltanto nel XIV sec., anche se in diversi periodi furono compiuti sporadici tentativi di esplorare le parti interne del corpo umano (la maggioranza dei riferimenti postellenistici all’anatomé o anatomaí riguarda non la dissezione umana ma quella animale o, più frequentemente, solamente le conoscenze che costituiscono il ramo della medicina oggi noto come «anatomia»). Esperimenti di dissezione erano già stati compiuti da Aristotele e forse anche da altri, come Diocle di Caristo nel IV sec. a.C., sugli animali, ma mai sugli esseri umani.
Erofilo fu il primo a scoprire i ventricoli cerebrali e a riconoscere l’importanza fisiologica del quarto ventricolo del cervelletto. Egli scoprì inoltre l’esistenza dei nervi e fornì la descrizione dei percorsi di almeno sette coppie di nervi cranici, oltre a proporre la distinzione tra nervi sensoriali e nervi «volontari» (cioè, motori). La sua attenzione fu particolarmente attratta dal nervo ottico. Distinse meticolosamente almeno quattro rivestimenti o membrane dell’occhio, arricchendo la terminologia anatomica dei termini ‘cornea’ (la traduzione latina della parola greca keratoeidḗs, ‘simile al corno’, coniata da Erofilo), ‘retina’ (la traduzione latina del neologismo di Erofilo diktyoeidḗs, ‘simile a una rete’) e ‘coroide’.
Erofilo non restrinse le sue indagini unicamente alla testa ed esplorò anche la struttura e le parti interne delle cavità toracica e addominale, effettuando importanti scoperte; oltre a confermare la distinzione, già stabilita dal suo maestro Prassagora, tra il ventricolo sinistro del cuore, da cui si diparte l’aorta e quindi l’intera rete delle arterie, e il ventricolo destro, a cui fa capo la parte venosa del sistema vascolare, fu il primo a scoprire l’esistenza delle valvole cardiache e a rilevare una differenza non soltanto funzionale, ma anche anatomica, tra arterie e vene, osservando che, rispetto alle seconde, le pareti delle prime hanno uno spessore molto maggiore. Commise tuttavia un errore nel considerare le orecchiette come una parte interna del cuore, mentre si tratta di due cavità poste al termine delle due vene principali – la vena cava e la vena polmonare – attraverso cui il sangue è sospinto nella parte interna del cuore, cioè nei ventricoli destro e sinistro. Nelle sue opere sono descritti con mirabile accuratezza numerosi vasi sanguigni, tra cui in particolare le arterie e le vene dell’apparato riproduttivo femminile. Erofilo fu inoltre il primo a elaborare una descrizione ragionevolmente accurata del fegato umano, a esaminare il pancreas e a fornire un quadro anatomico degli organi riproduttivi maschili e femminili, che sarebbe rimasto insuperato per secoli. Fu il primo medico ad aver scritto un trattato sull’ostetricia, confutando una serie di luoghi comuni riguardanti l’utero, smentendo innanzitutto l’idea che fosse formato da due camere (una credenza tradizionale ripresa più tardi da Galeno), rigettando la teoria ippocratica dell’utero vagante, a cui era attribuita l’origine della soffocazione isterica e, infine, scoprendo l’esistenza delle ovaie, delle tube di Falloppio (anche se non ne riuscì a individuare il reale percorso) e dei legamenti sospensori. Questi ultimi servono inter alia a mantenere l’utero al suo posto e la loro esistenza, secondo Erofilo, risultava incompatibile con la teoria dell’utero vagante. Egli battezzò le ovaie «i gemelli» (dídymoi), per analogia con i testicoli, che spesso erano chiamati in questo modo.
Altrettanto significativi furono i progressi realizzati da Erofilo nella conoscenza dell’anatomia dell’apparato genitale maschile; distinse infatti con grande scrupolosità i diversi tratti del sistema delle vie spermatiche, attraverso i quali avviene l’escrezione del seme. Tra i suoi contributi più duraturi alla terminologia anatomica vi è il termine epididymís (‘ciò che si trova sopra o vicino al testicolo’) per indicare il tratto angusto e raggomitolato delle vie spermatiche che si trova nel margine laterale del lato posteriore di ciascun testicolo ed è composto in gran parte da condotti efferenti. Inoltre, stabilì una distinzione tra le due vescicole seminali – cioè le due borse situate ai due lati del condotto riproduttivo maschile, che contribuiscono alla produzione del liquido seminale e servono a immagazzinare temporaneamente lo sperma – e i vasa deferentia che trasportano lo sperma dai due dotti epididimari al dotto eiaculatore. Le fonti antiche ammettono che una conoscenza così dettagliata degli organi riproduttivi maschili e femminili era il prodotto della pratica sistematica della dissezione umana.
Come spesso accade nel campo scientifico, la brillante anatomia umana di Erofilo è, ovviamente, una combinazione di acutezza e di cecità, di scoperte e di occultamenti, di aggiunte e di cancellature involontarie, di amplificazioni e di semplificazioni della realtà, sul terreno scivoloso della trasformazione in testi di carattere scientifico delle osservazioni, delle ipotesi e degli esperimenti effettuati. Ma questa elencazione parziale delle sue scoperte è sufficiente a dare un’idea della straordinaria, benché breve, esplosione di conoscenze anatomiche prodottasi negli anni in cui, per la prima e ultima volta nella storia antica, fu praticata in modo sistematico la dissezione sugli esseri umani. La ‘rivoluzione’ anatomica di Erofilo, come molte importanti svolte scientifiche, non causò ovviamente l’abbandono di tutte le tradizioni mediche precedenti, ma ebbe un impatto durevole sui modi in cui era concepito il corpo nelle culture europee, come dimostrano in modo evidente le conseguenze delle sue scoperte anatomiche sulle teorie fisiologiche occidentali.
Le straordinarie scoperte anatomiche di Erofilo e le sue scrupolose descrizioni della forma, della posizione, dell’aspetto, della consistenza, del colore e della struttura di numerose parti del corpo, basterebbero da sole ad assicurargli una fama duratura, ma egli fu altrettanto interessato a ricercare le cause e la natura delle funzioni e delle disfunzioni di tali parti, ossia agli studi fisiologici e patologici. Ne offriremo tre brevi esempi. Il primo concerne l’ubicazione del principio regolatore o ‘centro di comando’ nel corpo umano, una questione dibattuta da molti filosofi greci. Gli autori precedenti avevano proposto alternativamente d’identificarlo con il cuore, col sangue che circonda il cuore, col pneuma che circonda il cuore, con la testa o col cervello. Sulla base delle sue superiori conoscenze anatomiche, Erofilo dedusse che tale centro doveva trovarsi nel cervelletto, in quello che oggi è conosciuto con il nome di quarto ventricolo. Su questa importante conclusione può aver influito la scoperta, realizzata per mezzo della vivisezione, del fatto che il cervelletto è l’organo responsabile dell’attività muscolare e del mantenimento dell’equilibrio; dal cervello, aggiungeva Erofilo, si dipartono i nervi sensoriali e motori, che raggiungono tutte le parti del corpo. Dalla sua descrizione del nervo ottico, in particolare, sembra potersi desumere quale fosse il suo pensiero: i nervi contenevano un tipo particolare di pneuma che aveva il compito di trasmettere ‘messaggi’ dal cervello alle diverse parti del corpo e viceversa. Però, le testimonianze disponibili sono troppo scarse per consentire una ricostruzione chiara e completa di questo aspetto della sua neurofisiologia, mentre siamo relativamente più informati, come vedremo, sulle opinioni di Erasistrato a tale riguardo.
Riconoscendo che alcuni moti involontari nel corpo non sono attribuibili ai nervi, Erofilo offrì interpretazioni anche di questi moti, compreso il battito del polso. Partendo dall’intuizione di Prassagora, secondo cui la pulsazione si verifica solamente nelle arterie e non nelle vene, Erofilo sviluppò molte ipotesi originali relative alla ‘teoria del polso’. In primo luogo, sostenne che le arterie, al contrario delle vene, in cui scorreva solamente sangue, contenevano sia sangue sia pneuma: un’opinione accettata anche dal più influente medico di tutti i tempi, Galeno (II sec. d.C.). In tal modo, Erofilo rigettava l’idea, sostenuta da Prassagora e da Erasistrato, secondo cui nelle arterie non scorreva affatto sangue ma soltanto pneuma, avvicinandosi alla concezione moderna delle arterie come sistema di distribuzione del sangue più ossigenato. In secondo luogo, asserì che le arterie si dilatano per opera di una potenza o facoltà (dýnamis) che ha origine dal cuore e scorre attraverso le pareti arteriose. Secondo questa teoria, il cuore può essere paragonato a «una fonte del potere di dilatazione delle arterie» (von Staden 1989, n. 145a, pp. 322-323). In terzo luogo, il cuore non ‘invia’ o pompa il sangue nelle arterie; piuttosto, sono le arterie, quando sono dilatate dalla facoltà contenuta nelle pareti arteriose, ad attirare «ciò che serve a riempire il vuoto causato dalla dilatazione » (ibidem); in altre parole, le arterie aspirano dal cuore una miscela di sangue e pneuma e la spingono continuamente più avanti. Erofilo sostenne poi che tutte le arterie si contraggono e si dilatano all’unisono con il cuore, come nella teoria aristotelica dei vasi sanguigni pulsanti (Aristotele tuttavia non operava alcuna distinzione sistematica tra arterie e vene). Ancora, mentre Prassagora considerava il polso, i tremori, gli spasmi e le palpitazioni come moti arteriosi della stessa natura, che differivano tra loro soltanto quantitativamente, Erofilo riteneva le arterie responsabili solamente del polso e attribuiva gli altri moti ad alterazioni patologiche del sistema motorio volontario del corpo, cioè dei nervi motori. Egli distingueva poi nel battito del polso due fasi o «parti»: la contrazione (systolḗ), cioè l’attività o enérgeia delle arterie, che è percettibile (un punto contestato più tardi da Galeno), e la dilatazione (diastolḗ), ossia «il ritorno [delle arterie] alla loro condizione propria e naturale» (von Staden 1989, n. 157, pp. 331-332).
Infine, Erofilo sviluppò un elaborato sistema di classificazione delle differenti specie di battito del polso, basato in primo luogo sulle differentiae di carattere generale – come il volume, la dimensione, la velocità, la forza e il ritmo – e secondariamente sull’età delle persone. Tra queste differentiae specificae, il ritmo è quella che ricorre con maggiore frequenza nelle testimonianze superstiti relative a Erofilo; partendo dalle due categorie fondamentali di battito ascendente (ársis) e discendente (thésis), egli sviluppò l’analogia tra i ritmi musicali e quelli del polso. La sua teoria mostra una notevole somiglianza con la teoria musicale del filosofo peripatetico Aristosseno di Taranto e non si può escludere che Erofilo abbia tratto ispirazione dalla sua Rhytmica o da altri trattati musicali. La durata o ‘lunghezza’ di ciascuna contrazione o dilatazione dell’arteria è misurata in unità definite con il nome di «minime unità di tempo percettibili», ognuna delle quali corrisponde a una ‘breve’ nella metrica musicale. Erofilo definisce tali unità più piccole come l’intervallo di tempo che l’arteria di un neonato impiega per dilatarsi; il ritmo del polso è concepito invece come il rapporto tra la durata della contrazione e quella dalla dilatazione.
Il ‘ritmo’ normale del polso, tuttavia, non è lo stesso in tutti gli esseri umani e si deve a Erofilo un’importante classificazione dei battiti nei diversi stadi dell’esistenza; nell’infanzia il normale ritmo del polso corrisponde al piede conosciuto in metrica col nome di ‘pirrichio’ (‿‿), cioè è composto di due «minime unità di tempo percettibili», dal momento che la durata di ogni contrazione o dilatazione in un neonato è pari a una sola di queste unità; nel corso dello sviluppo, il ‘rapporto’ che regola il ritmo del polso si modifica. Nel «bambino in crescita» e nell’adolescente il normale ritmo del polso corrisponde a un trocheo (_‿): ciascun ciclo di diastole e sistole consiste allora di tre unità minime, dal momento che la dilatazione dura due unità (corrispondenti a una ‘lunga’ nella metrica), e la contrazione una sola unità (corrispondente a una ‘breve’). Nel fiore degli anni, il normale ritmo del polso è composto da quattro unità minime, equamente divise tra la contrazione e la dilatazione; il piede che corrisponde all’età adulta è dunque lo ‘spondeo’ (_ _), in cui ciascun battito ascendente e discendente ha la durata di una lunga (ovvero due unità minime). Infine, in coloro che hanno superato il culmine della loro esistenza e sono «già quasi vecchi», il normale ritmo del polso assume l’andamento del ‘giambo’ (‿_). Ciascun ciclo di battito ascendente e discendente (o di diastole e sistole) torna a essere composto, come nell’adolescenza, da tre unità, disposte tuttavia nel rapporto inverso: la dilatazione ha la durata di una sola unità (corrispondente in metrica a una ‘breve’) e la contrazione ha una durata doppia (una ‘lunga’).
Una musica naturale risuona dunque nelle nostre arterie, assumendo, nel succedersi dei diversi stadi dell’esistenza, ritmi diversi (dapprima il pirrichio, poi il trocaico, lo spondaico e infine il giambico), che rappresentano i ritmi ‘naturali’ o normali del polso. Erofilo cercò anche di misurare le deviazioni da questi ritmi naturali, a scopi diagnostici o prognostici; la prova più evidente di questo aspetto ‘clinico’ dei suoi studi sul polso è costituita dalla realizzazione di una clessidra ad acqua portatile, di cui sembra che si servisse durante il suo giro di visite per prendere il polso ai pazienti. Secondo Marcellino, uno scrittore greco di medicina dell’inizio del II sec., la clessidra di Erofilo poteva essere calibrata in base all’età del paziente (un elemento che evidenzia il suo desiderio di superare il divario, fin troppo frequente, tra teoria scientifica e pratica clinica).
Le oltre trecento testimonianze relative a Erofilo che ci sono giunte contengono numerosi accenni a molte altre teorie da lui elaborate. Tra queste, la sua classificazione dei sogni in tre categorie, una delle quali anticipava, per ammissione dello stesso Sigmund Freud, l’interpretazione psicanalitica dei sogni come realizzazioni inconsce dei desideri; la sua eziologia di molte malattie e l’accettazione della teoria degli umori come ipotesi esplicativa; la sua teoria sull’origine dello sperma; i suoi lavori sulla ginnastica, la dietetica, la materia medica e la terapeutica; la sua sintomatologia e, infine, il suo interesse per l’esegesi dei testi attribuiti a Ippocrate (per la descrizione e l’analisi delle testimonianze, cfr. von Staden 1989). La considerazione delle scoperte e delle teorie di Erofilo pone però con forza di fronte al triplice enigma cui si è già accennato: (1) perché i Greci non utilizzarono mai nelle loro ricerche la dissezione sull’uomo prima di Erofilo, nonostante il fatto che il valore euristico di tale pratica fosse stato dimostrato, per esempio, dagli esperimenti sugli animali condotti da Aristotele? (2) In quale contesto sociale, culturale e politico divenne possibile per un Greco antico dissezionare cadaveri, con quali giustificazioni e a quale scopo? (3) Perché nessun altro scienziato greco vissuto dopo Erofilo, a eccezione del suo più giovane contemporaneo Erasistrato (v. oltre), utilizzò la dissezione umana, benché le sue scoperte fossero ben note e apprezzate? Non esiste una risposta univoca a tali domande, ma per ciascuna di esse è possibile individuare un certo numero di fattori particolarmente significativi.
In primo luogo, le leggi sacre della Grecia antica, che conosciamo attraverso molte iscrizioni, così come le testimonianze letterarie, ci confermano che i cadaveri erano considerati fonte di grave contaminazione civile e religiosa per tutti coloro che, per qualsiasi ragione, vi entravano in contatto o erano in rapporti di parentela con i defunti. Era ugualmente proibito morire, seppellire o abbandonare un cadavere sul terreno appartenente a un santuario. Coloro che entravano direttamente o indirettamente in contatto con un cadavere, compresi quelli che erano incaricati di prepararlo per i funerali o di provvedere alla sua inumazione, erano considerati ‘impuri’ e le leggi sacre di molte città greche ne prevedevano l’esclusione da tutti i santuari, cioè dai centri vitali e dalle fonti stesse della vita della comunità, per un periodo variante da due a quarantuno giorni. Perfino il rinvenimento di un singolo osso umano era sufficiente, secondo alcune leggi sacre, a contaminare un’intera comunità e richiedeva la celebrazione di appositi riti purificatori (catarsi); anche se una parte di queste ‘leggi catartiche’ può essere spiegata con ragioni di carattere igienico, esse dimostrano, in ogni caso, l’alto potere di contaminazione individuale e collettiva attribuito ai cadaveri nella cultura greca. Un ulteriore, potente deterrente culturale che può aver contribuito a scoraggiare la pratica della dissezione fu forse il valore che i Greci antichi conferivano alla pelle, da essi spesso descritta come un limine caratterizzato da un’alta complessità e soggetto a molti pericoli, ossia come un confine e una barriera che poteva essere violata soltanto in caso di crisi individuali o collettive. Anche se in guerra la pratica della mutilazione dei cadaveri era ampiamente diffusa, come sappiamo per esempio dall’Iliade, l’‘ideologia’ greca del cadavere e della pelle può aver agito come un tenace e potente tabù che impedì la diffusione della dissezione sull’uomo.
In secondo luogo, la straordinaria convergenza e interazione di molteplici fattori, determinatesi ad Alessandria nel periodo successivo alla sua fondazione, può aver fornito a Erofilo la possibilità di infrangere questo tabù e uno stimolo a farlo. Uno di tali fattori può essere stato, paradossalmente, l’assenza di democrazia nell’Egitto tolemaico. Alcuni storici moderni hanno ipotizzato l’esistenza di un legame tra lo sviluppo scientifico della Grecia antica e la presenza di alcune strutture politiche, in particolare della democrazia e di una legislazione democratica, che incoraggiavano il dissenso, il dibattito e l’esame critico dei diversi argomenti. Anche se ciò potrebbe essersi realmente verificato in alcuni periodi della storia della scienza e della medicina greche, il dissenso e la democrazia non facevano certamente parte delle priorità dei sovrani macedoni (i Tolomei) che avevano stabilito in Egitto una forma di monarchia assoluta. I primi Tolomei nutrivano l’ambizione di trasformare Alessandria in un brillante centro letterario e scientifico e la protezione da essi accordata alla ricerca scientifica comprendeva anche forme di sostegno non finanziario, alcune delle quali erano presumibilmente possibili soltanto in una società autocratica e non democratica. Le testimonianze antiche sottolineano, per esempio, il fatto che fossero i re a consegnare a Erofilo e a Erasistrato i condannati a morte per i loro esperimenti di vivisezione, e si può pensare che anche l’utilizzo di cadaveri per la ricerca scientifica fosse reso possibile da un analogo intervento reale.
Tra i fattori che potrebbero aver contribuito alla nascita del nuovo approccio scientifico vi furono infine la condizione di città di frontiera di Alessandria, che comportava una certa svalorizzazione dei valori greci tradizionali, i progressi realizzati da Aristotele nel campo biologico attraverso la dissezione e la vivisezione di animali appartenenti a diverse specie, e la secolarizzazione del corpo umano e dei cadaveri, attuata ancora da Aristotele, che implicava il rigetto dell’idea orfico-pitagorico-platonica dalla trasmigrazione e della reincarnazione delle anime. Per Aristotele, un cadavere non rappresentava una fonte di ansietà, mistero o riverente timore maggiore di quanto potessero esserlo un pezzo di legno, di pietra o di bronzo. Inoltre, secondo la visione radicalmente materialista delle due scuole filosofiche maggiormente in voga ad Atene all’epoca di Erofilo – quella stoica e quella epicurea – la morte non era altro che un cambiamento di stato della materia corporea, per gli stoici, o un riordinamento degli atomi che costituiscono il corpo, secondo Epicuro. Gli stoici includevano infatti la morte, e perfino la necrofagia, nella categoria delle cose moralmente indifferenti (adiáphora) (SVF, I [Zenone], 134-151, 190, 196, 253-254; III [Crisippo], 117, 120, 256, 746-753, 809-822).
La filosofia greca, l’ambizione dei Tolomei, il loro spregiudicato mecenatismo, l’attrazione esercitata da Alessandria sugli intellettuali più aperti all’innovazione, il clima favorevole alla sperimentazione tipico di una città di frontiera e la violazione reale degli antichi tabù greci non sono tuttavia gli unici fattori che possono aver prodotto le condizioni che permisero a Erofilo d’inaugurare la breve stagione dell’uso sistematico della dissezione umana nella ricerca medica antica. Anche se nessuno storico o scienziato di valore, né tra gli antichi né tra i moderni, ha commesso l’errore di confondere i trattamenti per la mummificazione a scopi religiosi con la pratica scientifica e sistematica della dissezione, l’antichissima usanza religiosa egiziana d’imbalsamare i cadaveri potrebbe infatti essere stata considerata come un precedente in grado di legittimare tale pratica sia da uno scienziato assetato di conoscenza sia da un re divorato dall’ambizione. La mummificazione potrebbe essere stata considerata inoltre come una prova del fatto che la dissezione dei cadaveri non era soggetta ad alcuna condanna di tipo morale o religioso. Tuttavia, se le cose andarono veramente in questo modo, il tentativo di utilizzare questo ‘precedente’ per legittimare la pratica della dissezione ebbe un successo molto limitato: dopo tutto, la dissezione sugli esseri umani fu praticata in modo sistematico soltanto da due Greci, vale a dire Erofilo ed Erasistrato. Prima di affrontare il terzo enigma a cui si è accennato – ossia la scomparsa improvvisa, solamente dopo una generazione, e durata molti secoli della dissezione sistematica sull’uomo – è utile considerare una breve descrizione delle scoperte realizzate da Erasistrato e dell’ascesa della ‘scuola’ medica empirica.
L’altro pioniere greco della dissezione umana, Erasistrato (315 ca.-240), nacque a Iuli, nella rocciosa e boscosa isola di Ceo, nelle Cicladi nordoccidentali. Sin da giovanissimo ebbe familiarità con la medicina: suo padre, Cleombroto, era un medico, come suo zio materno Medios (o Medias), e anche il fratello, Cleofanto, seguì la tradizione di famiglia. Erasistrato lasciò Ceo per svolgere il suo apprendistato, forse sotto la guida di Metrodoro e del suo maestro, Crisippo di Cnido. Le fonti antiche sottolineano la vicinanza di Erasistrato agli aristotelici, affermando, tra l’altro, che fu allievo di Teofrasto (il successore di Aristotele alla guida del Liceo), o che era nipote di Aristotele, o che il suo maestro Metrodoro era il terzo marito di Pitia, la figlia di Aristotele, oppure semplicemente che aderì alla scuola peripatetica (Garofalo 1988, frr. 5-8, 81). Inoltre, sono noti i legami tra la scuola peripatetica e la città natale di Erasistrato, Iuli, in cui nacque anche uno dei principali esponenti del Liceo, Aristone, un contemporaneo più giovane di Erasistrato (Die Schule, VI, p. 31, frr. 1-3). Sembra che Erasistrato abbia avuto una certa familiarità con alcune teorie del successore di Teofrasto, Stratone di Lampsaco, ma questo punto è ancora in discussione (v. oltre); altrettanto controversa, se non ancora di più, è poi la questione riguardante il luogo dove egli esercitò la sua professione e condusse le sue ricerche. Alcune testimonianze antiche indicano la sua presenza alla corte dei re seleucidi di Antiochia (una città fondata nel 300 a.C. sulle rive dell’Oronte, in Siria, da Seleuco I, uno dei generali di Alessandro). Altre fonti parlano della presenza di seguaci della sua ‘scuola’ ad Alessandria e alcuni studiosi moderni hanno avanzato l’ipotesi che egli eseguisse le sue dissezioni in questa città (Lloyd 1975); di diverso avviso è Fraser 1969. Non è chiaro, tuttavia, perché gli studiosi si siano sentiti in obbligo di scegliere tra Antiochia e Alessandria; data la mobilità dei medici antichi, attestata da molte fonti, non è improbabile che Erasistrato fosse attivo in entrambe le città, e forse anche altrove. Una fonte antica riferisce, per esempio, che egli non fu sepolto né ad Antiochia né ad Alessandria, bensì in Asia Minore, vicino al monte Micale (Ionia), di fronte all’isola di Samo.
I brillanti risultati ottenuti da Erasistrato nel campo della fisiologia non devono farci trascurare le sue scoperte anatomiche: in effetti, le due cose appaiono strettamente legate tra loro. Le testimonianze che ci sono giunte non lasciano dubbi sul fatto che egli, oltre a praticare sistematicamente la dissezione sull’uomo e sugli animali, eseguisse esperimenti di vivisezione sia sugli animali sia su criminali condannati a morte. Adottando un approccio funzionale, Erasistrato nelle sue indagini anatomiche univa spesso alla descrizione dettagliata delle parti del corpo una spiegazione delle loro funzioni. Per esempio, egli non soltanto fu il primo a fornire una descrizione abbastanza accurata delle valvole cardiache, ma dimostrò anche che esse hanno la funzione di impedire il riflusso del sangue. O ancora, non si limitò a fornire una descrizione dei quattro ventricoli cerebrali e delle circonvoluzioni del cervello e del cervelletto, ma tentò anche di comprenderne le funzioni (in particolare, collegando le circonvoluzioni alla superiorità intellettuale dell’uomo). L’approccio di Erasistrato alla fisiopatologia presenta tre caratteristiche costanti: (1) l’uso di principî meccanicistici per spiegare i processi corporei; (2) una prospettiva teleologica che presenta molte affinità con il pensiero di Aristotele; (3) la verifica sperimentale delle ipotesi. Nei frammenti delle sue opere in nostro possesso è sostenuto, per esempio, l’importante principio meccanicistico per il quale la materia tende a spostarsi secondo un «movimento in direzione di ciò che sta per essere vuotato» ( pròs tò kenoúmenon akolouthía), come dire che se una materia è rimossa da un qualsiasi spazio chiuso, sarà immediatamente sostituita da altra materia, poiché la Natura non ammette l’esistenza di un vuoto continuo o assoluto (o, come è chiamato da alcuni studiosi moderni, di un vacuum).
Tuttavia, sembra che Erasistrato fosse al corrente della distinzione tra vuoto continuo o assoluto e vuoto disseminato o disperso o interstiziale, e ammettesse soltanto quest’ultimo, presumibilmente sotto l’influsso di Stratone di Lampsaco. Dalle fonti antiche, purtroppo lacunose e di incerta interpretazione, risulta che Stratone, pur sostenendo l’impossibilità di un vuoto continuo, ammetteva l’esistenza del vuoto negli interstizi tra le particelle di materia non perfettamente collimanti da cui tutti gli oggetti, animati e inanimati, sono composti; un qualsiasi spazio in cui si fosse venuto a creare un vuoto continuo, infatti, sarebbe stato immediatamente riempito dalla materia circostante (Diels 1893, pp. 105-117; Repici 1988, pp. 85-90). Sembra che Erasistrato condividesse queste teorie e che abbia tentato addirittura di dimostrarle con un esperimento, come era sua abitudine: immergendo un tubo nell’acqua, ne estraeva l’aria e osservava l’acqua circostante riversarsi nella parte di tubo in cui aveva creato il vuoto (Garofalo 1988, frr. 95, 136). È interessante notare come esperimenti simili siano menzionati sia in alcune opere di meccanica del primo periodo alessandrino, sia in quelle dei tardi peripatetici.
Servendosi di principî di questo tipo come spiegazione dei movimenti dell’aria, del sangue, del pneuma e di altri tipi di materia presenti nel corpo umano, Erasistrato collegava la respirazione, il sistema vascolare, quello nervoso, l’attvità muscolare, l’appetito e la digestione in un unico ed esauriente modello fisiologico, che probabilmente era illustrato nell’opera Principî generali. L’aria esterna penetra nei polmoni attraverso la trachea e l’albero bronchiale ogni volta che il torace si espande, dopo essersi contratto a causa dell’espirazione; una parte del respiro (pneūma) contenuto nei polmoni attraversa quella che Erasistrato chiama l’«arteria simile a una vena» (nota oggi come vena polmonare), fino a raggiungere il ventricolo sinistro del cuore, in coincidenza con l’espansione di quest’ultimo (ovvero, dopo ogni contrazione del cuore pulsante); qui il pneuma è raffinato e trasformato in pneuma vitale (zōtikón), prima di essere pompato nell’aorta dalla contrazione successiva del cuore ed essere poi distribuito in tutto il corpo attraverso le arterie; l’aria in eccesso presente nei polmoni, dopo aver assorbito una parte del calore superfluo prodotto dal corpo, e in particolare dal cuore, è espulsa dalla contrazione del torace, per essere sostituita da aria fresca alla successiva espansione toracica, in base al principio secondo il quale la materia «si muove in direzione di ciò che è stato vuotato». Il ciclo respiratorio effettuato dai polmoni serve così sia a raffreddare il corpo, sia, con il sussidio del cuore, a rifornire le arterie di pneuma vitale, necessario a sostenere la vita.
Passando al sistema vascolare, secondo Erasistrato le vene contengono solamente sangue, mentre le arterie sono addette al trasporto del pneuma vitale. Se le arterie contengono soltanto il ‘soffio vitale’, come si spiega però la fuoriuscita di sangue da un’arteria perforata? Ricorrendo al principio meccanicistico già più volte menzionato, egli ipotizza che, incidendo un’arteria, si provochi la fuoriuscita del pneuma in essa contenuto, creando un vuoto che è immediatamente riempito dal sangue presente nelle vene circostanti. Ciò può avvenire, spiega, poiché le vene sono collegate alle arterie da un sistema di anastomosi (synanastomṓseis), o connessioni capillari, esteso a tutto il corpo. Il sangue che fuoriesce da un’arteria quando questa è perforata, quindi, è quello contenuto nelle vene, riversatosi nell’arteria stessa.
La spiegazione del battito del polso, basata anch’essa su principî meccanicistici, si avvicina di più a quella che oggi è considerata la verità scientifica: a ogni contrazione del cuore, il suo ventricolo sinistro pompa o ‘invia’ il pneuma vitale nell’aorta attraverso una valvola unidirezionale, e da qui nell’intera rete arteriosa, provocando la dilatazione di tutte le arterie. Poiché dopo la contrazione il ventricolo sinistro è rimasto completamente vuoto, esso è immediatamente riempito, al momento della successiva dilatazione, dal pneuma fresco contenuto nei polmoni, in base al principio per il quale la materia «si muove in direzione di ciò che è stato vuotato», consentendo così la prosecuzione del ciclo, in cui a ogni contrazione (systolḗ) del cuore corrisponde una simultanea dilatazione (diastolḗ) delle arterie. Dopo essere stato inviato in tutte le arterie e aver rifornito l’intero corpo dell’indispensabile «soffio vitale», il pneuma residuo abbandona il corpo attraverso i pori della pelle, per fare spazio al pneuma fresco inviato dal cuore a ogni nuova contrazione.
Erasistrato tentò di dimostrare sperimentalmente che è il cuore a causare il battito del polso, agendo come una sorta di pompa premente e aspirante – sembra che sia stato lui a servirsi per primo della metafora del mantice del fabbro per descriverne il funzionamento (v. oltre) – e non un’invisibile ‘facoltà’ contenuta nelle pareti delle arterie (come aveva proposto Erofilo e come credeva ancora Galeno). Dopo aver esposto un’arteria in un soggetto vivente, e averla chiusa con una legatura, Erasistrato effettuava un’incisione sotto la legatura, nella quale inseriva un tubo o una cannuccia; la sezione incisa dell’arteria era fatta quindi aderire al tubo e ai tessuti circostanti avvolgendola strettamente con un filo di lino; infine, dopo aver sciolto la legatura iniziale, si poteva osservare come la pulsazione proseguisse sia al di sopra sia al di sotto del tubo, a riprova del fatto che è il contenuto delle arterie, ‘inviato’ o pompato in esse dalla contrazione (systolḗ) del cuore, a produrre la pulsazione stessa. Dato che le pareti dell’arteria erano interrotte dall’incisione e dalla legatura intorno al tubo, ma il battito proseguiva ugualmente al di sotto del tubo, esso non poteva essere attribuito, concludeva Erasistrato, a una facoltà presente nelle pareti arteriose (è interessante notare come Galeno, descrivendo questo esperimento, affermi di averlo ripetuto personalmente, con risultati opposti).
L’organo deputato alla produzione del sangue, secondo Erasistrato, è il fegato, dove il cibo digerito è trasformato in sangue; dal fegato, il sangue è trasportato attraverso le vene in tutto il corpo, per nutrirlo; la vena più grande di tutte, la vena cava, trasporta il sangue fino al lato destro del cuore, attraverso la valvola tricuspide, allo scopo di nutrire questo organo; dal cuore, il sangue fluisce verso i polmoni attraverso la valvola polmonare e la «vena arteriale» (oggi nota con il nome di arteria polmonare). Il fegato, tuttavia, non potrebbe assicurare da solo il flusso del sangue attraverso le vene dal momento che, a differenza del cuore, non è dotato di un movimento di contrazione e dilatazione. Forse è per questa ragione che Erasistrato descrive il cuore come l’archḗ (l’origine, il principio, il principio regolatore) non solamente delle arterie, di cui provoca la continua pulsazione, ma anche delle vene, pur insistendo sul fatto che il sangue è prodotto in massima parte nel fegato. Secondo Galeno, Erasistrato sosteneva che, dopo ogni contrazione, «il cuore si espande come un mantice da fabbro, attirando dentro di sé la materia fino a riempirsi completamente, per mezzo della sua dilatazione» (Garofalo 1988, fr. 201, p. 133, 19- 21). Malgrado lo stato lacunoso delle testimonianze disponibili, sembra plausibile che per Erasistrato il movimento del sangue dalla vena cava al cuore in dilatazione producesse a sua volta l’occupazione degli spazi rimasti liberi all’interno delle vene da parte di altro sangue, e così via. Inoltre, poiché il sangue è assorbito dal corpo come nutrimento, nelle vene si creano in continuazione altri spazi ‘vuoti’, che immediatamente sono riempiti dal sangue circostante. Anche nel caso delle vene, dunque, il movimento della materia attraverso il sistema venoso probabilmente era spiegato da Erasistrato in base al principio del «movimento in direzione di ciò che è stato vuotato».
Come Erofilo, anche Erasistrato effettuò approfondite e originali ricerche sui nervi, collegandone i risultati alle sue spiegazioni del sistema vascolare, della respirazione, della sensazione, del moto volontario e di altri processi fisiologici. Egli partiva dall’ipotesi che una parte del pneuma vitale prodotto nel ventricolo sinistro del cuore raggiungesse, attraverso le arterie, il cervello, dove era trasformato in «pneuma dell’anima» (pneūma psychikón). Questo pneuma dell’anima sarebbe stato poi distribuito in tutto il corpo attraverso i nervi che si diramano dal cervello (o, come credeva inizialmente Erasistrato, prima di cambiare parere in tarda età, dalla dura madre, ossia dalla più esterna e resistente delle tre membrane che avvolgono il cervello e il midollo spinale). Come Erofilo, anch’egli distingueva tra nervi sensoriali e nervi motori (responsabili dei movimenti volontari). Con ogni probabilità, egli riteneva anche che la trasmissione dei dati sensoriali e degli impulsi motori volontari fosse affidata al pneuma dell’anima circolante nei nervi. I moti volontari erano eseguiti dai muscoli, concepiti – come i nervi (e forse come tutte le strutture organiche del corpo) – come una compagine di funi intrecciate con tre diversi fili (triplokíai), ovvero arterie, vene e nervi. Il pneuma distribuito dai nervi motori forniva ai muscoli la capacità di contrarsi e di rilassarsi, cioè di aumentare di spessore diminuendo di lunghezza e viceversa; inoltre, la velocità dei moti muscolari era posta in relazione diretta con la quantità di pneuma contenuta nel muscolo in un dato momento.
Sin dall’Antichità, gli aspetti meccanicistici della fisiologia e della patologia di Erasistrato hanno messo in ombra l’orientamento teleologico del suo pensiero, che invece è inequivocabilmente attestato in diverse occasioni. Le fonti antiche gli attribuiscono, per esempio, le seguenti affermazioni: «La Natura (phýsis) può mostrarsi previdente e interessata al bene degli esseri viventi, e dare prova di grande maestria (téchnē)», «la Natura non agisce mai senza una ragione (álogos) », «la Natura agisce sempre per uno scopo e non fa mai nulla senza un motivo [invano]» e «sin dall’inizio tutte le parti del corpo sono ben arrangiate e portate a perfezione dalla Natura» (Garofalo 1988, frr. 79-83, p. 103). Erasistrato descrive ripetutamente l’azione della Natura paragonandola a quella guidata dalla téchnē, intendendo con questo termine una competenza professionale finalizzata al raggiungimento di uno scopo o di un risultato. Nei loro ragionamenti a favore della teleologia, sia Platone, sia Aristotele, sia gli stoici, nonostante avessero differenti visioni della teleologia della Natura, proponevano tutti il parallelo tra Natura e téchnē, ed Erasistrato sottolinea enfaticamente questa analogia. Nonostante Galeno abbia smentito con veemenza l’adesione di Erasistrato alla visione teleologica di Aristotele, esiste una sostanziale affinità tra la posizione del medico ellenistico e le teorie dei peripatetici. In particolare, Aristotele, Teofrasto ed Erasistrato condividevano l’idea che due tipi diversi di ‘spiegazione’ dei fenomeni naturali potessero coesistere pacificamente: da una parte, una descrizione meccanicistica dei fenomeni in termini di proprietà naturali della materia e delle loro interazioni (la ‘necessità naturale’, ‘materiale’ o ‘ipotetica’), dall’altra parte, una descrizione in termini di ‘scopo’ o ‘causa finale’, anche se Aristotele sottolinea in diverse occasioni la superiorità della causa finale come principio esplicativo.
Basandosi forse sulle osservazioni compiute durante i suoi esperimenti di vivisezione, su una nuova teoria peripatetica della necessità naturale (la teoria della materia e del vuoto di Stratone) e sui progressi tecnici nel campo della pneumatica realizzati nel primo periodo ellenistico (comprendenti l’invenzione della pompa ad acqua, la costruzione di automi in miniatura perfettamente funzionanti e di motori a vapore, tutti oggetti che potevano fornire importanti suggerimenti per comprendere il funzionamento di alcune parti del corpo), Erasistrato elaborò un modello del corpo umano come macchina vivente più completo, più sistematico e più coerente di tutti quelli fino ad allora conosciuti. Allo stesso tempo, tuttavia, egli collocò la sua spiegazione meccanicistica delle parti e delle funzioni corporee in una prospettiva teleologica più ampia, che includeva l’esistenza di relazioni reciproche tra tutte le parti e funzioni del corpo – compresi la respirazione, la digestione, il polso, il sistema vascolare e quello nervoso – in vista di un unico scopo. Forse proprio la fusione dei principî della nuova tecnica pneumatica con quelli della teleologia aristotelica spinse Erasistrato a tentare d’interpretare in modo nuovo l’analogia tra Natura e téchnē proposta dai primi teleologi.
Le teorie patologiche, pur essendo basate sugli stessi modelli esplicativi della fisiologia, tengono conto anche di fattori specifici e, in particolare, di tre cause patologiche collegate tra loro. La prima, a cui Erasistrato attribuisce una grande importanza, è la plēthṓra, ossia una condizione deviante caratterizzata da un eccesso di nutrimento nel sangue venoso. La plēthṓra poteva causare gonfiore degli arti, malattie del fegato e dello stomaco, epilessia, mal di milza, di - sfunzioni renali, febbre, infiammazioni, blocco delle arterie e disordini mentali. Queste infermità si manifestavano quando il sangue contenuto in eccesso nelle vene si riversava nelle arterie attraverso le anastomosi (synanastomṓseis), ostacolando la regolarità del flusso di pneuma vitale nelle arterie. In secondo luogo, anche quando non si verificava un eccesso di sangue, potevano insorgere altri disturbi nella trasmissione arteriosa del pneuma, per esempio se il sangue penetrava in un’arteria perforata, rimanendovi intrappolato dopo la guarigione della ferita. In terzo luogo, i disordini delle funzioni digestive potevano causare la presenza di fluidi viscosi e nocivi, con la possibilità di originare malattie come l’apoplessia e la paralisi. Tutte queste cause patologiche erano riconducibili a una mescolanza casuale di diverse forme di materia (sangue, pneuma, liquidi o succhi di vario tipo), in condizioni normali rigorosamente separate, cioè alla presenza di una certa forma di materia in una zona del corpo da cui dovrebbe essere rigorosamente esclusa. Erasistrato fornì la descrizione di numerose malattie, includendovi i sintomi, le cause e il modo di curarle, ma, come Erofilo, non ammetteva l’esistenza di malattie specifiche del sesso femminile (v. anche oltre, su Sorano di Efeso). Tra i titoli delle opere attribuite a Erasistrato, e ora perdute, figurano Sulla paralisi, Sull’idropisia, Sulla gotta del piede (podagra) e Sull’espettorazione di sangue.
Coraggioso come teorico, Erasistrato si mostrò prudente nella pratica clinica. Tale moderazione poteva essere in parte la conseguenza della sua convinzione che la terapeutica e la sintomatologia fossero branche stocastiche o congetturali della medicina, al contrario della fisiologia e dell’eziologia, definite parti ‘scientifiche’ o ‘epistemiche’ della medicina, in quanto capaci di produrre un tipo di conoscenza certa e universalmente valida (epistḗmē). Uno dei principî guida della pratica di Erasistrato era quello di prevenire l’insorgere di condizioni pletoriche attraverso l’adozione di una dieta adeguata; in effetti, egli considerava l’adozione di un regime preventivo, su cui scrisse anche un trattato (andato perduto, come tutte le sue opere), più importante di qualunque terapia. Quando un paziente si ammalava, ricorrendo a misure relativamente blande egli cercava di fare in modo che la materia errante tornasse nella sua sede naturale o fosse espulsa dal corpo. Un trattamento adeguato richiedeva, a suo avviso, l’individuazione delle cause prossime e remote dei di sturbi segnalati dal paziente e un tipo di intervento terapeutico blando e personalizzato; nella sua opposizione ai metodi di cura drastici contestò anche l’utilità, tranne che in rari casi, dei salassi, sostenuta da una lunga tradizione. In tal modo Erasistrato si attirò, com’è noto, le ire di Galeno, che scrisse un intero trattato Sul salasso, contro Erasistrato (e un secondo trattato, ugualmente sopravvissuto, Sul salasso, contro i seguaci di Erasistrato a Roma). Al posto del salasso e di altri metodi ‘drastici’ di cura, Erasistrato consigliava di rimuovere o espellere le sostanze patogene ricorrendo a un lungo elenco di misure terapeutiche, che comprendevano vari tipi di esercizi e di dieta, il digiuno, diversi modi di provocare la traspirazione o la minzione o il vomito, i bagni di vapore, i fomenti, gli impiastri e i cataplasmi.
Nonostante i disaccordi sul piano teorico, Erasistrato ed Erofilo condivisero la stessa combinazione di audacia teorica e di moderazione clinica, di straordinaria originalità scientifica e di conservatorismo pragmatico. Questa loro caratteristica fu uno dei motivi per cui, a distanza di una generazione, gli esponenti della nuova ‘scuola’ di medicina, che avevano scelto per sé stessi il nome di «empirici» (empeirikoí), trovarono molto da criticare nelle teorie dei due pionieri della pratica sistematica della dissezione umana, ma continuarono silenziosamente ad adottarne molti metodi terapeutici.
Le fonti antiche sono concordi nell’affermare che furono gli stessi ‘empirici’ a coniare per sé stessi questo appellativo (empeirikoí), per contrapporsi deliberatamente a quelle tendenze del pensiero medico che essi vedevano rappresentate nelle teorie di quasi tutti i loro più celebri predecessori del IV e del III secolo. L’espediente strategico centrale della costruzione dell’identità collettiva di questo gruppo era quello di riunire tutti questi precursori – compresi Diocle di Caristo, Prassagora di Coo, Erofilo ed Erasistrato – sotto l’etichetta di «razionalisti» (logikoí) o a volte «dogmatici» (dogmatikoí), con chiari intenti polemici. In effetti, i cosiddetti ‘razionalisti’ non utilizzarono mai in riferimento a sé stessi tali definizioni, che risultano profondamente fuorvianti anche per molte altre ragioni (v. oltre). Prima di esaminare la celebre, benché sospetta e insidiosa ricostruzione del pensiero dei ‘razionalisti’ effettuata dagli empirici, sarà opportuno tuttavia prendere in considerazione la loro posizione, così come essi stessi l’hanno descritta.
Gli empirici ellenistici sostenevano che la téchnē medica era fondata su tre elementi strettamente collegati tra loro: l’esperienza personale del medico (empeiría), l’esperienza medica trasmessa da altri (historía) e la «transizione (metábasis) per similitudine», che era costituita da un uso ristretto di alcune forme particolari di analogia. La prima e più importante gamba di questo tripode, l’esperienza, è l’accumulazione di esperienze personali della realtà osservabile, vale a dire di osservazioni della realtà effettuate «con i propri occhi» (autopsía); si giunge all’esperienza attraverso uno stadio intermedio, chiamato peĩra (una forma più rozza e meno ‘ma - tura’ di esperienza). L’esperienza è formata unicamente dall’accumulazione di dati sensibili, senza alcun riferimento alla ragione (lógos); gli empirici ammettevano infatti che attraverso i sensi è possibile solamente fare esperienza delle cose come esse appaiono (phainómena), cioè fare esperienza della superficie delle cose, e non della «natura (phýsis) delle cose stesse», ma ciò non impediva loro di considerare ugualmente i sensi come l’unica fonte valida dell’esperienza. Le percezioni sensibili si rivelano particolarmente utili nel momento in cui assumono la forma di costellazioni osservative collegate tra loro e disposte in una sequenza temporale. Ciascuno di questi complessi o costellazioni sensibili costituisce una peĩra, uno stadio di esperienza che prelude all’empeiría (cioè ‘preliminare all’esperienza’, nel senso più pieno del termine). Gli empirici distinguevano tre generi principali di peĩra: quella involontaria o spontanea (automatikḗ), quella improvvisata (autoschedía) e quella imitativa (mimētikḗ). L’esperienza del primo genere, cioè quella involontaria o spontanea, era considerata la più affidabile dal punto di vista scientifico ed era a sua volta divisa in due sottocategorie: «naturale» e «fortuita». Un esempio di «esperienza involontaria fortuita», fornito dagli empirici, era quello di una persona sofferente di mal di testa che inciampa e, cadendo, si procura una ferita alla testa, perde sangue e si accorge che il suo mal di testa è scomparso. Questa persona ha imparato casualmente, accidentalmente e ‘spontaneamente’ o involontariamente, che il salasso serve a curare il mal di testa. Nella dottrina empirica, questo genere di peĩra riveste una particolare importanza nella formazione dell’esperienza. Si può giungere a un’esperienza analoga, aggiungevano gli empirici, anche ‘naturalmente’ (piuttosto che per caso), ma sempre involontariamente, portando l’esempio di un paziente con la febbre che ha una perdita di sangue dal naso e quindi si accorge che la febbre è scomparsa: in questo caso, il paziente avrà fatto l’«esperienza involontaria naturale» che il salasso cura la febbre.
Il secondo genere di peĩra, l’«esperienza per improvvisazione », implica invece una volizione o un esperimento intenzionale. Gli empirici facevano l’esempio di un uomo morso da un animale su una montagna, troppo distante da ogni centro abitato per poter ricorrere alle cure di un medico, che decide d’improvvisare una cura con un’erba che cresce in quel luogo, e l’esperimento ha successo. Il valore empirico di questo genere di fortunate improvvisazioni, aggiungevano gli empirici, rimane invariato anche nel caso in cui avvengano sotto l’influsso di un sogno o di un’emozione. Il terzo genere di peĩra, l’«esperienza imitativa», si riferisce alla ripetizione o «imitazione» della stessa osservazione, allo scopo di costituire una costellazione di osservazioni abbastanza estesa da poter essere considerata un’esperienza preliminare (peĩra). Dal momento che una singola osservazione non costituisce una conoscenza empirica, è necessario ripeterla o imitarla per costruire un complesso ‘tecnico’ formato da una successione di tali osservazioni isolate. Senza la ripetizione di un’osservazione, infatti, è impossibile stabilire, per esempio, se il dato osservato risulta sempre evidente o lo è soltanto in generale, o se è chiaramente osservabile solamente una volta su due, oppure soltanto in rari casi. In altre parole, l’«imitazione» o ripetizione, contrariamente all’osservazione isolata, consente di introdurre nell’esperienza un minimo di differenziazione statistica.
L’esperienza personale (empeiría), nel senso più pieno del termine, è costituita dunque dall’accumulazione o dalla somma di questi tre stadi preliminari di esperienza (peĩrai); ma, come si è detto, l’esperienza personale rappresenta a sua volta soltanto una delle tre gambe – anche se la più importante – del tripode metodologico ed epistemologico su cui, secondo gli empirici, si fondava l’intera téchnē medica. La seconda ‘gamba’, l’historía, è definita come la trasmissione dei dati osservati da altri, cioè delle cose precedentemente viste o ‘sperimentate’ da altri. Il termine greco historía, quando è riferito a una forma di conoscenza piuttosto che a un tipo di ricerca, tende ad assumere un significato ristretto alla sfera dei sensibilia immediatamente accessibili ed è apparentemente in questo senso che esso fu impiegato dagli empirici; historía indica in questo caso la ricezione passiva delle tradizioni relative alle esperienze della realtà osservabile, comprese le osservazioni dei rapporti o delle interrelazioni esistenti tra due o più fenomeni. La validità delle esperienze trasmesse è verificabile in base a vari criteri, tra cui la somiglianza con le proprie osservazioni personali, la concordanza di diverse tradizioni riguardanti gli stessi dati osservabili, la conoscenza critica della biografia dei loro autori e la purezza empirica del loro contenuto. In ogni caso, l’assenza di ogni teoria, ossia di qualsiasi risultato ottenuto per mezzo della ragione, era un requisito indispensabile per l’ammissione di una data tradizione relativa all’esperienza nella categoria empirica della historía.
La «transizione (metábasis) per similitudine» – la terza gamba del tripode empirico – era utilizzata nei casi in cui non esisteva un’esperienza specifica precedente o non si di - sponeva di nessuno dei rimedi empiricamente accertati per mezzo della empeiría o della historía. In questi casi si faceva ricorso ai rimedi e alle procedure che si sarebbero utilizzati in situazioni simili. Come nella historía, anche l’efficacia della transizione per similitudine richiedeva quindi l’esistenza di un’esperienza precedente. Gli esempi di transizione forniti dagli empirici comprendono: l’applicazione di un rimedio, di cui era nota l’efficacia nei confronti dell’erisipela, nei casi di una malattia della pelle molto simile, l’erpete; l’utilizzazione di un frutto simile a un altro di cui si conosceva l’efficacia verso la stessa malattia; l’applicazione a una gamba ferita di un trattamento che si era dimostrato efficace nella cura delle ferite alle braccia (per la ‘similitudine’ tra i due arti). In altre parole, la «transizione per similitudine» era considerata una base utile per l’azione solamente quando uno dei due termini della relazione di somiglianza (a è simile a b) si riferiva a qualcosa di già noto. Gli empirici si affrettavano ad aggiungere, tuttavia, che anche in questo caso non si doveva fare completo affidamento su una transizione per similitudine prima che fosse stata verificata nell’ «esperienza pratica», cioè nella concreta pratica terapeutica. La teoria metodologica degli empirici ammetteva quindi la possibilità della scoperta di nuovi rimedi, ottenuti principalmente attraverso tali forme ristrette di ragionamento analogico, purché fossero rispettati tutti i criteri summenzionati.
In tutti questi metodi volti all’acquisizione di un’elevata capacità terapeutica, non troviamo alcun accenno a entità non osservabili o a teorie riguardanti il corpo, le malattie, le loro cause, i farmaci e così via. L’aspirante medico empirico doveva dedicarsi piuttosto alla ripetuta osservazione dei particolari, analizzare nei dettagli gli effetti prodotti da determinate condizioni e circostanze e verificare le conseguenze dell’applicazione del rimedio x alla malattia y. Quando aveva accumulato una sufficiente esperienza, era in grado di dire se, in un dato caso, un certo fenomeno si verifica sempre, o quasi sempre, o nella metà dei casi, oppure di rado; questa accumulazione di esperienze non era però finalizzata alla costruzione di un sistema di generalizzazioni scientifiche o di teoremi di validità universale. Piuttosto, ogni caso particolare stimolava la formulazione di un’idea particolare e, di conseguenza, di un particolare procedimento terapeutico, di modo che, a seconda del grado di esperienza maturato dal singolo medico, questo avrebbe nutrito aspettative più o meno grandi rispetto all’affidabilità dell’idea formulata e, quindi, all’adeguatezza dell’azione terapeutica intrapresa. I procedimenti empirici non implicavano dunque inferenze formali a o da verità generali di natura teorica riguardanti entità teoretiche non osservabili (mentre, secondo il loro punto di vista, questo era esattamente ciò che facevano tutti i cosiddetti ‘razionalisti’).
Gli empirici erano pronti a riconoscere che le osservazioni effettuate da una singola persona e l’esperienza da essa accumulata nel corso di ripetute osservazioni, rimanevano sempre molto limitate e non erano sufficienti ad affrontare tutti i casi individuali cui un medico poteva trovarsi di fronte. Tuttavia, ritenevano tale difficoltà superabile con il ricorso alla seconda e alla terza gamba del tripode dianzi menzionato, ossia alle esperienze trasmesse da altri (historía) e alla transizione per similitudine, senza alcun bisogno di ricorrere a ‘ragionamenti’ che implicassero l’uso di inferenze basate su generalizzazioni di carattere teorico.
Il successo di questa teoria del metodo radicalmente ‘empirica’ sviluppata dagli esponenti di questa tendenza fu accompagnato dal successo altrettanto grande dell’invenzione dei termini intercambiabili ‘razionalisti’ e ‘dogmatici’ per indicare polemicamente tutti i medici non empirici. L’uso di questi termini consentì agli empirici, prima di tutto, di riunire sotto un’unica etichetta (storicamente fuorviante) quasi tutti gli altri medici del passato e del presente, spesso illustri e collocati su posizioni radicalmente distanti tra loro, per attaccarli collettivamente come ‘razionalisti/dogmatici’ che avevano in comune gli stessi, deplorevoli vizi di fondo. In realtà, dietro queste etichette si nascondevano significative differenze e disaccordi metodologici, epistemologici, dottrinali e terapeutici. Ancora più grave, però, appare il fatto che la maggior parte della storiografia medica successiva – antica e moderna – sia caduta nella trappola rappresentata dalla visione dicotomica degli empirici; tanto gli storici antichi quanto i moderni si servono infatti delle categorie ‘empirici’ e ‘razionalisti’ per indicare le due principali scuole mediche ellenistiche e romane, mentre in effetti non è mai esistita una scuola ‘razionalista’.
Vi furono invece una ‘scuola’ di medici che si erano dati il nome di ‘erofilei’, una ‘scuola’ rivale i cui membri si definivano ‘erasistratei’, più tardi un altro gruppo di medici noti come ‘asclepiadei’ e così via. Ognuno di questi nomi collettivi nascondeva a sua volta un notevole dissenso interno, vaste divergenze dottrinali e un dinamico processo di revisione ed evoluzione dottrinale e metodologica all’interno di ciascuna ‘scuola’. È altrettanto significativo il fatto che nessuna di queste ‘scuole’ si sia servita del termine ‘razionalista’ per identificare sé stessa o le proprie teorie, e che nessuno abbia attaccato mai gli empirici o qualche altra ‘scuola’ rivale in nome del ‘razionalismo’. Vi furono naturalmente alcuni erofilei che risposero agli attacchi degli empirici, ma la loro polemica era ugualmente indirizzata contro Erasistrato, Prassagora e Ippocrate; inoltre, mentre gli empirici ellenistici erano, per la maggior parte, uniti intorno ai principî metodologici fondamentali illustrati in precedenza, non vi era alcun accordo né di principio né di dettaglio tra i non empirici, per esempio riguardo alla natura e alla conoscibilità delle cause, al ruolo dell’esperienza, al grado di certezza scientifica raggiungibile dalla medicina, al valore e alla liceità della dissezione umana e così via – per non parlare dell’inconciliabile eterogeneità delle teorie fisiologiche, patologiche e terapeutiche professate dai vari medici non empirici, spesso in aperto e vigoroso contrasto tra loro. Per di più, pur utilizzando nelle loro taglienti polemiche contro quanti si dedicavano all’indagine delle «parti interne» e delle «azioni naturali » del corpo alcune delle strategie discorsive messe a punto dai filosofi scettici, gli empirici non erano radicalmente scettici. In effetti, alcuni di loro riconoscevano il valore della conoscenza anatomica e fisiologica e approvavano l’uso dell’anatomia «in accordo con i principî dell’esperienza accidentale (períptōsis)», che era definita come «anatomia casuale, in conseguenza di una ferita di vaste dimensioni» (Deichgräber 1965, p. 130, fr. 67; v. anche pp. 130-132, frr. 68-70), vale a dire, escludendo l’indagine delle parti del corpo normalmente invisibili attraverso la dissezione sistematica e premeditata.
La funzione fisiologica che attrasse di più l’attenzione degli empirici fu il battito del polso, probabilmente perché molti empirici iniziarono la loro carriera come erofilei, ed Erofilo e i suoi seguaci furono i più celebri e originali teorici del battito del polso dell’età ellenistica. Uno dei fondatori della ‘scuola’ empirica, Filino di Coo, per esempio, era stato allievo dello stesso Erofilo, e il più celebre medico empirico dell’Antichità, Eraclide di Taranto (attivo intorno al 75 a.C.) era un discepolo rinnegato del medico erofileo Mantias. Nella sfigmologia, come negli altri campi, gli empirici scelsero come punto di partenza la percezione sensibile; ciò portò Eraclide di Taranto a definire il battito del polso come «un movimento delle arterie e del cuore» e altri empirici a descriverlo come «il ricordo delle affezioni del senso del tatto provocate da un movimento delle arterie» (Deichgräber 1965, pp. 132, 172, frr. 72 e 172). Eraclide attaccò vigorosamente la definizione erofilea del battito del polso, affermando che il tatto ci permette di cogliere soltanto un battito (plēgḗ) dell’arteria e non una dilatazione (diastolḗ) e contrazione (systolḗ) della stessa, per non parlare della causa della dilatazione. Gli empirici erano così convinti dell’importanza del battito del polso da mettere a punto un metodo sperimentale per misurare il grado di deviazione dalla norma della sua frequenza (Deichgräber 1965, pp. 134-139, frr. 75-76). In questo caso, tuttavia, la norma non era rappresentata da uno standard universale, ma da un criterio individuale: il normale ritmo di pulsazione di ciascun paziente. Anche quando si avventuravano sul terreno del ‘razionalismo’ (anatomia delle parti interne, inclusi il cuore e le arterie, e fisiologia o «azioni naturali ») gli empirici lo facevano con circospezione, rimanendo fedeli al loro approccio basato sull’evidenza sensibile e sull’attenzione alle differenze individuali.
Per di più, in alcuni campi, come la sfigmologia, esisteva un notevole disaccordo tra gli empirici: Eraclide di Taranto e Filino di Coo, per esempio, giudicavano del tutto prive di valore le diagnosi basate sul ritmo del polso (Deichgräber 1965, p. 139, fr. 77), mentre altri empirici consideravano questa funzione così importante da progettare ed eseguire il summenzionato saggio diagnostico, per misurarne il grado di deviazione dalla norma. Inoltre, nella ‘scuola’ empirica si produssero col passare del tempo profonde trasformazioni dottrinali, forse soprattutto nel periodo tardo ellenistico e romano. Galeno conferma nel suo Profilo dell’empirismo che i vari esponenti di questa scuola interpretavano in modi a volte divergenti le sue dottrine fondamentali e si dice convinto dell’esistenza di gravi disaccordi al suo interno. L’evoluzione delle dottrine empiriche durante l’Impero romano, tuttavia, non è documentata molto meglio di quella avvenuta nel corso del primo periodo di esistenza della scuola, ai tempi di Filino di Coo (attivo intorno al 250 a.C.), di Serapione di Alessandria (attivo intorno al 225 a.C.) o di Glaucia di Taranto (attivo intorno al 175 a.C.). Gli stessi empirici più tardi s’interrogavano sul significato e sulle implicazioni delle dottrine professate da alcuni dei loro predecessori; per esempio, si sviluppò un acceso dibattito intorno alla questione se Serapione considerasse la transizione per similitudine come una parte costitutiva della medicina o se ne servisse soltanto come principio euristico. Questa distinzione avrebbe potuto semplicemente essere estranea all’orizzonte concettuale di Serapione, ma ciò non impedì a Menodoto di Nicomedia (un medico empirico attivo intorno al 125 d.C.) di concludere, a oltre tre secoli di distanza dalla sua morte, che Serapione si era servito dell’analogia esclusivamente come metodo euristico. Menodoto dichiarava di condividere la posizione da lui stesso attribuita retrospettivamente a Serapione: la transizione per similitudine – affermava – era un criterio valido per valutare il possibile ma non il reale, e di conseguenza doveva essere considerata uno strumento (órganon), non una parte (méros) della medicina (Deichgräber 1965, pp. 49-50). Altri empirici, però, dissentivano fortemente da questa opinione.
Nei loro tentativi di minare l’autorità dei cosiddetti ‘razionalisti’ e, soprattutto, di mettere in dubbio la validità di qualunque teoria razionalista, gli empirici fecero spesso ricorso ad argomenti che mostravano una forte affinità con le teorie degli scettici, come abbiamo già accennato. Essi affermavano, per esempio, che le teorie rivali dei diversi esponenti del ‘razionalismo’ si escludevano a vicenda (ammettendone in tal modo l’eterogeneità, che tendevano in genere a passare sotto silenzio); che era impossibile risolvere secondo criteri empirici i conflitti tra le diverse teorie ‘razionaliste’ e che in parte questo era dovuto al fatto che queste teorie si basavano sul presupposto dell’esistenza di entità teoriche non osservabili. Le successive evoluzioni dello scetticismo pirroniano, e in particolare quelle verificatesi dopo la rinascita scettica del I sec. dovuta principalmente a Enesidemo di Cnosso, si riflettono probabilmente nei sottili cambiamenti delle argomentazioni utilizzate dagli empirici dei secoli successivi (e in particolare nella riflessione empirica sulla natura ‘dogmatica’ della supposizione a priori secondo cui era necessario privilegiare la percezione, l’osservazione e l’esperienza su tutto il resto).
Il caso degli empirici dimostra come neppure una ‘scuola’ relativamente coesa, sostanzialmente stabile e unita dal punto di vista dottrinale e metodologico, e perfino aggressiva nel rivendicare l’originalità e la validità del proprio metodo, fosse immune dal dissenso interno, da un revisionismo dinamico, benché sporadico, e da altre minacce alla propria autodefinizione normativa. Questo aspetto meno noto dell’empirismo appare con particolare evidenza nei dibattiti interni sulla natura delle branche o «parti» della medicina empiricamente ammissibili. Le tre gambe del tripode metodologico-epistemologico degli empirici, da essi chiamate anche «parti costitutive» della medicina, influirono infatti notevolmente sulla loro divisione della medicina stessa in tre branche (le sue parti «finali» o «perfettive»): semeiotica, terapeutica e igiene. Nei «segni» o sintomi, secondo gli empirici, un medico poteva scoprire direttamente tutte le indicazioni necessarie alla prescrizione della terapia (come dire che egli era dispensato, e anzi diffidato, dal considerare i sintomi come semplici premesse da cui partire per formulare ipotesi sull’essenza e sulle cause della malattia, subordinando le proprie scelte terapeutiche alla loro individuazione). Le eventuali indicazioni riguardanti la costituzione del paziente, ricavabili dai ‘segni’, erano prive d’interesse per il medico empirico, il quale doveva concentrarsi unicamente sui «segni terapeutici» che l’avrebbero condotto all’identificazione della giusta terapia e all’ottenimento del risultato desiderato. In altre parole, i segni e i sintomi erano completamente subordinati ai fini terapeutici e non avevano alcun valore eziologico; gli empirici consideravano con sospetto tutte le spiegazioni causali, con l’unica eccezione delle cause «evidenti», benché essi riconoscessero a tal punto l’importanza dell’interpretazione dei segni da considerare la semeiotica come una delle tre branche principali della téchnē medica.
Ogni sintomo (per es., la tosse, un arrossamento anormale della pelle, ecc.), secondo gli empirici, è un semplice segno, rilevabile attraverso i sensi e apertamente contra rio alla Natura; a sua volta, una malattia non è altro che la som - ma di tali segni ‘fenomenici’: «una concomitanza (syndromḗ) di sintomi». Ogni volta che un gruppo di sintomi ricorre in più di un paziente, manifestando in ogni occasione lo stesso genere, numero, forza, sequenza, punto di partenza, svolta decisiva o «crisi» e durata dei sintomi in questione, alla malattia o «sindrome» semeiotica è assegnato lo stesso nome. Gli empirici avevano opinioni diverse su quali dovessero essere le fonti da cui trarre i nomi delle malattie (se, per es., la parte del corpo interessata, come nel caso della pleurite o della polmonite [in greco pneumonía, da pneúmōn, ‘polmone’], o un’analogia tra i sintomi e qualche altra entità osservabile, come nel caso dell’‘elefantiasi’), ma respingevano unanimemente la possibilità di battezzare le malattie sulla base delle loro cause putative, che consideravano inconoscibili.
Un altro punto su cui gli empirici non erano completamente d’accordo tra loro riguardava l’ulteriore suddivisione delle tre branche «finali» o «perfettive» della medicina. Alcuni dividevano la semeiotica nell’osservazione dei segni diagnostici, terapeutici e prognostici: i sintomi «diagnostici» si riferivano alle condizioni attuali del paziente, mentre quelli «terapeutici», chiamati anche segni «mnemonici», favorivano la memoria empirica, ossia il ricordo di trattamenti già impiegati con successo; i segni «prognostici» si basavano a loro volta sui sintomi terapeutici e mnemonici. Altri empirici adottavano una semeiotica simile ma non del tutto identica, che comprendeva tre stadi o momenti successivi (tríchronos sēmeíōsis), costituiti dall’osservazione delle condizioni passate e presenti del paziente e da una previsione empirica della probabile evoluzione futura dei segni.
All’interno della branca semeiotica della medicina era effettuata a volte un’ulteriore distinzione, che rifletteva una delle principali caratteristiche dell’approccio empirico alla terapia: quella tra segni individuali e segni «condivisi» («comuni » o «generali»). Come molti antichi medici – inclusi alcuni scrittori ippocratici, Celso, Sorano e Galeno – gli empirici cercavano di tener conto dell’individualità di ogni paziente e di ogni malattia. Le abitudini, l’età, il genere e l’occupazione di ciascun individuo, affermavano, dovevano essere prese attentamente in considerazione, come pure la stagione, il clima e la parte del corpo affetta dalla malattia; inoltre, il medico doveva visitare più volte i suoi pazienti, in modo da conoscere bene le caratteristiche individuali di ciascuno di loro (Deichgräber 1965, frr. 29-30, 114). Nei loro tentativi di definire i sintomi, sia individuali sia generali, gli empirici evitavano tuttavia accuratamente di utilizzare costrutti teorici, come quello di ‘tipo costituzionale’. Malgrado l’individualizzazione della terapia nel complesso ammettevano che la determinazione dell’individualità sarebbe sempre stata soggetta a significative limitazioni (Deichgräber 1965, pp. 150.30, 151.32-33).
Non vi era pieno accordo tra di loro neppure riguardo alla suddivisione della branca terapeutica della medicina; alcuni sostenevano la celebre triade ‘chirurgia, farmacologia e regime terapeutico’, mentre altri erano favorevoli a una divisione dicotomica in chirurgia e farmacologia, assegnando apparentemente il regime alla terza branca ‘finale’ della medicina, l’«igiene» (di cui si parlerà più avanti). A dispetto delle suddivisioni adottate, gli empirici condividevano in generale un approccio piuttosto conservativo nei confronti dell’intervento medico (per es., respingendo il ricorso al salasso in quasi tutti i casi, un atteggiamento che ricalcava quello del loro avversario Erasistrato).
Benché l’ampiezza e la composizione della terza branca ‘finale’ o ‘perfettiva’ della medicina, l’‘igiene’, fossero al centro di accesi dibattiti tra gli empirici, esisteva tuttavia un ampio consenso intorno alla sua definizione generale, basata sul principio che l’igiene si occupava dei corpi sani, a differenza della «terapia», che riguardava quelli ammalati. Secondo alcuni, l’igiene costituiva una branca unica e indivisibile, mentre altri la suddividevano in due parti, una dedicata al mantenimento della salute degli individui sani e l’altra al recupero della salute durante la convalescenza («igiene ristorativa »). Alcuni empirici aggiungevano anche la «cura degli anziani» e altri ancora la «cosmesi» (a cui Eraclide di Taranto dedicò numerosi scritti) e la «[salute della] voce» alle suddivisioni dell’igiene; Teoda di Laodicea, un empirico dell’inizio del II sec. d.C., sembra non aver dubbi riguardo alla legittimità di tali suddivisioni (Deichgräber 1965, p. 290). Queste divisioni e suddivisioni dimostrano che gli empirici, malgrado l’insistenza sul primato dell’osservazione individuale dei particolari e l’opposizione alle generalizzazioni teoriche, condividevano in realtà la tendenza di gran parte della letteratura medica del periodo ellenistico a sistematizzare la medicina attraverso l’uso di elaborate tassonomie (molte delle quali fortemente influenzate dallo stoicismo); inoltre, le parti ‘finali’ della medicina empirica rivelano quanto essi avessero in comune con quelli che chiamavano i ‘razionalisti’, compresa una ricca tradizione farmacologica che, per molti aspetti, è del tutto indistinguibile da quella dei loro avversari.
Infine, gli empirici condividevano con i ‘razionalisti’ un forte interesse storico, scientifico e clinico per le opere dei loro predecessori, originato in parte dall’importanza della historía nella loro teoria del metodo scientifico, in parte dalla loro rivalità nei confronti della tradizione erofilea di esegesi ippocratica e in parte dalla forte tradizione di studi filologici ed esegetici, risalente al primo periodo alessandrino. Come Erofilo e i suoi seguaci, molti empirici furono autori di commentari alle opere di Ippocrate, e ancora oggi permangono tracce consistenti dei loro contributi alla lessicografia ippocratica (Deichgräber 1965, frr. 311-318; Kudlien 1989): secondo quanto riferisce Galeno, i commentari di Eraclide di Taranto coprivano «tutte le opere di Ippocrate» (Deichgräber 1965, fr. 319). Benché Galeno nei suoi commentari faccia quasi sempre direttamente o indirettamente riferimento a Eraclide, spesso citandolo per nome, abbiamo maggiori informazioni su un contemporaneo di Eraclide, Apollonio di Cizio (attivo intorno al 70 a.C.), di cui possediamo il commentario in tre libri al trattato ippocratico Sulle articolazioni. Questi commentari, o meglio ciò che ce ne è giunto, rappresentano una testimonianza di incalcolabile valore sulla natura e sulla ricezione del Corpus Hippocraticum nel periodo ellenistico. Una versione del corpus circolava già sotto il nome di Ippocrate all’inizio del III sec. a.C., ed era divenuta un punto di riferimento storico e dottrinale imprescindibile sia per i singoli medici, sia per le diverse ‘scuole’, ed era studiata intensamente tanto a scopi polemici, per conferire legittimità e autorevolezza alle proprie opinioni, quanto come fonte di conoscenza, esperienza e capacità di giudizio. Tra i trattati del corpus attuale, già noti agli empirici ellenistici come opere di Ippocrate, vi sono gli Aforismi, Le epidemie II, III, IV, De arte, Prorrheticon, Sul regime delle malattie acute, De natura pueri, De locis in homine, De officina medici e De liquidorum usu.
Nei commentari ippocratici degli empirici s’individuano due tendenze divergenti: la prima, rappresentata in particolare da Glaucia di Taranto (attivo intorno al 175 a.C.) e, un secolo più tardi, da Eraclide, è contraddistinta dall’attribuzione a Ippocrate della paternità dell’empirismo (dai commentari in cui si manifesta questa tendenza traspare un evidente desiderio di dimostrare che Ippocrate era stato il primo degli empirici), l’altra tendenza è caratterizzata invece dall’adesione ai principî della critica letteraria e filologica del primo periodo alessandrino (e in particolare al modo in cui li aveva articolati il critico omerico Aristarco). Assumendo come punto di partenza l’atteggiamento imparziale di chi desidera interpretare l’autore a partire dai suoi scritti, i commentatori di questo secondo gruppo passavano poi a criticare la posizione ‘razionalista’ di Ippocrate – dimostrata da teorie come quella degli umori o dei quattro elementi – che essi, da bravi empirici, respingevano fermamente, come tutte le teorie. Nel II sec. d.C., Galeno si servì a sua volta dei suoi ampi commentari per rivendicare l’origine ippocratica del suo stesso metodo, descrivendo Ippocrate come colui che, da una parte aveva saputo concedere la dovuta importanza all’esperienza, dall’altra aveva anticipato (seppure in modo a volte incompleto e confuso) l’uso sistematico della ‘ragione’ per creare una téchnē medica imbevuta di finalismo e comprendente l’anatomia, la fisiologia e altre parti della medicina rifiutate dagli empirici. Galeno, in conseguenza, respingeva esplicitamente la tendenza empiricizzante che traspare chiaramente dai frammenti dei commentari di Glaucia e di Eraclide ancora esistenti, e molte delle testimonianze riguardanti gli studi ippocratici degli empirici ci sono giunte proprio attraverso gli scritti polemici di Galeno. L’esistenza di queste due tendenze contraddittorie nell’esegesi empirica è un’ulteriore dimostrazione delle tensioni e del pluralismo che si celavano dietro l’apparente unità della scuola di quei medici che si erano autodefiniti ‘empirici’.
Dopo queste considerazioni, si può tornare alle questioni lasciate in sospeso a proposito di Erofilo ed Erasistrato: considerato che la dissezione sistematica sull’uomo si era dimostrata un efficacissimo strumento d’indagine, che aveva prodotto una ricca messe di nuove scoperte scientifiche, come si spiega l’improvvisa scomparsa di questa pratica dopo la morte di Erofilo ed Erasistrato? Come mai la meticolosa opera di dissezione e di vivisezione intrapresa da questi due pionieri non fu proseguita da nessun altro medico o scienziato successivo? E, in particolare, perché neppure uno dei medici che nel corso dei due o tre secoli successivi continuarono a farsi chiamare ‘erofilei’ o ‘erasistratei’ (e in cui la storiografia medica successiva ha individuato le ‘scuole’ o ‘sette’ dei seguaci di Erofilo ed Erasistrato) si servì della dissezione sistematica sull’uomo come strumento di indagine scientifica? Nelle due generazioni immediatamente successive alla morte di Erasistrato, tutte le condizioni che avevano reso possibile l’adozione di tale pratica nel primo periodo alessandrino, e di cui si è parlato, erano ancora presenti; la scomparsa della dissezione sistematica sull’uomo non può quindi essere attribuita alla simultanea scomparsa o inversione di questi fattori. Occorre ricercare altrove le cause, antiche e nuove, dell’improvvisa interruzione del nuovo metodo di indagine. A questo proposito, bisogna tener conto del fatto che le diverse branche della scienza e della medicina non seguono tutte una stessa evoluzione culturale, non sono tutte ugualmente sensibili agli stessi fattori culturali, economici e politici, e non rispondono tutte nel medesimo modo alle stesse opportunità. Le credenze e le leggi religiose riguardanti i cadaveri e la loro sepoltura, o lo spargimento di sangue e l’impurità, per esempio, non influirono affatto sull’evoluzione della matematica o dell’astronomia ellenistiche, ma potrebbero aver rallentato sensibilmente lo sviluppo della medicina scientifica. Come dimostrano le leggi sacre e altri testi ellenistici che si sono conservati, l’introduzione della dissezione sull’uomo non comportò affatto la scomparsa o l’affievolimento delle credenze tradizionali sui cadaveri, sulle inumazioni, sull’impurità e così via. Tra le cause dell’improvvisa interruzione della pratica sistematica della dissezione umana occorre dunque comprendere la forza e la tenacia degli antichi tabù e dei valori tradizionali, anche in un periodo di profonde trasformazioni politiche, sociali ed economiche.
A partire dalla metà del III sec. a.C., tuttavia, intervennero anche altri fattori, in primo luogo gli attacchi scrupolosamente argomentati degli empirici alla pratica della dissezione e della vivisezione. La dissezione sull’uomo, sostenevano gli empirici, è scientificamente superflua sul piano metodologico, epistemologico e clinico. Dato che l’unica cosa che conta veramente è l’efficacia clinica, l’indagine invasiva delle parti che la Natura ha nascosto e delle cause nascoste delle malattie è superflua, perché clinicamente irrilevante: l’unica guida attendibile alla terapia è l’«esperienza» (v. sopra). L’osservazione delle parti interne del corpo è inutile, sostenevano gli empirici, anche perché queste subiscono, al momento della morte, alterazioni tali da renderle completamente diverse da quelle di un corpo vivo; dunque un cadavere non può fornire nessun criterio o misura né della norma né della deviazione dalla norma delle condizioni di un corpo vivente. Infine, anche l’apertura di un corpo vivente provoca l’immediata alterazione delle sue parti. Gli empirici affermavano che perfino la semplice esposizione alla luce può produrre alterazioni, concludendo che anche la vivisezione era del tutto inutile. La combinazione della dettagliata confutazione scientifica degli argomenti a favore della dissezione, elaborata dagli empirici, e della tenace persistenza dei potenti tabù relativi ai cadaveri come fonte di impurità contribuì quasi certamente all’abbandono della pratica della dissezione e della vivisezione sull’uomo da parte dei seguaci di Erofilo e di Erasistrato: cosa significava allora essere un membro di queste ‘scuole’, dopo la rinuncia a proseguire le attività scientifiche che avevano reso celebri i loro padri fondatori?
Non esiste alcuna prova certa che le cosiddette ‘scuole’ mediche fossero organizzate come istituzioni formali, né vi è alcun elemento che consenta di collegarle in qualche modo al Museo di Alessandria, né, infine, è dimostrato che disponessero di un proprio edificio o di una propria sede. A quanto sembra, le forme tradizionali di apprendistato continuavano a prevalere. Il termine usato con maggiore frequenza dai Greci per indicare una di queste associazioni è haíresis (tradotto generalmente in latino con secta), che significa di solito ‘presa di posizione’, ‘scelta’, ‘decisione’ o ‘preferenza’, ma in questo contesto designa un gruppo di persone dotate di un’identità ideologica comune, cioè una collettività di individui che condividono le stesse ‘scelte’, ‘decisioni’ o posizioni dottrinali. Nel caso delle ‘scuole’ mediche ellenistiche, l’idea di forte coesione collettiva suggerita da queste denominazioni – la haíresis empirica, la haíresis di Erofilo, la haíresis di Erasistrato o, qualche tempo dopo, la haíresis metodica – rischia di farci perdere di vista la complessità delle forze che agivano in ciascuna di esse, producendo un costante dibattito interno, disaccordi dottrinali, un continuo processo di evoluzione e perfino di critica del nucleo di dottrine originarie e valutazioni molto divergenti riguardo all’importanza delle sue diverse parti. Le teorie del polso, per esempio, rimasero quasi ininterrottamente al centro del dibattito della ‘scuola’ erofilea dal III sec. a.C. al I d.C. e Galeno discute criticamente nei suoi scritti le definizioni di ‘polso’ fornite da almeno otto dei principali rappresentanti di tale ‘scuola’. Benché gli erofilei fossero tutt’altro che all’oscuro delle teorie dei loro sodali, in parte grazie al rapido aumento dei trattati dossografici dedicati alla loro ‘scuola’, ciascuno di essi si sforzava d’inventare una nuova e più valida definizione del ‘polso’, di solito criticando quelle adottate dai precedenti esponenti della stessa ‘scuola’ (oppure modificandole per rispondere alle obiezioni sollevate alle precedenti formulazioni). Quello che, da un punto di vista moderno, può apparire come un cavillare improduttivo, rappresentava per la maggior parte di coloro che parteciparono a questo complesso processo di revisione qualcosa di molto diverso da un mero esercizio di eristica patricida e fratricida, anche se la lotta per la conquista di una posizione di autorevolezza e prestigio contribuì certamente ad alimentare le fiamme di questa controversia interna durata per oltre tre secoli. Il dissenso s’identificava piuttosto per molti erofilei con la ricerca continua di una comprensione più esatta di uno dei principali strumenti diagnostici a loro disposizione, e con la riaffermazione del valore e dell’importanza dell’indagine teorica anche dal punto di vista clinico. L’eterogeneità agonistica caratteristica di tanta parte della cultura greca si manifesta dunque non soltanto nel pluralismo prodotto dall’esistenza delle diverse ‘scuole’ mediche ellenistiche, ma anche all’interno di ciascuna di esse.
Dal 219 a.C., data in cui è attestato per la prima volta l’arrivo di un medico greco a Roma, fino all’epoca imperiale, l’atteggiamento della cultura ospite verso la medicina greca fu marcato da una radicale ambivalenza, oscillando tra la ricezione entusiastica e il netto rifiuto, l’adesione incondizionata e la sospettosa ostilità. L’usanza di affidare al pater familias il compito di curare con metodi tradizionali – tramandati in genere da padre in figlio – i familiari, gli schiavi e gli animali, era profondamente radicata nella cultura indigena e l’arrivo di questa medicina straniera di nuovo tipo e dei suoi rappresentanti, medici professionisti che affermavano di possedere una competenza specialistica, fu percepita come una minaccia all’integrità del tessuto sociale e morale della società tradizionale romana. L’ambivalenza era alimentata anche dalle differenze, reali o immaginarie, tra le due culture, sotto il profilo istituzionale, professionale, letterario e sociolinguistico. Tali differenze posero le premesse di uno scontro medico-culturale di vasta portata, ma consentirono anche la fusione innovativa di elementi specifici delle due divergenti tradizioni.
Nella sua Storia naturale (XXIX, 12-13) Plinio il Vecchio, rifacendosi a Cassio Emina (un annalista romano del II sec. a.C.), descrive la repentina caduta in disgrazia del primo medico greco di cui si conosce con certezza la data di arrivo a Roma: si tratta di Arcagato, figlio di Lisania, giunto a Roma dal Peloponneso nel 219 a.C. In principio gli furono tributati onori eccezionali, che comprendevano una serie di privilegi sociali, politici ed economici, tra cui il diritto di cittadinanza e l’assegnazione di un locale in cui esercitare la sua professione, acquistato a spese pubbliche e situato al centro della città. Tra le competenze che gli valsero una fama così istantanea e inusuale v’era, a quanto pare, l’abilità nel trattare le ferite e le lesioni, che gli procurò anche l’appellativo di volnerarius («uomo delle ferite» o «delle lesioni»). Questo entusiasmo iniziale era tuttavia destinato a esaurirsi rapidamente; la ‘violenza’ dei suoi metodi chirurgici provocò ben presto il risentimento dei Romani, che iniziarono a chiamarlo ‘il carnefice’ e a disprezzare la sua arte (e, in generale, quella di tutti i medici, che a quel tempo erano per definizione greci). Non è chiaro quanto vi sia di vero e quanto di inventato in questo racconto, ma è verosimile che molti elementi della medicina greca fossero giunti a Roma seguendo diversi percorsi, ben prima dell’epoca di Arcagato.
Le tendenze contrastanti evidenziate dal racconto dell’arrivo di Arcagato emergono anche nella reazione alla medicina greca manifestata dalla più potente, controversa e celebre figura del panorama politico e culturale romano della prima metà del II sec. a.C., Marco Porcio Catone (234-149). La sua posizione di eminente statista e di esperto oratore gli permise di sostenere con autorevolezza ed efficacia le proprie idee nei suoi discorsi, in cui la vigorosa difesa dell’antica virtus romana si univa, almeno apparentemente, a una forte presa di posizione antiellenica. Tuttavia, lo scopo, la portata e la coerenza del suo antiellenismo sono al centro di un acceso dibattito tra gli studiosi moderni e, come mostreremo in seguito, l’atteggiamento di Catone verso la medicina greca, ma anche la sua conoscenza della stessa, non ci rendono certo più facile la risoluzione di questa controversia.
Da una parte Catone, in un celebre brano indirizzato al figlio (trasmessoci da Plinio il Vecchio, Naturalis historia, XIX, 14), descrive infatti a tinte fosche i medici greci, accusandoli di aver giurato in segreto di sterminare con la propria arte tutti gli stranieri e di pretendere un onorario dai propri pazienti-vittime solamente allo scopo di carpirne più facilmente la fiducia. Inoltre, questa visione negativa della medicina greca s’inseriva in una più ampia mentalità xenofoba, che vedeva nella cultura greca un pericolo mortale per l’identità romana. Nessuna minaccia greca, afferma Catone, era più pericolosa di quella rappresentata dai medici greci, con i quali proibiva al figlio d’intrattenere qualsiasi rapporto. Avrebbe provveduto lui stesso, Catone, a curare in modo perfettamente adeguato i membri della famiglia che si fossero ammalati, in qualità di pater familias a conoscenza dei rimedi tradizionali e sicuri della medicina ‘popolare’.
L’alternativa da lui proposta alla sospetta e temuta medicina straniera importata dalla Grecia presenta rispetto a quest’ultima una serie di precise differenze sociali, terapeutiche e letterarie. La medicina romana – come si è detto – non era trasmessa o gestita da una classe separata di specialisti dotati di una preparazione specifica, ma dal pater familias. A differenza dello iatrós greco, la cui abilità consisteva anche nel saper adattare le proprie conoscenze a città e climi diversi e a differenti tipi di pazienti, Catone e gli altri Romani si limitavano dunque ad applicare i rimedi della medicina tradizionale nell’intimità della loro famiglia, di cui conoscevano ovviamente molto bene tutti i membri. Inoltre, mentre la medicina di Catone era basata sull’uso dolce e non invasivo dei rimedi tradizionali e sulla prescrizione di un regime, i professionisti greci non esitavano, se necessario, a ‘tagliare’ e ‘bruciare’, atti che apparivano selvaggi e brutali a molti Romani (Plinio il Vecchio, Naturalis historia, XXIX, 15; Plutarco, Cato Maior, 23, 3-4). Inoltre, mentre Catone si serviva di un semplice taccuino per annotare i diversi rimedi (Plutarco, Cato Maior, 23, 4; Plinio il Vecchio, Naturalis historia, XXIX, 15), i trattati scritti dai medici greci possedevano spesso un alto valore polemico e letterario e si rivolgevano a un pubblico più esteso con notevole finezza retorica. L’esistenza di queste differenze di carattere strutturale, sociale, terapeutico e letterario tra la cultura medica dei due popoli fu sottolineata da molti autori latini più tardi (per es., da Plinio il Vecchio, Naturalis historia, XXIX, 16), che consideravano la cultura greca come una minaccia per la salute fisica e morale dei Romani.
D’altra parte, la medicina praticata da Catone, parzialmente ricostruibile attraverso le sue opere (per es., il trattato De agri cultura), presenta non soltanto una forte affinità con la farmacologia greca (soprattutto nei contenuti e nelle strutture) ma anche un debito linguistico verso la tradizione medica greca. Catone adopera infatti con disinvoltura nella sua prosa calchi e prestiti dal greco, molti dei quali costituiscono i più antichi esempi sopravvissuti dell’uso di determinati termini. Inoltre, egli si serve spesso di misure quantitative greche per indicare i dosaggi dei farmaci e le quantità di ciascun ingrediente, anche quando avrebbe potuto servirsi di misure latine. La presenza di numerosi prestiti dal linguaggio scientifico greco non è una caratteristica specifica del latino di Catone ma riflette un lungo e dinamico processo culturale che coincise con lo sviluppo del linguaggio medico e scientifico latino, sviluppo al quale contribuirono anche molte figure rimaste anonime, provenienti dai più diversi strati sociali.
Il fatto che Catone, l’orgoglioso patriota, il «fondatore della letteratura in prosa latina» (com’è stato spesso chiamato), il fervente difensore pubblico delle antiche tradizioni romane, lo strenuo oppositore dell’indiscriminato filoellenismo di tanti suoi contemporanei e la voce più ostinata nel mettere in guardia i suoi concittadini contro la minaccia di una corruzione fisica e spirituale rappresentata dalla diffusione della letteratura e della medicina greche, si servisse liberamente nelle sue opere di termini, concetti e pratiche tratte dalla medicina greca, rappresenta un esempio caratteristico della summenzionata ambivalenza dell’atteggiamento romano verso la cultura greca. Malgrado le severe ammonizioni di Catone il Censore e di molti altri, la medicina greca ottenne un crescente successo tra i Romani e verso la fine del I sec. d.C. oltre il novanta per cento dei medici (medici, iatroí) attivi a Roma aveva nomi greci, come sappiamo principalmente dalle iscrizioni superstiti. Alcuni di loro divennero delle vere celebrità, altri furono rispettati professionisti e altri ancora suscitarono sia il plauso sia lo scherno dei Romani; uno dei più noti e controversi tra questi medici greci fu Asclepiade, giunto a Roma da Prusias sul mare, in Bitinia, verso la fine del II o l’inizio del I secolo.
Asclepiade divenne immensamente celebre mentre era ancora in vita (morì nel I sec. a.C.), soprattutto a causa dell’attrazione esercitata dai suoi metodi di cura non invasivi. La terapia comunemente prescritta comprendeva massaggi, bagni, passeggiate, bere vino, seguire una particolare dieta, dondolarsi in un’amaca, ascoltare musica (nella cura delle malattie mentali) e altri trattamenti accattivanti, facendo un uso particolarmente cauto e giudizioso di medicinali ed escludendo in generale (ma non invariabilmente) il ricorso alla chirurgia, agli emetici, ai purganti e ad altre misure drastiche (Celso, De medicina, I, 3, 17-19; II, 14, 1-2; II, 15, 1-4; Plinio il Vecchio, Naturalis historia, XXVI, 12-20; Celio Aureliano, De morbis diuturnis [Tardae passiones], 1, 178-179; Censorino, De die natali, 12, 4). Tenendo presente la mentalità conservatrice e avversa ai trattamenti invasivi dei Romani, riflessa nella reazione di Catone alla medicina greca – di cui abbiamo detto nel par. precedente –, si può dunque supporre che le caratteristiche del metodo terapeutico di Asclepiade lo rendessero particolarmente attraente agli occhi di molti di essi; tuttavia, nonostante la sua fama e la sua popolarità, neppure una delle sedici opere note di Asclepiade si è conservata e ciò potrebbe essere stato causato in parte dall’ostilità di Galeno, che aborriva in particolare le sue teorie fisiopatologiche. Dobbiamo tuttavia proprio alle taglienti critiche galeniche gran parte delle nostre conoscenze su Asclepiade e ciò rende particolarmente arduo il compito di ricostruirne le teorie (per un elenco delle fonti antiche, cfr. Vallance 1993, pp. 711-727).
Asclepiade fu l’ideatore di un ammirevole sistema fisiopatologico: il corpo è composto da particelle invisibili o ‘teoriche’ in perpetuo movimento – fragili corpuscoli o «grumi», detti «privi di legami» o «sconnessi » (ánarmoi ónkoi) – e da dotti (póroi) o «pori interstiziali» (araiṓmata) ugualmente invisibili o ‘teorici’, attraversati di continuo dai corpuscoli e distribuiti lungo tutto il corpo. Ogni volta che il movimento dei corpuscoli attraverso i pori è impedito, accelerato, alterato o squilibrato per qualche motivo, si verifica una condizione patologica. La salute era concepita insomma da Asclepiade come una funzione del flusso libero, equilibrato e regolare dei corpuscoli invisibili attraverso i pori invisibili (Celio Aureliano, Celeres passiones, 1, 105-108; Celso, De medicina, proemio, 16). Anche nei corpi sani può verificarsi tuttavia una variazione della velocità del flusso di particelle o corpuscoli, a seconda dell’età e delle condizioni dell’individuo (Cassio, Problemata, 12). Il cibo ingerito alimenta la continua produzione di nuove particelle, che serve a compensare l’uscita dal corpo di altre particelle, sia attraverso le consuete escrezioni visibili, sia attraverso una continua corrente di effluvi invisibili esalati dal corpo.
Naturalmente, Asclepiade non fu il primo a sostenere una teoria corpuscolare della materia. Anche Eraclide Pontico, un membro dell’Accademia platonica vissuto nel IV sec. a.C., aveva teorizzato l’esistenza di corpuscoli elementari «privi di legami» o «sconnessi», cioè di particelle elementari che, a differenza degli atomi indivisibili degli epicurei (ma analogamente alle particelle di Asclepiade), potevano separarsi in frammenti più piccoli e quindi ricomporsi per formare un diverso elemento. Non è chiaro, tuttavia, fino a che punto Asclepiade sia stato influenzato da Eraclide, né quanto abbiano influito sulla sua teoria i dibattiti ellenistici sull’esistenza e la natura del vuoto, ai quali presero parte non soltanto gli epicurei ma anche il filosofo peripatetico Stratone di Lampsaco e molti altri (v. sopra su Erasistrato). Nel II sec. d.C. Galeno, che si considerava un seguace del platonismo, respinse quello che chiamava ingiustamente l’atomismo o epicureismo di Asclepiade. In particolare trovava di scutibile, in base alla propria visione spiccatamente teleologica, la spiegazione meccanicistica del movimento della materia all’interno del corpo fornita da Asclepiade. Galeno pensava infatti che il movimento dei diversi tipi di materia all’interno del corpo dipendesse dall’azione di «facoltà naturali» invisibili (dynámeis physikaí) – la facoltà «attrattiva», «secretoria», «ritentiva » e «alterativa» – che erano considerate manifestazioni della tendenza ad agire in vista di uno scopo o «finalità» della Natura. Asclepiade, al contrario, spiegava il movimento come il risultato della tendenza dei corpuscoli a muoversi verso le aree più rarefatte o più calde del corpo, cioè verso quelle aree dove le particelle di materia erano divise da spazi interstiziali più ampi. Egli utilizzava questo principio meccanicistico, chiamato a volte «movimento verso ciò che è rarefatto », per spiegare la dinamica della digestione, della respirazione, della pulsazione, della secrezione urinaria e delle malattie di ogni genere (cfr., per es., Celio Aureliano, De morbis acutis, I, 115, I, 119; Galeno, De naturalibus facultatibus, I, 13; Galeno, De pulsuum differentiis, 3, 2; 4, 2; 4, 10; 4, 12; 4, 15).
Asclepiade potrebbe aver sviluppato il suo principio del «movimento verso il più rarefatto» per analogia, o forse in contrapposizione, con il principio del «movimento della materia verso ciò che è stato vuotato» sostenuto da Erasistrato (v. sopra); tuttavia, tra le due teorie esistono alcune differenze fondamentali. In particolare, Asclepiade appare fiducioso nella possibilità di spiegare il movimento della materia con i diversi gradi di densità esistenti nella materia stessa, determinati inter alia dal calore, a differenza di Erasistrato, che aveva sottolineato soprattutto l’impossibilità di un vuoto assoluto o vacuum. L’eziologia della «frenite», una malattia che poteva sfociare nell’«alienazione mentale», proposta da Asclepiade, ci fornisce un esempio significativo della sua teoria; il primo passo verso lo sviluppo di questa infermità è rappresentato – secondo Asclepiade – dal surriscaldamento delle membrane cerebrali, sia a opera di agenti esterni (come il calore atmosferico), sia per cause interne (come l’insorgere di condizioni che determinano un movimento eccessivamente rapido dei corpuscoli e, di conseguenza, un forte attrito). Il calore rende più rarefatta l’area occupata dalle membrane cerebrali, diradandone i tessuti e causando l’afflusso dei corpuscoli verso questa «rarefazione» (leptoméreia), in base al principio descritto in precedenza. In breve, tuttavia, i corpuscoli saturano tutti gli spazi liberi nelle membrane cerebrali, provocando un arresto o blocco della circolazione. Questo blocco è, secondo Asclepiade, la frenite; ben presto si manifestano altri effetti patologici secondari, causati dal fatto che i corpuscoli, non trovando posto nelle membrane cerebrali, si dirigono verso le aree circostanti, dotate di una minore densità. Con buona pace di Galeno – l’unico autore antico a sostenere l’epicureismo di Asclepiade – questa spiegazione presenta maggiori affinità con la teoria di Erasistrato (pur distaccandosene per molti aspetti) che con la dottrina epicurea degli atomi e del vuoto.
La maggior parte dei medici del tardo periodo repubblicano, e in genere di tutta l’Antichità, restano per noi figure anonime, mentre di molti altri conosciamo soltanto i nomi e dobbiamo limitarci ad avanzare ipotesi sulle teorie e sui metodi terapeutici da essi adottati; tuttavia, ciò che resta dell’opera di Asclepiade è sufficiente a dimostrare come la scienza medica di questo periodo sapesse produrre intuizioni originali, spiegazioni innovative e una significativa riflessione sulla natura del corpo umano, che sarebbe stata percepita più tardi da Galeno come la principale minaccia, insieme alle teorie di Erasistrato, all’affermazione della propria visione teleologica della fisiologia umana.
Uno dei più celebri allievi di Asclepiade, il greco Temisone di Laodicea in Siria (attivo alla fine del I sec. a.C.), è descritto in alcune fonti antiche come il fondatore di una nuova ‘scuola’ di medicina, i cui membri adottarono il nome di ‘metodici’ (methodikoí) per sottolineare la propria adesione a un nuovo e particolare ‘metodo’ (méthodos) terapeutico. Tuttavia, alcuni metodici più tardi, come Sorano di Efeso o Celio Aureliano, accusarono il siriano di essere rimasto troppo legato alle teorie di Asclepiade e di non essere stato, di conseguenza, un vero metodico. D’altra parte, Galeno associa strettamente Asclepiade, e a fortiori Temisone, allo sviluppo della scuola metodica.
Nelle sue prime opere, Temisone sembra in effetti seguire fedelmente la teoria asclepiadea dei corpuscoli e dei pori, ma alcune affidabili fonti antiche riferiscono che egli si allontanò in seguito da questa dottrina, o quantomeno la modificò introducendovi molte aggiunte e correzioni. Egli fu, a quanto sembra, il primo a sviluppare, o forse solamente ad abbozzare, la teoria secondo cui ogni corpo malato presenta, come dato fenomenico, uno dei due «stati comuni» o «comunità» (koinótētes, communia) che indicano immediatamente al medico la risposta terapeutica appropriata. Il primo di questi stati era chiamato «costipazione», il secondo «flusso». Secondo Temisone, si tratta di stati di tensione relativa che interessano il corpo malato nella sua interezza. A differenza di altri metodici, sembra che Temisone mettesse in relazione tali stati con una particolare versione della teoria corpuscolare di Asclepiade, benché i dettagli della questione rimangano piuttosto confusi, a causa della perdita di tutte le sue opere.
Nella terapeutica di Temisone si scorgono sia le tracce degli insegnamenti di Asclepiade, sia i segni di un’autonoma capacità di innovazione (cfr., per es., Celso, De medicina, III, 4, 6). Oltre a prescrivere ai suoi pazienti un trattamento a base di vino, moto passivo e bagni, come aveva fatto Asclepiade, Temisone possedeva anche una notevole abilità di chirurgo: non esitava, se necessario, a eseguire difficili operazioni chirurgiche all’addome e non indietreggiava neppure di fronte all’eventualità di un intervento neurochirurgico. Tra i suoi pazienti vi erano persone sofferenti di disturbi mentali e altre affette da malattie ginecologiche, oftalmiche e otorinolaringoiatriche. Non di rado, egli mostrò di saper riconoscere quando un intervento chirurgico si rendeva necessario, ma anche di possedere una solida conoscenza dell’anatomia umana, considerata superflua da alcuni metodici successivi (ma non da Sorano, autore di una descrizione molto particolareggiata dell’anatomia femminile; v. oltre). Temisone fornì anche un significativo contributo alla farmacologia antica e la composizione dei suoi farmaci è riportata da molte fonti antiche (Moog 1994, pp. 86-101, 366- 394). La vasta erudizione e molti aspetti della pratica medica di Temisone gli alienarono le simpatie dei metodici posteriori (v. oltre), ma non gli impedirono di esercitare una notevole influenza sulla medicina della prima età imperiale. Celso (v. oltre) ne riconobbe, per esempio, la grandezza (De medicina, prooem., 11), testimoniata anche dal successo ottenuto dalla sua ‘scuola’.
Se non fu Temisone a fondare la ‘scuola’ metodica, questo onore (assai dubbio, agli occhi di Galeno) spetta allora di diritto a Tessalo di Tralle, un contemporaneo di Nerone, di cui dobbiamo la conoscenza quasi esclusivamente agli attacchi e ai sarcasmi di Galeno, essendo andati perduti tutti i suoi scritti. Dato che la linea di demarcazione tra le teorie di Tessalo e quelle degli altri metodici non è tracciata con chiarezza dalle fonti antiche, per il momento è utile mettere a fuoco la natura delle critiche rivolte da Galeno alla scuola metodica e gli elementi della teoria metodica che suscitarono tali critiche (in una successiva sezione ci si occuperà invece del più celebre dei metodici, Sorano di Efeso).
La principale critica di Galeno era rivolta contro quella che egli definiva la profonda incompetenza dei metodici che, secondo lui, era la diretta conseguenza dell’insufficienza della loro teoria principale: questa, fornendo una descrizione inadeguata ed erronea della struttura della malattia (e non una descrizione della struttura del corpo umano), impediva ai metodici di giungere all’individuazione di una terapia corretta ed efficace. Inoltre, Galeno scorgeva nei metodici una minaccia alla professionalità e ai privilegi di una classe medica specializzata e selezionata. Essi erano soliti, in effetti, vantare la facilità, l’accessibilità e la semplicità della propria teoria a tutti i potenziali studenti, provocando una rabbiosa reazione da parte di Galeno, che accusò Tessalo di aver affermato che perfino uno studente privo di istruzione scientifica sarebbe potuto diventare nel giro di pochi mesi un ottimo medico (cioè un medico metodico).
Per comprendere la teoria che aveva suscitato le ire di Galeno è necessario inserirla nel contesto della disputa tra ‘scuole’ ellenistiche rivali, di cui si è parlato in precedenza: i metodici tentavano di assumere una posizione intermedia tra (a) quella dei medici impegnati nell’indagine della struttura e delle funzioni delle parti del corpo, che basavano su tale indagine – e sull’attenta osservazione di ciascun ammalato – una spiegazione causale dell’origine delle malattie e la scelta delle appropriate risposte terapeutiche, e (b) la posizione degli empirici, che si affidavano invece quasi esclusivamente all’osservazione dei fenomeni e alla trasmissione delle precedenti osservazioni o ‘esperienze’. Nella loro ricerca di una posizione intermedia, non c’è dubbio che i metodici abbiano sottovalutato, da una parte, il ruolo che l’osservazione, l’esperienza e la raccolta dei dati empirici rivestivano anche nella medicina praticata dagli appartenenti al gruppo (a) e, dall’altra, la tacita accettazione da parte degli empirici del gruppo (b) della necessità di una qualche forma di elaborazione teorica, malgrado la loro apparente intransigenza a tale riguardo.
I metodici si consideravano in effetti in disaccordo tanto con gli esponenti del gruppo (a) – polemicamente definiti «razionalisti» dagli empirici – dal momento che la loro teoria negava che fosse compito della medicina avanzare ipotesi sulla natura delle cose invisibili, quanto con gli empirici, dato che, secondo il metodismo, la semplice osservazione dei fenomeni non può costituire la téchnē medica (Celso, De medicina, prooem., 57). Inoltre, i metodici, pur essendo d’accordo con la concezione empirica delle malattie come condizioni fenomeniche direttamente accessibili ai sensi, piuttosto che come il prodotto di complessi processi e condizioni interne, conoscibili soltanto attraverso il ragionamento, tuttavia condividevano con gli esponenti del gruppo (a) l’idea che un corretto ragionamento medico dovesse basarsi in parte sulla teoria. Questa posizione si riflette nella più nota delle dottrine metodiche (ispirata almeno in parte dalle teorie patologiche di Temisone) secondo la quale esistevano solamente tre tipi fondamentali di malattie («stati comuni», «comunità », communia): la costipazione o stenosi (stégnōsis, strictura), il flusso (rhýsis, solutio) e una loro combinazione (epiplokḗ), cioè, come dicevano anche, uno stato comune costipativo (stegnón, adstrictum), uno fluido (rhoṓdes, fluens) e uno composto o misto (sìntheton, mixtum) (cfr., per es., Celso, De medicina, prooem., 54-55). Il compito del medico era prima di tutto quello di determinare, sulla base dei dati osservabili, a quale di queste tre categorie fosse riconducibile una data malattia; in seguito, però, egli doveva far ricorso a una forma di ragionamento, in primo luogo per capire che a una malattia «restringente», per esempio, bisognava applicare rimedi contrari, cioè «fluidi» (malgrado la rivendicazione della propria originalità, infatti, i metodici mantennero il tradizionale principio terapeutico allopatico) e, in secondo luogo, per stabilire le dosi di farmaci adeguate a ogni caso; per svolgere queste operazioni di tipo deduttivo, non bastava la semplice esperienza.
Almeno una parte dei metodici pensava inoltre che l’individuazione dell’adeguata risposta terapeutica dipendesse da una «indicazione» (éndeixis), ricavabile dall’osservazione dei fenomeni, e inoltre che gli «stati comuni» fluidi o restringenti costituissero già di per sé un’indicazione, poiché «indicavano naturalmente» l’esistenza di condizioni di flusso o stenosi (ma non delle loro eventuali cause invisibili) e, di conseguenza, il tipo di terapia richiesto. I fenomeni, cioè la manifestazione sensibile degli ‘stati comuni’, e la ‘indicazione’ rappresentavano così i pilastri fondamentali della visione di sé come medici propria dei metodici, ed elementi altrettanto essenziali, dal loro punto di vista, al raggiungimento degli scopi della téchnē medica. Almeno su questo punto la maggior parte di essi si sarebbe trovata d’accordo. Tuttavia, come nel caso delle scuole mediche ellenistiche esaminato in precedenza, la ‘teoria’ metodica non era un insieme statico di dottrine trasmesso senza variazioni da una generazione all’altra: per esempio, dagli scritti del brillante metodico Sorano di Efeso (v. oltre) emerge un approccio sia teorico sia pratico molto più sottile e complesso delle opinioni attribuite a Tessalo. Inoltre, alcuni frammenti di papiro che descrivono le dottrine dei metodici, databili al I, al II e al IV sec. d.C., ci rammentano che la maggior parte dei trattati di questa scuola è andata in realtà perduta e che, come nel caso delle scuole ellenistiche, tutte le ricostruzioni moderne della storia metodica sono basate in gran parte su fonti antiche rese sospette dai loro dichiarati atteggiamenti polemici. Allo stesso tempo, però, queste polemiche confermano lo straordinario impatto prodotto dalle teorie metodiche sulla medicina dei primi due secoli dell’Impero romano.
Celso, attivo durante il regno dell’imperatore Tiberio (14- 37 d.C.), non fu né il primo scrittore né il primo enciclopedista latino a occuparsi di medicina; comunque gli otto libri del suo De medicina, che costituivano probabilmente i Libri VI-XIII della sua enciclopedia in ventisei volumi, intitolata Artes, sono il primo testo latino, tra quelli che ci sono giunti, a illustrare in modo sistematico, meticolosamente strutturato e relativamente esauriente la téchnē medica (o almeno le sue branche terapeutiche). Dopo una breve storia della medicina, dalle origini mitiche e preistoriche fino a Temisone e al sorgere della scuola metodica, Celso passa a illustrare i diversi tipi di regime (in quattro libri), la farmacologia (in due libri) e la chirurgia (in due libri). In accordo con l’orientamento pragmatico dell’opera, l’autore non si occupa in modo specifico né di anatomia né di fisiologia, se non nella misura in cui sono in relazione diretta con la terapia, ma le sue approfondite conoscenze dell’anatomia (esposte soprattutto, ma non soltanto, nei libri chirurgici) e delle principali teorie fisiologiche e patologiche greche affiorano in diversi punti del testo. Il Libro VIII, per esempio, rivela un’ampia conoscenza dell’anatomia dello scheletro umano; anche la descrizione dell’anatomia dell’occhio (VII, 7, 13a-c) – contenuta nel capitolo dedicato alle tecniche chirurgiche per la rimozione della cataratta (VII, 7, 13a-14), che avveniva per mezzo degli appositi aghi, rinvenuti in abbondanza negli scavi archeologici – riflette i migliori livelli anatomici della sua epoca. Lo stesso si può dire delle altre operazioni chirurgiche descritte, come l’inversione chirurgica della circoncisione (VII, 25) e la rimozione dei calcoli vescicali (di cui conosceva l’estrema pericolosità, VII, 26, 1c-27, 8); inoltre, Celso mostra di possedere una solida conoscenza delle teorie fisiopatologiche di Erasistrato e di altri precursori ellenistici.
Già nel proemio storiografico iniziale (prooem., 1-11) e nella successiva descrizione del dibattito tra gli empirici e i cosiddetti ‘razionalisti’ (prooem., 12-75, che funge anche da prefazione ai quattro libri sul regime), Celso accenna al fatto che non si limiterà a riassumere o riferire le opinioni contrastanti da lui raccolte dalle fonti greche (prooem., 45), ma che intende imprimere al materiale greco la sua impronta personale e tipicamente romana. La sua è la voce della moderazione, della ricerca equanime della verità, della decenza e dell’efficacia; e la scelta di collocarsi nel centro tranquillo della prudenza romana gli permette non soltanto di superare i limiti dell’influente armatura concettuale antirazionalista, mutuata da una o più fonti empiriche, che informa parte del proemio (12-44), ma anche di seguire una rotta sicura, distribuendo equamente critiche e lodi ai suoi predecessori e guadagnandosi in tal modo la fama di osservatore imparziale, nonostante l’eterogeneità delle fonti greche a cui fa riferimento. Le fonti dirette e indirette comprendono i trattati ippocratici (soprattutto nei Libri II e VIII), gli scrittori anatomici e chirurgici alessandrini (nel Libro VII), Asclepiade di Bitinia (nei Libri II-IV), la dossografia empirica (prooem., 12-75) e un gran numero di altri autori ellenistici, per lo più non empirici (Libri V-VII). La conoscenza delle teorie e dei metodi di molti medici vissuti nella sua epoca o negli anni immediatamente precedenti, compresi Cassio e l’oculista Euelpide (per non parlare dei più celebri medici del I sec. a.C., come Meges, Trifone, Sostrato, Zopiro, Filosseno, Era di Cappadocia ed Euelpisto), è un’ulteriore dimostrazione della vasta erudizione di Celso e della sua indipendenza, che lo portava a interessarsi anche alle figure e alle fonti non appartenenti a una determinata scuola.
I quattro libri dedicati al regime consono a una vita sana sono strutturati in modo da coprire la maggior parte dei casi clinici che può presentarsi a un medico. Nel Libro I sono descritti i principî generali del regime, iniziando da quello consigliato per il mantenimento di un fisico sano e robusto. Le raccomandazioni di Celso si estendono, come nel resto dell’opera, a tutti gli aspetti della vita corporea: l’esercizio fisico, i bagni, l’alimentazione, le bevande, il sesso (i rapporti sessuali «non devono essere né troppo desiderati, né troppo temuti», I, 1, 4), tenendo conto per ciascuno di essi dell’età, dell’ora del giorno, della costituzione fisica individuale e di altre variabili pertinenti. Celso passa quindi a descrivere con maggiori dettagli il regime consigliato agli individui fisicamente più fragili (ma non malati) e poi a una discussione ancora più specifica delle modifiche che bisogna apportare al regime in occasione di mutamenti di residenza (o di ambiente naturale), di viaggi di vario genere, di cambiamenti delle abitudini di vita, e per adattarlo alle diverse costituzioni individuali (per es., un corpo snello o obeso, una natura calda o frigida, un fisico umido o asciutto, un intestino costipato o sciolto, I, 3, 13-31), all’età, al sesso, alla stagione, specificando in quest’ultimo caso la dieta e le abitudini sessuali consigliate nei vari periodi dell’anno. Tutte le indicazioni fin qui menzionate riguardano i corpi sani, più o meno robusti. Poiché tuttavia alcune persone complessivamente sane e robuste possono avere una parte del corpo particolarmente vulnerabile, Celso descrive i regimi consigliati nei casi di debolezza di testa, di stomaco, di intestino, dei tendini, ecc. (I, 4-9), concludendo con la descrizione del regime consigliato nei periodi di pestilenza (I, 10).
Il metodo espositivo qui seguito da Celso, basato sulla discussione approfondita di una parte per volta di una complessa dottrina, passando più volte dagli argomenti generali a quelli più specifici e articolando la materia attraverso successive divisioni e suddivisioni, ma conservando in ogni momento l’unità delle diverse sezioni, collegate tra loro mediante una rete di accurati rimandi interni e transizioni ben definite, si ritrova costantemente in tutti gli otto libri del De medicina. Il Libro II è dedicato ai principî generali del regime terapeutico, ossia il regime che deve essere seguito dagli individui malati, ma la loro discussione è preceduta dall’illustrazione di alcune nozioni fondamentali la cui conoscenza, afferma Celso, è indispensabile a garantire una corretta applicazione del regime terapeutico stesso. Nei capitoli iniziali del Libro II sono così descritte, per esempio, le malattie che possono insorgere con maggiore probabilità nelle diverse stagioni dell’anno, o a seconda delle condizioni meteorologiche, dell’età e del «temperamento» o costituzione individuale (II, 1, 1-23). Celso passa quindi a illustrare i segni generali (signa communia) che precedono tutte le malattie (II, 2-6), poi quelli che precedono o accompagnano i diversi tipi di malattie (notae in singulis morborum generibus, II, 7, 1- 36) e infine, in modo ancora più specifico, i segni che indicano la possibilità di un miglioramento o di un aggravamento nelle diverse malattie (II, 8, 1-43). Finalmente (II, 9, 1) ha inizio la discussione del regime terapeutico, che segue lo stesso metodo espositivo adottato in precedenza; alcuni trattamenti, spiega Celso, sono detti generali o comuni (curationes communes) perché producono effetti benefici nella maggior parte delle malattie, mentre altri si applicano soltanto a particolari tipi di malattie (curationes propriae). La parte rimanente del Libro II (II, 9, 2-33, 6) è dedicata ai trattamenti generali, che Celso suddivide in base ai loro effetti, distinguendo, per esempio, quelli che servono a diminuire la materia del corpo da quelli che l’accrescono; quelli che ne favoriscono la fuoriuscita da quelli che la arrestano; quelli che la riscaldano da quelli che la raffreddano; quelli che la induriscono da quelli che la rendono molle e così via. La suddivisione di ciascuna di queste classi di trattamenti generali in base ai loro effetti secondari, che in alcuni casi è ulteriormente ripetuta, consente a Celso di stabilire un complesso sistema composto da livelli decrescenti di generalizzazione, rimanendo sempre nell’ambito della discussione dei trattamenti generali (communes).
Gli stessi principî di organizzazione del testo si ritrovano anche nel Libro III, in cui Celso passa dalla descrizione del regime terapeutico «universale» o applicabile a «tutti i tipi di malattie» (universa genera morborum), a quella dei regimi indicati nei diversi tipi di malattie (singulorum curationes) che colpiscono il corpo nel suo complesso, e di nuovo nel Libro IV, dove sono trattati i regimi indicati nelle malattie che colpiscono singole parti del corpo. Gli stessi principî determinano anche la struttura dei libri farmacologici (V-VI) e dei due splendidi libri dedicati alla chirurgia (VII-VIII); questa organizzazione del testo, tuttavia, non è il risultato di un semplice espediente stilistico o strutturale, ma riflette da parte di Celso la consapevolezza delle reali condizioni in cui si trova a operare il medico, posto costantemente di fronte all’intreccio di elementi generali e particolari, di fenomeni ricorrenti nella maggior parte o nella generalità dei casi, e di altri che si osservano invece solamente in un gruppo più ristretto e limitato. Da qui la necessità di ‘regole’ più o meno estensibili e di diversi livelli e forme di generalizzazione, che possano guidare il medico nelle sue scelte; la conoscenza di tali regole generali è giudicata indispensabile per esercitare con successo la professione medica e gli otto libri del De medicina ne contengono molte. Allo stesso tempo, Celso riconosce che ogni regola ha le sue eccezioni, affermando esplicitamente che esistono a stento (vix) regole universalmente valide ( perpetua: prooem., 63), ma che quasi tutte le regole si applicano soltanto nella maggior parte dei casi. La medicina, aggiunge, è una disciplina intrinsecamente congetturale o stocastica, un’ars conjecturalis (II, 6, 16) e di conseguenza, come ogni congettura, pur risultando valida nella maggior parte dei casi, può essere a volte smentita. Tali eccezioni e smentite possono avere cause diverse e contingenti, come il semplice caso o la comparsa di nuove malattie. Tuttavia, la causa più comune è l’enorme varietà e variabilità degli individui, dell’ambiente che li circonda e di altri fattori che influiscono su di essi e sulle cure a cui sono sottoposti (‘varietà’ intesa come ‘diversità’, ‘variabilità’ come natura instabile e mutevole delle caratteristiche del comportamento e delle risposte al trattamento del paziente, che possono variare nelle diverse occasioni).
Anche quando le aspettative di un medico appaiono perfettamente ragionevoli, afferma Celso, la grande varietà delle caratteristiche fisiche degli individui, delle condizioni meteorologiche, delle malattie, dei cibi, delle percentuali degli ingredienti contenuti nei farmaci e dei possibili interventi chirurgici, possono riservare sempre delle sorprese. La grande quantità e diversità di questi fattori, che interagiscono tra loro in molteplici modi per determinare le caratteristiche di un dato corpo in un dato momento, costituisce un formidabile ostacolo alla formulazione di regole universalmente valide. Queste considerazioni riflettono da parte di Celso una forte (anche se non particolarmente originale) consapevolezza dell’importanza della individualizzazione delle risposte terapeutiche. Ciò non significa, tuttavia, che Celso sarebbe stato disposto ad ammettere l’inutilità di qualsiasi generalizzazione che andasse oltre il livello del singolo paziente; al contrario, egli riteneva che la scelta delle adeguate misure terapeutiche e profilattiche presupponesse la capacità del medico di porsi nel punto di intersezione tra generalizzazione e individualizzazione; e, come abbiamo visto, questa convinzione si riflette sulla struttura di tutti i libri del suo De medicina. L’esistenza di molteplici eccezioni non annulla il bi - sogno di regole, altrettanto numerose e riguardanti diversi campi di applicazione. Il pragmatismo di cui è permeato il suo sistema stratificato di regole, unito al riconoscimento della complessità del singolo individuo e dell’ambiente che lo circonda, insieme alla sua esplicita e pragmatica accettazione dell’ineluttabilità delle eccezioni, conferiscono all’opera di Celso un aroma epistemologico particolare, tipico della cultura romana. L’anarchismo della particolarizzazione priva di regole non offre soluzioni adeguate ai problemi di medici e pazienti, ma la tendenza riduttivista, rappresentata dalla formulazione di leggi universalmente valide e prive di eccezioni, non corrisponde d’altra parte alla complessa realtà che i medici sono costretti ad affrontare. Seguendo una linea equidistante da queste due posizioni estreme, Celso offre ai suoi lettori un quadro ricco, dettagliato, elegante, pragmatico e originale della medicina, amalgamando le dottrine ippocratiche con la dietetica, la farmacologia e la chirurgia ellenistiche, senza tralasciare di tributare un omaggio occasionale, ma comunque significativo, alla medicina tradizionale romana e all’orgoglio romano.
Celso non fu l’unico autore del I sec. d.C. di cui possediamo ancora la farmacologia (De medicina, V-VI). Attraverso gli scritti di Galeno ci sono giunti infatti numerosi e corposi estratti delle opere perdute di celebri autori farmacologici greci vissuti tra il I sec. e l’inizio del II, tra cui Andromaco il Vecchio (il medico di Nerone), suo figlio Andromaco il Giovane, Damocrate, Critone, Asclepiade il Giovane detto Pharmakeús (da non confondere con Asclepiade di Bitinia), oltre a diversi estratti più brevi, tra cui uno proveniente dall’opera di Antonio Musa, uno dei medici di Augusto. Gli autori di opere farmacologiche vissuti nel I sec. d.C. citati da Galeno non erano tuttavia soltanto greci: per esempio, si trovano molti riferimenti allo scrittore latino Scribonio Largo, un contemporaneo di Celso vissuto durante i regni degli imperatori Tiberio (14-37), Caligola (37-41) e Claudio (41-54), che si recò al seguito di quest’ultimo in Britannia in occasione della campagna del 43 d.C. (ma è possibile che Galeno sia venuto a conoscenza delle opere di Scribonio e di altri autori latini attraverso la mediazione di autori greci come Andromaco il Giovane e Asclepiade Pharmakeús).
L’unica opera sopravvissuta di Scribonio, Compositiones (‘i preparati farmaceutici’), presenta qualche affinità con le sezioni farmacologiche dell’opera di Celso, che però non è mai menzionato; è possibile che le somiglianze tra le due opere dipendano dall’uso di fonti simili (se non identiche), molte delle quali greche. Come il latino tecnico di Catone e di Celso, anche la lingua di Scribonio pullula di prestiti e calchi dal greco; inoltre, molti indizi fanno ritenere che egli scrivesse anche in greco, il che serve a rammentarci quanto il fenomeno del bilinguismo e del multilinguismo fosse diffuso nel mondo romano.
Nella prefazione Scribonio, oltre a difendere la farmacologia dalle critiche dei suoi detrattori, mostra di possedere una sensibilità tutta romana per le questioni riguardanti la deontologia e l’etica mediche, esaltando valori quali il dovere e la professionalità. Alla prefazione fa seguito un primo elenco dettagliato di prescrizioni «secondo il luogo», cioè relative alla cura delle malattie di singoli organi o di singole parti del corpo, disposte secondo la tradizionale sequenza a capite ad calcem (‘dalla testa ai piedi’, lett. ‘al calcagno’; capp. 1-162). L’elenco si apre con i farmaci contro il mal di testa e l’epilessia (considerata un disturbo cerebrale) per passare poi in rassegna le malattie di occhi, orecchie, naso, denti, gola, petto, addome e così via, fino alla podagra.
Un secondo elenco di prescrizioni (capp. 163-271) raggruppa i farmaci «secondo il genere», iniziando dagli antidoti contro i veleni e proseguendo con una serie di impiastri, cataplasmi e unguenti. L’opera si conclude con una perorazione di Scribonio che assicura ai suoi lettori di aver provveduto a preparare e sperimentare personalmente la grande maggioranza delle sue compositiones, a parte alcune che gli erano state comunicate da amici fidati, i quali gli avevano giurato di averne sperimentato nella pratica l’efficacia. Come molti dei suoi predecessori, compreso Celso, Scribonio mette in guardia i suoi lettori dalle possibili complicazioni derivanti dall’esistenza di molteplici variabili: il medesimo farmaco poteva produrre effetti diversi anche nello stesso tipo di malattia, a seconda di fattori quali l’età e la costituzione del paziente, il periodo dell’anno, l’ora del giorno e il luogo. Pur attribuendo una minore importanza di Celso all’incognita delle variabili, la preoccupazione di Scribonio per questo problema costituisce un ulteriore esempio dell’atteggiamento pragmatico degli autori latini, disposti a riconoscere che anche un sapere medico meticolosamente organizzato e adeguatamente collaudato poteva essere sovvertito, nel momento in cui veniva applicato ai singoli casi, dall’azione di una qualsiasi delle numerose varianti possibili, tanto interne quanto esterne.
Tra le molte altre opere farmacologiche del I sec. di cui siamo a conoscenza, la più celebre è un trattato greco in cinque volumi sui farmaci, noto con il titolo De materia medica, di Pedanio Dioscuride (I sec. d.C.), originario di Anazarba in Cilicia e allievo di un celebre farmacologo del I sec., Areio di Tarso. Profondo conoscitore delle opere dei suoi predecessori ellenistici e romani, comprese quelle di Teofrasto, Nicandro, Crateuas, Eraclide di Taranto, Iola di Bitinia, Giulio Basso e Petronio Niger, viaggiò a lungo in Asia Minore e nella penisola greca, giungendo nell’Egitto settentrionale, in Siria, a Creta, a Cipro e a Petra, la capitale nabatea. Seguendo un’antica consuetudine, Dioscuride include nella sua opera la descrizione di una serie di sostanze esotiche provenienti da paesi ancora più remoti (tra cui la Britannia, la Gallia, l’Iberia, l’Etiopia, l’Armenia e l’India) che probabilmente non aveva mai visitato, o solamente in parte. L’esplicita associazione della propria odissea farmacologica («dopo aver attraversato gran parte della Terra», riecheggiante Odyssea, IV, 268, II, 364, ecc.) alla condotta di una «vita militare» o «simile a quella di un soldato», ha spinto molti autori posteriori a formulare la controversa ipotesi che fosse un medico dell’esercito romano (sulla medicina militare, v. oltre).
Il De materia medica di Dioscuride, che oltrepassava probabilmente per ampiezza, completezza e precisione la maggior parte delle opere precedenti, divenne uno dei testi farmacologici di riferimento di tutto il periodo premoderno. Dioscuride descrive le proprietà medicinali di oltre 1000 sostanze naturali (circa 800 delle quali di origine vegetale, le rimanenti di origine animale e minerale) ed elenca oltre quattromila possibili usi di esse, mentre nei trattati attribuiti a Ippocrate, per esempio, le sostanze e gli usi a cui si fa riferimento non raggiungono la metà di queste cifre. Nella prefazione Dioscuride non risparmia le critiche ai suoi predecessori, nominati esplicitamente e accusati di numerose mancanze: l’omissione di sostanze utili, la scarsa precisione, la diffusione di false informazioni, il ricorso a conoscenze di seconda mano e il disordine dell’esposizione, che rendeva le loro opere impossibili da memorizzare. Egli assicura invece ai suoi lettori che la propria opera avrebbe superato tutte le precedenti per completezza, accuratezza, organizzazione, sistematicità e scrupolosità nell’osservazione, riservando una particolare attenzione ai fattori topografici, climatici, stagionali e alle varianti botaniche locali, in rapporto ai loro effetti sulla raccolta, la pulitura, la preparazione, la protezione e la conservazione dei farmaci.
I predecessori di Dioscuride avevano ordinato le sostanze farmacologiche sulla base delle diverse malattie (come nel Corpus Hippocraticum), o in ordine alfabetico (Crateuas), o sulla base delle loro caratteristiche esterne, spesso morfologiche (Sestio Niger). L’ordine seguito da Dioscuride nei suoi cinque libri è invece il seguente: (I) aromi, oli, unguenti, alberi, arbusti; (II) animali, prodotti di origine animale (miele, latte, grassi), cereali, vegetali, erbe da giardino; (III) radici, succhi vegetali, altre erbe, semi; (IV) altre radici ed erbe; (V) vini, altre bevande, minerali. I principî organizzativi che presiedono a questo ordinamento sono tutt’altro che evidenti, ma uno dei criteri utilizzati potrebbe essere stato quello di raggruppare le sostanze in base alle affinità delle loro dynámeis (tradotto in genere con ‘proprietà’), cioè del loro ‘potere’ di esercitare una determinata azione, producendo, per esempio, un effetto riscaldante, emolliente, astringente, diuretico, asciugante, rinfrescante, ‘maturante’, sonnifero, rilassante, disperdente, afrodisiaco o antiafrodisiaco. Complessivamente, Dioscuride identifica oltre trecento tipi di effetti medicinali, ma non afferma mai esplicitamente di essersi basato sulle affinità tra i ‘poteri di azione’ delle diverse sostanze per organizzare il suo materiale, tanto che alcuni autori più tardi, non riuscendo a identificare una precisa struttura nella sua opera, la riorganizzarono secondo criteri più facilmente accessibili. Un manoscritto del VI sec., come altri manoscritti più tardi, ce ne ha restituito una versione alfabetica, realizzata probabilmente tra il II e il IV secolo.
Una diversa sequenza espositiva, supplementare e discernibile nelle sezioni botaniche, testimonia il desiderio di accuratezza di Dioscuride. Ogni capitolo è dedicato a una singola pianta, di cui sono descritte le principali caratteristiche, generalmente in quest’ordine: nome della pianta; sinonimi; collocazione abituale; descrizione botanica; proprietà medicinali; preparazione e applicazione; eventuali riferimenti a effetti dannosi collaterali; dosaggio; raccolta, lavorazione e conservazione; «falsi» e come identificarli; a volte, usi veterinari, magici e non medici; a volte, distribuzione geografica. Ogni capitolo botanico era accompagnato probabilmente da un’illustrazione della pianta, come nel più antico manoscritto greco conosciuto, il cosiddetto Dioscuride di Vienna, conservato attualmente nella Biblioteca Nazionale Austriaca, che contiene una versione ordinata alfabeticamente del De materia medica di Dioscuride. Eseguito nel 512-513 a Costantinopoli per la principessa Giuliana Anicia, figlia di Placidia e dell’imperatore d’Occidente Olibrio, il Dioscuride di Vienna, con le sue quasi cinquecento miniature, quasi tutte raffigurazioni a piena pagina di diverse piante, è il più sontuoso dei manoscritti scientifici bizantini ancora esistenti. Tuttavia, in esso sono distinguibili diversi stili di rappresentazione (venuti a sovrapporsi tra loro nel corso della trasmissione dell’opera), e non è chiaro quale di essi derivi dall’opera originale: gli storici dell’arte vi hanno distinto un gruppo più astratto di illustrazioni e uno più naturalistico. Anche in un manoscritto napoletano del VII sec., contenente 403 illustrazioni botaniche di qualità inferiore, sono distinguibili tradizioni grafiche diverse. L’esistenza di opere farmacologiche e mediche illustrate è tuttavia chiaramente attestata almeno sin dal periodo ellenistico e, nonostante i dubbi espressi da alcuni studiosi moderni, l’ipotesi che anche il testo originale di Dioscuride fosse illustrato non può essere esclusa a priori.
La frequenza con cui gli autori greci più tardi nominano, citano, annotano, imitano e plagiano il testo del De materia medica di Dioscuride, è una dimostrazione del prestigio che circondò quest’opera nel mondo greco, fino agli inizi dell’epoca moderna. Un contemporaneo di Dioscuride, Erotiano, lo cita nel suo lexicon ippocratico, e nella generazione successiva due farmacologi greci dell’età dei Flavi, Asclepiade il Giovane detto Pharmakeús e Andromaco il Giovane, già nominati, attinsero ampiamente alla sua opera. Durante il regno di Traiano, Rufo di Efeso (v. oltre) riconosce esplicitamente l’autorità di Dioscuride, mentre negli ultimi sei libri dell’opera sui farmaci semplici Galeno riprende gran parte delle sue idee, adattandole al proprio sistema farmacologico. L’ascendente di Galeno e la diffusione delle prime traduzioni in latino, siriaco e arabo del De materia medica di Dioscuride contribuirono a fare per molti secoli di quest’opera il modello e la principale fonte del sapere farmacologico in tre importantissime aree culturali: l’Impero bizantino, la civiltà islamica e i regni latini dell’Occidente cristiano.
Durante l’Impero, i centri più importanti della scienza medica furono, oltre Roma, le città dell’Asia Minore, e in particolare Pergamo, Smirne ed Efeso, che si aggiunsero, senza sostituirli, a luoghi già celebri, come l’isola di Coo e Alessandria. Le informazioni epigrafiche più numerose riguardano Efeso, dove il ritrovamento di numerose iscrizioni ha consentito di conoscere i nomi di molti medici, oltre a fornirci preziose notizie sulle competizioni (agõnes) che si svolgevano tra loro, gli onori e i privilegi con cui erano premiati e l’organizzazione di questa categoria professionale. Sono sopravvissute, però, soltanto le opere di due fra i medici efesini, Rufo e Sorano.
Rufo di Efeso operò durante il regno dell’imperatore Traiano (98-117), probabilmente senza allontanarsi quasi mai dalla sua città natale. Delle numerose opere che gli sono attribuite, quattro sono sopravvissute in greco: De renum et vesicae morbis, De corporis humani appellationibus, Sulla satiriasi e la gonorrea e Le domande di un medico. Altri tre trattati sono noti invece attraverso le loro traduzioni medievali: una in latino (Sulle malattie delle articolazioni) e due in arabo, De ictero e i cosiddetti Casi clinici (sulla cui autenticità esistono tuttavia molti dubbi). Le citazioni di molte altre opere di Rufo contenute negli scritti di autori successivi ci permettono di conoscere meglio la gamma dei suoi interessi e il suo approccio a una grande varietà di questioni cliniche e scientifiche di interesse medico. Dalle opere di Rufo ancora esistenti emerge l’immagine di un autore estremamente colto, profondo conoscitore non soltanto delle teorie di gran parte degli scrittori di medicina che lo avevano preceduto, ma anche della poesia e della filosofia greche, da Omero, Sofocle e i presocratici, a Platone e Aristotele. La sua erudizione gli permette di mantenere una posizione indipendente, al di fuori delle varie ‘scuole’ e della pedissequa adesione alle teorie di un qualsiasi precursore; al contrario, egli si serve spesso nei suoi scritti della prima persona singolare (‘asserisco’, ‘credo’, ‘conosco’, ‘raccomando’, ‘sconsiglio’, ecc.) per sottolineare la propria autonomia e affermare la propria autorità.
L’opera breve Le domande di un medico (al suo paziente) è inusuale, e forse addirittura unica, nel panorama della letteratura medica greca; in essa Rufo tenta di illustrare, servendosi di esempi tratti da diverse branche della medicina, la necessità clinica, i modi e il significato del porre domande ai propri pazienti. Le domande del medico dovevano essere finalizzate a scopi diagnostici e terapeutici, e dovevano essere poste direttamente al paziente, se possibile, in modo da consentire al medico una valutazione delle condizioni fisiche e mentali dell’ammalato. Il medico doveva cercare di chiarire con le sue domande: il momento in cui la malattia aveva avuto inizio; le possibili cause dei segni esterni (per es., il colore della lingua, delle escrezioni, ecc.); il tipo del sonno e dei sogni; i disordini congeniti; la dieta seguita; fitte e dolori; movimenti intestinali; e così via. Rufo distingue le domande da rivolgere ai pazienti sofferenti di malattie comuni (sezioni 1-45), quelle che bisognava porre nei casi specifici, come le morsicature di animali o le ferite in battaglia (46-62), e quelle che un medico doveva rivolgere ai suoi pazienti in un paese straniero (63-71).
Il trattato De corporis humani appellationibus riveste invece una particolare importanza ai fini della nostra conoscenza dell’insegnamento della medicina e dello sviluppo del linguaggio scientifico nel mondo antico. L’opera fu concepita apparentemente come un’introduzione alla nomenclatura anatomica a uso degli studenti di medicina, una sorta d’insegnamento propedeutico allo studio più approfondito della disciplina. La prefazione afferma chiaramente che la lettura del testo doveva essere accompagnata da una dimostrazione pratica: le parti visibili erano indicate dall’insegnante sul corpo di una persona vivente, mentre per mostrare quelle interne si ricorreva alla dissezione di una scimmia, animale scelto a causa della sua somiglianza con gli esseri umani (capp. 9 e 127). L’opera fu eseguita, tuttavia, non soltanto per ragioni pedagogiche, ma anche per risolvere una serie di problemi relativi alla terminologia anatomica.
Le scoperte realizzate nel primo periodo ellenistico attraverso la pratica sistematica della dissezione umana (Erofilo, Erasistrato: parr. 2 e 3) e nel corso del I sec. e della prima metà del II, in seguito al rinnovato interesse per le ricerche basate sulla dissezione animale (come quelle eseguite, per esempio, da Marino, autore di un celebre trattato anatomico in cinque libri, oggi perduto, e da Numisiano), avevano forse reso ancora più impellente il bisogno di ampliare e uniformare la nomenclatura anatomica. I documenti che ci sono giunti dimostrano come in questo campo regnassero la polisemia e la sinonimia, con una confusione immaginabile. Lo stesso termine era impiegato da autori diversi per indicare parti differenti delle strutture del corpo, e al tempo stesso la stessa parte o struttura poteva essere designata in modo differente dai diversi autori. Rufo dimostra di comprendere perfettamente la gravità dei problemi posti dall’esistenza di una molteplicità di nomi per la stessa parte anatomica e di una molteplicità di referenti anatomici per lo stesso termine, e l’importanza di stabilire una terminologia scientifica costante e uniforme. Tuttavia, il carattere indipendente, competitivo e a volte polemico di molti medici greci, la mancanza di regolamentazione della professione medica, e l’assenza di organismi esterni in grado di esercitare una pressione uniformatrice, impedirono al pregevole lavoro di Rufo, per quanto conosciuto e apprezzato, di esercitare un influsso duraturo sulla nomenclatura anatomica.
La fisiopatologia di Rufo riflette una profonda conoscenza delle opere dei suoi predecessori, e la sua visione appare parzialmente influenzata dalle teorie sulla patologia umorale, soprattutto nel controverso Casi clinici. La maggior parte delle sue opere, tuttavia, dimostra come egli fosse più interessato alla pratica clinica che alla speculazione teorica (la stessa mancanza di interesse per le questioni puramente teoriche si manifesta anche nelle opere di anatomia, che presentano di conseguenza un orientamento prevalentemente descrittivo e topografico). Al capezzale del paziente, armato delle sue ben collaudate domande, delle sue dettagliate conoscenze anatomiche, dei suoi più limitati modelli fisiopatologici e dei suoi poteri mnemonici, Rufo procedeva a un esame approfondito che comprendeva un’attenta valutazione dei sintomi, al termine del quale emetteva una precisa diagnosi. Su questa base, egli tentava poi di comprendere le cause della malattia, ma solamente nella misura in cui ciò poteva avere un’utilità terapeutica, prima di prescrivere una terapia mirata all’eliminazione di queste stesse cause. I mezzi terapeutici impiegati comprendevano i farmaci, gli interventi chirurgici, la terapia fisica e le diete, con una costante attenzione ai possibili effetti collaterali di ciascuno di essi; se una malattia risultava incurabile, Rufo la trattava con qualche palliativo e non trascurava di prescrivere, in tutti i casi possibili, misure di carattere profilattico.
Nella pratica clinica, egli si mostra perfettamente consapevole dei limiti non soltanto della téchnē medica in generale, ma anche delle proprie capacità personali: per esempio, nel pregevole trattato De renum et vesicae morbis – l’unico trattato antico ancora esistente dedicato esclusivamente a questo argomento – Rufo consiglia la rimozione chirurgica dei calcoli vescicali, ma non di quelli renali. Subito dopo aggiunge che il grande Ippocrate aveva dichiarato di aver portato a termine con successo anche l’operazione ai reni, commentando così le sue parole: «Non posso smentire Ippocrate, che dopo tutto ha dato prova della sua competenza nella téchnē medica in [tutti] i campi, ma non posso affermare di aver osato eseguire io stesso una tale operazione». Pur mostrandosi alcune volte critico nei riguardi delle dottrine tradizionali, Rufo cercò di evitare le infruttuose polemiche alimentate da molti suoi contemporanei e, a differenza di alcuni di loro, si astenne sempre dal vantare in modo esagerato i propri meriti.
Il suo contemporaneo e compatriota Sorano compì i suoi studi ad Alessandria ed esercitò la sua professione a Roma sotto gli imperatori Traiano e Adriano, mostrandosi più incline di lui al settarismo e schierandosi apertamente con i metodici (v. sopra). La sua non fu, tuttavia, un’adesione sterile o statica o servile ai principî di questa ‘scuola’, a cui Sorano apportò diverse modifiche in risposta alle obiezioni sollevate dalle versioni più antiche di questa dottrina. Soprattutto, egli non fu un seguace intransigente di una teoria, ma un professionista di notevole indipendenza, preoccupato innanzitutto dell’efficacia terapeutica delle cure e del benessere dei pazienti, e impegnato nella ricerca costante di una verità elusiva. I trattati attribuiti a Sorano nella Tarda Antichità sono molti, ma solamente due di essi ci sono giunti in misura più o meno completa: Sulle malattie delle donne, in quattro libri (l’unica opera di Sorano che ci sia giunta, quasi intatta, in greco), e un monumentale trattato in due parti Sulle malattie acute (tre libri) e Sulle malattie croniche (cinque libri), conosciuto in modo indiretto attraverso un successivo adattamento latino eseguito dal metodico nordafricano Celio Aureliano (vissuto probabilmente nel V sec.). Entrambe le opere rappresentano una fonte di preziose informazioni sulla medicina greca del periodo precedente, e in particolare dell’età ellenistica, a causa del metodo seguito da Sorano nell’affrontare le diverse questioni, per ciascuna delle quali fornisce prima di tutto una descrizione o una citazione delle opinioni dei suoi precursori, per passare poi alla valutazione dei pro e dei contro di ciascuna di esse e all’esposizione del proprio punto di vista. Sorano, tuttavia, non intende certo perseguire in questo modo uno scopo puramente storiografico o dossografico.
Nel trattato Sulle malattie delle donne sono esposti prima di tutto i requisiti di una buona levatrice, che doveva, per esempio, saper leggere e scrivere, essere sobria, discreta, non superstiziosa e dotata di una buona preparazione sia teorica – compresa la conoscenza dell’anatomia e della fisiologia, considerate superflue dal punto di vista clinico e puramente speculative dai metodici precedenti, oltre a quella dell’igiene femminile, inclusa naturalmente l’igiene durante la gravidanza, ecc. – sia pratica. Nel Libro II sono fornite invece le indicazioni necessarie ad affrontare gli aspetti pratici della professione, come la preparazione al parto, distinguendo tra parti normali e parti problematici o seguiti da complicazioni. Segue la trattazione delle questioni relative alla cura del neonato, all’igiene infantile e alle malattie dei bambini. I primi due libri dell’opera formano nell’insieme un prezioso manuale per le levatrici e affrontano i problemi legati ad alcuni avvenimenti ricorrenti, che Sorano considerava sostanzialmente «in accordo con la natura », nella misura in cui la gravidanza e il parto sono avvenimenti ‘naturali’, benché possano essere resi problematici dall’insorgere di varie complicazioni.
Nel terzo e quarto libro dell’opera Sulle malattie delle donne Sorano passa invece a occuparsi delle condizioni «contrarie alla natura», partendo dall’annosa questione se fosse necessario considerare queste ultime come malattie o piuttosto come condizioni peculiari del sesso femminile. La seconda parte del Libro III è dedicata alle «malattie femminili » che potevano essere curate con il ricorso a un particolare regime, mentre nel Libro IV (quello che ci è giunto nella maniera più incompleta) si affronta il trattamento farmacologico e chirurgico di queste malattie.
Nonostante le gravi lacune causate dalle vicende della trasmissione, questo trattato chiaro ed esauriente divenne, per servirci delle parole di una studiosa contemporanea, una sorta di bibbia della ginecologia e dell’ostetricia, rimasta in auge fino al Rinascimento. Sorano non fu l’unico medico antico a scrivere di argomenti ginecologici, affrontati tra gli altri da Galeno e a cui sono dedicati alcuni importanti libri del Corpus Hippocraticum. Egli, però, fu uno dei pochi che riuscì a liberarsi – anche se non del tutto – da un’invadente ideologia gerarchica che si riflette nelle numerose teorie mediche e biologiche antiche sull’inferiorità delle donne. L’at teg - giamento umano, pragmatico e – in confronto ad altri autori – piuttosto privo di pregiudizi, mantenuto da Sorano nei riguardi dei pazienti di sesso femminile, sia quando si trovavano nella loro condizione «naturale», sia quando questa condizione diveniva invece «contraria alla Natura», fa di questo autore una figura insolita, se non unica, nel panorama della tradizione ginecologica del mondo antico.
Sono molti i singoli medici e le ‘scuole’ di pensiero medico, attivi nell’Impero romano nel periodo antecedente alla nascita di Galeno, che hanno lasciato una traccia visibile del loro passaggio nella storia della medicina. Inoltre, in questo stesso periodo si verificarono importanti cambiamenti nella situazione interna delle varie scuole rivali formatesi nell’età ellenistica (le ‘scuole’ di Erasistrato, di Erofilo, degli ‘empirici’, di Asclepiade, ecc.), mentre la nascita di nuove scuole, come quella pneumatica, contribuiva ad accentuare ulteriormente il clima di competizione e i dissensi interni causavano la scissione di alcune scuole in varie fazioni rivali. Il fondatore della ‘scuola pneumatica’ è considerato in genere Archigene di Apamea, un contemporaneo di Sorano. Forse influenzati dalla fisica degli stoici, gli esponenti di questa scuola si servivano del concetto di pneūma per interpretare tutti i fenomeni e i disturbi fisiologici, patologici e psicologici (le loro uniche opere ancora esistenti sono due pregevoli trattati di Areteo di Cappadocia sulle malattie acute e croniche, e in particolare sulle loro cause, sintomi e terapia, ma poiché non è ancora stato possibile stabilire con certezza il periodo in cui visse Areteo, che alcuni studiosi continuano a considerare un contemporaneo di Galeno, si è scelto di non parlarne in questa sede per ragioni cronologiche).
In breve, l’eterogeneità e la competizione che contraddistinsero la medicina dell’età ellenistica caratterizzarono quella del primo periodo dell’Impero romano. Questa eterogeneità non riguardava soltanto le dottrine ma si estendeva anche alla pratica medica, come dimostra la grande quantità e varietà di professionisti operanti in entrambe le epoche, che si rivela con particolare evidenza attraverso lo studio delle fonti non letterarie: le lapidi sepolcrali dedicate a medici di entrambi i sessi e le iscrizioni pubbliche contenenti decreti onorifici, anche per medici pubblici, sono particolarmente numerose anche nel primo periodo dell’Impero. Un altro significativo contributo all’ampliamento delle nostre conoscenze è rappresentato dai papiri egiziani, che possono a volte contenere la prescrizione anonima di un farmaco, un contratto di apprendistato medico, la ricevuta di un pagamento relativo a una tassa medica, frammenti di argomento chirurgico, appunti di testi medici già noti e, in un celebre caso, quello del cosiddetto Anonymus Londiniensis, una preziosa raccolta di teorie mediche. Le scoperte archeologiche migliorano costantemen - te la nostra conoscenza degli strumenti chirurgici e della dieta dell’epoca; in particolare, attraverso l’esame paleopatologico degli scheletri è possibile raccogliere preziose informazioni sulle malattie, i metodi chirurgici e le fonti di alimentazione. Anche i prodotti artistici e gli ex voto raffiguranti membra o organi umani costituiscono una preziosa fonte di informazioni sulle malattie e, in alcuni casi, sul loro trattamento nel mondo antico. La presenza degli ex voto conferma inoltre l’importanza che la medicina templare e le divinità guaritrici mantenevano ancora nel I secolo.
Non esisteva nessuna regolamentazione mirante ad arginare la diversità delle pratiche e la competizione palese o occulta tra tradizioni e ‘scuole’ mediche rivali, anche se le autorità civili e imperiali si mostrarono a volte interessate, principalmente per motivi fiscali, a definire chi dovesse essere considerato un medico e chi no. Durante il tardo periodo repubblicano e nella prima età imperiale, infatti, i medici erano legalmente esentati dal pagamento delle tasse e dall’obbligo di alloggiare i soldati. Un’altra loro caratteristica in questo periodo era poi la diversità della loro appartenenza sociale: alcuni, soprattutto in Italia, erano schiavi o liberti, mentre altri provenivano da celebri clan familiari (soprattutto a Coo e in Asia Minore), collegati a volte da una rete di intermediari provinciali. In alcune città i medici facevano parte di un’associazione professionale ufficialmente riconosciuta, che si riuniva periodicamente in occasione di banchetti o cerimonie religiose o per svolgere incontri di tipo agonistico (come a Efeso), mentre in altri casi non c’è traccia di attività di questo genere. È probabile che esistessero anche significative differenze tra medici di città e medici di campagna; dalle fonti antiche si ricava, per esempio, che la maggior parte degli specialisti era concentrata nelle città, dove era possibile contare su una clientela sufficientemente numerosa. Molte delle differenze tra medici di città e medici di campagna riportate dalle fonti antiche (per es., la disonestà dei medici delle grandi città contrapposta alla correttezza di quelli dei piccoli centri) appaiono tuttavia ispirate da luoghi comuni e stereotipi. I papiri greco-egiziani della prima età imperiale ci rivelano invece un aspetto più concreto della vita dei medici di campagna: il fatto che essi coltivassero il proprio appezzamento di terra, proprio come tutti gli altri abitanti del villaggio.
I ritrovamenti archeologici hanno arricchito notevolmente le nostre conoscenze di un altro importante aspetto della grande varietà di pratiche mediche esistente nella prima età imperiale: la medicina militare. Già agli inizi del I sec. d.C., le fortezze dei legionari romani comprendevano speciali edifici (valetudinaria), destinati alla cura dei soldati malati o feriti, e gestiti da squadre di medici e di assistenti. A partire dalla metà del secolo, questi edifici assumono una forma specifica, frutto di un’accurata e intelligente progettazione. Uno di questi edifici, costruito intorno alla metà del I sec. d.C. nella fortezza della sedicesima legione a Novaesium (Neuss, Germania), serviva i 5600 cittadini-soldati che componevano la legione. L’edificio, di pietra, era dotato di numerosi cubicoli per i pazienti, posti ai lati di un lungo corridoio rettangolare, di un’ampia sala, che serviva probabilmente da ingresso e come sala operatoria, e di un dispensario. I progettisti dell’edificio, inoltre, non dimenticarono di collegarlo a una buona fonte di approvvigionamento idrico, un campo in cui i Romani – com’è noto – eccellevano. Le ricerche archeologiche hanno portato alla scoperta di altri ‘ospedali’ (il termine moderno deve essere utilizzato con cautela in questo contesto) simili a questo, per esempio a Xanten in Germania e a Inchuthil in Scozia; quasi tutti i valetudinaria conosciuti si trovano nella parte occidentale dell’Impero e lungo la frontiera del Danubio (ma in genere a una certa distanza dal confine e dai campi di battaglia) e sono di dimensioni molto diverse. Sono stati rinvenuti inoltre alcuni esempi di valetudinaria destinati agli schiavi, dove – almeno nel caso di famiglie con numerosi schiavi come quella dell’imperatore – medici schiavi si prendevano cura degli schiavi malati. Non è necessario ipotizzare a questo proposito l’intervento di ragioni umanitarie: gli schiavi erano una merce costosa e, inoltre, un alto tasso di natalità nella loro comunità costituiva una fonte sicura ed economica di nuova manodopera servile; mantenere gli schiavi in buona salute rispondeva quindi in pieno agli interessi economici dei loro proprietari. Tuttavia, la maggior parte dei pazienti, sia che fossero liberi cittadini, liberti o schiavi, era curata nell’ambulatorio o nella casa del medico, o nel santuario di una divinità guaritrice, come Asclepio. Come nell’età ellenistica, anche nel primo periodo dell’Impero romano, infatti, la medicina scientifica ‘alta’ continuò a convivere pacificamente con la medicina dispensata nei templi, con la magia e con la medicina ‘bassa’ praticata da innumerevoli guaritori anonimi locali, i quali utilizzavano rimedi ‘popolari’ nobilitati dalla tradizione, che spesso aiutavano efficacemente a guarire i loro pazienti.
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