Scienza greco-romana. La scuola di Aristotele
La scuola di Aristotele
La scuola di Aristotele, cosiddetta Liceo o Peripato, ha svolto un ruolo centrale nella storia della scienza; eppure, come istituzione, essa non è sopravvissuta a lungo alla morte del suo fondatore, avvenuta nel 322 a.C. La lista degli scolarchi del Liceo riportata dalle fonti biografiche antiche (la più importante delle quali è Diogene Laerzio, attivo intorno alla metà del III sec. a.C.) s’interrompe all’inizio del II sec. a.C. Quando Silla, dopo la conquista di Atene, ordinò il trasferimento a Roma della biblioteca aristotelica (in stato di abbandono da oltre un secolo), il destino del Liceo, almeno nella sua forma originaria, si era già definitivamente compiuto. Sebbene gli aristotelici siano stati attivi fin oltre l’inizio della nostra era, non abbiamo conoscenze sufficienti sulla loro attività, e all’inizio del I sec. a.C. Cicerone osservava che i peripatetici della sua epoca sembravano «essere nati da sé stessi e non conoscere le dottrine del loro fondatore».
La maggior parte delle testimonianze di cui disponiamo riguarda i due membri più importanti della Scuola di Aristotele nel suo periodo iniziale: Teofrasto di Ereso (371 ca.-287 ca.) e Stratone di Lampsaco (prima del 328-270 o 268). Teofrasto è l’unica guida del Liceo di questo periodo – anzi, l’unico dei primi peripatetici – le cui opere non siano andate interamente perdute. Ciò che sappiamo di Stratone, invece, ci è giunto attraverso fonti indirette e poco affidabili.
La storia della vita di Aristotele e del primo periodo della sua Scuola si possono riassumere in poche righe. In quanto originario di Stagira, imparentato con le famiglie al potere in Macedonia, e attivo ad Atene in un periodo in cui gli Ateniesi nutrivano una profonda diffidenza verso i potenti vicini del nord, Aristotele è dipinto dalla maggior parte delle fonti biografiche come un isolato. Sembra che egli abbia dovuto subire questa condizione dal tempo in cui era entrato a far parte dell’Accademia come discepolo di Platone, fino a quando, a un certo punto, si ribellò. «Come un puledro che scaccia la madre», scrive Diogene Laerzio, attingendo quasi certamente a una fonte più antica e più attendibile, Aristotele ruppe i rapporti con Platone quando questi era ancora in vita. Gli studiosi tendono in genere a personalizzare questa rottura: secondo alcuni, Aristotele rimase deluso dalla nomina di Speusippo (407-339), un cugino di Platone, a scolarca, dopo la morte del fondatore. È altrettanto probabile tuttavia che gli sviluppi delle sue indagini filosofiche, in particolare quelle nel campo delle scienze della Natura, dove egli abbandonò in pratica del tutto la teoria delle Idee, risultassero inconciliabili con l’adesione al platonismo. Può darsi che Aristotele, figlio di un medico, si sentisse particolarmente attratto dallo studio delle scienze naturali e pensasse che a queste ultime non fosse attribuita un’importanza adeguata nella filosofia di Platone. Non si deve credere tuttavia che Platone fosse l’unico bersaglio di queste critiche: in un celebre brano del Libro I del De partibus animalium, Aristotele attacca infatti (attribuendolo alla maggioranza dei filosofi) il pregiudizio nei riguardi dello studio dei fenomeni naturali, considerati meno nobili di altri oggetti di studio, e riferisce con approvazione l’episodio in cui Eraclito è sorpreso davanti alla stufa dalla visita di alcuni ospiti. «Non siate imbarazzati», avrebbe esclamato il filosofo, «ma venite avanti, perché anche qui ci sono gli dèi» (De partibus animalium, I, 5, 645 a). In ogni caso, qualunque fosse il motivo, Aristotele lasciò Atene e l’Accademia e trascorse gli anni tra il 348 e il 345 prima ad Assos nella Troade e quindi a Mitilene di Lesbo. Dopo un periodo passato alla corte macedone (dove potrebbe essere stato chiamato per fare da tutore al giovane Alessandro) e una breve visita alla sua città natale di Stagira, nel 335 fece ritorno ad Atene, dove trovò Senocrate insediato da poco alla guida dell’Accademia; decise allora, secondo quanto ci è narrato, di fondare una propria scuola.
Aristotele scelse di esercitare la sua attività, come aveva già fatto Platone, in una zona periferica di Atene dotata delle opportune caratteristiche. La sua scelta cadde su un bosco consacrato ad Apollo ‘Licio’, un luogo frequentato da giovani ginnasti e già noto come ritrovo abituale di sofisti e filosofi. L’area prescelta da Aristotele era stata già menzionata dal poeta comico Aristofane come luogo adatto alle passeggiate, e il nome con cui s’indicavano più comunemente i filosofi aristotelici, ‘peripatetici’, significa semplicemente ‘passeggiatori’. All’inizio il Liceo fu un’istituzione laica, priva di status legale e piuttosto informale; nonostante fosse associato ad Apollo, il Liceo non fu inizialmente un thíasos, cioè un’istituzione ufficialmente collegata al culto di Apollo. È probabile che Aristotele avesse preso in affitto il terreno e, forse, un edificio nei pressi del recinto sacro; ma quasi certamente questa situazione cambiò dopo la sua morte. Come meteco, o straniero residente, egli non aveva il diritto di possedere alcuna proprietà; questa limitazione non riguardava però, naturalmente, i membri ateniesi del Liceo. All’epoca della morte di Teofrasto, sappiamo con certezza che il Liceo era dotato di alcune proprietà, perché la loro destinazione è specificata nel testamento del filosofo, conservatoci da Diogene Laerzio. Il Liceo conobbe ben presto un notevole successo; un antico commentatore anonimo di Demostene lo cita tra i tre grandi gymnásia dell’Atene dell’inizio del IV sec. (gli altri due erano l’Accademia platonica e un’istituzione di tipo molto diverso, il Cinosarge, frequentato principalmente dagli stranieri). A detta di Diogene, Aristotele rimase alla guida del Liceo per tredici anni.
L’attività del Liceo si ripartiva tra lezioni pubbliche su argomenti di carattere filosofico (probabilmente a pagamento) e la discussione più dettagliata di problemi specifici, all’interno di gruppi molto più ristretti. Senza dubbio, nella serie di trattati nota come Organon, Aristotele ha esaminato, con grande autorevolezza, le questioni fondamentali relative al linguaggio e alla logica, e ha ricercato i modi in cui è possibile parlare delle cose in modo chiaro e senza ambiguità. La logica e l’epistemologia aristoteliche avevano però anche lo scopo di aiutare lo studioso della Natura a vagliare la massa di materiale fenomenico che la realtà mette a nostra disposizione, ed è a questo scopo che Aristotele dedicò in definitiva la maggior parte del suo tempo. Mentre Platone, nel Timeo, affronta lo studio della Natura partendo dal presupposto che il mondo fisico non sia altro che una copia imperfetta di un originale immateriale e perfetto, Aristotele insiste invece sulla necessità di iniziare lo studio della Natura dalla raccolta della più ampia varietà possibile di fenomeni naturali, relativi alla materia indagata, e di procedere poi, attraverso uno stadio intermedio comprendente la formulazione di ipotesi e di definizioni, fino al punto in cui diviene possibile verificarne la validità per mezzo degli strumenti della logica sillogistica. Il nome di Aristotele è strettamente associato dagli antichi all’invenzione di questo tipo di logica, il cui sviluppo divenne più tardi uno degli obiettivi centrali degli stoici, che si guadagnarono così un posto nella storia dell’aristotelismo in senso lato.
Quella che abbiamo esposto è naturalmente soltanto un’estrema semplificazione del metodo aristotelico, che tuttavia, anche a questo livello di generalizzazione, non tutti i moderni studiosi di Aristotele sarebbero disposti ad accettare. Mentre la maggior parte dei critici moderni ritiene infatti che alcuni trattati aristotelici, come la Historia animalium, possano essere ragionevolmente considerati esempi di un primo stadio di indagine, riguardante la raccolta delle differenze e il loro ordinamento preliminare, in vista dell’esame dettagliato delle cause, altri sostengono invece che l’intera scienza naturale aristotelica fosse concepita come banco di prova per le tecniche di dimostrazione logico-scientifica. In altre parole, trattati come Historia animalium non sarebbero in effetti altro che una sorta di libri di esercizi per gli studenti di logica sillogistica. Questa opinione non sembra però condivisibile, vista la successiva storia del metodo aristotelico.
I rapporti che intercorrevano tra la pratica e le teorie aristoteliche possono essere presi in esame tramite un’analisi delle opere dei due uomini che guidarono il Liceo dopo la morte del suo fondatore, ossia Teofrasto di Ereso e Stratone di Lampsaco, i quali condussero le loro ricerche nel campo delle scienze naturali secondo le ampie direttive metodologiche indicate dallo stesso Aristotele, con risultati molto interessanti non soltanto in sé, ma anche in vista del destino del Liceo come istituzione.
Teofrasto di Ereso (una piccola cittadina nel sud dell’isola di Lesbo) era considerato già nell’Antichità il più autorevole esponente del Liceo dopo la morte di Aristotele. I biografi antichi riferiscono che il suo vero nome era ‘Tìrtamos’ e che Aristotele lo ribattezzò ‘Teofrasto’ (che può significare tanto «che parla in modo divino» quanto «indicato dagli dèi») a causa dell’eleganza del suo stile letterario. Anche se è impossibile stabilire con certezza la veridicità di questo particolare, è certo che Teofrasto riuscì ad attrarre un pubblico numerosissimo alle sue conferenze – arricchendo materialmente la Scuola aristotelica – e al tempo stesso a proseguire le indagini del suo maestro nelle più diverse direzioni. Le sue due opere più importanti in campo botanico, De causis plantarum e Historia plantarum, costituiscono la più ampia trattazione antica di questa materia che ci sia pervenuta e, presumibilmente, anche la più estesa in assoluto tra quelle redatte nella Prima Antichità. Sotto il nome di Teofrasto ci sono giunte anche numerose opere brevi, che comprendono titoli come Sulla vertigine, Sulla stanchezza, Sul sudore, Sui venti, Sui segni del tempo, Sull’acqua, Sul pesce che vive sulla terraferma, Sul fuoco. Dei suoi lavori etici e politici rimane ben poco; tra questi, il più importante è l’opera nota come I caratteri, una serie di schizzi di stereotipi umani che ricordano molto da vicino i personaggi della commedia di Menandro (che alcune testimonianze antiche indicano come discepolo di Teofrasto).
Secondo Diogene Laerzio, Teofrasto iniziò lo studio della filosofia a Ereso ma si trasferì ben presto ad Atene, dove frequentò per un certo periodo le lezioni di Platone prima di divenire un fedele discepolo di Aristotele. È probabile che i due filosofi abbiano trascorso un periodo insieme ad Assos, nella Troade; come si è visto, infatti, Aristotele trascorse là gli anni 348-345, dopo la morte di Platone, e molti pensano che essi avessero sviluppato proprio in quei luoghi l’interesse per lo studio pratico e meticoloso dei fenomeni biologici e zoologici che li contraddistinse.
Il modo migliore per avvicinarsi all’opera scientifica di Teofrasto è la sua stessa guida all’argomento – l’excursus metodologico sullo studio della Natura noto come Metafisica: un’opera che affronta i problemi generali relativi ai vari tipi di conoscenza dell’Universo che è possibile raggiungere, e costituisce un primo e importante esempio di reazione alle ricerche epistemologiche sia dell’Accademia, sia del Liceo.
Nella maggior parte dei casi, la Metafisica di Teofrasto segue molto da vicino gli insegnamenti di Aristotele – anche se quest’ultimo non è mai nominato e se il linguaggio utilizzato per descrivere i concetti aristotelici non coincide sempre con quello del maestro – e quasi tutta l’opera appare percorsa da una polemica appena dissimulata contro Platone o, per l’esattezza, contro coloro che guidavano l’Accademia dopo la sua morte. Teofrasto inizia chiedendosi dove si debba tracciare la linea che divide lo studio dei principî primi da quello della Natura. In effetti, Platone aveva operato una distinzione molto netta, affermando che gli oggetti della percezione sensibile sono privi di realtà in senso forte, e che quest’ultima inerisce solamente alle forme perfette, le «idee», che possono essere adeguatamente avvicinate e comprese soltanto attraverso un attento uso della ragione. Platone e i suoi seguaci avevano individuato nella geometria un importante strumento per lo studio delle idee: in un celebre passaggio della Repubblica, Socrate dice a Glaucone che i guardiani dello Stato ideale dovrebbero studiare, tra le altre cose, l’astronomia (ma solamente sapendo poi mettere da parte le cose celesti, nel momento di prendere le loro deliberazioni), e nel Timeo (un dialogo a cui Teofrasto fa esplicito riferimento nella Metafisica), Platone afferma che il mondo fenomenico, essendo costituito da una materia disordinata e instabile, non può essere al centro dell’attenzione del filosofo (anche se la ricerca di una spiegazione dei fenomeni naturali può rappresentare per lui un piacevole passatempo).
Teofrasto chiarisce che anch’egli è d’accordo nel ritenere che le opere della Natura si possano considerare «più disordinate » degli oggetti studiati nelle discipline «più elevate», ma ritiene anche che esse siano più ricche, più gratificanti e più interessanti in sé stesse. Egli solleva poi alcune questioni piuttosto imbarazzanti per i sostenitori della tesi secondo cui vi sarebbe un abisso invalicabile tra il piano della perfezione e quello della Natura: l’Universo, infatti, non è costituito da una serie di ‘avvenimenti’ scollegati tra loro, ma piuttosto da un complesso di gerarchie, nel quale alcune cose stanno in alto e altre più in basso. Anche in questo caso, come gli capita spesso, Teofrasto sembra suggerire un’analogia, dalle solide radici aristoteliche, tra l’organizzazione politica del mondo umano e di quello animale e l’Universo nel suo complesso.
Se si accetta questa visione dell’Universo, prosegue il filosofo, a quali oggetti si dovrà riconoscere il rango più elevato? Forse a quelli matematici? Questa è l’opinione di alcuni platonici, dice Teofrasto, ma, per quanto lo riguarda, gli sembra difficile riuscire a connettere numeri e rapporti con gli oggetti concreti della nostra percezione sensibile. In particolare, egli non vede come questi possano costituire il substrato della vita e del movimento. In conclusione, egli ripercorre più o meno speditamente le orme di Aristotele; ma è l’Aristotele dei trattati biologici quello che sembra avere maggiormente presente. Teofrasto afferma che è necessario limitare la nostra ricerca di una spiegazione, se non vogliamo correre il rischio di distruggere ogni possibilità di spiegazione: prendiamo il caso, ci suggerisce, del ‘Motore Immobile’ di Aristotele, la presunta fonte di ogni movimento che si verifica nell’Universo. Secondo Aristotele, è questa entità che causa il moto circolare e quasi perfetto delle stelle; il moto circolare, caratteristico degli oggetti della sfera sopralunare, impartisce a sua volta un tipo diverso, e inferiore, di movimento agli oggetti fisici più vicini alla Terra, quelli del mondo sublunare, ma se tutto ciò che avviene nel mondo è prodotto in vista di uno scopo positivo, allora qual è – si chiede Teofrasto – il fine del moto circolare delle stelle? Si potrebbe ragionevolmente supporre che l’impulso teleologico verso la perfezione debba comportare – come pensava certamente Platone – l’emulazione di un modello, ma se ciò che è supremamente buono determina ciò che è un bene per le altre cose, allora ci si dovrebbe aspettare che i corpi celesti rimangano immobili come il Motore Immobile – a meno di supporre l’esistenza di qualcosa che impedisca loro di essere migliori di quello che possono essere. Teofrasto tuttavia, significativamente, non affronta affatto tale questione, limitandosi ad affermare che essa costituisce, per così dire, un lusso che non ci possiamo permettere. Chi ricerca un ordine in tutte le cose, afferma, dimostra di essere privo di discernimento.
Lo stesso tema è sviluppato in un contesto leggermente diverso alla fine dell’opera, quando Teofrasto passa a difendere la teleologia dalle affermazioni dei suoi sostenitori più intransigenti, secondo i quali tutto ciò che non mostra segni di un’attività diretta a uno scopo, non merita di essere studiato. Seguendo da vicino l’interpretazione di Aristotele, egli afferma che i casi per i quali è più difficile trovare una spiegazione teleologica – lo scopo delle mammelle nell’uomo, quello delle onde del mare o delle maree, la presenza di corna in alcuni animali, come i cervi, per i quali sono soltanto d’impaccio, la crescita della barba negli uomini e così via – non invalidano la sostanza del programma di investigazione teleologica della Natura, ma dimostrano semplicemente che, laddove la materia predomina sulla forma, si producono inevitabilmente risultati imprevedibili (Aristotele aveva già affrontato in parte questi problemi nell’ultimo libro del De generatione animalium). I campi d’indagine della Natura in cui la materia predomina sulla forma, che Teofrasto sembra prediligere, sono molti, e in effetti non è facile rintracciare una causa finale per ogni cosa; tuttavia Teofrasto appare interessato appunto a «ogni cosa» e il suo modello di scienza naturale, lungi dal rinchiudersi in un rigido involucro epistemologico, manifesta un senso di meraviglia e un entusiasmo tipicamente aristotelici per la varietà che ci circonda.
Egli si mostra spesso cauto e alieno da ogni dogmatismo (una caratteristica che ha attirato l’interesse degli studiosi negli ultimi tempi): all’inizio della sua breve opera Sulle pietre, per esempio, offre diverse possibili spiegazioni della generazione delle sostanze minerali nel terreno, senza mostrarsi esplicitamente favorevole a nessuna in particolare. Inoltre, nel testo non vi è traccia di un serio tentativo di tassonomia – una caratteristica che può disorientare chi sia stato educato secondo i canoni della botanica e della mineralogia moderne. Il principale interesse dell’autore sembra essere quello di redigere un elenco di sostanze rare e utili presenti nel sottosuolo, senza tentare di collocarle in una qualsiasi cornice tassonomica o teoretica. Quella che ci appare come cautela, quindi, ossia la ricerca di spiegazioni diverse dell’origine di una certa sostanza, oppure l’abitudine di far precedere le proprie osservazioni dalla parola ‘forse’, potrebbe essere in realtà una conseguenza della convinzione, epistemologicamente fondata, che non sia possibile raggiungere la certezza in tutti i casi. Quest’opinione è condivisa anche, paradossalmente, da Platone nel Timeo; Teofrasto però se ne distacca per l’importanza che attribuisce allo studio di quei fenomeni nei quali appare abbastanza improbabile riuscire a trovare un ordine.
Il trattato Sul fuoco costituisce un caso analogo. Considerando la varietà delle forme in cui il fuoco si manifesta, Teofrasto si chiede se sia corretto definirlo un elemento. Aristotele, come molti dei suoi predecessori, pensava che si potesse attribuire al fuoco la qualifica di elemento, ma Teofrasto osserva che una cosa che ha bisogno di un sostrato materiale per esistere, e che in apparenza può essere prodotta, non può essere chiamata un elemento, allo stesso modo della terra, dell’aria e dell’acqua. Di tutte le sostanze semplici, il fuoco è quella che possiede le caratteristiche più singolari, afferma Teofrasto in apertura del suo libro, e il resto dell’opera è dedicato alla raccolta di esempi interessanti, utili e talvolta curiosi, di fenomeni relativi al fuoco, secondo un principio antitassonomico sostanzialmente simile a quello seguito nell’opera Sulle pietre. Le frasi iniziali del Sul fuoco meritano di essere citate, per l’attenzione rivolta anche ai particolari più scomodi:
Fra tutte le sostanze semplici, il fuoco è quella che possiede le caratteristiche più singolari. Infatti, l’aria, l’acqua e la terra possono soltanto tramutarsi l’una nell’altra e nessuna di esse è in grado di generare sé stessa, mentre il fuoco è per sua natura capace di generarsi e di distruggersi. Il più piccolo genera il più grande e il più grande distrugge il più piccolo. Inoltre, nella maggior parte dei casi, il fuoco è generato in maniera violenta; dall’urto di oggetti duri, come le pietre, dallo sfregamento e dalla compressione, come nel caso degli appositi bastoncini, e da tutte le cose che possiedono un movimento, come quelle che sono incendiate e fuse. (Le nuvole sono formate e compresse a partire dalla stessa aria. I loro movimenti producono i fulmini e le saette). [...] Il fuoco può essere generato inoltre negli altri modi da noi osservati, sia al di sopra della terra, sia su di essa, sia sotto di essa. Nella maggior parte dei casi ciò sembra avvenire in maniera violenta. (De igne, I)
Teofrasto evita di trarre conclusioni definitive sulla natura elementare del fuoco e non si mostra esplicitamente in disaccordo con l’opinione di Aristotele, preferendo occuparsi della raccolta di tutti i fenomeni che lo riguardano. Lo stesso accade nel brevissimo trattato Sugli odori, nel quale egli non si occupa di ricercare le basi fisiologiche dell’odorato e del gusto, o di stabilire una tassonomia degli odori, ma elenca i tipi di sostanze in grado di produrre odori utili o nocivi per l’uomo.
Anche se certi explananda sono trattati prescindendo dal problema delle cause finali, non per questo Teofrasto rinuncia a occuparsene. Egli sembra convinto, forse ancor più dello stesso Aristotele, che si debbano giudicare alcuni fenomeni meritevoli di studio in base alla loro utilità o al loro interesse per l’uomo. Nella Fisica (II, 2), Aristotele aveva distinto due tipi di causa finale: nel primo, lo scopo dell’esistenza di una cosa è situato all’esterno dell’organismo che svolge l’attività diretta a un fine, mentre nell’altro l’organismo stesso è soggetto a un impulso che lo spinge ad avvicinarsi per quanto possibile all’ideale della sua specie. Il fine del primo tipo, definito a volte ‘antropocentrico’, è utilizzato sia da Aristotele sia da Teofrasto per spiegare la causa dei fenomeni che non sembrano avere in sé alcuno scopo, ma che sono ugualmente utili all’uomo; e l’esempio più noto, nel caso di Aristotele, è quello della pioggia. Teofrasto sembra aver sviluppato questo metodo interpretativo teleologico per giustificare la sua scelta di occuparsi di un gran numero di fenomeni appartenenti a quelli che tradizionalmente erano considerati i livelli inferiori della gerarchia della Natura; e c’è perfino un caso in cui sembra supporre l’esistenza di una forza teleologica di qualche tipo responsabile della trasformazione di qualcosa in un oggetto di interesse o di curiosità per gli uomini.
Per quanto riguarda le opere di botanica, i loro stessi titoli ci invitano ad accostare il De causis plantarum e la Historia plantarum al De partibus animalium e alla Historia animalium di Aristotele. Volendo semplificare, la Historia animalium è una raccolta di dati relativi a un’ampia gamma di creature, organizzati sommariamente secondo categorie stabilite in anticipo sulla base delle differenze rilevabili tra le loro parti; il De partibus animalium è invece un’indagine sulle cause che fanno sì che gli animali siano così come sono. L’apertura della Historia plantarum di Teofrasto ha un taglio molto aristotelico: il primo passo nello studio delle piante è la raccolta delle ‘differenze’ (diaphoraí ), come preludio all’esame delle loro cause. Molti traduttori moderni rendono la parola greca diaphoraí con qualche locuzione contenente il termine ‘classificazione’, come se la raccolta delle differenze implicasse necessariamente un processo teorico di differenziazione. Se per classificazione si intende il genere di tassonomia botanica alla quale la scienza moderna ci ha abituati, non è però affatto certo che questo fosse ciò che Teofrasto aveva in mente quando scrisse le sue opere di botanica. In ogni caso, in esse non troviamo una dettagliata classificazione delle piante, ma piuttosto un elenco di casi che richiedono un’analisi più approfondita:
Considerando i caratteri distintivi delle piante e in generale la loro natura, occorre tenere conto delle loro parti, delle loro qualità, dei modi in cui si genera la loro vita e del corso che essa segue (in esse non sono rilevabili una certa condotta o certe attività che sono invece caratteristiche degli animali). Ora, mentre le differenze nei modi in cui si generano, nelle loro qualità e nel modo in cui si sviluppa la loro esistenza sono facilmente osservabili e piuttosto semplici, l’osservazione delle differenze tra le loro ‘parti’ presenta maggiori difficoltà. In effetti, non si è ancora riusciti a determinare in modo soddisfacente cosa si debba intendere con la parola ‘parti’ e non è facile distinguerle. (Historia plantarum, I, 1, 1)
Il tono aporetico e problematico di questo passaggio introduttivo è tipico della particolare tempra scientifica di Teofrasto, che abbiamo già avuto modo di conoscere. Dopo le ammonizioni a non spingere troppo oltre la richiesta di spiegazioni, contenute nella Metafisica, siamo in un certo modo preparati al passaggio successivo, in cui si afferma che non dobbiamo attenderci che le piante manifestino lo stesso tipo di ordine degli animali:
E in generale, come abbiamo detto, non dobbiamo dare per scontato che vi sia una completa corrispondenza tra le piante e gli animali in tutti i loro aspetti. Questo perché anche il numero delle loro parti non è esattamente determinato: una pianta infatti è dotata del potere di crescere in tutte le sue parti ed è viva in tutte le sue parti. Dobbiamo quindi ritenere che le cose siano così come ho detto, non soltanto per ciò che riguarda gli argomenti che stiamo esaminando ora, ma anche in vista di quelli che esamineremo in seguito; infatti è inutile perdere tempo cercando di stabilire dei parallelismi dove questo è impossibile, rischiando per di più di perdere di vista l’oggetto principale delle nostre ricerche. L’indagine scientifica delle piante, per dirla in termini generali, deve tenere conto sia delle parti esterne e della forma delle piante, sia delle loro parti interne; quest’ultimo metodo corrisponde alla dissezione nello studio degli animali. Inoltre dobbiamo considerare quali parti appartengano in modo simile a tutte le piante, quali siano peculiari di un certo genere e inoltre, tra le parti che appartengono a tutte, quali siano simili in tutti i casi; per esempio, foglie, radici, corteccia. Ancora, se in certi casi è possibile stabilire un’analogia (per es., con gli animali), si deve tenere conto anche di quella; in questo caso, naturalmente, bisogna utilizzare come parametro le somiglianze più accentuate e gli esempi perfettamente sviluppati; e infine, i modi in cui le parti delle piante sono affette devono essere messi a confronto con le corrispondenti affezioni degli animali, nella misura in cui sia possibile stabilire in ogni singolo caso un’analogia mediante la comparazione. (ibidem, 4)
Nei primi cinque capitoli del Libro I della Historia plantarum si discute il problema concernente quali differenze siano degne di attenzione e quali fenomeni botanici meritino di divenire oggetto di un’ulteriore indagine. Teofrasto ordina tutti i vegetali in quattro vasti gruppi che chiama alberi, arbusti, sottoarbusti e piante erbacee. L’albero, dice, cresce dalle sue radici con un singolo tronco che ha rami e nodi e non può essere sradicato facilmente. L’arbusto cresce dalla sua radice con molti rami, mentre il sottoarbusto cresce dalla sua radice con molti tronchi e rami. La pianta erbacea è quella le cui foglie crescono direttamente dalle radici, senza nessun tronco. Come di consueto, subito dopo Teofrasto afferma che bisogna fare riferimento a queste categorie solamente se considerate in termini generali. Ci sono alcune eccezioni e sconfinamenti da questi tipi fondamentali e, in questa materia, non può essere trovato un ordine esatto. Sono poi esaminate varie differenze che possono essere utili per organizzare concettualmente l’enorme quantità di dati riguardanti la botanica, ma continuamente si riaffermano le stesse conclusioni; fattori indeterminati nella crescita e nella gestione delle piante dovuti ad agenti esterni come il clima e l’ambiente, o all’uomo, come la coltivazione, rendono possibile organizzare il soggetto solamente in termini generali.
La parte restante del Libro I è dedicata alla presentazione di esempi tipici delle quattro classi fondamentali già menzionate, delle loro parti e dei cambiamenti causati dall’ambiente. Il Libro II esamina invece la propagazione delle piante, un tema particolarmente difficile se si parte dall’idea che le analogie tra le piante e gli animali possano essere utili per spiegare il modo di riproduzione delle piante. Teofrasto è perfettamente consapevole del fatto che, in questo caso, l’analogia non può essere di grande aiuto, e la sua analisi dell’idea che le piante possano riprodursi ‘spontaneamente’ – sostenuta in vari modi dai suoi predecessori – è considerata un esempio di come, attraverso la sua insistenza sulla necessità di procedere a osservazioni meticolose anche dei fenomeni meno comprensibili, egli fosse giunto a criticare alcune posizioni teoriche dei suoi predecessori. In effetti, Teofrasto parte dall’assunto tradizionale che la generazione spontanea sia possibile, tanto in alcuni animali quanto nelle piante. Subito dopo aver confermato la teoria tradizionale, però, egli passa a sottolinearne le debolezze: in molti casi, ciò che pensiamo essere il risultato di una generazione spontanea potrebbe essersi riprodotto in modo più convenzionale da semi trasportati dal vento o dall’acqua, oppure i semi potrebbero esserci, ma sfuggire per qualche motivo all’osservazione (De causis plantarum, I, 5). Pur senza contraddire esplicitamente nessuna autorità precedente, Teofrasto si sforza quindi di dimostrare la necessità di uno studio attento e concreto di questo tipo di fenomeni.
Si può considerare ancora più significativo il caso dell’analisi delle proprietà mediche e magiche delle piante, contenuta nel Libro IX della Historia plantarum, in cui Teofrasto sceglie di includere anche materiali piuttosto anomali, verso i quali si mostra estremamente sospettoso, ma che non ritiene opportuno ignorare, dal momento che ne è a conoscenza. Egli sottolinea frequentemente, in effetti, di raccogliere informazioni allo scopo di formulare delle ipotesi, o di servirsi del metodo ipotetico per acquisire informazioni, ed è perlopiù soddisfatto di fermarsi a questo (Historia plantarum, II, 6, 11; IV, 13, 2; De causis plantarum, I, 2, 2).
In breve, l’approccio generale di Teofrasto alla raccolta delle differenze, le diaphoraí – anche quando gli appaiono inverosimili, anche quando pensa che saranno fonte di problemi – rappresenta in un certo senso il tratto distintivo del suo metodo e può essere considerato un’estensione perfettamente logica del modo di procedere tipico di Aristotele. A giudicare dalle sue opere, Teofrasto non fu mai condotto dalle sue ricerche a una posizione di sostanziale disaccordo con il metodo scientifico aristotelico. Questo caratteristico metodo di indagine fu adottato ancora a lungo dopo la sua morte, anche se privo della sua prudenza e del suo impegno interpretativo, nella tradizione antica dei Mirabilia, raccolte di informazioni esotiche e sorprendenti. Insieme alla tradizione dossografica, di cui ci si occuperà più avanti, l’interesse scientifico degli antichi per i Mirabilia è spesso fatto risalire, infatti, a Teofrasto.
Dopo la morte di Teofrasto, la guida del Liceo fu assunta da Stratone, che occupò questo incarico per circa diciotto anni, dal 286 al 268. Nessuna delle sue opere ci è giunta per tradizione diretta e la nostra conoscenza del suo pensiero, come di quello di tutti i suoi successori alla guida del Liceo, dipende completamente dalla tradizione indiretta, cioè dalle citazioni pervenuteci attraverso l’opera di altri autori. L’attendibilità di queste testimonianze, però, in alcuni casi è incerta.
Gli antichi attribuivano a Stratone un particolare interesse per la fisica (spesso il suo nome è accompagnato dall’epiteto Physikós) e si ritiene che Erone di Alessandria abbia attinto da lui gran parte del materiale teorico contenuto nel l’introduzione dei suoi Pneumatica. In nessuna delle opere sopravvissute di Erone è però mai fatto il nome di Stratone, e le prove che dimostrerebbero il suo debito nei confronti di quest’ultimo, sebbene ampiamente accettate, sono tutt’al più di carattere circostanziale. La prova di maggior peso è rappresentata forse dal fatto che una citazione attribuita a Stratone da Simplicio (un commentatore del VI sec. d.C.) si ritrova anche, senza alcuna attribuzione, nei Pneumatica di Erone. Secondo Cicerone il lungo declino della Scuola peripatetica ebbe inizio proprio con Stratone, che avrebbe coltivato un esclusivo interesse per la fisica a scapito della ricerca in altri campi (in particolare l’etica e la logica), che Teofrasto e Aristotele avevano considerato invece altrettanto importanti. Alcuni testimoni antichi riferiscono che egli fu maestro di Tolomeo II Filadelfo e che perciò ricevette una generosa ricompensa; se questo particolare fosse vero, si concilierebbe bene con altri indizi che suggeriscono una preminenza degli uomini e dei metodi della Scuola peripatetica durante il primo periodo del Museo di Alessandria.
L’elenco delle opere di Stratone, tramandatoci da Diogene, sebbene considerevolmente più breve di quelli associati ai nomi di Aristotele e di Teofrasto, non avvalora l’accusa di ristrettezza di interessi, o di eccessiva specializzazione, che gli è stata rivolta. Le sue opere comprendono infatti trattati di etica, teoria politica e costituzionale, zoologia, analisi della percezione e logica, oltre a un libro Sul vuoto, in cui presumibilmente venivano esposte le idee per le quali è ancora oggi maggiormente conosciuto.
Diogene probabilmente non conosceva a fondo le opere scientifiche di Stratone, o forse queste non lo interessavano. In genere, infatti, egli non esita a scendere nei dettagli del pensiero dei filosofi di cui racconta la vita, mentre non dice quasi nulla di Stratone, limitandosi a riportare un documento che dichiara essere il suo testamento e a riferirci che quando morì era talmente emaciato da non provare nessun dolore. Oggi la figura di Stratone è considerata importante principalmente a causa della sua critica dei concetti aristotelici di spazio, vuoto e luogo, che consente di chiarire quale fosse la natura dell’affiliazione peripatetica di Stratone, oltre a gettare luce su quei punti della fisica aristotelica verso i quali tale critica è diretta.
Aristotele era convinto che nel Cosmo il vuoto potesse esistere soltanto nel senso di uno spazio tridimensionale che doveva comunque essere occupato nella realtà da qualche corpo. L’opinione di Platone era pressappoco la stessa e per tutta l’Antichità possiamo rilevare l’esistenza di una divisione più o meno netta tra coloro che pensavano che la materia fosse continua e quanti credevano invece che, in mancanza di uno spazio assolutamente vuoto, cioè privo di materia, il moto e i cambiamenti non avrebbero potuto verificarsi. Quest’ultima era, come è noto, la posizione degli atomisti, inclusi Democrito ed Epicuro. L’importante contributo di Stratone a questo dibattito è rappresentato dall’idea che nel Cosmo potesse in effetti esistere il vuoto, inteso però come spazio tra le particelle di materia non perfettamente combacianti. Sembra che egli chiamasse questo il ‘piccolo vuoto’, e che ammettesse la possibilità di un vuoto di grandi dimensioni soltanto come conseguenza dell’azione di una forza innaturale. Secondo questa teoria, il ‘vuoto inerte’ degli atomisti diviene un ‘vacuo’; e lo stesso Stratone, o qualcuno dei suoi seguaci, sembra aver elaborato l’idea che «la Natura aborre il vuoto».
L’importanza di tale principio nella spiegazione di moltissimi fenomeni fisici venne ben presto riconosciuta in campo scientifico, e verosimilmente anche la teoria fisiologica del medico Erasistrato di Ceo si basava su elementi della fisica di Stratone. Erasistrato (anche lui, secondo le testimonianze antiche, un discepolo di Teofrasto) si serviva di un principio che chiamava «del movimento verso lo spazio evacuato» per spiegare numerose conseguenze del moto dei fluidi all’interno del corpo. Per esempio, sembra che egli spiegasse la respirazione per mezzo della tendenza naturale dei polmoni ad aspirare l’aria al loro interno, attraverso la trachea, quando si dilatano come un mantice. Poiché Erasistrato trascorse probabilmente gran parte della sua esistenza ad Alessandria, questo esempio, per quanto scarsamente documentato, solleva interessanti interrogativi sui rapporti che intercorrevano tra il Liceo di Atene e il Museo di Alessandria tra la fine del IV e l’inizio del III secolo.
Se l’attribuzione dei principî fisici contenuti nei Pneumatica di Erone a Stratone è corretta, allora quest’opera rappresenta un esempio di vasta applicazione pratica delle sue ricerche per la progettazione e la costruzione di giocattoli e di macchine mossi dalla forza dell’aria e dell’acqua. Ma per ciò che riguarda la definizione di Stratone come filosofo peripatetico, il problema è un po’ più complesso. Non c’è dubbio che l’accettazione della possibilità del vuoto nell’Universo non è sufficiente a fare di lui un teorico atomista, e ad allontanarlo definitivamente dal campo dei sostenitori aristotelici della teoria del continuum. Essa suggerisce tuttavia la presenza di quell’indipendenza intellettuale – impegnata in primo luogo nella raccolta e nella spiegazione dei fenomeni fisici – che abbiamo già incontrato in Teofrasto. Ciò non vuol dire, naturalmente, che l’opera di Stratone sia del tutto trasparente dal punto di vista teorico, ma, più semplicemente, che essa, sulla base delle scarse testimonianze disponibili, risulta aperta a tutte le conclusioni e non condizionata da una qualche ortodossia peripatetica.
Conclusasi l’epoca di Teofrasto e di Stratone, i membri più importanti della Scuola iniziarono a coltivare interessi sempre più specialistici e assunsero un atteggiamento sempre più indipendente. Figure come Eraclide Pontico (IV sec. a.C.), per esempio, pur venendo generalmente incluse nelle edizioni moderne dei frammenti dei primi peripatetici, sono difficilmente classificabili come aristotelici puri, a causa principalmente dei loro durevoli rapporti con l’Accademia (Eraclide, infatti, è citato nell’antico Academicorum index). Il desiderio di conquistare l’ambita carica di ‘scolarca’ può aver favorito la manifestazione di una certa lealtà nei riguardi del fondatore; ma non bisogna dimenticare che tanto gli studenti quanto gli insegnanti non si consideravano, in genere, legati a una scuola in particolare e che, soprattutto, gli allievi si spostavano piuttosto frequentemente da una scuola all’altra, cercando di trarre il meglio da ciascuna – come mostra, per esempio, l’esperienza del giovane Cicerone studente ad Atene. Il problema di decidere chi includere nell’elenco dei peripatetici posteriori è ulteriormente complicato dal fatto che il Liceo non fu mai un’istituzione destinata a diffondere le dottrine di Aristotele: i suoi membri andavano e venivano e, soprattutto nei primi anni, l’interscambio con l’Accademia fu particolarmente intenso.
È necessario considerare che col tempo cambiò profondamente il concetto stesso di scuola filosofica e di ciò che rendeva i suoi membri degni di questo nome. Quando personaggi come Cicerone e Simplicio criticavano i ‘peripatetici’ della loro epoca, accusandoli di ignorare le dottrine del fondatore della loro scuola, davano per scontata l’esistenza di un atteggiamento di lealtà settaria probabilmente del tutto estraneo ai primi peripatetici e verosimilmente alimentato, un po’ artificialmente, dalla restaurazione delle scuole filosofiche avvenuta verso la fine del II sec. d.C. Alessandro di Afrodisia, per esempio, nominato interprete ufficiale della filosofia aristotelica intorno al 200 d.C., redasse numerosi commentari – destinati a esercitare una grande influenza – in cui tentava di spiegare il pensiero di Aristotele servendosi della sua stessa terminologia, senza far ricorso a tecniche e risorse filosofiche più moderne o di altro tipo, allo scopo di criticarlo e di perfezionarlo. E non è certo un caso che i più importanti commentatori antichi della scienza naturale aristotelica, Giovanni Filopono e Simplicio, fossero entrambi non aristotelici.
La maggior parte delle scuole filosofiche iniziò ad assumere il carattere di associazioni dedite al proselitismo e alla difesa di posizioni consolidate già dal I sec. a.C. Mentre un osservatore sostanzialmente ben disposto, come l’accademico Cicerone, non scorgeva grandi differenze tra esse, nel II sec. d.C. il poeta satirico Luciano poteva rappresentare un peripatetico e un accademico che si attaccano a vicenda, ciascuno difendendo i meriti del proprio sistema filosofico (Piscator, 43, 4). La frequenza con cui Luciano indirizza la sua satira contro gli esponenti delle varie scuole filosofiche sembra indicare che questi fossero divenuti un bersaglio abituale per la maggioranza del pubblico colto.
L’elenco dei primi pensatori considerati a pieno titolo aristotelici, dunque, è necessariamente breve. Dicearco di Messina (fine del IV sec. a.C.), per esempio, contemporaneo di Teofrasto e allievo di Aristotele, scrisse su vari argomenti, soprattutto etici e politici piuttosto che scientifici. Di lui sappiamo soprattutto che era in disaccordo sia con Aristotele sia con Teofrasto riguardo alla natura dell’anima, della quale negava l’esistenza al di fuori della natura fisica dell’animale stesso. È una divergenza di non poco conto, che allontana Dicearco dalla dottrina peripatetica e lo pone in compagnia degli atomisti e di Epicuro; per altri aspetti significativi, come, per esempio, l’assunzione del concetto della sfericità della Terra, egli assume invece una posizione più convenzionale.
Demetrio Falereo (nato intorno al 350 a.C.), un allievo di Teofrasto, si trasferì ad Alessandria e introdusse i metodi di ricerca peripatetici nella Biblioteca. Diogene Laerzio, come si è detto, riferisce che Stratone fu il maestro di Tolomeo II Filadelfo e quale che sia l’attendibilità di questa notizia, sembra molto probabile che i peripatetici del III sec. siano stati attivamente impegnati nella fondazione del Museo e della Biblioteca di Alessandria. Clearco di Soli, un altro allievo di Teofrasto, svolse ricerche in campo etnografico, oltre a scrivere un encomio di Platone e una serie di commenti sui problemi matematici connessi a certi passaggi della Repubblica. Notizie come questa indicano che i rapporti tra peripatetici e membri dell’Accademia erano complessi, ma tutt’altro che ostili. Nel De finibus, Cicerone spesso non sembra fare molta differenza tra i due gruppi; ma se gli interessi scientifici sembrano essere stati una prerogativa del primo Peripato – Clearco avrebbe composto un’opera Sulle ossa, contenente un commentario anatomico dello scheletro e dei muscoli dell’uomo – le cose non rimasero così a lungo. Nel I sec. a.C., le scienze della Natura erano divenute infatti un punto di forza degli stoici, e in particolare di figure come Posidonio (135 ca.-metà I sec.).
Il più celebre studioso antico della teoria armonica, Aristosseno di Taranto (attivo nel IV sec. a.C.), seguì per un certo tempo i corsi dell’Accademia platonica, prima di aderire al Liceo (il lessico Suda ci informa che fu anche allievo di un certo Senofilo, un pitagorico); ma i rapporti tra Aristosseno e il Liceo si sarebbero interrotti con la nomina di Teofrasto alla sua guida. Le testimonianze antiche confermano il carattere piuttosto combattivo di Aristosseno, che, nella sua opera sull’armonia, non esita a definirsi ripetutamente il primo ad aver affrontato correttamente lo studio della teoria musicale. ‘Correttamente’ significa, in questo caso, in modo diverso dai pitagorici, fino a quel momento i più quotati studiosi dell’argomento, i quali, attraverso lo studio di particolari intervalli musicali, avevano tentato di dimostrare l’importanza dei numeri nella costituzione del mondo (il Socrate della Repubblica di Platone, che non giudica necessario sapersi servire di corde e cavicchi per affrontare lo studio dell’armonia, sembra ispirarsi allo stesso tipo di tradizione). Aristosseno sostiene, al contrario, che lo studio di questa materia deve fondarsi sulla raccolta scrupolosa di tutti i fenomeni e sulla loro successiva disamina alla luce dei canoni della logica scientifica aristotelica. La complessità delle sue pretese intellettuali è dimostrata dal fatto che egli fu anche autore di una biografia di un pitagorico, il suo compatriota Archita, che, a giudicare dai frammenti superstiti, non sembra essere stata improntata a uno spirito del tutto polemico.
L’importanza del Liceo, tuttavia, non si esaurì nella diffusione di un metodo o in un elenco di nomi di filosofi. Esistono testimonianze, dirette e circostanziate, che legano il primo Peripato alla tradizione dossografica antica – ovvero all’uso di raccogliere le dottrine più significative dei principali studiosi nel campo delle scienze naturali e matematiche. Aristotele stesso aveva i suoi motivi per interessarsi alle opinioni dei primi autori e, nell’affrontare qualsiasi problema, includeva, quando era possibile, il punto di vista dei pensatori precedenti (molte fra le sue opere più importanti – per esempio Metafisica, De generatione et corruptione, De anima – cominciano con un sommario dettagliato delle dottrine dei suoi predecessori). Gli antichi biografi riferiscono infatti che Aristotele compose monografie su alcuni di questi suoi predecessori, come Democrito, non tanto allo scopo di delineare una storia delle loro teorie quanto per raccogliere tutte le informazioni necessarie per impostare un nuovo approccio a vecchi problemi.
Anche Teofrasto condivideva la convinzione aristotelica dell’importanza di questo tipo di informazioni all’inizio della ricerca, e nel suo breve trattato sulla fisiologia e sulla percezione, il De sensu, presenta le spiegazioni prearistoteliche dei fenomeni della vista, del gusto, dell’udito e così via, come preludio alle sue investigazioni. Così, l’interesse nel riunire gli éndoxa – come Aristotele chiamava le opinioni dei primi sapienti – accanto all’osservazione dei fenomeni sensibili, diventò rapidamente una caratteristica della ricerca peripatetica e molti aristotelici si dedicarono alla stesura di brevi riepiloghi della storia dei soggetti che trattavano.
Eudemo di Rodi (fine IV sec. a.C.), per esempio, malgrado il suo disappunto per non essere stato chiamato a succedere ad Aristotele alla guida del Liceo, rimase un così fedele seguace delle dottrine del fondatore da essere accusato di aver prodotto poco più di una rigida semplificazione del pensiero di Aristotele. In assenza di prove decisive – delle sue opere restano solamente alcune citazioni riportate da altri autori – è difficile valutare la fondatezza di quest’accusa (nel suo commentario alla Fisica di Aristotele, Simplicio associa in particolare il nome di Eudemo alla difesa intransigente degli argomenti impiegati dallo stesso Aristotele contro gli eleati). Oggi, in ogni caso, Eudemo è noto soprattutto come autore di una storia della matematica, che si ritiene sia stata in parte inserita da Proclo nei suoi In primum Euclidis elementorum librum commentarii. Classificando le diverse scienze, lo Stagirita aveva distinto la fisica – lo studio dei corpi e dei loro moti – dalla matematica, che comporta l’indagine astratta dei numeri e delle forme; nel Libro I della Metafisica aveva delineato una breve storia della fisica, in cui erano riportate nei loro tratti essenziali le dottrine dei suoi predecessori, prima di confutarle. L’opera di Eudemo sulla matematica, se è lecito giudicarla sulla base di quanto si è conservato in Proclo, aveva invece un tono molto più di - scorsivo e consisteva sostanzialmente in un elenco di nomi di studiosi, seguiti da brevissimi riassunti delle loro dottrine.
Su un misterioso personaggio di nome Menone abbiamo notizie ancora più scarse. Galeno, nei suoi In Hippocratis de natura hominis commentarii (K XV 25), ci dice le uniche cose che sappiamo di lui: «se desideri indagare le dottrine degli antichi medici, allora leggi il trattato sulla medicina, scritto in accordo con Aristotele e con la sua approvazione, da Menone, uno dei suoi discepoli». Si è ritenuto che l’opera di Menone fosse andata perduta, fino a quando, alla fine del XIX sec., Hermann Diels non notò che le sezioni iniziali di un papiro di argomento medico conservato al British Museum mostravano una grande somiglianza con la descrizione della Storia della medicina di Menone, fornitaci da Galeno. La pubblicazione del papiro provocò scalpore, perché il suo autore dichiarava di voler esporre l’autentica dottrina medica dell’Ippocrate storico.
La scoperta più importante di Diels fu, comunque, la dimostrazione del fatto che molti sommari enciclopedici più tardi, riguardanti molti filosofi della Natura e le loro dottrine – per esempio quelli contenuti nella Storia della filosofia dello Pseudo-Galeno e nei Placita philosophorum dello Pseudo- Plutarco – contenevano materiali provenienti in ultima analisi da un’opera perduta di Teofrasto intitolata Physikaì dóxai. Nella Tarda Antichità sembra che questi sommari generali delle dottrine scientifiche e filosofiche ebbero un ruolo importante nelle dispute fra i pensatori dei vari orientamenti metodologici caratteristici della filosofia e della medicina ellenistica e greco-romana. Gli scettici, per esempio, hanno usato liberamente le dossografie che avevano a disposizione e i disaccordi che illustravano, per sottolineare l’inutilità di proporre teorie riguardanti problemi insolubili. Ma anche i dog ma tici ritenevano utili le dossografie come punti di partenza nella difesa retorica delle loro posizioni.
Al tempo di Galeno, nel II sec. d.C., il sommario dottrinale delle concezioni precedenti era diventato una consuetudine di molti trattati teorici di medicina, e per l’etica avveniva una cosa simile (un trattato del peripatetico Ario Didimo sulla storia di questo soggetto, ebbe una notevole influenza). Quindi, se l’ipotesi di Diels sul ruolo avuto da Teofrasto nella conservazione del pensiero e delle dottrine dei suoi predecessori è giusta, ciò vuol dire che senza la tradizione peripatetica non sapremmo quasi nulla degli inizi della filosofia greca. Questo non implica che l’influsso del Liceo sullo studio della scienza naturale nell’Antichità fosse limitato a un interesse di tipo antiquario o che fosse esercitato soltanto dai pochi individui citati. Sarebbe un grave errore pensare che l’influsso delle idee di Aristotele sulla storia della filosofia greca nei due secoli successivi alla sua morte sia stato trascurabile; è vero piuttosto il contrario. Si deve distinguere, com’è ovvio, l’obiettivo di analizzare la storia della Scuola di Aristotele da quello di esaminare l’influsso del pensiero aristotelico sulle successive ricerche in campo scientifico e medico. Tuttavia, poiché si può parlare di un influsso sia positivo sia negativo, tanto in un contesto intellettuale quanto in quello politico e sociale, la ricostruzione di questo aspetto della storia è un’operazione complessa. Gli storici della filosofia hanno messo in luce l’impronta sostanzialmente aristotelica di sistemi così distanti tra loro come lo stoicismo, la fisiologia galenica e l’astronomia tolemaica. L’influsso della Scuola di Aristotele sulla vita intellettuale di Alessandria, nel primo periodo della sua esistenza, è stato oggetto di molta attenzione nel XX secolo. Bisogna ricordare, tuttavia, che nel clima di ecumenismo intellettuale vigente ad Alessandria le diverse scuole filosofiche tendevano a perdere la propria identità e non si hanno motivi sufficienti per ritenere che la filosofia aristotelica fosse studiata o insegnata separatamente dalle altre. Benché non vi fosse sempre una chiara distinzione tra le dottrine dell’Accademia platonica e quelle aristoteliche, specie nella Tarda Antichità, certi concetti aristotelici fondamentali si ritrovano perfino nelle opere neoplatoniche. Alcuni dei più importanti commentatori aristotelici, come Simplicio, erano essi stessi dei platonici, e certe dottrine, come per esempio quelle riguardanti il carattere dell’attività diretta a un fine in Natura, le prove della sfericità della Terra, l’idea della continuità della materia nell’Universo o la fondamentale antitesi tra forma e materia, ricorrono in molti contesti, senza alcun riferimento alla loro origine.
L’esempio più evidente di un influsso diretto della filosofia aristotelica riguarda lo sviluppo delle nuove scuole di pensiero, in particolare dello stoicismo, da un lato, e dell’epicureismo, dall’altro. Sebbene tanto gli aristotelici (Stratone incluso), quanto gli stoici professassero la dottrina della continuità della materia – negando l’esistenza del vuoto come opposto logico della materia nell’Universo – le due scuole si distinguevano, secondo la maggior parte delle testimonianze più tarde di cui disponiamo, per il sistema logico adottato, per gli approcci divergenti ai problemi del determinismo e del fato e per la dottrina, tipicamente stoica, del pneūma, la forza di coesione che mantiene unito l’Universo. Ma il caso dell’epicureismo è ancora più significativo, e merita di essere analizzato più approfonditamente, proprio perché l’ipotesi atomistica era totalmente in contrasto con il pensiero peripatetico. Nonostante la visione del mondo epicurea fosse sostanzialmente contrapposta a quella aristotelica, gli argomenti utilizzati dagli epi cu rei contro la tesi dell’infinita divisibilità della materia rivelano infatti la loro matrice aristotelica in modo molto più evidente di molte dottrine dei cosiddetti aristotelici. All’inizio del De generatione et corruptione di Aristotele si trova un vibrante attacco alla concezione democritea secondo la quale la materia può essere divisa soltanto fino a un certo punto, oltre il quale è impossibile proseguire. Il prodotto finale di questa divisione era, secondo i democritei, l’atomo, ossia qualcosa che non poteva essere ulteriormente diviso a causa della sua «solidità assoluta». Aristotele obietta che ogni grandezza non può che essere composta di altre grandezze; se gli atomi sono grandezze – e devono necessariamente esserlo, dal momento che sono essi a comporre il mondo fenomenico – allora non c’è motivo di supporre che non siano anch’essi ulteriormente divisibili in grandezze più piccole. È impossibile, infatti, che gli atomi siano semplici punti, poiché da questi ultimi, privi di sostanza, sarebbe impossibile ottenere alcunché di concreto. Ora Epicuro, nella sua critica diretta principalmente contro Democrito, senza riconoscere mai esplicitamente l’esistenza di questa critica, elabora la sua teoria delle parti minime, che permetteva di nominare i singoli atomi e le loro parti, senza implicare la possibilità di una divisione di queste ultime. Si ha così l’impressione che la critica di Aristotele abbia finito per rafforzare la pretesa degli epicurei di disporre, grazie all’atomismo, di un’ipotesi incontrovertibile, o quanto meno che essi ne fossero convinti.
È possibile individuare un influsso intellettuale dell’aristotelismo anche sullo sviluppo della medicina. I legami tra la filosofia peripatetica e la teoria medica ellenistica sono stati studiati a lungo e la loro esistenza non costituisce di per sé una sorpresa: durante il IV e il III sec., i metodi e le idee peripatetiche dominavano la vita filosofica del più importante centro medico del mondo greco, Alessandria (al punto che alcune fonti antiche si servono indiscriminatamente dei termini ‘alessandrino’ e ‘peripatetico’). All’inizio del Novecento, Werner Jaeger ipotizzò che il medico Diocle di Caristo (attivo nel IV sec. a.C.) s’ispirasse al pensiero di Aristotele, e si è già menzionata la presenza di dottrine peripatetiche nella teoria fisiologica di Erasistrato di Ceo. Non c’è dubbio che la ricostruzione di questo tipo di richiami, in assenza di un’esplicita testimonianza dei contemporanei, presenti una certa dose di rischio. A parte ogni altra considerazione, non è corretto supporre che Aristotele o gli aristotelici siano la fonte di qualunque idea che risulti in armonia con le loro. Tanto meno possiamo consentire che le nostre supposizioni riguardanti l’esistenza di reti di trasmissione delle teorie, su base cronologica, ci inducano a ipotizzare la presenza di presunti concetti aristotelici nelle opere di altri autori. Un caso specifico merita tuttavia la nostra attenzione. L’Anonymus Londiniensis riferisce che Erofilo da Calcedone (attivo intorno al 300 a.C.) coniò uno strano motto: «enumerate per primi i fenomeni, benché non vengano per primi». Queste parole conservano un inconfondibile tono aristotelico e la maggior parte degli osservatori moderni fa notare che Aristotele, con la sua insistenza sulla necessità di raccogliere tutti i particolari disponibili su un determinato fenomeno – soprattutto nelle scienze della Natura – prima di trarre qualunque conclusione, aveva assunto una posizione nettamente distinta da quella di altri, e di Platone in particolare, i quali ritenevano invece che i particolari forniti dall’esperienza sensibile finiscano molto spesso per confonderci e per distrarci dalla verità. Se il significato del motto di Erofilo è che il primo stadio di ogni indagine scientifica deve essere la raccolta e la valutazione dei fenomeni percettibili, allora senza dubbio esso pone il suo autore, e tutto l’ambiente culturale alessandrino, in un contesto intellettuale aristotelico. Inoltre, se prove tendenzialmente più circostanziate sono fornite dall’aumento di interesse per le dissezioni – compresa la vivisezione umana (che è associata da alcuni antichi testimoni al nome di Erofilo ed Erasistrato) – sembra molto probabile che questi tipi di indagine fossero resi possibili dai cambiamenti nell’atteggiamento verso lo studio autoptico dell’anatomia che si può rilevare nel Libro I del De partibus animalium di Aristotele.
Dovrebbe essere ormai sufficientemente chiaro che l’attribuzione del termine ‘scuola’ al Liceo del primo periodo rischia di essere fuorviante. L’immagine del Liceo che si è delineata è quella di un’istituzione organizzata in modo informale, nella quale diversi individui svolgevano le loro ricerche in un ampio ventaglio di campi di studio, a volte senza seguire nessun altro criterio strettamente riconducibile a un’esplicita dottrina aristotelica, all’infuori della libertà epistemologica derivante dall’idea che, negli stadi iniziali di un’indagine, fosse necessario dare la precedenza allo studio dei singoli fenomeni. Il Liceo, come si è visto, si mantenne nella sua forma originaria per un periodo di tempo relativamente breve, se paragonato a un’istituzione come l’Accademia. Perfino nel primo periodo della sua esistenza ad Atene, infatti, la cerchia più ristretta dei peripatetici ci appare come un ‘gruppo’ privo di legami formali, composto da individui che condividevano un comune interesse di tipo non ideologico verso la realtà. Gli studenti erano liberi di andare e venire quando volevano e non ci sono indizi significativi di una tendenza alla propagazione attiva delle dottrine aristoteliche o alla diffusione degli scritti del fondatore del Liceo, cominciata ben oltre l’inizio della nostra era, quando la creazione di scuole filosofiche settarie – voluta dagli imperatori Antonini – aprì la strada allo sviluppo della scolastica aristotelica.
L’assenza di unanimità intellettuale tra i primi peripatetici riguardo a precise questioni di dottrina – la natura del vuoto, nel caso di Stratone, o la natura elementare del fuoco in quello di Teofrasto – non rivela tuttavia una debolezza della filosofia aristotelica, bensì, piuttosto, il contrario. Le opere di Aristotele che ci sono pervenute mostrano lo stesso tipo di comprensione progressiva di particolari fenomeni che si ritrova in quelle delle generazioni immediatamente successive alla sua. Non è affatto strano, dunque, che Simplicio (vissuto nel VI sec., in un contesto intellettuale profondamente mutato) si stupisse dell’audacia di Stratone, che aveva osato criticare la dottrina aristotelica del vuoto e inaugurato un originale percorso, benché allievo di Teofrasto e fedele ad Aristotele in quasi tutte le questioni. In ogni caso, la mancanza di accordo era un fatto consueto in quasi tutte le istituzioni intellettuali greche, con la possibile eccezione dell’epicureismo, che sembra essersi rapidamente trasformato in qualcosa di simile a una religione. La natura agonistica della vita intellettuale greca comportava in genere la conseguenza che gli allievi si sentissero autorizzati a criticare i propri maestri (e nel caso di Epicuro le critiche più aspre furono quelle riservate a quegli uomini, come Democrito, verso i quali maggiore era il suo debito).
Nell’età antica l’aristotelismo non fornì ai suoi discepoli lo stesso genere di sicurezze offerte dal platonismo e dal neoplatonismo. Certamente, però, l’Accademia era ancora un’istituzione stabile e fiorente ad Atene nel V e nel VI sec. d.C., quando era frequentata dai compagni di Proclo e Simplicio. Anche l’epicureismo durò a lungo, grazie all’opera dei suoi discepoli che, da Lucrezio in poi, si adoperarono per divulgare immutate le dottrine del fondatore. L’imperatore Marco Aurelio era poi uno stoico. Per la sua stessa natura, la scienza aristotelica era flessibile e non comportava l’adesione a un credo; anche se vi erano specifici argomenti sui quali tutti gli aristotelici concordavano – la sfericità della Terra, l’esistenza di un disegno divino nella Natura e una teoria dinamica basata sul principio della superiorità del moto circolare – in definitiva essa era soprattutto un metodo, e non un insieme di risposte.
Per un certo periodo la Scuola di Aristotele si dissolse nella grande corrente intellettuale della scienza greco-romana; poi, quando venne recuperata, nella Tarda Antichità, lo spirito dei tempi era cambiato e forse c’era bisogno più di risposte che di metodi.
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