Scienza greco-romana. Meccanica
Meccanica
L’origine della meccanica antica è tradizionalmente associata al nome di Archita di Taranto. Diogene Laerzio afferma infatti che Archita fu il primo a trattare metodicamente di questioni di meccanica servendosi di principî matematici. Questa testimonianza è attendibile, e Archita doveva avere fama di essere studioso di meccanica, oltre che di matematica e di acustica, se Aulo Gellio riporta, come un fatto accertato da Favorino e da altri scrittori, la costruzione da parte del grande matematico pitagorico di una colomba di legno che volava, compiuta secondo i principî della meccanica. Comunque, nelle opere genuine di Aristotele (metà IV sec. a.C.) la meccanica è vista già come una disciplina speciale ed è situata tra quelle che considerano gli oggetti fisici alla luce dei principî della geometria, come l’astronomia e l’ottica. Nella Metafisica Aristotele osserva infatti che, per quanto concerne l’armonica (harmonikḗ) e l’ottica (optikḗ), nessuna di queste considera il suo oggetto in quanto voce o vista, ma in quanto linee e numeri (1078 a 14-17); negli Analitici secondi afferma che nella meccanica e nell’ottica si hanno applicazioni di dimostrazioni geometriche, e che gli oggetti della meccanica sono correlati alla stereometria, come quelli dell’ottica alla geometria, quelli dell’armonica all’aritmetica, e i fenomeni celesti all’astronomia (78 b 37-39).
La testimonianza di Aristotele è storicamente molto importante, perché attesta in modo inequivocabile che al suo tempo la meccanica e le altre discipline fisico-matematiche non soltanto erano costituite in modo autonomo, ma erano anche acquisite, e così diffuse nella cultura generale greca, da essere oggetto di riflessione filosofica; essa è importante perché attesta in modo altrettanto inequivocabile che erano già sanciti nella riflessione filosofica sia il carattere delimitato della meccanica e delle altre discipline che applicavano la geometria e l’aritmetica allo studio degli oggetti sensibili, sia la loro sistemazione gerarchica nell’ambito del sapere.
Molto oscuro è invece il discorso di Aristotele per quanto concerne la natura degli oggetti indagati dalla meccanica, genericamente indicati come ‘solidi’. Qualche indicazione in merito può venire dallo studio del termine mēchanichḕ téchnē e del suo correlato mēchanḗ. Il vocabolo greco mēchanḗ, da cui deriva il termine ‘macchina’, indica originariamente il risultato di un’azione – espressa dal verbo mēchanáō, mēchanáomai – condotta con particolare efficacia e che risulta di per sé sorprendente. Mēchanḗ è il frutto di un’intelligenza accorta e perspicace, che si avvale di nessi non usuali, trovati con sagacia e felice intuito, per conseguire un effetto non prevedibile. La qualità intellettuale che permette di inventare mēchanaí ha il suo campo di elezione nelle attività pratiche (gare, battaglie, attività politica, caccia, pesca e così via); è la qualità per la quale il debole riesce a vincere in situazioni difficili, altrimenti insuperabili. Si tratta in sostanza di quel tipo di intelligenza designato anche con il termine mẽtis. L’attitudine a creare mēchanaí ha una valenza ambigua; è apprezzata come tale, ma può essere intesa negativamente, in relazione alla valutazione delle finalità che si perseguono, come la mera astuzia o capacità di ingannare l’avversario. In tal caso mēchanaí sono gli inganni, le trame, le macchinazioni che gli uomini tessono a danno di altri uomini. In seguito si consolidano sia il significato positivo sia quello negativo, ma si allarga l’ambito semantico: mēchanḗ significa semplicemente anche mezzo, strumento. Soprattutto, però, viene emergendo, con significato distinto, una particolare forma dell’azione indicata dal verbo mēchanáasthai, quella che porta alla costruzione di oggetti materiali con funzioni peculiari che servono a facilitare l’attività umana. Mēchanaí sono così gli strumenti con funzioni di sollevamento, come l’argano e la carrucola, mezzi bellici come le catapulte, dispositivi usati per rappresentazioni teatrali, apparecchi chirurgici per la cura di fratture, speciali strumenti per la risoluzione di problemi geometrici complessi. Sembra molto probabile che col termine mēchanaí s’indicassero poi più specificatamente quegli apparati particolari che esaltavano le caratteristiche della mēchanḗ, quelli cioè in cui grandi pesi sono spostati con piccole forze, ottenendo effetti apparentemente così vantaggiosi da suscitare grande e giustificata meraviglia: questa capacità è giustamente enfatizzata in vari testi, un passo di uno dei quali costituisce l’argomento della Tav. I.
Che questo sia stato il percorso concettuale che ha condotto all’elaborazione dell’oggetto della meccanica lo si può desumere dall’analisi del contenuto della prima trattazione geometrica della meccanica che si è conservata, le Questioni meccaniche. In tale opera, infatti, sono definiti meccanici quei fenomeni che l’uomo provoca quando vuole in qualche modo vincere la Natura per realizzare una sua utilità, e si serve a tal fine della macchina, con la quale supera la difficoltà che si trova a fronteggiare. Tali fenomeni sono, quindi, ‘contro natura’ – per il significato di questa espressione si rinvia ai passi delle Questioni meccaniche di Erone che sono citati nella Tav. II – e suscitano stupore e meraviglia, perché in essi il minore supera il maggiore, com’è il caso della leva, in cui cose che hanno poca forza di inclinazione muovono grandi pesi.
Le Questioni meccaniche presentano problemi di grande interesse storico, primo fra tutti quello della loro attribuzione; sono stati, infatti, attribuiti ad Aristotele, ma gli studiosi moderni, a partire dalla seconda metà dell’Ottocento, ritengono invece che siano di scuola aristotelica. Di recente, alcuni studiosi tedeschi, in particolare F. Krafft, hanno riproposto la tesi dell’attribuzione ad Aristotele, ma con argomentazioni che non risultano convincenti; il semplice fatto che le occorrenze di mēchanḗ negli scritti genuini di Aristotele siano pochissime può essere un motivo valido per negare questa attribuzione, specialmente se lo si ricollega all’osservazione, già fatta da V. Rose nel secolo scorso, che Aristotele non si considerava un esperto di discipline matematiche. Soprattutto, tale opera presenta la caratteristica peculiare d’inserire la trattazione della meccanica in un quadro concettuale e filosofico molto elaborato, cosa che è in stridente anomalia rispetto agli altri trattati tecnici greci, i quali sono privi di tale inquadramento. Tutto lascia perciò pensare che qualche scolaro di Aristotele abbia fuso insieme l’aspetto peculiare e meraviglioso della macchina, gli argomenti e le proposizioni che poteva aver trovato negli scritti precedenti, in particolar modo la connessione tra figura circolare e meccanica, e alcuni elementi della filosofia aristotelica, come la concezione della meccanica come disciplina matematica e fisica, e la distinzione tra moto naturale e violento. Così, sono ridotte a un insieme abbastanza coerente varie proposizioni espresse nella forma di domande e risposte, designate appunto come ‘meccaniche’ (il titolo dell’opera è, infatti, il plurale neutro Mechanica, in greco Mēchaniká) e riguardanti il funzionamento delle cosiddette ‘macchine semplici’ (la leva, la fune e la carrucola, ecc.), il modo di agire di alcuni strumenti (remo, timone, antenna delle navi, tenaglia da dentisti, schiaccianoci), alcune situazioni concrete (punto di rottura dei legni quando sono sollecitati e si spezzano, il modo di portare i pesi, il modo di alzarsi), la peculiarità della configurazione di alcuni corpi (come la maggiore mobilità dei corpi rotondi o la figura rotonda dei sassi di spiaggia), il moto dei proiettili, alcuni paradossi come la cosiddetta ‘ruota di Aristotele’, trattata nel problema 24.
La peculiarità del quadro di riferimento teorico è bene espressa dal passo introduttivo dell’opera, che si riferisce alla Natura vera e propria (Tav. II).
Il principio unificante, per quanto strano possa apparire, è il sentimento di meraviglia che sorge dalla constatazione della contrarietà insita nei fenomeni meccanici, quelli in cui il minore supera il maggiore, provocati dall’uomo con l’arte per superare difficoltà altrimenti insuperabili, nel tentativo di conseguire un beneficio. Questa specifica compresenza di contrari trova la sua spiegazione nel cerchio, perché in tale figura quella peculiare contrarietà si trova al massimo grado e in forma multipla. Nel cerchio, infatti, appaiono quattro proprietà dialettiche fondamentali: (1) nasce da una cosa che si muove (l’estremità del raggio mobile che descrive la circonferenza) e da una che sta ferma (l’estremità del raggio che sta nel centro); (2) nella circonferenza appaiono i contrari ‘concavo’ e ‘convesso’; (3) la linea che descrive il circolo (il raggio mobile) si muove in avanti e indietro; (4) nel cerchio, la linea che è più lontana dal centro è portata più velocemente di quella che dista meno, essendo mosse entrambe dalla medesima forza. È soprattutto la quarta proprietà del cerchio che spiega la natura dei fenomeni meccanici intrinsecamente contro Natura e meravigliosi. Così, il collegamento dei fenomeni meccanici, di per sé non naturali, col cerchio, spinge l’autore a indagare il movimento circolare terrestre, che Aristotele non aveva considerato in modo esplicito, e ad analizzarlo in tutta la sua generalità nelle componenti costitutive. Scopre pertanto che un movimento è rettilineo quando consta di due movimenti che avvengono secondo una determinata proporzione (nel caso specifico del parallelogramma, il movimento risultante, quello che si ha lungo la diagonale, avrà la proporzione che hanno i lati); è invece curvilineo quando i due spostamenti non hanno alcuna proporzione in alcun intervallo di tempo. Per rappresentare il moto circolare l’autore si serve della figura dei centri concentrici diseguali, che permette di porre in evidenza la componente contro Natura (Tav. II).
La rappresentazione dei centri concentrici diseguali si riscontra anche in altri autori, come appare dai due passi della Mechanica di Erone riportati nella già citata Tav. II. Sembra pertanto probabile che la formulazione dei centri concentrici diseguali sia stata introdotta fin dall’inizio come un modo efficace di rappresentazione del movimento meccanico, una sorta di completamento immaginario del movimento della leva, strumento ritenuto antichissimo già dai Greci e, probabilmente, trovato casualmente. Ciò implica che esso doveva essere stato assunto come principio costitutivo già nelle prime trattazioni complessive della meccanica e che sia poi rimasto tradizionale; su questo punto si ha l’importante precisazione di Erone secondo la quale gli antichi lo ponevano all’inizio delle loro esposizioni (Mechanica, II, 8). L’autore delle Questioni meccaniche ha presumibilmente mutuato questo principio dalla trattatistica meccanica e lo ha interpretato come un principio causale in connessione con la ‘scoperta’ della contrarietà dei fenomeni meccanici e della contrarietà delle proprietà della figura circolare; presumibilmente lo stesso principio è servito da supporto operativo ad Archimede e ai suoi successori, per illustrare in situazioni concrete la legge della leva trovata per via geometrica. La celebre dimostrazione archimedea della legge della leva contenuta negli Equiponderanti si riferisce a corpi geometrici.
Archimede premette a questa dimostrazione sette postulati: pesi eguali a distanze eguali si equilibrano e pesi eguali a distanze diseguali non si equilibrano, ma s’inclinano dalla parte del peso a distanza maggiore (postulato I); se si aggiunge o si toglie qualcosa a uno dei due pesi che si equilibrano, non si ha più equilibrio, ma inclinazione dalla parte a cui si è aggiunto qualcosa, o da cui non si è tolto nulla (postulati II e III); se figure piane eguali e simili coincidono fra loro, coincidono anche i loro centri di gravità (postulato IV); se le figure sono diseguali, ma simili, i centri di gravità saranno similmente posti (postulato V); se grandezze a certe distanze si fanno equilibrio, anche grandezze a esse eguali, poste alla stessa distanza, si fanno equilibrio (postulato VI); in ogni figura il cui perimetro è concavo dalla stessa parte, il centro di gravità è all’interno della figura (postulato VII).
Sulla base di queste premesse, Archimede dimostra poi le seguenti cinque proposizioni, che ritiene siano necessarie per stabilire la legge di equilibrio della leva: (1) pesi che si equilibrano a distanze eguali sono eguali; (2) pesi diseguali a distanze eguali non si equilibrano, ma si ha inclinazione dalla parte del più grande; (3) se pesi diseguali a distanze diseguali si equilibrano, il peso maggiore è a distanza minore; (4) se due grandezze eguali non hanno lo stesso centro di gravità, il centro di gravità della grandezza composta da quelle grandezze sarà il punto di mezzo della retta che congiunge i centri di gravità delle grandezze; (5) se i centri di gravità di tre grandezze stanno sulla stessa retta e se le grandezze hanno peso eguale e le rette comprese fra i centri sono eguali, il centro di gravità della grandezza composta da tutte le grandezze, sarà il punto che è il centro di gravità della grandezza di mezzo. Le cinque proposizioni e due corollari che le completano costituiscono le premesse per la dimostrazione della sesta proposizione, la legge dell’equilibrio della leva.
Dato il carattere puramente geometrico della dimostrazione archimedea, è legittimo pensare che questa proposizione abbia avuto origine dall’esigenza di risolvere problemi geometrici e che abbia trovato poi in Archimede stesso una dimensione operativa, utilizzando la formulazione dei centri concentrici diseguali. Pappo afferma che la legge della leva è stata trovata da Archimede (Collectio, VIII, 1060). Sta di fatto che i presupposti archimedei, legge della leva e nozione di centro di gravità (entrambi non presenti nelle Questioni meccaniche), sono alla base del solo trattato generale di meccanica conservato, quello di Erone. La Meccanica di Erone rimane in traduzione araba; fu pubblicata per la prima volta con traduzione francese da Carra de Vaux (1893) poi da L. Nix con traduzione tedesca (1900). Ampi stralci sono stati poi tradotti in inglese e commentati da A.G. Drachmann. Alcuni passi dell’opera sono conservati in greco da Pappo.
L’opera è in tre libri. Il Libro I inizia con la descrizione di una macchina per sollevare pesi, denominata baroulkós (probabilmente un estratto da un’altra opera che portava il titolo della macchina). Vi sono poi considerazioni sul movimento del cerchio, e di combinazioni di cerchi, sulla composizione dei movimenti, su come aumentare o diminuire figure date secondo un dato rapporto. Dal cap. 20 inizia la trattazione della meccanica in senso proprio, intesa come la disciplina che tratta le questioni nelle quali un peso può essere mosso da una piccola forza; i capp. 24-34 sono una discussione generale sui concetti di peso, centro di gravità, supporto, in gran parte derivati dalle opere perdute di Archimede; il cap. 34 è una variante della formulazione dei centri concentrici diseguali, espressa mediante una carrucola.
Il Libro II tratta delle cosiddette macchine semplici, l’argano, la leva, la carrucola, il cuneo e la vite. Il termine macchine semplici non compariva affatto nelle Questioni meccaniche ed Erone aggiunge la vite, che non era nota all’epoca in cui quell’opera era stata composta. La parte sulle macchine semplici è quella conservata anche in greco nel testo di Pappo. Dopo aver illustrato le varie macchine semplici, l’autore propone il principio esplicativo dei centri concentrici diseguali (cfr. il passo già citato). Particolare interesse presenta la trattazione della vite, molto ampia e approfondita, specialmente il cap. 17 sulle connessioni tra vite e ruote dentate. Seguono poi 17 questioni simili a quelle delle Questioni meccaniche, che Erone deve aver derivato da alcuni scritti di meccanica per problemi che dovevano essere numerosi e tradizionali, e non necessariamente dalle Questioni meccaniche. Il Libro II termina riprendendo il tema dei centri di gravità di figure piane. Il Libro III è di carattere pratico; in esso sono descritti i principali strumenti e vari tipi di presse che erano in uso nell’Antichità.
Come si può vedere da questo breve riassunto, la materia non è disposta in modo ordinato. Questo aspetto dell’opera può dipendere soltanto dalla particolare natura del manoscritto che aveva presente il traduttore arabo, il quale poteva aver raccolto brani di scritti diversi. Ma può anche essere (almeno in parte) una conseguenza materiale della caratteristica, intrinseca e strutturale, della meccanica antica, per la quale argomenti diversi erano senza connessione tra loro anche nella trattazione. Si può pensare che gli scritti per problemi, quelli sui principî fondamentali, sulla descrizione di macchine, circolassero separatamente e che siano stati raccolti in tutto o in parte da Erone, il quale è essenzialmente un compilatore molto conservatore, rispettandone la delimitazione concettuale e materiale.
Ciò può spiegare alcuni aspetti peculiari dell’opera, come quelli che traspaiono dalla descrizione della baroulkós; questa macchina è descritta anche in un’altra opera di Erone, la Diottra, con una notevole variante relativa all’azionamento: per queste due macchine v. . Nella Diottra c’è anche la descrizione dell’‘odometro’, ingegnosa macchina per misurare la distanza che percorre un veicolo (anche per essa v. Tav. IV). Come ha osservato Drachmann, i testi relativi alla baroulkós presentano alcune inesattezze. Nella descrizione della Meccanica, il diametro della ruota con la manovella (fig. IV.1) dovrebbe essere il doppio dell’ultima ruota minore, ma ciò non è indicato; nella descrizione della Diottra l’autore non spiega l’effetto dell’uso della vite senza fine (fig. IV.2), che dimostra però di conoscere nell’esposizione dell’odometro. Dunque può essere che ci sia un difetto nella trasmissione del manoscritto e si può pensare, come fa Drachmann, che il passo con l’uso della vite senza fine della Diottra sia un’aggiunta che non deriva da Erone. Ma, dato che lo scollamento tra testo e testo costituisce la norma negli scritti di meccanica antica, e negli scritti di Erone tale scollamento si verifica puntualmente, si può ritenere che il caso della baroulkós sia un esempio di scollamento all’interno del medesimo testo, cosa che si riscontra frequentemente sia nella Meccanica sia nella Diottra. È perciò probabile che Erone faccia riferimento a fonti diverse, che accoglie, come fa abitualmente, senza introdurre modificazioni, per cui non viene colta l’analogia immediata tra la baroulkós e l’odometro che sono descritti l’uno dopo l’altra nella Diottra, con valutazioni diverse dell’effetto della vite senza fine.
Non sono molti coloro che hanno svolto trattazioni di macchine e di meccanica nel mondo antico di cui si conservi la memoria. Tra questi la tradizione attribuisce contributi veramente innovativi soltanto a Ctesibio, Archimede e, in misura minore, a Filone di Bisanzio.
Ctesibio visse ad Alessandria nella prima metà del III sec. a.C. Secondo quanto afferma Vitruvio, era figlio di un barbiere e fin da giovane mostrò la sua passione per la costruzione di congegni, realizzando per la bottega del padre uno specchio mosso da carrucole. Creò una nuova branca della meccanica, la ‘pneumatica’, dedicata alle macchine che in qualche modo si servivano dell’aria; su queste scrisse il primo trattato, i Commentari secondo Vitruvio. Scoprì il meccanismo pistone-cilindro e l’uso delle valvole; realizzò la prima pompa a forza, l’orologio ad acqua e, forse, la più ingegnosa macchina antica, l’organo ad acqua, nonché una speciale forma di catapulta.
Archimede (nato a Siracusa e vissuto tra il 287 e il 212 a.C.), il più grande matematico antico – a lui è dedicato l’intero precedente cap. XVIII –, è considerato il fondatore della meccanica teorica. Di questa è rimasto solamente uno scritto, gli Equiponderanti; altri (sulla bilancia, citato da Pappo; sui supporti, citato da Erone) sono andati perduti. Non scrisse nulla di meccanica applicata, se si esclude un trattato sul planetario citato da Pappo. Tuttavia è certo che costruì e ideò macchine trattorie – cioè, genericamente, macchine per spostare corpi (quindi, non soltanto macchine per trazione, ma anche leve, apparecchi di sollevamento e simili) – e macchine belliche tra le più celebrate dell’Antichità. Di queste rimane il ricordo in episodi emblematici che la tradizione letteraria ha conservato e ingigantito; si pensi al trasporto di una nave dalla riva al mare mediante un congegno meccanico e alle mirabolanti macchine belliche usate per contrastare l’assedio di Siracusa da parte dei Romani nel 212 a.C.
Della vita di Filone di Bisanzio non si sa nulla, tranne che dimorò a Rodi e ad Alessandria non molto tempo dopo Ctesibio. Scrisse un grande trattato di meccanica che comprendeva un libro sulle macchine belliche, sulle leve, sui porti, sulla pneumatica, sugli automi e sugli assedi.
Gli altri autori di meccanica nel periodo considerato sono sostanzialmente dei compilatori. Il più noto è senza dubbio Erone di Alessandria. La sua opera è molto importante perché è la più ricca che ci sia stata conservata e, per alcuni argomenti – per esempio per gli automi –, costituisce la sola fonte che abbiamo. Oltre alla sua opera intitolata alla meccanica, ricordata in precedenza, rimangono di lui trattati, rispettivamente, sugli automi (Automata), sulle macchine pneumatiche (Pneumatica), sulle macchine belliche (Belopoeica) e su uno strumento usato per misurare i terreni, la diottra; altri scritti riguardanti meccanismi, tra cui uno sugli orologi ad acqua, sono andati perduti. Scrisse anche di geometria ed è la fonte principale per la conoscenza della geometria metrica antica. Di lui non si sa nulla di preciso; probabilmente era originario di Alessandria e deve aver vissuto in quella città. Soltanto di recente si è potuto stabilire il periodo in cui visse (I sec. d.C.), poiché nella Diottra dice di aver osservato un’eclissi di Sole della quale si è riusciti a stabilire la data, il 62 d.C. Per il contenuto dei suoi scritti, che ripetono sostanzialmente i risultati conseguiti nella prima età alessandrina, però, avrebbe potuto vivere anche nei secoli precedenti, dal III sec. a.C. in poi, come si è sostenuto nel corso del tempo. Le sue opere non sono omogenee: la Meccanica e gli Pneumatica sono disordinate, mentre gli Automata e i Belopoeica sono organiche e lineari.
Erone è uno scrittore con una conoscenza molto vasta non soltanto della matematica e della tecnica (cita Eudosso, Euclide, Archimede, Apollonio, Filone), ma anche della filosofia (cita Platone e Aristotele); sugli argomenti che tratta deve aver consultato una vasta messe di scritti e trattati che sono andati perduti. Il giudizio su di lui è controverso; alcuni studiosi hanno sostenuto che fosse un tecnico e, in seguito alla pubblicazione degli scritti di geometria avvenuta nel XIX secolo, anche uno scienziato di notevole rilievo; secondo altri era un artigiano privo di ingegno, per altri ancora era un compilatore incapace e maldestro. Erone – è vero – fu sostanzialmente un compilatore, ma svolse questa sua funzione in modo non passivo. Era strettamente legato alle sue fonti per quanto concerne i contenuti, ma rielaborava questi ultimi in una forma semplice e chiara, adatta a un pubblico di non specialisti. I suoi scritti hanno carattere didattico e le spiegazioni che adduce, anche riguardo ai particolari, sono esaurienti e abbondanti.
Vitruvio (I sec. a.C.) e Pappo (fine III sec. d.C.) sono fonti importanti anche per la meccanica. Del De architectura di Vitruvio interessano la meccanica il Libro IX, per via della descrizione dell’orologio ad acqua, e soprattutto il Libro X, che contiene un’ampia esposizione di macchine trattorie, elevatrici, belliche, pneumatiche, nonché affermazioni generali sulla disciplina. Della Collectio mathematica di Pappo, è di pertinenza della meccanica il Libro VIII, per via di alcuni teoremi e dei passi della Meccanica di Erone che sono conservati. Rimangono anche alcuni trattati di macchine belliche di autori minori, Bitone (III o II sec. a.C.) e Ateneo (contemporaneo di Vitruvio, I sec. a.C.). Informazioni su macchine usate in medicina si trovano in Ippocrate, Oribasio, Galeno. Notizie riguardanti la meccanica si ricavano anche da alcuni commenti a opere di Aristotele, soprattutto quelli di Simplicio e di Filopono.
La meccanica in senso proprio diventa già nel corso del III sec. a.C. un elemento di una disciplina più vasta, la cosiddetta ‘meccanica allargata’, che comprende varie branche le quali hanno in comune soltanto il fatto di produrre congegni, apparati, sistemi di apparati ingegnosi, conformemente al significato originario di macchina di cui si è detto in precedenza. Ciò è anche una conseguenza del carattere delimitato della disciplina, che si allarga per comparti separati a mano a mano che questi emergono dalla pratica empirica e si consolidano o sono creati ex novo (è il caso della pneumatica). La sistemazione assume così un intento classificatorio; gli oggetti, delimitati in sé di fatto e in linea di principio, sono estrinsecamente accostati fra loro in base agli effetti che producono. Oltre alla classificazione di Filone di cui si è già fatto cenno, si ricorda quella di Vitruvio, che distingue le macchine sulla scorta delle funzioni cui adempiono (De architectura, X, 1 segg.). Si ha così un genere ‘scansorio’ (macchine ascensionali), ‘spirabile’ (macchine che provocano suoni con la percussione dell’aria) e ‘trattorio’ (macchine per sollevare pesi). Posta la divisione tra macchine e strumenti, e fissato il criterio dell’origine delle macchine nella riflessione sui fenomeni naturali, Vitruvio formula una classificazione fondata sui bisogni: il bisogno di vestirsi origina il telaio; il bisogno di nutrirsi le macchine agricole, come aratri e presse; il bisogno di giustizia le bilance, e così via. La tesi che la nascita delle tecniche derivi dalla necessità per l’uomo di provvedere ai propri bisogni, ribadita da Vitruvio anche per quanto concerne l’origine dell’architettura, era molto diffusa nella cultura filosofica e letteraria del tempo, in quanto era stata sviluppata ampiamente dalla scuola epicurea, in particolar modo da Lucrezio. Si trattava, però, di un argomento tradizionale, che è presente, direttamente o indirettamente, nelle numerose esposizioni del passaggio dell’uomo dallo stato ferino a quello civile; basti pensare ai passi famosi della Piccola cosmologia di Democrito (DK 68 B 5), del Prometeo incatenato di Eschilo, de L’antica medicina di Ippocrate (cap. III), del Protagora (320 segg.) e del Politico (273 segg.) di Platone. Il fatto che un tema letterario e filosofico come questo compaia in un trattato specialistico di macchine costituisce un’anomalia, spiegabile con l’approccio ampio e generale che Vitruvio dà alla sua nozione di architettura. Egli descrive quindi le macchine trattorie, che sono ricondotte al principio della retta e del cerchio. Si ha così la descrizione della leva, della stadera, del timone e di altre macchine in base al principio esplicativo, seguita da una classificazione per settori di impiego (macchine idrauliche, macchine belliche). Manca in questo contesto il riferimento alla geometria e alla meccanica teorica tradizionale, mentre appare evidente che l’ampliamento di significato connesso al termine è derivato dall’uso.
Più elaborata è la classificazione di Pappo, il quale, dopo aver richiamato la distinzione, fatta dai meccanici seguaci di Erone, tra meccanica teorica e meccanica manuale, osserva che:
Fra tutte le arti che sono soprattutto necessarie ai bisogni della vita ci sono: l’arte dei manganari, chiamati anch’essi meccanici dagli antichi (infatti, sollevano in alto grandi pesi muovendoli con macchine contro natura con una forza minore); l’arte dei costruttori di macchine belliche necessarie alla guerra, chiamati anch’essi meccanici (infatti, sono lanciati proiettili di pietra e di ferro, e oggetti simili da macchine fatte da essi, chiamate catapulte, a una grande distanza); poi l’arte dei costruttori di macchine chiamati così in senso proprio (infatti, l’acqua è sollevata agevolmente da grande profondità per mezzo di macchine svuotatrici che essi costruiscono). Gli antichi chiamano meccanici anche i taumaturghi, di cui alcuni esercitano accuratamente l’arte che si serve dell’aria, come Erone negli Pneumatica, altri quella che si serve di nervi e di corde di sparto e sembra imitare i movimenti di esseri animati, come Erone negli Automata e negli Equilibri, altri quella che si serve di corpi galleggianti nell’acqua, come Archimede nei Galleggianti, o quella che si serve di orologi ad acqua, come Erone nei Vasi ad acqua, che sembra essere connessa con la teoria degli gnomoni. Chiamano meccanici anche quelli abili nella costruzione di sfere e che costruiscono una rappresentazione del cielo servendosi dei movimenti uniformi e circolari dell’acqua. (Collectio, IX, 1025-1026)
Nella stessa logica, cioè quella dell’allargamento della nozione di meccanica, si pone anche la classificazione che si riscontra in Proclo. Questa è più sommaria e contratta, ma anche più omogenea con la tradizione precedente, più razionalmente giustificata di quella di Pappo, e anch’essa è strutturata non molto organicamente. Secondo Proclo, la meccanica è una parte della matematica che si occupa degli oggetti sensibili, accanto all’astronomia, all’ottica, alla geodesia, alla canonica e alla logistica. Essa comprende l’organopoietica, cioè la costruzione di macchine da guerra, la taumatopoietica, che abbraccia la costruzione di apparati pneumatici e automatici, la centrobarica, la costruzione di sfere e, in generale, la cinetica della materia (In primum Euclidis elementorum librum commentarii, 38-41).
Il discorso sullo sviluppo della meccanica è molto interessante, perché presenta in forma rigida e paradigmatica la delimitazione propria del sapere scientifico e tecnico degli antichi, che esclude ogni prospettiva di continuità con la nozione moderna di progresso scientifico. Il presupposto fondamentale perché si possa dire che sussiste una continuità tra sviluppo nel senso antico e sviluppo in senso moderno di una disciplina, è infatti l’omogeneità sostanziale tra concezione antica e moderna della scienza e la corrispondenza lineare con i rispettivi assetti disciplinari. Tali omogeneità e corrispondenza, però, non esistono e, per l’Antichità, lo sviluppo di una disciplina assume soltanto i caratteri dell’ampliamento dei contenuti. La delimitazione delle téchnai, faceva sì che i principî esplicativi, una volta acquisiti, e i vari ritrovati empirici, una volta raccolti e sistemati, fossero conservati nella loro struttura essenziale; le innovazioni, o più spesso, i perfezionamenti che a volte s’introducevano non dovevano alterare sostanzialmente l’impianto tradizionale. L’inevitabile ampliamento dei contenuti dava luogo alla creazione di nuove branche della disciplina, sempre separate dalle altre; a volte ciò avveniva ex novo, in virtù della genialità del ritrovatore (si pensi, nell’ambito specifico della meccanica, alla pneumatica scoperta da Ctesibio, o alla centrobarica introdotta da Archimede).
I perfezionamenti, le innovazioni, gli ampliamenti non davano luogo comunque a un reale processo evolutivo, perché s’inserivano in un quadro poco favorevole a generalizzare i risultati e a suscitare la coscienza della necessità dello sviluppo.
Qualche esempio concreto permetterà di chiarire meglio il significato di questo atteggiamento così peculiare e così poco comprensibile per un moderno. Così, certamente la scoperta della nozione di centro di gravità, assente nelle Questioni meccaniche, costituisce un indubbio progresso nell’elaborazione razionale dei principî della meccanica, ma non scaturisce, in un processo di continuità, dalla riflessione sulla meccanica teorica precedente; essa nasce in Archimede da una problematica di tipo geometrico e si adatta alla meccanica. Così ancora, la cosiddetta ‘catapulta a torsione’ rappresenta un cospicuo perfezionamento rispetto alla catapulta a corde elastiche, e rispetto all’arco, ma la consapevolezza dell’indubbio progresso non va al di là del riscontro empirico del miglioramento. Nei Belopoeica (gr. tà Belopoiiká, propriamente ‘costruzione di proiettili’) di Erone, in cui le tre dette armi sono descritte in sequenza, non c’è alcuna riflessione sul mutamento. La scoperta empirica o l’elaborazione teorica nuova sono registrate e apprezzate, ma sono relegate nell’ambito del mero evento casuale o frutto di pura genialità. Emblematico è a questo proposito l’atteggiamento di Erone, il quale negli Automata sottolinea con molta enfasi i perfezionamenti che ha introdotto nel congegno rispetto a quello di Filone, ma poi si constata che i perfezionamenti che rivendica sono del tutto marginali. Nei Belopoeica sostiene di aver aggiunto, rispetto agli scritti precedenti rivolti ad esperti, una maggiore razionalità nell’esposizione adatta a tutti; anche nella Diottra ribadisce la maggiore completezza e la maggiore chiarezza della sua esposizione, mentre negli Pneumatica afferma di aver sistemato ciò che era stato scritto dagli antichi e di aver aggiunto ciò che ha trovato egli stesso. Questo mostra che gli antichi apprezzavano l’innovazione (si pensi alla tradizione letteraria sui primi scopritori), ma tale apprezzamento aveva un carattere per lo più soggettivo, come appare dal fatto che anche Erone, i cui ritrovamenti o rimangono imprecisati o si riducono a cose di poco conto, vuole rivendicarli. Ciò è anche una riprova che Erone è nulla più che un compilatore: se sottolinea in modo così evidente le innovazioni marginali che attribuisce a sé stesso, non avrebbe certamente passato sotto silenzio qualche sua scoperta importante.
Affermazioni più nette e precise sullo sviluppo della branca bellica della meccanica, in sintonia con quanto si è detto, si trovano in Filone. Si veda il passo dei Belopoeica, ben noto, in cui Filone, accanto all’esaltazione dell’inventore delle catapulte, rivendica sì l’utilità dei miglioramenti da apportare alle macchine ricevute, ma in un contesto che privilegia pur sempre la tradizione:
Queste, in breve, sono le cose che si potrebbero criticare nelle macchine esistenti. Si potrebbe dimostrarle meglio, con la vista, pezzo per pezzo. Tuttavia sono da lodare quelli che all’inizio hanno scoperto la costruzione di queste macchine; essi infatti sono stati gli iniziatori della cosa e della forma di esse. Scoprirono qualcosa di superiore a tutte le altre armi per la lunghezza della gittata e per il peso dei proiettili quali l’arco, il giavellotto, la fionda. Infatti, escogitare qualcosa all’inizio e porlo in opera secondo l’escogitazione è opera di una natura maggiore. Realizzare un cambiamento o un perfezionamento sembra impresa più facile. Ma benché siano passati moltissimi anni da che è stata trovata la com posizione di esse e ci siano stati, naturalmente, molti costruttori di macchine e di artiglierie, nessuno ha osato trasgredire rispetto al metodo stabilito. (Belopoeica, 58, 24-35)
Sembra quindi che la nozione di progresso scientifico sia continuamente rimossa nella cultura greca e romana. È interessante notare, a questo proposito, che il concetto moderno di progresso scientifico presenta un assunto essenziale e peculiare, quello della finalità immanente verso la conoscenza assoluta della realtà da conseguire mediante approssimazioni successive, e una tematica altrettanto essenziale e peculiare, la spiegazione razionale delle origini. Il primo assunto era inconcepibile per un antico; quanto al tema dell’origine delle scienze, esso era risolto in una forma consona al modo di concepire le téchnai, per cui gli scopritori, siano essi dèi, semidei o semplici mortali, svelano un corpo di conoscenze specificamente individuato e formato. Aspetti non dissimili presentano anche le concezioni relative all’origine dell’unica téchnē su cui non si hanno soltanto riferimenti di carattere mitico o puramente letterario, cioè la geometria.
L’origine della geometria era fatta comunemente risalire agli Egizi; e tale credenza è attestata da molteplici testimonianze che adducono argomentazioni razionali diverse. Vale la pena di ricordare le tre più significative, che sono di straordinaria importanza storica. La prima è di Aristotele, il quale in un passo famoso del Libro I della Metafisica spiega l’origine della geometria, una téchnē non utile, con il fatto che i sacerdoti egizi, liberati dalle incombenze quotidiane, avevano avuto il tempo e l’agio per sviluppare una disciplina non necessaria. La seconda è di Proclo (In primum Euclidis elementorum librum commentarii, prol. 5), la terza di Erone (Dimetiendi rationes, in Opera, III, p. 2; Geometrica, in Opera, IV, p. 176 e p. 398). Tutti e tre ritengono che la geometria abbia avuto origine pratica dalla misurazione dei terreni a seguito delle piene del Nilo. Per Proclo, la geodesia, rispetto alla geometria, rappresenta il primo passo dell’ascesi platonica dalla pratica alla speculazione; da Erone, invece, geometria metrica e teorica sono viste collegate fra loro in quanto le scoperte di Eudosso e di Archimede ricadono sulla metrica. Aristotele parla solamente di geometria teorica, gli altri di branche diverse della geometria, ma, in tutti i casi, sia la geometria sia la geodesia si costituiscono come entità diverse, formate e costituite una volta per tutte e suscettibili soltanto di ampliamenti.
È pertanto improprio parlare di sviluppo della meccanica antica nel senso di uno sviluppo progressivo così come di una continuità di essa (intesa, in senso stretto, come dottrina che sopraintende alla costruzione delle macchine riconducibili a quelle cosiddette semplici e, in senso lato, alla costruzione di ogni altro congegno ingegnoso e meraviglioso) con la moderna meccanica, che presuppone un diverso assetto rispetto alla scienza in generale. Occorre osservare, comunque, che il discorso degli antichi sull’ampliamento della meccanica è poco accentuato e rimane sobrio. Sono quasi del tutto assenti perfino i riferimenti polemici a opere e autori diversi, che si riscontrano invece in modo massiccio in altre discipline, come l’astronomia o soprattutto la medicina, in cui il contrasto tra opinioni differenti è presente fin dai primi scritti ippocratici e si prolunga poi continuamente in dibattiti tra autori e scuole diverse. Questo fatto è da riferire a un aspetto specifico della disciplina della meccanica, che è difficilmente spiegabile in termini razionali: la meccanica, infatti, nasce e si sviluppa nel breve arco di due secoli. Dal 400 al 200 a.C. si perfezionano le macchine trattorie ed elevatrici, si scoprono la coclea, la pompa a forza, la catapulta a torsione, il teatro automatico, le varie macchine pneumatiche; in seguito, nella teoria si hanno soltanto compilazioni di principî e di teoremi tradizionali, e nella pratica soltanto l’uso di congegni altrettanto tradizionali.
Sugli automi nel mondo greco-romano si hanno poche testimonianze relativamente a congegni effettivamente costruiti; si trovano invece diversi riferimenti in opere di poeti, storici, letterati di varie età che parlano di automi in modo vago e fantasioso, o, quando sono precisi, in modo non attendibile. Si prenda la più nota attestazione letteraria sull’argomento: la colomba lignea volante di Archita. La notizia è in Aulo Gellio, che la attribuisce a Favorino e precisa anche che era sospesa a contrappesi e spinta da un soffio d’aria racchiusa e nascosta («simulacrum columbae ita erat scilicet libramentis suspensum et aura spiritus inclusa atque occulta concitum», DK 47 A 10a = Noctes Atticae, X, 12, 8). In molti, in varie età, si sono cimentati nell’impresa di immaginare come fosse costruito il congegno di Archita, ma anche i più ingegnosi tentativi non sono risultati soddisfacenti. Se si pensa che sia Aulo Gellio sia Favorino sono fonti molto tarde (II sec. d.C.), che non ci sono altre attestazioni in merito a partire da Platone e da Aristotele (benché Aulo Gellio dica che, oltre che da Favorino, la notizia era stata riportata da molti scrittori), che il riferimento all’aria compressa è anacronistico, in quanto i fenomeni pneumatici furono analizzati, studiati e utilizzati per la prima volta da Ctesibio più di un secolo dopo Archita, e quindi è poco probabile che Archita abbia potuto costruire empiricamente un apparato ad aria compressa adeguato, la colomba volante del grande pitagorico appare essere un tardo artificio letterario, importante solamente perché attesta che Archita era noto non soltanto come studioso di matematica e di acustica ma anche di meccanica.
Il solo congegno automatico antico che conosciamo in tutti i dettagli è il teatrino descritto da Erone negli Automata. Il teatro consta di due apparati diversi, uno detto mobile, l’altro stabile, ancorché siano mossi secondo gli stessi principî. Il teatro mobile è costituito da un cassone lungo un cubito (46 cm ca.), largo 4 palmi (31 cm ca.), alto 3 palmi (23 cm ca.); agli angoli sono poste 4 colonnette alte 8 palmi (62 cm ca.) e larghe 2 palmi (15,5 cm ca.); sulle colonnette poggiano un architrave e alcune tavole su cui si erge un tempietto con sei colonne, coperto da una cupola sulla cui sommità c’è la figura di una Nike con le ali distese. Nel mezzo del tempietto è posta la figura di Dioniso, con un tirso e una coppa e, ai suoi piedi, una panteretta; di fianco c’è un altare; fuori dal tempietto, alcune figure di baccanti. Le misure, osserva Erone, devono essere quelle indicate, perché se fossero maggiori, nascerebbe il sospetto che ci possa essere all’interno un operatore. Situato in un tubo posto al centro del cassone, diviso in due scomparti, sta un contrappeso di piombo, organo motorio di tutto l’apparato; esso poggia su una base di miglio (negli automi mobili) o di sabbia (negli automi stabili) con un forellino in fondo chiuso da una linguetta. Tolta la linguetta, il miglio o la sabbia prendono a fuoriuscire e il contrappeso, a cui sono attaccate alcune corde collegate con l’asse delle ruote motrici, poste alla base del cassone, e altre corde collegate con le ruote del piano superiore, scende lentamente e pone in movimento prima le due ruote motrici, poi, quando l’apparato si ferma, il sistema di ruote del piano superiore, dando luogo alla rappresentazione teatrale, che è descritta da Erone in questo modo:
si accenderà l’altare davanti a Dioniso. Dal tirso di Dioniso sprizzerà latte o acqua. Dalla coppa si spargerà il vino sulla panteretta che giace sotto. S’inghirlanderà tutto il luogo presso le quattro colonnette della base. Le baccanti gireranno attorno al tempietto in circolo. Vi sarà strepito di timpani e di cembali. Dopo ciò, fermatosi lo strepito, la figura di Dioniso si rivolgerà verso la parte esterna. Insieme con questa si rivolgerà la Nike che sta sulla cima. Di nuovo, l’altare, portatosi dinnanzi a Dioniso, mentre prima gli era dietro, si accenderà. Di nuovo dal tirso ci sarà lo spruzzo e dalla coppa l’effusione. Di nuovo le baccanti danzano girando attorno al tempietto col suono di timpani e cembali. Di nuovo, fermatesi queste, l’automa ritornerà al luogo di prima. E così avrà fine la rappresentazione. (Automata, 4, 1-3)
Lo spostamento più semplice del teatrino è quello rettilineo che avviene con lo svolgimento della corda sull’asse delle due ruote motrici e con l’intervento di una ruota ausiliaria posta nella parte anteriore del cassone e non collegata da corde al contrappeso. Il movimento circolare si ottiene modificando i diametri delle ruote motrici in modo da inscriverle in un cono. «Infatti, se un cono si rotola su un piano, la sua base descrive un cerchio, il cui raggio è uguale al lato del cono, e il vertice resta immobile, essendo il centro del cerchio suddetto» (Automata, 8, 1). Si possono ottenere altri tipi di movimento del cassone modificando il numero e l’assetto delle ruote.
L’automa stabile, in forma di tempietto provvisto di due ampie porte sul davanti, presenta uno spettacolo teatrale completamente diverso, ed è giudicato preferibile perché più sicuro, meno pericoloso e maggiormente in grado, rispetto a quello mobile, di accogliere ogni disposizione. La storia che Erone rappresenta, anch’essa tradizionale, è quella di Nauplio, il quale per vendicare la morte del figlio Palamede, avvenuta per colpa di Ulisse, fece naufragare sulle rocce la flotta dei Greci, di ritorno da Troia, facendo falsi segnali. La rappresentazione avviene per mezzo di scenari mobili che appaiono e scompaiono, in concomitanza con l’apertura e la chiusura delle porte situate davanti a essi. Ogni fondale su cui è dipinta una scena è arrotolato su alcuni bastoni situati in alto; questi sono srotolati di volta in volta e appaiono figure che si muovono in rilievo (artigiani che lavorano, navi che passano, pesci che saltano, ecc.). Secondo le parole stesse di Erone, la disposizione era la seguente:
Aperta la tavola all’inizio, apparivano dodici figure dipinte divise in tre file; erano come alcuni Danai che costruivano navi e le allestivano per il varo. Queste figure si muovevano, alcune segando, altre lavorando con le scuri, altre con i martelli, altre servendosi di trapani grandi e piccoli, facevano molto rumore come se lavorassero veramente. Passato un tempo sufficiente, chiuse le porte, di nuovo si aprivano e v’era un’altra disposizione; si vedevano infatti le navi condotte al mare dagli Achei. Chiuse di nuovo le porte, non appariva nulla nella tavola all’infuori di aria dipinta e mare. Dopo non molto tempo passavano le navi in linea di navigazione; le une si nascondevano e apparivano altre. Spesso anche delfini che nuotavano, ora immergendosi nel mare ora riapparendo, com’è nel vero. Poco dopo il mare appariva tempestoso, e le navi correvano in modo serrato. Chiuse e aperte di nuovo le porte, non si vedevano naviganti, ma Nauplio che aveva alzato la face e Atena disposta a lato, e si accendeva il fuoco sopra la tavola, come se dalla face apparisse andare in alto la fiamma. Chiuse e di nuovo aperte le porte, appariva il naufragio della navi e Aiace che nuotava. [Atena] era su una macchina nella parte superiore della tavola, e fatto un tuono nella medesima tavola, cadeva un fulmine su Aiace e spariva la sua figura. (Automata, 22, 3-6)
Tutto avveniva, ovviamente, per mezzo di un contrappeso e di un apparato di ruote, come nel teatrino mobile. Si può presumere che questo ingegnoso apparato, la cui descrizione Erone riprende quasi integralmente da Filone, fosse già conosciuto in una forma meno perfezionata a metà del IV secolo. Decisiva è a questo proposito la testimonianza di Aristotele, il quale nel De motu animalium fa riferimento a un congegno molto simile al teatro mobile di Erone:
Come gli automi si muovono per il fatto che si genera un piccolo movimento e si sciolgono le corde urtandosi l’una con l’altra, e il piccolo carro che ciò che è trasportato muove da sé in linea retta e di nuovo in circolo per il fatto che ha le ruote diseguali (la minore diventa come centro allo stesso modo dei rulli), così si muovono anche gli animali. Hanno infatti organi simili, la natura dei tendini e quella delle ossa, che sono come i legni e il ferro, i tendini come le corde; sciogliendosi e rilasciandosi, si muovono. Tuttavia negli automi e nei piccoli carri non c’è alterazione perché, se le ruote interne diventassero minori e di nuovo maggiori, la stessa cosa si muoverebbe in circolo; nell’animale invece è possibile che la stessa cosa diventi maggiore e minore e che le figure mutino aumentando le parti per il calore e di nuovo restringendosi per il raffreddamento e subendo una alterazione. (701 b 2-17)
La corrispondenza con l’automa di Erone è stretta. Il piccolo movimento è quello che inizia con lo scorrere della sabbia che libera i rispettivi contrappesi (nei due casi), e provoca poi lo scioglimento e il rilascio delle corde avvolte su appositi rulli; ciò che è trasportato è il contrappeso, che muove da sé il cassone in linea retta e circolarmente. Nella seconda parte del paragone sono ricordati entrambi i congegni (automa e piccolo carro), ma è evidenziato soltanto quello che serve alla locomozione, in relazione all’esigenza di spiegare la differenza con l’alterazione. Sembra quindi che al tempo di Aristotele i due apparati semoventi esistessero separatamente e che siano stati poi unificati in uno soltanto più complesso, quello che appare negli Automata di Erone.
Va notato che il teatrino di Erone costituisce il più cospicuo successo degli antichi nel campo della meccanica di precisione, ottenuto per via empirica con il ricorso ad artifici semplici e ingegnosi. Si pensi al sistema usato per regolare i tempi dei movimenti dei singoli elementi della macchina. Le fermate dei movimenti erano ottenute avvolgendo in matassine il tratto di corda che doveva rimanere non teso, cioè inoperante, e attaccandolo con della cera sul rullo di avvolgimento per modo che, trascorso il tempo di fermata (l’intervallo tra l’andata e il ritorno del teatrino, periodo in cui si svolge la rappresentazione teatrale, cioè il periodo in cui entrano in funzione altre corde), la corda, svolta la matassa che si avvoltola sul rullo, ritorna a tendersi e a riprendere il movimento (ritorno del teatrino al punto di partenza). Erone e i trattatisti precedenti erano ben consci della necessità della precisione; un’attenzione estrema è infatti dedicata alla scelta e alla qualità dei materiali, alla composizione e soprattutto alla lunghezza delle corde, che dovevano essere assemblate per via empirica; pertanto, soltanto artigiani esperti e specializzati potevano essere in grado di costruire tali congegni. Del resto, sappiamo che il teatrino era diffuso e usato nelle ricorrenze e nelle feste (specialmente nei matrimoni) come spettacolo atto a suscitare divertimento e meraviglia, e il suo mancato funzionamento avrebbe comportato seri inconvenienti per il malcapitato costruttore. Infine, non deve stupire il fatto che nel trattato di Erone non vi siano misure, se non quelle relative all’ingombro esterno dell’apparato, indicate esplicitamente soltanto in quanto necessarie per evitare sospetti di imbroglio negli spettatori. Considerando ciò che si è detto sulla delimitazione disciplinare della scienza e della tecnica greche, non ci poteva essere rapporto tra l’Erone trattatista degli automi e quello della geometria metrica.
Col termine ‘pneumatica’ gli antichi designavano tutti quei fenomeni e quegli apparati in cui si manifestava e agiva la pressione dell’acqua, dell’aria e del vapore acqueo. Prima di Ctesibio cui la tradizione, come si è visto, attribuisce la scoperta della pneumatica, non ci sono documenti che attestino l’evidenziazione e l’analisi razionale di questi fenomeni, anche se esistevano ed erano in uso apparecchi di tipo pneumatico. Il più noto è la cosiddetta ‘clessidra’, da non confondere con il misuratore del tempo che porta il medesimo nome. Si tratta di un vaso, di varia foggia, forato sul fondo e con un’apertura sul manico; immesso che sia in un recipiente pieno d’acqua, si riempie anch’esso d’acqua. Quando si tura con il pollice l’orifizio superiore e si solleva il vaso, l’acqua che contiene non esce; scorre invece quando si scopre l’orifizio. L’uso antico della clessidra, oltre che da reperti archeologici, è attestato da un curioso testo di Empedocle, tramandato da Aristotele. Empedocle si serve di tale apparecchio per instaurare un paragone con il fenomeno della respirazione (DK 31 B 100). L’interpretazione del frammento è controversa per la difficoltà di comprendere a quale tipo di respirazione si riferisca l’autore, se a quella polmonare o a quella cutanea, ma non per la descrizione dell’apparecchio pneumatico, che è precisa e lineare.
La clessidra doveva essere di uso comune, se Empedocle prospetta il paragone con il gioco di una fanciulla; il filosofo però non rileva la peculiarità del funzionamento dell’apparecchio e non si preoccupa di spiegarlo razionalmente. Diventa oggetto di studio con Anassagora, come si desume da un passo dei Problemata pseudoaristotelici (DK 59 A 69), ma la spiegazione che è data è oscura e prolissa, segno che il fenomeno non era ancora considerato in tutta la sua generalità. Ciò avviene soltanto con Ctesibio, autore del primo trattato in materia. Dalle poche indicazioni che si possono trarre da Vitruvio (De architectura, IX, 8, 4; X, 7, 4), i Commentari di Ctesibio, andati persi, non dovevano essere molto diversi dai trattati di Filone e di Erone; contenevano cioè varie descrizioni di apparecchi utili e dilettevoli inquadrati, molto probabilmente, in un contesto teorico. L’opera di Filone non ci è pervenuta nel testo greco originale, ma in una traduzione araba pubblicata da Bernard Carra de Vaux nel 1903 e in una traduzione latina parziale, anch’essa tradotta dall’arabo, conosciuta già nel Medioevo, e pubblicata da Valentin Rose nel 1870. Inizia con una introduzione teorica in cui si dimostra che l’aria è un corpo attraverso una semplice esperienza: si prende un vaso con l’imboccatura stretta con un foro sul fondo coperto di cera, lo si immerge rovesciato in una bacinella e si constata che è rimasto asciutto, ma se si toglie la cera si vede che fuoriesce l’aria e entra l’acqua. Si afferma anche che quei fenomeni rappresentatati dal sifone in cui l’acqua sale spontaneamente in alto, si spiegano con il fatto che quando si toglie l’aria l’acqua, avendo particelle unite in modo continuo, segue l’aria come se fosse unita da un collante; si sostiene inoltre che non c’è vuoto, perché se si toglie l’aria subentrano altri corpi. Sulla base di questi assunti si descrivono vari tipi di sifone e poi una serie di vasi, a cominciare dalla clessidra, con fuoriuscite di liquidi diversi o intermittenti, apparecchi in cui si frammezzano a giochi d’acqua suoni diversi e vari strumenti per sollevare l’acqua, tra cui la ‘pompa a forza’ (per la quale v. oltre).
Molti dei congegni di Filone si riscontrano anche nell’opera di Erone sull’argomento, che è la fonte più sicura sulla pneumatica antica, perché si è conservato il testo greco originale. Sugli scritti di Filone rimasti, infatti, può gravare il sospetto che ci siano state manipolazioni da parte del traduttore arabo. È probabile che Erone avesse presente, oltre a quello di Filone, anche altri trattati di pneumatica, ma egli ha amalgamato in modo non molto coerente e lineare i contenuti delle sue fonti. Ingeborg Iammer-Jensen (1910) ha elencato in modo assai puntiglioso i difetti dell’opera: il disordine strutturale dell’esposizione, le contraddizioni e le imprecisioni, giungendo alla conclusione che Erone in quest’opera si rivela un compilatore insipiente. Il giudizio di Iammer-Jensen è troppo drastico, ma i difetti dell’opera sono innegabili, tanto è vero che anche A.G. Drachmann ha dovuto ammettere che probabilmente gli Pneumatica sono soltanto una raccolta di materiali pubblicati da qualcuno dopo la morte di Erone. Comunque, gli Pneumatica sono l’opera storicamente più importante di Erone, che, tradotta in latino da F. Commandino (1575) e in italiano da G.B. Aleotti (1589) e da A. Giorgi (1592), costituì la fonte principale su cui si basarono gli architetti rinascimentali per la costruzione degli artifici e dei giochi d’acqua che adornavano alcuni tra i più ammirati giardini d’Italia e d’Europa. Nell’introduzione degli Pneumatica si dimostra che l’aria è un corpo, con una esperienza analoga a quella di Filone ma meno accurata e precisa, e che non esiste il vuoto assoluto, bensì un vuoto disseminato tra gli interstizi dell’aria, dell’acqua e degli altri corpi; perciò è possibile per mezzo di qualche forza comprimere l’aria o dilatarne le particelle in modo da creare un vuoto continuo artificiale. La teoria del vuoto disseminato è derivata dal peripatetico Stratone di Lampsaco (come ha mostrato H. Diels in uno studio basato sul confronto con un passo attribuito a Stratone dal commentatore di Aristotele Simplicio); Erone la afferma e la dimostra con una prolissa esposizione di esperienze e di osservazioni sulla pressione dell’aria. La trattazione dell’introduzione, per la sua ampiezza e per gli argomenti non pertinenti addotti – come la lunga digressione filosofica sulla reciproca trasformazione degli elementi, di matrice peripatetica – costituisce un’anomalia rispetto agli altri trattati tecnici greci, interessante dal punto di vista documentario ma da considerarsi, per quanto concerne la struttura dell’opera, accidentale. Nei primi capitoli del trattato è presentata la teoria del ‘sifone curvo’: un tubo piegato con una gamba in un vaso contenente acqua e con l’altra gamba piena d’aria; aspirando l’aria, l’acqua sale nel tubo e si porta al livello in cui è il liquido del vaso. Si descrivono poi il ‘sifone incapsulato’, in cui l’innesco può avvenire anche da sé senza l’operazione dell’aspirazione, e via via vari congegni e apparati analoghi, uguali o simili, a quelli di Filone, senza un ordine apparente. Si tratta di vasi con liquidi, vasi contenenti sifoni incapsulati, di apparati diversi in cui i sifoni sono utilizzati nei modi più complicati per ottenere giochi d’acqua e fontane. A volte sono descritte costruzioni con animali e figure varie che bevono, versano acqua ed emettono suoni, facendo passare l’aria attraverso piccole siringhe. Tra le figurazioni più complesse vi è quella descritta nel cap. 16 del Libro I, in cui vari uccellini cantano in concomitanza con il volgersi di una civetta. Si tratta di uno dei pochi casi in cui si ha commistione con la meccanica: la civetta infatti si volge per mezzo di un contrappeso e di una carrucola. Non mancano anche congegni che utilizzano l’aria riscaldata e il vapore, come la famosa ‘eolipila’ (II, 11), costituita da una piccola sfera con due tubi piegati, che poggia su due tubi sagomati ad angolo retto comunicanti con una bacinella piena d’acqua in ebollizione, attraverso i quali entra il vapore che, uscendo dai tubi piegati, fa girare la sfera.
Fra gli apparati più interessanti e complicati descritti da Erone vi sono la ‘pompa a forza’ e l’‘organo idraulico’, due geniali invenzioni di Ctesibio; queste descrizioni si segnalano per la linearità e la chiarezza rispetto alle altre esposizioni che abbiamo (di Filone e Vitruvio per la prima invenzione, soltanto di Vitruvio per la seconda).
Il settore delle meccanica che tratta delle macchine belliche è il solo in cui la dimensione applicativa sia stata notevole e diffusa nell’Antichità. Una conseguenza diretta di tale fatto è che la documentazione specifica rimasta è molto ricca rispetto agli altri settori e numerosi sono i riferimenti che si hanno anche in opere letterarie. L’utilità delle macchine come strumenti che potevano far superare le difficoltà inerenti soprattutto alla condotta degli assedi di città fortificate – che richiedevano di norma un enorme dispendio di mezzi, di tempo, di energie – è sentita dagli antichi come qualcosa di peculiare, per gli esiti imprevisti e risolutivi che esse potevano avere. Ciò traspare già dal significato originario del termine macchina. Lo strumento era tanto più efficace quanto più era insolito, strano e imprevedibile negli effetti, non suscettibile di essere neutralizzato da contromisure da parte del nemico. Le fonti testimoniano direttamente o indirettamente il senso di stupore e di ammirazione che tali ordigni suscitavano. Una tradizione derivata dalla storico Eforo attribuiva ad Artemone, al tempo di Pericle, l’invenzione delle macchine da guerra. Plutarco la espone in questi termini: «Eforo dice che Pericle si servì di macchine, novità che suscitava meraviglia, e che era con lui presente il meccanico Artemone» (Pericles, 27, 167). Il termine mēchanḗ con il significato di congegno usato in guerra, principalmente negli assedi, comincia ad apparire in scritti letterari negli ultimi decenni del V sec. a.C.; in Erodoto si trova in riferimento all’assedio di Mileto da parte dei Persiani. Mēchanḗ, quando è usato al plurale senza altra specificazione, oltre a indicare l’insieme dei mezzi ossidionali usati in una determinata azione bellica, designa anche i singoli strumenti, sia quelli abbastanza semplici, come la torre mobile o l’ariete, sia quelli molto complessi, come la catapulta: per questo motivo non è sempre facile capire a quale congegno specifico si riferisca. Tucidide usa il termine sia in senso generale, sia in senso specifico per indicare un ariete, una torre montata su navi, o più semplicemente una scala d’assedio, alcuni arnesi incendiari.
Negli storici successivi l’uso abbastanza frequente del termine nel senso indicato mostra chiaramente che i mezzi ossidionali si andarono diffondendo sempre più nella pratica militare a partire dal IV sec. a.C. Da Diodoro Siculo (I sec. a.C.), sappiamo che un impulso decisivo alla costruzione di ordigni bellici venne da Dionisio di Siracusa, che fece venire i più abili artefici dall’Italia, dalla Grecia e da Cartagine, e ne stimolò l’inventiva con premi e ricompense. Racconta lo storico: «Dionisio, era tra gli artefici ogni giorno, conversava con loro, li trattava con benevolenza, ricompensava i più alacri con doni e li invitava alla sua tavola. Perciò gli artefici, portando in loro un insuperabile zelo, inventavano molti proiettili e macchine insolite e in grado di rendere grandi servizi» (Bibliotheca, XIV, 42, 1-2). La funzione rilevante avuta da Dionisio nella creazione delle macchine belliche mostra chiaramente che in questo settore della meccanica (a differenza degli altri) l’attività di promozione politica giocò un ruolo determinante. Il carattere pubblico, collettivo di tali macchine era di per sé evidente, data l’ampia disponibilità di materiali, di uomini e di mezzi economici che esigevano per la loro costruzione, e l’apparente univoca utilizzazione militare.
Ben presto, soprattutto nelle monarchie ellenistiche, le macchine belliche divennero una componente essenziale degli eserciti, non soltanto per l’efficacia che potevano avere in guerra, ma anche perché erano utilizzate per dare una manifestazione visibile della potenza, della forza, della capacità distruttiva dell’esercito del sovrano, cioè come uno strumento del potere e dell’azione politica del monarca. La figura di Demetrio Poliorcete è ricordata come quella del sovrano che più di ogni altro seppe utilizzare al meglio la macchina bellica come strumento di azione militare e politica. Le testimonianze di Plutarco e di Diodoro Siculo attestano in modo eloquente sia l’efficacia operativa delle catapulte di Demetrio nell’assedio di Munichia, di Salamina, di Cipro e di Rodi, sia l’effetto deterrente che suscitavano alcune sue macchine, costruite in modo da apparire imponenti e terribili alla sola vista, come quella designata con il termine di elepoli. La costruzione e l’uso costante delle artiglierie nei regni ellenistici aveva contribuito a creare nelle regioni di area ellenistica un numero rilevante di operatori specializzati nel settore della poliorcetica, a cui attinse poi l’esercito romano, già in età repubblicana; anche in seguito l’apparato dell’artiglieria romana fu costruito in gran parte su modelli greci. I più importanti centri di costruzione di macchine belliche furono Alessandria, Rodi, Pergamo; va ricordato che il manuale di Bitone è dedicato ad Attalo, re di Pergamo.
Tra le diverse macchine è descritta meglio dalle fonti quella più complessa e originale trovata dagli antichi, la catapulta, che può a ragione essere paragonata, per la versatilità e l’efficacia, all’artiglieria degli eserciti moderni. La catapulta comincia a essere ricordata agli inizi del IV sec. a.C., e la sua scoperta appare legata all’attività promotrice di Dionisio di Siracusa. Lo studio di questa macchina è di estremo interesse, perché documenta in modo diretto le caratteristiche essenziali e i limiti della concezione della scienza, della tecnica e dello sviluppo che avevano gli antichi. La catapulta, infatti, porrebbe immediatamente a uno studioso moderno problemi di fisica (dinamica dei corpi, resistenza dei materiali, traiettoria dei proietti); questi problemi in effetti si posero, in relazione al funzionamento delle armi da fuoco, agli studiosi rinascimentali e del Seicento, dando vita alla balistica, anche se erano estranei alla mentalità degli antichi; per questi, data la delimitazione disciplinare di cui si è detto, la fisica riguardava essenzialmente il comportamento dei corpi naturali e la dottrina delle macchine belliche era una sezione della meccanica a sé stante, in cui i criteri costruttivi e le modalità di funzionamento della macchina erano empirici. Del pari gli antichi non seppero trarre alcun profitto dall’aver saputo costruire macchine particolarmente efficienti.
Secondo Erone, che ha tracciato una vera e propria storia delle armi da getto antiche, le prime catapulte, note con la denominazione greca di ‘gastrafete’, nacquero come un potenziamento del comune arco manuale, che era di norma di legno e su cui si legavano uno strato di tendini e uno strato delle parti cheratinose esterne dei corni animali. Con l’introduzione delle ‘catapulte a torsione’, che si diffondono nella seconda metà del IV sec. a.C., si ha un mutamento radicale; secondo E.W. Marsden, le prime catapulte furono realizzate in Macedonia dagli artefici di Filippo II tra il 353 e il 341 a.C. Le catapulte a torsione si differenziano per il fatto che la molla non è nelle parti centrali dell’arco ma è data da un fascio di corde attorcigliate, in mezzo alle quali sono sistemati alcuni bastoni, alla cui estremità è fissata la corda di lancio che li tende in modo da formare un arco. Filone descrive due tipi diversi di catapulte: in una si utilizzano molle di bronzo, nell’altra addirittura l’aria compressa. Entrambe nascono dallo straordinario genio inventivo di Ctesibio, ma pare siano rimaste a uno stadio sperimentale. Le catapulte a torsione sono di due tipi, detti rispettivamente ‘eutitono’ e ‘palintono’ a seconda del modo in cui è sagomata la parte frontale (peritreto) dell’affusto con le corde elastiche. La forma ripete i due tipi di arco presenti nell’Antichità, con arcuatura semplice e con arcuatura divisa da un manubrio centrale (si veda la fig. 7, che rappresenta l’arco eutitono e quello palintono, nonché l’affusto delle catapulte corrispondenti). Nella catapulta eutitono il peritreto è lineare e contiene i due fori; in quella palintono è diviso in due parti separate aventi ciascuna un foro e sagomate a forma di romboide, per poter ampliare l’angolo di inclinazione dei bracci dell’arco. Le dimensioni e il peso dei proietti delle catapulte a torsione erano maggiori di quelle non a torsione, per cui la diostra era mossa in avanti e indietro con l’ausilio di un argano situato nella parte posteriore dell’intelaiatura e tutta la macchina era posta su una base molto solida che ne reggeva il peso. Le corde erano allogate nei fori ed erano tirate da un apparecchio ausiliario, il tenditore; ne era poi ulteriormente accresciuta l’elasticità attorcigliandole con una sbarra di ferro sistemata sopra i fori e fra le corde con una rondella fissata al peritreto con dei tenoni. Le catapulte palintono, più robuste, erano più adatte per lanciare pietre piuttosto che dardi. Secondo i calcoli di Marsden le catapulte a torsione, quando erano armate di dardi, potevano agire fino a 350-450 m ca.; quelle che lanciavano pietre contro fortificazioni avevano un raggio d’azione minore, 135 m ca. per proietti pesanti un talento (26,2 kg). Le corde, sia quelle dell’arco sia quelle che servivano per le molle, erano per lo più di tendini oppure di capelli femminili o di crini di animali.
Per calibrare in modo eguale la tensione delle corde inserite nei due fori si procedeva con alcuni calibri oppure facendo vibrare le corde fino a quando non emettevano un suono eguale. Un problema interessante era quello di trovare la proporzione ottimale per le macchine in relazione alla lunghezza o al peso del proietto. Gli artefici antichi trovarono che l’intera macchina doveva essere costruita in funzione della grandezza del foro in cui erano allogate le corde che fungevano da molle ed elaborarono per via empirica alcune formule. Per la catapulta eutitono la formula è D=L/9, dove D è il diametro del foro espresso in dita (1 dito, gr. dáktylos, equivale a 1,85 cm ca.) e L è la lunghezza del dardo; per la catapulta palintono è D=1,1(100M)1/3, dove D è sempre il diametro del foro in dita e M è il peso del proietto espresso in mine attiche (1 mina attica=437 g ca.). È da osservare che l’uso di questa ultima formula poneva il problema della radice cubica, per il quale gli artificieri si servivano del noto teorema di geometria delle due medie proporzionali, di cui Erone e Filone danno la costruzione.
Lo strumento più usato dagli antichi per misurare il tempo era l’orologio solare a ombra, meglio noto come meridiana, ma aveva l’inconveniente di dipendere dalla luce solare ed era così inutilizzabile di notte e, di giorno, quando il cielo era coperto; dell’altro tipo corrente di misuratore del tempo, cioè la clessidra ad acqua o a sabbia, è da ricordare che esso serviva per lo più non come orologio, vale a dire per indicare l’ora del giorno, ma come segnatempo, tipicamente per misurare la durata dei discorsi nelle assemblee e nei processi. Un vero e proprio orologio che non presentava il detto inconveniente della meridiana era il largamente diffuso orologio ad acqua, la cui invenzione è anch’essa attribuita da Vitruvio a Ctesibio; Vitruvio dice che esso era utilizzabile anche d’inverno, ma ovviamente soltanto quando il clima non era troppo rigido da gelare l’acqua. L’orologio di Ctesibio, secondo la descrizione che ne dà Vitruvio, si basava sulla costanza e sulla regolarità del flusso di un liquido, il che si otteneva facendo entrare l’acqua di una fonte in un recipiente con un orifizio di uscita. Il livello del liquido era mantenuto costante facendo sì che il liquido di entrata fosse in eccesso rispetto a quello di uscita e la parte eccedente potesse uscire da un altro orifizio posto nella parte superiore, oppure per mezzo di un sifone come quello descritto da Erone (Pneumatica, I, 4). L’orifizio di uscita inferiore, da cui defluiva il liquido che riempiva un altro recipiente, era ottenuto scavando un pezzo d’oro o una gemma, per evitare l’usura per l’urto dell’acqua e per impedire il deposito di impurità. L’acqua che così scorreva uniformemente attraverso il foro di uscita inferiore del primo recipiente, riempiva lentamente il secondo recipiente, in cui era posto un galleggiante a forma di scafo rovesciato, che si sollevava a poco a poco; esso era munito di una lunga asta che negli orologi più comuni, detti ‘parastatici’, era dotata di una figurina che segnava con una bacchetta le ore, disegnate su una colonna posta accanto al recipiente. Erano in uso anche automatismi per produrre effetti di vario genere (suoni di trombe, getti di piccoli sassi, spostamenti di figurine, ecc.); per esempio, per il tramite di una sbarra su cui era situata una ruota dentata che ingranava con l’asta del galleggiante munita di denti, il movimento di ascesa del galleggiante poteva provocare segnali sonori a un tempo stabilito.
Vitruvio descrive anche un altro orologio ad acqua più complesso, detto ‘anaforico’. Questo consta di una rete di fili di bronzo che rappresentano in proiezione le ore (su linee disposte circolarmente a partire da un circolo situato al centro della rete fino alla periferia) e i mesi (raggruppati in sette cerchi concentrici), e di un disco verticale (in cui sono rappresentate, sempre in proiezione, le costellazioni e l’eclittica), sul quale è posta una catena di bronzo collegata a un contrappeso eguale al peso del galleggiante. Si poteva così vedere attraverso la rete il disco rotante e cogliere le variazioni della durata delle ore nei vari mesi dell’anno.
Nel discorso inaugurale al convegno dei filologi tenutosi a Marburgo nel 1913, pubblicato in seguito come introduzione al volume Antike Technik (1914), il grande filologo tedesco Hermann Diels svolse alcune considerazioni molto importanti, che hanno contribuito a formulare in modo nuovo il tema dei rapporti tra scienza e tecnica nell’Antichità. In quella relazione Diels rilevava che la lotta della scienza e delle tecniche moderne contro l’Antichità si fondava sull’ignoranza riguardo alla vita reale dei Greci, sia da parte degli umanisti, racchiusi in un non chiaro idealismo, sia da parte dei loro avversari (evidentemente gli scienziati e i tecnici moderni), che per formazione erano avversi agli antichi e non ne condividevano il formalismo e l’idealismo. Diels affidava ai filologi il compito di riscoprire la verità e di far conoscere la realtà della cultura antica, in particolare il rapporto tra scienza e tecnica che gli antichi avevano scoperto ed elaborato. L’intento di Diels era perciò quello di rafforzare e di corroborare quel profondo connubio reciproco tra scienza e tecnica, teoria e pratica, che vedeva presente nelle scuole tedesche del suo tempo.
Diels ritiene che la figura del tecnico sia sorta a Mileto e a Samo nel VI sec. a.C., e ne ricorda gli esponenti di spicco: Talete, che utilizzava a fini pratici le conoscenze astronomiche; Arpalo, costruttore dei ponti sull’Ellesponto per il passaggio delle navi di Serse; Cleostrato, che aveva installato un osservatorio astronomico sul monte Ida; Mandrocle, costruttore di un ponte sul Bosforo per il re Dario; Eupalino, che realizzò l’acquedotto nel monte Castro a Samo, impresa tra le più celebrate dell’Antichità. Alla scuola di Mileto ricollega Anassimandro, Anassimene e poi Pitagora e i suoi seguaci, i quali evidenziarono il ruolo dei numeri e la ricerca delle proporzioni negli oggetti, che tanto influenzò l’arte greca; e ancora Archita, Filone, Ctesibio, Archimede, che più di ogni altro nell’Antichità ha incarnato l’unione fruttuosa fra teoria e pratica, ed Erone. Ricorda pure i più elaborati congegni costruiti dagli antichi: le catapulte, gli orologi ad acqua, le macchine per la riduzione delle ossa menzionate negli scritti ippocratici.
Che gli antichi avessero piena coscienza della necessità dell’unione tra teoria e pratica è bene espresso, secondo Diels, dal famoso avvertimento che Vitruvio pone all’inizio della sua opera, ma, sempre secondo Diels, la tecnica e i tecnici furono disprezzati nell’Antichità. Egli riconduce questo fatto in primo luogo al dominio delle aristocrazie, per cui anche un artista come Fidia era considerato un artigiano, e così non era infranta la ferrea barriera tra la cerchia aristocratica dei ‘belli e buoni’ e gli artigiani e i contadini; inoltre, al carattere schiavistico dell’economia, che faceva mancare l’impulso a costruire macchine per sostituire il lavoro manuale. Il quadro sintetico elaborato da Diels, per cui i Greci avevano scoperto e praticato la fruttuosa unione tra scienza e tecnica pur in un contesto culturale e sociale sfavorevole, è ben delineato e argomentato, tanto da apparire convincente qualora se ne accetti la sostanziale rigidità e ambiguità.
Queste tesi sono all’origine del dibattito odierno sul mancato sviluppo della tecnica greca. Le cause di tale ristagno addotte da Diels sono state ampiamente articolate, di - scusse e criticate; ne sono state aggiunte altre, come l’assetto contemplativo della filosofia greca, oppure la concezione greca della tecnica, che vedeva nella costruzione di macchine un inganno operato contro la Natura, e altre ancora. Carattere comune di queste argomentazioni, alcune delle quali hanno un riscontro reale, è quello di muovere dalla concezione moderna della scienza e della tecnica e del loro reciproco rapporto; perciò la valutazione sorge da una comparazione, diretta o indiretta, tra approccio antico e moderno ed è volta a trovare una linea di sviluppo coerente e unitaria al di là delle differenze, spesso rilevanti. Gli studiosi dell’Ottocento e dei primi decenni del Novecento adottavano in modo esplicito tale presupposto, per cui, per esempio, il grado di perfezione nella formulazione di un teorema era criterio valido per la datazione posteriore di quello più corretto, oppure in modo implicito, assumendo come un dato di fatto, per esempio che una realizzazione tecnica complessa implicasse necessariamente un apparato matematico adeguato. È il caso dell’acquedotto di Eupalino citato da Diels. Questa impresa era stata riproposta all’attenzione degli studiosi dall’archeologo E. Fabricius, il quale aveva analizzato a fondo in loco e misurato in modo preciso il tunnel, di cui aveva dato una descrizione minuziosa in un articolo pubblicato nel 1884. W. Schmidt, studioso di Erone, aveva stabilito un collegamento con il procedimento geometrico connesso con l’uso della diottra e descritto da Erone (nel cap. XV della Diottra), che spiega appunto come si debba operare per traforare una montagna. Schmidt aveva ipotizzato che Eupalino dovesse essere stato in grado, sulla base delle sue conoscenze geodetiche, di stabilire la distanza presa in esame e la direzione dello scavo, forse anche con l’ausilio di uno strumento più semplice di quello di Erone. Diels accoglie in modo ancor più netto la connessione proposta da Schmidt, perché evidentemente muove dal presupposto che la realizzazione di una tale opera dovesse implicare necessariamente una strumentazione matematica, anche se non ci è noto se sia esistita in tale periodo. Si chiede come poté essere stabilita geometricamente la direzione del tunnel e risponde che, fortunatamente, Erone ci ha lasciato la descrizione schematica di questa livellazione, determinata in base a una serie di coordinate ad angolo retto e di costruzioni di triangoli. Come risulta da studi di epoca più recente, non ci sono però elementi che stabiliscano questa connessione e sembra anzi che il tunnel possa essere stato costruito anche con metodi più empirici di quelli tramandatici da Erone.
La linea del confronto rigido, di cui l’approccio di Diels costituisce un esempio, in genere non è più seguita dagli studiosi moderni, i quali hanno un atteggiamento più cauto, più realistico e dotato di maggior senso storico; tuttavia, il modo stesso con cui pongono i problemi tradisce pur sempre il desiderio di realizzare una continuità di metodo e di contenuti tra la ricerca scientifica e tecnica antica e quella moderna. Non si cercano più nell’Antichità soltanto i prodromi di una via che conduce, pur tra difficoltà e incertezze, alla realizzazione della matematizzazione della Natura, alla sperimentazione sistematica, all’integrazione tra scienza e tecnica, ma si rilevano le varie articolazioni della ricerca scientifica e tecnica, anche quelle meno giustificabili da un punto di vista razionale, e si cerca di contestualizzare tali deviazioni e di spiegare, con motivazioni storicamente adeguate, gli impedimenti o i rallentamenti in un percorso ideale ben costruito. Il problema così posto è storicamente più accettabile, ma non è risolto se non si rimuove il presupposto di cui si è detto. Occorre, per far ciò, accentuare ancor più la determinazione storica, sia per quanto riguarda le acquisizioni operate dai Greci, che vanno valutate soltanto alla luce dei parametri, dei metodi e delle prospettive da loro stessi elaborati, sia per quanto riguarda le ripercussioni che tali acquisizioni hanno avuto nel corso dei secoli successivi, che sono determinate altrettanto storicamente e vanno viste in base alle accettazioni e alle critiche che hanno suscitato. La linea del confronto va pertanto considerata nei modi reali e concreti con cui si è costituita, cioè come una linea evolutiva connotata in senso dialettico; la concezione moderna della scienza, della tecnica e dei loro reciproci rapporti nasce, si costituisce e si caratterizza perciò come un lungo processo di liberazione dai criteri antichi, prima faticosamente assimilati e poi via via rifiutati a mano a mano che si acquisiva la coscienza dei loro limiti, delle loro manchevolezze, delle loro insufficienze. Nel contesto così delineato, anche gli argomenti di ordine culturale, sociale ed economico addotti per spiegare le manchevolezze dell’approccio antico acquistano un significato più proprio; si tratta di elementi reali, omogenei a una concezione della scienza e della tecnica intrinsecamente e strutturalmente delimitata e che pur tuttavia, anche per quei suoi limiti, è l’origine della moderna indagine scientifica e dei moderni procedimenti di controllo e di manipolazione della Natura.
Per comprendere bene la questione, occorre partire da come si è costituita nei Greci la nozione stessa di’ disciplina scientifica e tecnica’. Essa nasce dalla riflessione su quel tipo peculiare di sapere che emerge in tutte le società primitive abbastanza evolute in conseguenza della specializzazione del lavoro, per la quale un numero più o meno ampio di individui, delegati dalla comunità, acquisisce alcune competenze specifiche che li mettono in grado di costruire manufatti complessi o di conservare e gestire conoscenze particolari su singoli fenomeni naturali o su determinati elaborati concettuali. Nel mondo greco, tra il VI e il V sec. a.C. si sono in gran parte costituiti vari tipi di questi saperi speciali, che riguardano non soltanto la fabbricazione di oggetti, cioè le varie produzioni artigianali, ma anche la salvaguardia della salute del corpo e diversi complessi di regole e di proposizioni relative a procedure di calcolo, di misurazione, di osservazioni celesti, il cui nucleo originario era stato mutuato dalla più antica civiltà egizia, cosa di cui i Greci stessi avevano coscienza. È significativo che molti dei cosiddetti presocratici, che diedero origine alla spiegazione razionale dei fenomeni naturali, siano essi stessi esponenti di questi saperi speciali, designati come téchnai. Talete e Democrito erano conosciuti, oltre che come fisiologi, cioè indagatori della Natura, come geometri; Pitagora era addirittura considerato inventore dell’acustica e Archita della meccanica. La riflessione sulle téchnai nasce appunto dai fisiologi, ma assume ben presto, già nel V e IV sec. a.C., una forma articolata e sistematica; esse costituisce infatti il tema centrale della filosofia classica greca. Da Socrate a Platone ad Aristotele, l’attenzione è rivolta a indagare le caratteristiche essenziali di tali saperi e a cercare di estenderne l’ambito anche alle attività riguardanti i comportamenti umani. La più ambiziosa generalizzazione in questo senso è stata compiuta da Platone, con i suoi tentativi volti a costituire una téchnē politica.
L’esame dei connotati propri dei saperi speciali, caratterizzati dalla specificità dei loro oggetti e dei successi conseguiti nella produzione di manufatti, nella cura delle malattie e nella soluzione di problemi di matematica e di discipline affini, costituì il punto di partenza dell’estensione platonica. È però soprattutto Aristotele colui che più di ogni altro ha analizzato la forma tipica del sapere delle téchnai, situandola rispetto alle altre forme di conoscenza. La disamina si fonda sul modo con cui si determina l’oggetto particolare del sapere speciale mediante un processo di delimitazione di esso rispetto agli altri oggetti o, come nel caso delle matematiche, separando mentalmente parti di oggetti reali; ricercati o definiti i principî di tali oggetti, se ne traggono conseguenze che sono di ordine operativo o teorico. L’analisi aristotelica dei saperi speciali è vista nella prospettiva compiuta e generale del problema della conoscenza, ossia è situata in relazione al sapere che indaga gli enti reali (quelli che hanno in sé il principio del movimento e della quiete), cioè la fisica, e a quello che indaga l’ente in quanto tale, cioè la filosofia. Dalla sistematizzazione aristotelica consegue che le téchnai produttive e teoriche sono per loro natura necessariamente delimitate e non suscettibili d’integrazione reciproca, ma non consegue una cesura insanabile con la fisica, perché è asserita l’omogeneità strutturale tra gli oggetti reali e gli oggetti creati dall’arte. Tale assunto riguarda però soltanto i principî costitutivi essenziali, che sono i medesimi, e non ha conseguenze operative nella ricerca, perché la separazione rigida dei vari oggetti delle téchnai è omologa alla separazione, altrettanto rigidamente costituita, dei vari e molteplici fini, ancorché componibili in un tutto sufficientemente ordinato che realizza la Natura nel suo operare.
La trattazione aristotelica delle téchnai non fa che potenziare e legittimare sul piano teorico una situazione largamente presente in tutta la cultura greca dall’età classica in poi. La separazione e la delimitazione tra discipline scientifiche è infatti attestata in generale nella classificazione gerarchica delle scienze, da quella di Aristotele a quella di Gemino – in cui è affermata la distinzione tra discipline con oggetti intelligibili (aritmetica e geometria) e con oggetti sensibili (meccanica, astronomia, ottica, geodesia, canonica e logistica) – e alla classificazione delle varie parti della meccanica data da Pappo, che sembra essere un elenco di attività presenti nella vita reale, non strutturato in modo omogeneo né razionalmente motivato; tale separazione e delimitazione era presente soprattutto nella concreta attività degli operatori. L’assunto della specificità dei principî limitava l’esercizio della ricerca e costringeva a sempre nuove suddivisioni con principî ad hoc a mano a mano che sorgevano problemi complessi. Nessun rapporto organico sussiste tra la meccanica (cioè l’insieme dei congegni riconducibili alla leva e alla bilancia) e la pneumatica, tra l’astronomia e l’ottica, tra gli scritti sulle macchine belliche, sugli automi, sugli strumenti. Il trattato sulla diottra di Erone, per esempio, è visto come un’opera a sé, come una descrizione dello strumento e delle sue funzioni, nella quale non c’è alcun cenno all’ottica.
Di norma, la commistione disciplinare consisteva nel prestito di proposizioni o di risultati di una disciplina che erano funzionali per un’altra, senza però che risultassero alterati i reciproci assetti dottrinali e senza che fosse rimosso il rigido diaframma della distinzione per blocchi conoscitivi autonomi. In alcuni casi i prestiti erano cospicui e consistenti, come quelli dalla geometria teorica a quella metrica, o dalla geometria all’astronomia, a volte più limitati, come dalla geometria alla meccanica o dalla dottrina dei galleggianti alla pneumatica, a volte del tutto marginali, come dalla meccanica alla pneumatica. Il problema della separazione era così sentito che nella coscienza dell’operatore che più di ogni altro rappresenta lo spirito della scienza e della tecnica greca, Archimede, la commistione poteva essere praticata, ma non era legittima. È noto, infatti, che il geniale metodo euristico che Archimede deriva dalla sua dottrina dei centri di gravità, cioè da una sorta di meccanica geometrica che sembra costruita ad hoc per la risoluzione di problemi geometrici complessi, non era considerato rigoroso da Archimede stesso, appunto perché tratto da una branca diversa del sapere matematico; i risultati conseguiti dovevano poi essere dimostrati con i metodi propri della geometria. L’uso del prestito poteva essere inteso anche, estensivamente, come una conoscenza plurima di questioni specifiche di settori disciplinari diversi, nel caso di téchnai particolari come la medicina o l’architettura. Si pensi al trattato del corpus ippocratico De aëre, aquis, locis, in cui sono richieste per l’ottimo medico competenze di astronomia, meteorologia, geografia. Anche i famosi passi di Vitruvio in cui si sollecita l’architetto a congiungere l’attività manuale con quella razionale e a essere versato in varie discipline, vanno intesi in questo senso. I passi sono i seguenti:
Gli architetti che si sono impegnati nel loro lavoro senza lettere, pur essendo esercitati con le mani, non poterono ottenere un’autorità correlata alle loro fatiche; coloro che si sono fidati soltanto del raziocinio e delle lettere non sembra abbiano conseguito un risultato, ma soltanto un’ombra di esso […] E perciò l’architetto sia letterato, esperto in disegno, conoscitore della geometria, sia informato di molte storie, abbia udito con attenzione dei filosofi, sappia la musica, non sia ignaro di medicina, sia informato dei responsi dei giureconsulti, gli siano note l’astronomia e le ragioni dei cieli. (De architectura, I, 1, 2-3; il primo passo è quello cui fa riferimento Diels nella conferenza menzionata più sopra)
La conclamata necessità dell’unione dell’attività manuale con la ratiocinatio, si riduce alla capacità dell’architetto di comprendere la validità delle abilità e delle conoscenze plurime che occorrono per giustificare appieno il valore dell’opera che compie. L’altrettanto conclamata versatilità dell’architetto vuol dire soltanto che nel suo bagaglio conoscitivo devono entrare conoscenze pratiche su fatti specifici mutuate estrinsecamente da altre discipline (comprese quelle che servono a soddisfare i bisogni del committente).
Nella concreta attività degli operatori la dimensione concettuale e l’esigenza di fondamenti generali erano inesistenti. Non si riesce a trovare nei non molti testi greci riguardanti la matematica o le matematiche applicate alcuna riga che si possa definire di analisi concettuale (se si escludono le Questioni meccaniche sopra descritte, che si è detto costituiscono appunto un’anomalia rispetto agli altri trattati tecnici greci). L’analisi filosofica relativa alla matematica e alle discipline fisico-matematiche, da Platone ad Aristotele fino a Proclo, è di esclusiva pertinenza dei filosofi. Una situazione in parte diversa si ha nelle opere di carattere medico: negli scritti del corpus ippocratico, infatti, è sì ribadita continuamente la specificità dell’arte medica, del suo oggetto e dei suoi presupposti, ma ciò avviene in un contesto in cui si hanno spesso osservazioni di carattere concettuale, logico e metodologico, e in cui non manca la polemica nei confronti di una trattazione della medicina di tipo generale e filosofico che negava di fatto la peculiarità della téchnē medica. L’attenzione verso problemi di ordine metodologico e logico si prolunga anche in seguito, quando ormai l’arte medica in quanto tale, corroborata da una lunga tradizione, non è più contestata ed è vivissima in Galeno. La permanenza di una tematica filosofica in questo settore si spiega con la peculiarità dell’oggetto della téchnē medica, il corpo umano, realtà organica complessa e interagente che non era possibile considerare in ambiti separati oltre un certo limite, e quindi in modo avulso dalla prospettiva filosofica generale di tipo finalistico con cui, di norma, nell’Antichità si interpretavano gli oggetti reali.
L’intrinseca delimitazione e il carattere sostanzialmente empirico delle tecniche antiche non ha favorito l’uso ampio, rilevante e continuo delle macchine nella società e, conseguenza non marginale, ha contribuito a far sì che la documentazione rimasta, sia letteraria che archeologica, sia scarsa. La formazione dell’operatore, infatti, era di tipo pratico e si conseguiva con l’apprendistato o per mezzo di manuali redatti in modo grezzo e con un linguaggio criptico e comprensibile solamente agli operatori; questi risultavano quindi poco diffusi anche fra operatori diversi, che preferivano mantenere segreto il loro sapere, e non si conservavano a lungo. I pochi manuali rimasti, come quelli di Erone, esemplari per la chiarezza del linguaggio e redatti programmaticamente anche per non specialisti, appartengono a un genere letterario superiore, anche se riflettono il mondo reale degli operatori. È probabile che tra le fonti di Erone, accanto a trattati elaborati razionalmente come quelli di Filone, ci siano manuali di tipo pratico e che egli abbia partecipato alla risoluzione dei non pochi problemi relativi alla costruzione dei congegni più elaborati; ne è una prova, per esempio, l’attenzione che dedica alla scelta e alla fattura dei materiali, come si è sottolineato negli Automata. Congegni simili dovevano avere poca diffusione, dato che per la loro costruzione erano necessarie competenze plurime difficili da conseguire e, soprattutto, difficili da mantenere nel tempo. Tale difficoltà era attenuata in parte dalla scarsità delle innovazioni, per cui lo stesso modello di apparato si conservava inalterato per secoli. Questi fattori possono spiegare in parte la scarsità dei reperti archeologici, anche se alla base di questo fatto c’è un motivo legato alla deperibilità dei materiali, in quanto gli apparati antichi erano fatti prevalentemente di legno, con pochi pezzi di bronzo e di piombo. Tra i reperti più interessanti vi sono i resti della cosiddetta macchina di Anticitera (una sorta di orologio-calendario astronomico molto complesso), di una catapulta trovata ad Ampurias in Spagna e di una pompa ctesibica conservata al museo archeologico di Madrid.
Altro problema rilevante è quello dell’effettiva costruibilità degli apparati descritti dalle fonti. Se si escludono quelli che compaiono nelle opere storiche e letterarie, che sono in genere privi di dettagli significativi, è verosimile che la maggior parte dei dispositivi che sono descritti in testi tecnici sia stata effettivamente costruita. Non sono mancati in tempi moderni tentativi di ricostruzione di congegni antichi; il più accurato è stato senza dubbio quello, relativo alle catapulte, fatto dall’ufficiale di artiglieria dell’esercito tedesco Erwin Schramm, all’inizio del Novecento. Vari congegni (alcuni a grandezza originale), costruiti con dovizia di mezzi e con grande cura nella scelta e nella manifattura dei materiali, in modo che le ricostruzioni fossero il più aderente possibile a quelli antichi, sono stati sperimentati con successo. Gli esemplari rimasti (quattro delle undici ricostruzioni sono andate perse durante la Seconda guerra mondiale) sono ancora visibili nel museo di Saalburg, vicino a Bad Homburg, nei pressi di Francoforte. Per altri congegni più complicati, come gli automi di Erone, l’impresa sarebbe molto più ardua. Occorrerebbero, in particolare per una ricostruzione fatta rispettando le capacità e le possibilità degli antichi e non condotta con mezzi e criteri moderni, una manualità e una pratica consolidate dall’uso, che sono ora difficilmente acquisibili.
La struttura rigidamente specialistica delle discipline scientifiche e tecniche elaborate dai Greci ebbe esiti notevolissimi, ma anche intrinsecamente e necessariamente delimitati, inseriti in una prospettiva radicalmente diversa da quella moderna. Si pensi al fatto che ai Greci risultò inconcepibile una vera nozione di progresso scientifico. Come si è visto, il modo stesso con cui avevano sviluppato la ricerca per sezioni in sé concluse spingeva a concepire che le scienze potevano perfezionarsi e allargarsi in relazione alla scoperta di nuovi campi di indagine e alla conseguente creazione di nuove partizioni disciplinari, ma non a immaginare che potessero porsi in una linea di sviluppo progressiva. Il passaggio da procedimenti primitivi a forme di manipolazione della materia più comode e redditizie era sì avvertito, specie nelle téchnai produttive, ma come un problema specifico che gli operatori dovevano risolvere empiricamente oppure derivare da altri fino ad acquisire la forma di un perfezionamento concluso e sempre rigidamente circoscritto. I limiti, le manchevolezze della scienza e della tecnica degli antichi si spiegano quindi essenzialmente con fattori intrinseci al peculiare modo di concepire la scienza e la tecnica, e non tanto o non soltanto con i motivi di ordine filosofico o di carattere sociale ed economico che sono stati indicati, i quali semmai non hanno fatto che accentuare ulteriormente una situazione statica in sé. Si creò così una tradizione scientifica e tecnica consolidata e stratificata, che fu perduta in gran parte per alcuni secoli, ma che fu faticosamente e lentamente riacquisita nei suoi tratti essenziali e costitutivi agli albori dell’età moderna, e poi altrettanto faticosamente e lentamente superata.
Il processo di liberazione dalla concezione greca della scienza e della tecnica comincia già in età rinascimentale e coincide con la piena assimilazione della scienza e della tecnica antiche, che si attua appunto in tale periodo. Di fronte a una tradizione che appariva così compatta e conclusa, la cui assimilazione comportò uno sforzo di penetrazione e di analisi così forte da condurre a forme di immedesimazione con gli antichi – tali da portare a integrare le parti mancanti (attraverso le cosiddette divinazioni) o addirittura a manipolare i testi (si pensi a F. Maurolico) – la cosa più difficile da raggiungere era la coscienza della possibilità di andare oltre i risultati conseguiti. Essa scaturì dalla riflessione sulle lacune e le contraddizioni della tradizione antica ma anche e soprattutto dai nuovi elementi, dai nuovi bisogni, dai nuovi fenomeni che scaturivano dalle scoperte e dai profondi sconvolgimenti di ordine sociale, economico e politico che si ebbero nel corso del XVI secolo. Si creò così una nuova mentalità, aperta, dinamica, capace di affrontare le questioni in modo ampio e generale, e questa fu subito premiata da successi notevolissimi, che davano il segno tangibile e concreto che le scienze antiche non avevano affatto esaurito l’ambito del conoscibile. S’instaurò pertanto una continuità reale e concreta tra scienza e tecnica antica e moderna, non diretta ma di tipo dialettico. L’approccio moderno è nato dalla modificazione di quello antico; i tratti essenziali sono stati mantenuti, ma così ampliati e generalizzati da cambiare radicalmente la concezione, generale e particolare, della ricerca scientifica e tecnica. Permane la nozione stessa di téchnē come insieme di principî che definiscono e spiegano gruppi di enti o di fenomeni, ma cade ogni delimitazione rigida e quindi l’approccio particolare ai problemi; il processo riguarda più o meno tutte le discipline e si manifesta progressivamente. Per restare nell’ambito della meccanica, se Guidobaldo del Monte scrive una meccanica che è ancora la meccanica degli antichi, potenziata e arricchita nei dettagli (portata quindi a compimento con aggiunte che apparivano marginali all’autore), se Niccolò Tartaglia la amplia arricchendola con un nuovo settore sconosciuto agli antichi, ossia lo studio della traiettoria dei proiettili di artiglieria – che affronta però con il metodo proprio degli antichi, rozzo e delimitato –, invece già in Stevin e in Salomon De Caus la trattazione è meno ristretta e più innovativa.
Soltanto con Galileo e Descartes la meccanica assume una forma diversa; è ancora in entrambi la teoria delle macchine semplici, ma l’assunzione di un principio dinamico astratto la colloca in un ambito più ampio; d’altra parte, come si è detto, la rottura dell’assetto rigido e dell’intrinseca delimitazione della scienza degli antichi coinvolge ben presto tutta la ricerca nel corso del Seicento. Il rappresentante più tipico di questo nuovo procedere è senz’altro Descartes, per il quale la meccanica si concettualizza e si amplia, la geometria s’integra con l’algebra, l’ottica si spiega con la meccanica, la biologia trova nella macchina il suo punto di riferimento sostanziale. La fisica non è più la scienza, distinta dalle altre discipline scientifiche particolari, che studia gli oggetti reali nei loro fini e nella loro essenza, ma diventa la scienza che intende e valuta gli oggetti reali alla luce di una concezione generale, il meccanicismo, che li riduce a entità suscettibili di indagini univocamente determinate. Strumento d’elezione è il metodo analitico, mutuato dalla geometria degli antichi, ma reso generale e in grado d’interpretare tutta la realtà naturale e umana. Descartes, inoltre, affronta in modo radicale il problema dei fondamenti del sapere scientifico e inaugura quella lunga serie di scienziati filosofi che si prolunga almeno fino al XIX secolo. Dalla prima metà del Seicento in poi il movimento di superamento della delimitazione della scienza e della tecnica antiche risulta irreversibile, ma non è univoco; esso si manifesta in modo articolato e differenziato ma presenta ancora resistenze in molti Paesi e non soltanto nei settori tradizionalisti, che pur rimangono vivissimi, ma anche nel caso di alcuni dei protagonisti della cosiddetta rivoluzione scientifica.
Ancor più lento è però il cammino che porterà al superamento di quella particolare forma di delimitazione che è la separazione tra scienza e tecnica e fra le varie tecniche. Il superamento, in questo caso, rimane a lungo soltanto programmatico e velleitario, e non si traduce in una prassi concreta, tranne che in un settore limitato, quello della realizzazione di strumenti scientifici. Il messaggio baconiano di un dominio dell’uomo sulla Natura grazie all’ausilio della scienza e della tecnica, fatto proprio da Galileo e da Descartes, rimane nulla più che un topos letterario fino agli illuministi; il superamento potrà compiersi soltanto dopo che le varie discipline scientifiche moderne si saranno consolidate nella prima metà dell’Ottocento.
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