Scienza greco-romana. Meteorologia
Meteorologia
All’inizio del suo trattato dedicato alla ‘meteorologia’, Aristotele afferma di voler esaminare la parte delle ricerche fisiche alla quale i suoi predecessori si riferivano utilizzando questo termine. Si tratta di una delle più complesse e vaste discipline scientifiche antiche che, per molti aspetti, può essere considerata un esempio paradigmatico delle scienze fisiche non esatte dell’Antichità. Dopo Aristotele l’ambito della ricerca meteorologica è stato definito in differenti modi dai Greci e dai Romani in diversi momenti nel corso della loro storia, e il suo studio è stato perseguito per una molteplicità di ragioni. Di conseguenza, ogni descrizione generale dell’antica meteorologia corre il rischio di sollevare più questioni di quante ne risolva. Alcune derivano dai diversi metodi attraverso i quali lo studio scientifico della meteorologia era ordinato ed esaminato; altre, invece, riguardano la vasta ricezione incontrata da questa disciplina al di fuori delle comunità scientifiche che l’avevano elaborata. La meteorologia, infatti, non soltanto era molto varia e complessa in termini di dottrina, ma era anche una scienza di grande interesse pubblico, e coloro che la esercitavano spesso si trovavano al centro della pubblica attenzione.
Diversamente da molte discipline moderne i cui nomi suggeriscono un’origine antica – la zoologia e la geologia, per esempio –, la meteorologia era un’area d’indagine più o meno definita già nell’Antichità greco-romana. L’opinione secondo cui essa concernesse lo studio e la previsione dei fenomeni atmosferici, se non il clima in generale, non è del tutto errata; dopotutto, la storia della letteratura greca dimostra che, sin dalle sue origini, la previsione e la spiegazione delle configurazioni atmosferiche e la loro associazione ai fenomeni celesti erano argomenti a cui era rivolta una grande attenzione. Non è sorprendente dunque che il possesso di questo tipo di conoscenze potesse conferire un’autorevolezza pratica e immediata, e nel complesso la speculazione, spesso rudimentale, sull’origine dei fenomeni naturali (e in modo particolare di quelli che preoccupano o spaventano) era una parte costitutiva ed essenziale della scienza della Natura. Era difficile ignorare fenomeni come i temporali, le inondazioni, le siccità, le strane apparizioni osservate nel cielo e coloro che cercavano di spiegarli dovevano affrontare problemi che, molto spesso, non rientravano nel campo dell’indagine empirica diretta. Per alcuni, le soluzioni offerte a questi problemi svolgevano un ruolo importante nella divinazione e in diverse altre tecniche di previsione. La tradizione della divinazione meteorologica era un’importante componente della scienza della Natura antica e l’unione tra meteorologia e astronomia costituisce il tema di un’opera particolarmente rappresentativa di questo genere: la Tetrabiblos composta nel II sec. d.C. da Tolomeo. In linea generale, tuttavia, il desiderio di spiegare da un lato, e la frequente impossibilità pratica di elaborare in molti casi una spiegazione rigorosamente basata sull’indagine empirica dall’altro, rappresentano le più durevoli e coerenti caratteristiche della meteorologia antica, se non dell’antica scienza della Natura nella sua totalità.
La meteorologia deriva il suo nome dal termine metéōros (e dalle sue forme affini, inclusa quella di metársios), che significa semplicemente ‘che è in alto’. Secondo l’etimologia, essa avrebbe dovuto quindi riguardare esclusivamente lo studio dei fenomeni meteorologici, e vi era un consenso unanime nel ritenere che il compito del meteorologo fosse quello di studiare le «cose che accadono nel cielo» (è con questa espressione che il biografo della Tarda Antichità Diogene Laerzio, nel descrivere l’opera dedicata dallo stoico Posidonio a questo soggetto, spiegava il termine ‘meteorologia’). In pratica, però, la meteorologia trattava di una vastissima area di problemi naturali: dall’origine delle comete e dall’origine e dalla natura della Via Lattea, delle meteore, dei fulmini, dei venti, dei terremoti, dei vulcani, degli oceani e delle maree, fino alla formazione dei fiumi, delle montagne, delle rocce, dei minerali e dei metalli. Alcuni studiosi si concentravano su particolari tipi di problemi, ma, in generale, il termine ‘meteorologia’ era impiegato per designare l’indagine della Natura nella sua totalità.
Aristotele narra la storia di questa disciplina nei suoi vasti Meteorologica, e nel Libro I della Metafisica e nel De caelo affronta altre questioni relative ai dettagli del contesto in cui essa è a collocarsi. L’influenza esercitata da questi trattati sulle opere successive, sia nell’Antichità sia in epoche più recenti, è stata immensa nonostante Aristotele non fosse uno storico della filosofia e il suo interesse per ciò che avevano detto i suoi predecessori fosse del tutto particolare. In questo senso è utile considerare con una maggiore attenzione ciò che gli altri studiosi antichi di questa disciplina pensavano riguardo al proprio campo d’indagine.
Anche se la nostra conoscenza di quest’area della scienza antica è profondamente influenzata dalle dottrine meteorologiche di Aristotele (dal carattere generale del suo sistema filosofico e dalle sue considerazioni sulle motivazioni e sugli interessi di coloro che lo avevano preceduto), non vi è alcuna ragione di dubitare del suo presupposto secondo cui questa scienza derivava dall’indagine della Natura più generale che aveva caratterizzato l’opera dei primi filosofi greci. Disponiamo, però, soltanto di scarse prove dirette dell’esistenza di una tale attività e non è sicuro che i confini di questa disciplina fossero quelli che, a parere di Aristotele, i suoi predecessori avevano stabilito. Secondo alcune testimonianze della Tarda Antichità, tra i cosiddetti filosofi presocratici, Talete, Ione di Chio e Diogene di Apollonia avrebbero composto opere i cui titoli erano analoghi a perì meteórün, ma soltanto l’ultima attribuzione è generalmente considerata attendibile, e anche in questo caso non si sa molto del contenuto di quest’opera, a parte il fatto che Aristofane probabilmente si riferiva alle dottrine in essa esposte quando parodiava nelle Nuvole i discorsi dei meteorologi. Nella maggior parte dei casi, infatti, la nostra conoscenza degli avvenimenti relativi al VI e al V sec. a.C. si basa esclusivamente su testimonianze della Tarda Antichità – spesso molto tarda.
Un’idea del contesto fisico in cui s’immaginava che i fenomeni terrestri avessero luogo può essere desunta dalle concezioni cosmologiche dell’antica poesia epica greca. Il Cosmo di Omero, per citare soltanto un esempio, è uno spazio in una certa misura ben definito in cui l’aria e l’etere sono elementi distinti (secondo un antico commentatore, l’aria si estende nello spazio compreso tra la Terra e le nuvole, mentre l’etere si trova oltre le nuvole). La Terra è piatta, circolare, circondata alle sue estremità dal grande fiume Oceano, la fonte originaria di tutti gli altri fiumi. Il linguaggio cosmologico di Omero è, ovviamente, profondamente metaforico: Oceano è descritto come il genitore di tutte le cose, inclusi gli stessi dèi, e gli altri fenomeni naturali, come per esempio i terremoti e le inondazioni, sono interpretati e spiegati come risultati delle azioni e delle emozioni degli dèi. Le origini di queste concezioni sono estremamente difficili da individuare. Molti studiosi ritengono che certe dottrine cosmologiche di Omero abbiano la loro origine in aree diverse da quelle in cui si parlava greco (e ciò è probabilmente vero) benché questo non significhi che tutte le dottrine cosmologiche antiche che discendono dal modello di base omerico – e in modo particolare quelle che sembrano essere state elaborate per reazione a quest’ultimo – abbiano necessariamente origini simili. Il moderno esame comparato del pensiero greco e delle culture a questo vicine tende a ritenere che il carattere agonico, dialettico, della prima filosofia greca sia molto probabilmente unico, e una quantità di prove indiziarie indirette dimostrerebbe che il pluralismo degli antichi modelli greci del Cosmo è una funzione tanto delle divergenze esistenti nei circoli culturali greci, quanto di influenze dirette di altre culture.
Non tutto il linguaggio cosmologico della poesia è metaforico come quello di Omero, neppure quello della poesia antica. E così se in molti miti eziologici greci che spiegano il fenomeno del succedersi del giorno e della notte, il Sole, la Terra e l’acqua sono associati strettamente (per citare un solo esempio, che ci è stato tramandato dal poeta Mimnermo, il Sole cavalca attraverso la volta celeste, e poi naviga attorno alla Terra sul possente fiume, prima di sorgere il giorno successivo), d’altro canto, Esiodo, nel suo poema morale e didascalico sul lavoro agricolo, Le opere e i giorni, riconduce i fenomeni naturali a cause più esplicitamente naturali, pur nella cornice del discorso metonimico, tipico della poesia. Esiodo ordina l’anno agricolo in base al sorgere e al tramontare di alcune importanti costellazioni, e alle stagioni che esse annunciano. Il buon agricoltore, ripete, deve avere familiarità con i fenomeni celesti e con i connessi mutamenti delle stagioni terrestri. La conoscenza sia delle credenze tradizionali, sia della scienza relativa a tali questioni è un elemento decisivo per il successo dell’‘uomo retto’ sulla Terra. Non è un caso che Esiodo definisca ‘invernali’ le Pleiadi, in quanto egli associa la comparsa di certe costellazioni alle differenti stagioni dell’anno. I cieli sono la regione degli dèi, e qualunque cosa emani da essi, direttamente o indirettamente, è potenzialmente temibile perché avrà inevitabilmente un effetto sulla vita terrestre; soltanto l’uomo virtuoso che comprende il funzionamento dell’Universo può vivere in autentica armonia con la Natura.
L’opera di Esiodo contiene indicazioni utili alla comprensione e alla predizione delle configurazioni atmosferiche, e ciò è evidente in un brano tipico de Le opere e i giorni: «Quando, poi, Zeus avrà fatto passare sessanta giorni invernali dopo il solstizio, ecco l’astro d’Arturo che, lasciate le sacre correnti di Oceano, appare sul far della sera per primo e più fulgente di tutti» (versi 564-567). In questo modo Esiodo apre una lunga tradizione di indagine sull’utilità prognostica dei segni del tempo atmosferico nella determinazione di futuri eventi terrestri, come pure di ciò che potremmo chiamare ‘previsione’. I dati empirici così preservati erano talvolta incorporati in modo più formale nei calendari astronomici, e l’esame di un piccolo numero di questi ultimi – tarde versioni dei cosiddetti parapḗgmata, che sono stati ritrovati – sembra dimostrare che le informazioni relative al sorgere e al tramontare delle diverse stelle e delle diverse costellazioni fossero direttamente legate alle configurazioni atmosferiche che avrebbero probabilmente prevalso in quei momenti. Alcune fonti di epoca tarda attribuiscono a Esiodo un’opera intitolata Astronomia e, a giudicare dai frammenti che ci sono pervenuti, sembra che essa fosse dedicata all’indagine sulle origini delle costellazioni. Nessuna di queste fonti lascia intendere che l’opera di Esiodo fosse un manuale pratico destinato ai semplici agricoltori; la tradizione della poesia didascalica nell’Antichità aveva infatti un pubblico molto selezionato e, nella sua quasi totalità, non interessato alla pratica. Dal punto di vista intellettuale, dunque, Esiodo sembra esprimere lo stesso tipo di tendenza alla connessione tra gli eventi terrestri e quelli celesti che caratterizza le opere scientifiche molto più tarde. Naturalmente, lo studio del tempo atmosferico non veniva condotto interamente in versi; nel corpus aristotelico c’è un’opera sulle origini geografiche dei venti e sulle loro caratteristiche, e Teofrasto, il successore di Aristotele, compose un trattato intitolato De signis tempestatum (che ci è pervenuto) nel quale prende in esame una serie di problemi che potremmo definire climatologici. Problemi che vanno dalle connessioni tra il tempo atmosferico terrestre e il sorgere e il tramontare dei corpi celesti, ai legami esistenti tra il comportamento delle piante e degli animali e il clima, al potere profetico dell’osservazione delle configurazioni dei venti e delle formazioni delle nubi. Teofrasto, come Esiodo, non si sofferma sulla spiegazione teorica di queste connessioni, ma si limita a esporre le relazioni tra i fenomeni così come le ha osservate o come gli sono state descritte. Il suo catalogo delle affinità meteorologiche attrasse molti copisti della Tarda Antichità: opere come la Tetrabiblos di Tolomeo (già menzionata), e il De ostensis di Giovanni Lido, redatto nel VI sec. d.C., testimoniano del costante interesse per la divinazione attraverso i segni meteorologici, cosa che divenne una parte costitutiva ed essenziale dell’astrologia.
Mentre il poeta Esiodo nelle sue composizioni era prevalentemente interessato all’elencazione delle affinità nello studio del tempo atmosferico, la spiegazione teorica dei fenomeni meteorologici era sin dall’Antichità una materia studiata dai filosofi. Sembra che nel V sec. a.C. Diogene di Apollonia avesse inserito nella sua opera sulla meteorologia anche un’ampia discussione sulle prime origini della materia e sulla natura fisica dell’uomo. L’ipotesi secondo cui l’uomo è formato dagli stessi elementi che costituiscono l’Universo appare molto presto e pone in rilievo il concetto di simbiosi tra uomo e Cosmo che ricorre costantemente nel pensiero antico. Alla luce di ciò non è sorprendente constatare che molti autori di testi medici fossero interessati alla meteorologia. Il trattato ippocratico intitolato De aëre, aquis, locis esamina nei dettagli l’influenza esercitata sulla salute dal clima, dall’ambiente e dalle configurazioni atmosferiche; altri autori ippocratici impegnati nella formulazione della teoria fisiologica – per esempio, l’autore di De carnibus – erano perfettamente consapevoli del lavoro svolto dai teorici non medici nel campo delle interazioni degli elementi fisici nell’ambiente umano. Molti si rendevano conto dell’utilità pratica di questa disciplina; l’architetto romano Vitruvio, per esempio, era perfettamente consapevole dell’importanza della conoscenza dei fenomeni meteorologici per i costruttori e i progettisti che dovevano proteggere le loro costruzioni e coloro che le occupavano dai pericoli ambientali di ogni genere.
Per Aristotele, questa disciplina aveva una prospettiva esplicitamente teorica, esplicativa. All’inizio della sua più importante trattazione di questo argomento, egli afferma infatti che la meteorologia include l’esame di un’ampia gamma di fenomeni «che avvengono per natura, ma non con la regolarità che caratterizza l’elemento primo dei corpi ». In generale, secondo Aristotele la meteorologia s’identifica con lo studio e la spiegazione dei problemi associati all’interazione dei quattro elementi – terra, aria, fuoco e acqua – nella regione che include la Terra e si estende fino ai limiti della sfera descritta dall’orbita della Luna. Egli chiama questo ambiente terrestre (che in effetti era il teatro di tutti i fenomeni meteorologici), «sfera sublunare», preoccupandosi di distinguerla dalla regione ‘sovralunare’, che è la sede del quinto elemento, l’etere, ed è retta da specifiche teorie fisiche e dinamiche. In breve, per Aristotele la meteorologia era una branca pratica della teoria degli elementi; egli sostiene che ciò valeva anche per i suoi predecessori, di cui presenta le spiegazioni dei fenomeni che si producono nell’atmosfera e sulla Terra come se fossero un terreno di prova per differenti generi di teorie degli elementi.
Teofrasto di Ereso proseguì l’indagine sulla natura delle sostanze elementari e del loro comportamento, ricorrendo alle categorie e al linguaggio aristotelici. Il suo nome è anche associato all’inizio della cosiddetta tradizione dossografica, attraverso la quale ci sono state tramandate le opinioni di molti Greci dell’Antichità sull’intero repertorio dei problemi meteorologici che era divenuto più o meno canonico dopo la metà del IV sec. a.C.; infatti, nelle opere dei dossografi della Tarda Antichità (per es., nella pseudogalenica Storia della filosofia, nei Placita, falsamente attribuiti a Plutarco, e nelle Egloghe di Stobeo, per non menzionare le opere dei dossografi ecclesiastici Clemente di Roma e Ippolito di Roma), si tende a raccogliere e a presentare insieme le concezioni sull’origine e la natura della pioggia, del vento, della neve, del ghiaccio, della grandine, dei terremoti, delle comete, del mare e dei fiumi (in particolare sulla natura del Nilo).
Se alcuni accettavano che la meteorologia si estendesse ai fenomeni che si producevano all’interno della Terra, altri ancora non fissavano un limite superiore per ciò che bisognava considerare «posto in alto» e in alcune antiche fonti la linea di demarcazione tra meteorologia e astronomia non sempre è ben definita. Molti stoici, incluso il filosofo del II sec. a.C. Posidonio, ritenevano che l’Universo fosse un continuum coerente e coesivo di cielo e Terra, e ciò spiega perché l’astronomia, la meteorologia, la geometria e la geografia contenessero ciascuna gli elementi di tutte le altre. L’astronomo Gemino, per esempio, definisce la situazione nel contesto del suo stoicismo e afferma che le branche dell’astronomia sono rappresentate dalla gnomonica, che si occupa della divisione del tempo attraverso le meridiane; dalla meteorologia, che stabilisce – fra le altre cose – il sorgere e il tramontare dei corpi celesti e la loro distanza reciproca; infine, dalla diottrica, che determina la posizione del Sole, della Luna e delle stelle, avvalendosi di strumenti appositamente ideati (citato da Proclo, In primum Euclidis Elementorum librum commentarii).
Questo approccio olistico non era una caratteristica esclusiva degli stoici; nella Tetrabiblos, Tolomeo adotta infatti un punto di vista ugualmente comprensivo in proposito ripetendo, all’inizio della sua opera introduttiva all’astrologia e alla divinazione, che i fenomeni terrestri, atmosferici e celesti non possono essere esaminati separatamente l’uno dall’altro, dal momento che il potere che emana dall’etere influenza tutto ciò che accade sulla Terra. Questa concezione non era affatto insolita; Alessandro di Afrodisia (vissuto fra il II e il III sec. d.C) nel commento ai Meteorologica di Aristotele (In Aristotelis Meteorologicorum libros commentaria, 70, 30), riferendosi in particolare alle concezioni di Anassimene, ma attribuendo probabilmente al suo accenno un carattere più generale, osserva che gli antichi meteürológoi pensavano che il Sole non fosse trasportato al di sotto della Terra, ma attorno a essa. Molti astrologi, astronomi e calcolatori di oroscopi scorgevano – come si è detto – un legame tra i fenomeni che si producevano nei cieli superiori e in quelli inferiori; questo legame trovava una conferma nell’opinione di Aristotele secondo cui il moto circolare della sfera sovralunare dà il primo impulso a tutti i fenomeni dinamici che si producono attorno alla Terra e sulla sua superficie. È significativo che il commentatore aristotelico Alessandro di Afrodisia, parlando dell’importanza che la determinazione della posizione del Sole rispetto a quella della Terra ha per il meteorologo, colleghi esplicitamente la meteorologia all’astronomia e alla cosmologia.
La scienza meteorologica quindi includeva, in base ai diversi orientamenti, argomenti ben definiti e distinti, che variavano a seconda dei contesti in cui i differenti individui e gruppi operavano e studiavano. Essa aveva anche altri aspetti: l’effettiva imprevedibilità dei fenomeni atmosferici e le difficoltà insuperabili che essi presentavano alla trattazione, temi ricorrenti nel pensiero scientifico greco e romano. Così, per molti di coloro che non facevano parte della comunità scientifica la meteorologia era lo stereotipo di una scienza disordinata e incoerente, e come tale essa forniva infiniti spunti alla comicità e alla parodia. Al di fuori della filosofia, pensatori di ogni sorta erano definiti indiscriminatamente meteorologi, fisiologi e fisici; i critici popolari facevano notare argutamente la futilità a cui andava incontro chi dedicava la propria vita alla formulazione di strane, inconcludenti teorie sui fenomeni terrestri e sulle loro cause. Un conservatore come il poeta comico ateniese del V sec. Aristofane giunse persino a dare a una sua commedia un nome che alludeva alla più nebulosa delle discipline; Nuvole è infatti una parodia dei filosofi – come, per esempio, Diogene di Apollonia – costretti a tenere la testa tra le nuvole per poterle studiare. L’ampiezza delle critiche rivolte da Aristofane ai filosofi della Natura nelle Nuvole suggerisce che la speculazione sui fenomeni naturali atmosferici occupasse una posizione di rilievo nelle attività dello stesso Socrate. Quando, nell’Apologia di Platone, Socrate, nel giudizio che avrebbe deciso della sua vita, prende la parola per difendersi, spiega infatti che la parodia di Aristofane gli aveva nuociuto e ingiustamente: «Sono le solite cose che si sogliono dire contro tutti i filosofi, e cioè che speculo sulle cose del cielo e di sottoterra» (Apologia Socratis, 23 d). Senofonte, nel suo studio sulla vita di Socrate, sostiene che a chi lo accusava di essere un meteorologo e di studiare «le cose che stanno in aria», egli replicava domandando devotamente al suo interlocutore se esistesse qualcosa di più elevato degli dèi.
Le prove dei pregiudizi del popolo contro i meteorologi non sono rare; nel frammento di un’opera del tragico ateniese Euripide, un personaggio a un certo punto domanda esasperato se chi può alzare gli occhi verso queste cose, e trascura di scorgere gli dèi, mette da parte le ingarbugliate menzogne dei meteorologi; il poeta comico Eupoli, deridendo questi ultimi, definisce a un certo punto un personaggio vano declamatore degli oggetti celesti, un uomo che mangia polvere. Gorgia, il sofista del V sec. a.C., riassume con chiarezza e con una maggiore ricercatezza il nodo centrale del problema nel seguente frammento tratto dall’Encomio di Elena, in cui pone l’accento sul ruolo centrale svolto dalla retorica e dal potere di persuasione nelle spiegazioni di ciò che in definitiva è inverificabile:
E poiché la persuasione, congiunta con l’argomentazione (lógos), riesce a dare all’anima l’impronta che vuole, bisogna apprendere anzitutto i ragionamenti dei meteorologi, i quali sostituendo ipotesi a ipotesi, distruggendone una, costruendone un’altra, fanno apparire agli occhi della mente l’incredibile e l’inconcepibile; in secondo luogo, i dibattiti oratori di pubblica necessità, nei quali un solo discorso non ispirato a verità, ma scritto con arte, suole dilettare e persuadere la folla; in terzo luogo, le schermaglie filosofiche nelle quali si rivela anche con quale rapidità l’intelligenza facilita il mutar di convinzioni dell’opinione. (DK, 82 B 11, 13)
In questo brano, Gorgia gioca sull’ambiguità del termine lógos – che può significare tanto ‘argomentazione’, in senso rigorosamente logico, quanto ‘discorso’, in senso puramente retorico – ed egli accusa efficacemente i ‘meteorologi’ di estorcere il consenso al loro pubblico.
Che i medici e i filosofi fossero consapevoli della loro immagine pubblica risulta chiaramente da alcuni testi del corpus ippocratico, che confermano anche abbastanza efficacemente l’opinione, ampiamente diffusa, secondo cui vi era una sovrapposizione tra i temi della meteorologia e quelli della teoria medica. L’autore del trattato De aëre, aquis, locis (cap. II), per esempio, difende l’importanza di questa disciplina ed esorta gli studenti a non dimenticare che l’importanza della meteorologia nello studio dell’influenza del clima sulla salute non è trascurabile. Contrariamente, però, molti altri medici si affrettarono a prendere le distanze da quelle che, in modo sbrigativo, erano considerate dottrine assurde e non verificabili. La stessa prudenza era adottata anche da coloro che si trovavano in bilico tra la formulazione di convincenti teorie patologiche e l’inevitabile accusa di mancanza di chiarezza speculativa. La speculazione a cui si abbandonavano i teorici – medici e non medici – tendeva infatti a essere fatta oggetto delle critiche particolarmente violente di quei medici che, a loro volta, avevano posizioni difficili da sostenere. Al cap. 1.1 del trattato ippocratico intitolato De vetere medicina, l’autore si riferisce con un certo disdegno a coloro che «continuano a insistere sulle cose dell’aria », fenomeni – a suo parere – difficili se non impossibili da spiegare, le cui indagini si trovano a dover ripiegare su supposizioni non verificabili e su ipotesi fantasiose sulla natura dell’Universo, di cui secondo l’autore la medicina non ha alcun bisogno. Come Gorgia, egli sottolinea che l’indagine dei fenomeni meteorologici non è che un gioco retorico, un’ostentazione di ricercatezza, in cui ottiene la vittoria l’oratore che presenta l’argomento più plausibile. Si potrebbe ragionevolmente sostenere, tuttavia, che l’autore di quest’opera ippocratica si abbandoni, a sua volta, allo stesso genere di gioco retorico: nella sua descrizione della natura del corpo umano sano, egli infatti si lascia andare alle stesse speculazioni che prende di mira negli altri. Lo stesso può dirsi dell’autore di una delle opere speculative più confuse della letteratura medica antica, il trattato ippocratico De carnibus, che, alludendo evidentemente ai medici rivali, osserva: «Ritengo superfluo parlare degli oggetti dell’aria (tà metéōra) al di là della loro rilevanza nella mia spiegazione della crescita e delle origini dell’uomo e degli altri animali, della natura dell’anima e della salute, della malattia, di ciò che è maligno e benigno nell’uomo, e di ciò che lo conduce alla morte» (De carnibus, I, 2).
Questo argomento è ripreso anche all’inizio del trattato ippocratico intitolato De natura hominis e apre una lunga tradizione di critiche scettiche rivolte dai medici alla filosofia della Natura. Il tono polemico di quest’opera ippocratica dimostra l’esistenza, tra gli studiosi di medicina, di un vivace dibattito riguardo al grado di rilevanza della speculazione sui problemi più difficili relativi alle nostre prime origini, e alla prima natura della nostra costituzione di esseri umani, per le esigenze dei medici praticanti. Questa gamma di differenti posizioni sulla meteorologia e sui meteorologi permane nel corso di tutta l’Antichità. Molti Padri della Chiesa ripresero la consuetudine retorica popolare di classificare tutti gli studiosi greci di scienze fisiche in una o due ampie categorie: Eusebio di Cesarea, per esempio, attacca la pomposità dei meteōrológoi e dei physiológoi, anche se in un’altra sede, piuttosto stranamente, nel riconoscere la profondità e l’intuitività della conoscenza che Abramo aveva della Creazione, lo definisce meteorologo. Nel corso di tutta l’Antichità, sia nel contesto sociale sia in quello intellettuale, lo status del meteorologo e quello della sua disciplina furono dunque complessi, per non dire ambivalenti.
Alcuni studiosi moderni tracciano una netta linea di demarcazione tra i primi tentativi di spiegazione razionale dei fenomeni meteorologici attribuiti ai più antichi filosofi presocratici come, per esempio, Talete e Anassimandro, e le origini divine di essi, ancora più antiche, riscontrabili nella poesia epica di Omero. Secondo questi studiosi, sostenere che i terremoti siano il risultato dell’ira di Poseidone è una cosa ben diversa rispetto a presentare spiegazioni più ‘naturali’. Altri sottolineano che sin dalla prima Antichità esisteva una disciplina ben definita, molto simile a quella che oggi chiamiamo climatologia, e che il genere di studio pratico dei fenomeni di cui si sarebbero serviti gli agricoltori e i marinai (l’esistenza del quale è dimostrata da un esiguo numero di prove archeologiche e letterarie, già menzionate) deve essere considerato separatamente. Aristotele, però, pone Esiodo e gli antichi poeti sullo stesso piano dei primi filosofi, e oggi la distinzione tra metafora e mito nella poesia, da un lato, e i discorsi ‘razionali’, dall’altro, è considerata con cautela dalla maggior parte degli studiosi. Così, per quanto riguarda l’interazione tra teoria e pratica ci si trova su un terreno molto instabile, in parte a causa dei pregiudizi contro le attività manuali che sono una caratteristica distintiva di molte opere letterarie greche e di alcune romane. L’intera questione della gamma dei contesti di questa disciplina è ulteriormente complicata dal fatto che Aristotele nell’esporre il suo pensiero attinge da una grande varietà di differenti tipi di fonti, tentando di mostrare che i suoi predecessori, in un modo o nell’altro, erano in errore.
È evidente, tuttavia, che i primi naturalisti greci cercavano d’individuare un sistema soggiacente ai fenomeni terrestri, ma ciò che è ancora più significativo è che gli stessi strumenti esplicativi di base erano impiegati in tutti i generi di teorie eziologiche, sia all’interno sia all’esterno della filosofia. Aristotele può così dirci che Esiodo sosteneva (Le opere e i giorni) che la pioggia ha la sua origine nel vapore umido proveniente dal suolo, e vedere in quest’affermazione una dottrina non meno seria delle idee analoghe esposte da Senofane (DK 21 B 30, 32, 37), Ippone (DK 38 B 1) e Parmenide (DK 28 B 10, 11, 12). Come si è detto, secondo Aristotele i suoi predecessori ritenevano (con poche ma significative eccezioni che saranno brevemente considerate più avanti) che i fenomeni terrestri fossero spiegabili soprattutto in termini di interazione tra elementi fisici. Questo quadro però è eccessivamente coerente, e Aristotele probabilmente ha rielaborato l’intera discussione alla luce della sua concezione di un principio elementare originale, archḗ, costituito da una sostanza materiale composta. Parlando del gruppo dei primi filosofi in generale, e di Talete in particolare – un pensatore di cui già al tempo di Aristotele non era sopravvissuto nessuno scritto – Aristotele enuncia la seguente definizione di principio elementare, indicando chiaramente che essa era approvata anche dai suoi predecessori: «essi affermano che è elemento e principio delle cose esistenti appunto ciò di cui tutte quante le cose esistenti sono costituite e da cui primamente provengono e in cui alla fine vanno a corrompersi, anche perché la sostanza permane pur cangiando nelle sue affezioni» (Metaphysica, A, 3, 983 b, 7). Talete lo identificava nell’acqua, prosegue Aristotele, Anassimene nell’aria, ed Empedocle postulava quattro «radici» – fuoco, aria, acqua e terra. Molte raffigurazioni, è vero, non si conformavano a questo modello: Anassimandro conferiva all’ «illimitato» uno status di principio elementare e Parmenide gettava seri e logici dubbi sull’intero programma di spiegazione del divenire fisico in termini d’interazione di radici prime, sostenendo che il divenire stesso è logicamente impossibile, e con esso il concetto di elemento. Anche queste ultime raffigurazioni sembrano, tuttavia, aver offerto soluzioni ai problemi meteorologici, espresse nel linguaggio dei teorici degli elementi.
Prendendo in esame in modo più approfondito soltanto uno dei casi più singolari, constatiamo che Anassimandro aveva posto a principio dell’Universo ciò che egli chiamava «l’illimitato»; tuttavia, le connessioni di questo principio col modo di operare dei fenomeni terrestri sono poco chiare. Le fonti, infatti, concordano nell’affermare che egli aveva sostenuto la produzione dei venti da parte di soffi leggerissimi che si staccano dall’aria e che, raccoltisi, si mettono in movimento; quella della pioggia a opera del vapore che sotto l’azione del Sole s’innalza dalla terra e, infine, quella dei fulmini come risultato del vento che, piombando sulle nuvole, le squarcia. Quest’attenzione per i processi che presentano una somiglianza meccanica, facilmente individuabile, con l’esperienza umana, diviene tipica nelle successive spiegazioni dei fenomeni atmosferici, come, per esempio, nel caso dell’attività sismica. È noto che Talete aveva supposto che i terremoti fossero prodotti dal movimento della terra la quale scivola sulla superficie increspata dell’acqua che la sostiene; Anassimandro, Anassagora e Democrito li attribuivano apparentemente all’azione di venti impetuosi rinchiusi dall’acqua in cavità sotterranee. Il coinvolgimento dell’acqua e dell’aria dimostra che molti antichi filosofi della Natura cercavano evidentemente nell’atmosfera e nei fenomeni terrestri superficiali o sotterranei i segni dei terremoti. Aristotele e i suoi successori, come si vedrà in seguito, rielaborarono questa base esplicativa.
In Grecia, al tempo di Aristotele, era stata elaborata una terminologia meteorologica che indicava i tipi di trasformazione fisica che producono i fenomeni naturali terrestri. I termini impiegati per designare le diverse proprietà degli elementi terrestri e i loro processi tipici, come, per esempio, atmís (vapore), anathymíasis (esalazione), metabolḗ (trasformazione), hygrón e xērón (secco e umido), manón e pyknón (rarefatto e denso), entrarono a far parte del gergo meteorologico e verso la metà del IV sec. a.C. il loro uso si era già consolidato. È impossibile dire chi precisamente usò per primo ciascuno di questi termini, o in quale misura essi fossero specifici di particolari dottrine, o quanti di essi furono coniati dagli stessi Platone e Aristotele.
Platone è stato spesso accusato di essere prevenuto nei confronti dello studio delle questioni naturali poiché presentavano difficoltà insuperabili. Secondo la tradizione, egli considerava secondario lo studio dei fenomeni naturali, in quanto questi sono imperfetti e imprevedibili rispetto alla contemplazione delle forme ideali che esistono separatamente dal mondo fisico. Assertore del principio teleologico, Platone mostrava uno scarso interesse per la spiegazione dei fenomeni che non esemplificano la metodica ricerca del bene da parte della Natura. Questo, però, non gli impedì, nella maturità, di esaminare nei dettagli i fenomeni naturali. Anche se alcuni recenti indirizzi di ricerca tendono a dare una maggiore rilevanza agli interessi etici di Platone rispetto a quelli scientifici, non bisogna dimenticare che nell’Antichità la sua maggiore opera scientifica, il Timeo, fu uno dei più autorevoli e diffusi testi di riferimento del platonismo. Nel Timeo, nell’excursus sui fenomeni terrestri, in cui sono adottate le categorie esplicative stabilite dai suoi predecessori, egli rivolge al lettore un significativo ammonimento: «Se alcuno, per desiderio di riposo, lasciando i discorsi intorno alle cose, che sono sempre, ed esaminando le ragioni verosimili delle cose generate, prende un piacere senza rimorsi, si potrebbe procacciare nella vita un passatempo moderato e ragionevole. E ad esso anche ora indulgendo, seguitiamo a esporre intorno a queste stesse cose le opinioni probabili a questo modo» (Timaeus, 59, c-d).
Secondo Platone, gli elementi terrestri – terra, aria, fuoco e acqua – sono in un perenne stato di fluidità, come molte altre cose del nostro mondo sensibile, fisico e percettibile, incessantemente soggetto alla generazione e alla distruzione. Gli elementi platonici sono, in realtà, minuscole particelle tridimensionali, geometricamente perfette, del sostrato materiale caotico dell’Universo fisico. I quattro elementi, tuttavia, nelle loro manifestazioni non si presentano allo stato puro, esenti da mescolanza, ma si trasformano incessantemente l’uno nell’altro. Ciò significa, tra l’altro, che tutti i fenomeni terrestri che risultano dall’interazione di questi elementi sono connessi tra loro; così, la spiegazione dei fenomeni che si verificano nell’atmosfera sarà simile, nello stile espositivo, alla spiegazione dei fenomeni che si producono all’interno della Terra stessa. Inoltre, l’elemento prevalente in una data situazione fisica può assumere una molteplicità di diverse forme: il fuoco, per esempio, può manifestarsi come fiamma, come calore, o come luce. L’acqua, per parte sua, può presentarsi, naturalmente, come liquido, come vapore o come solido, ma, in congiunzione alla terra, essa può assumere la forma di ciò che Platone chiamava «acque condensate» – la più perfetta delle quali è l’oro. Con l’aggiunta di una particella di terra, l’acqua congelata può divenire rame; in una forma degradata e invecchiata, e con una maggiore quantità di terra, essa assume invece la forma della ruggine.
A questo punto della discussione, Platone si arresta. Dopotutto, non vi era una grande necessità di procedere nel suo svolgimento: dal momento che il numero delle possibili trasmutazioni e combinazioni delle forme elementari è infinito, sarà infinito anche il numero delle possibili specifiche spiegazioni di ciò che accade. Nel Timeo (59 c-d) egli osserva tuttavia, in tono quasi confidenziale, che una volta afferrato il principio generale che opera in ogni caso, lo studente non avrà nessuna difficoltà a formulare spiegazioni plausibili di altri processi naturali dello stesso tipo. Così, benché l’excursus meteorologico di Platone sia molto breve – esso non sfiora neppure i problemi trattati da Aristotele, come, per esempio, l’origine dei terremoti, delle comete, della salinità del mare, delle variazioni del livello del mare e così via – esso ebbe, attraverso la sua chiara esposizione dell’argomento dell’interazione tra gli elementi, una profonda influenza sulle opere successive.
È importante ricordare che l’epistemologia e l’ontologia di Platone non erano così contrarie allo studio degli ordini inferiori della Natura come alcuni critici del XX sec. hanno ritenuto; in realtà, Platone è notevolmente vicino, in linea generale, ad Aristotele, che aveva un’acuta, analoga percezione dei problemi posti dall’indeterminatezza della Natura terrestre e delle difficoltà insuperabili che essa presentava alla trattazione. Aristotele indubbiamente pensava che le idee su cui aveva basato il suo metodo scientifico avrebbero posto una grande distanza tra il suo pensiero e quello di Platone. In particolare, la sua insistenza circa la possibilità di spiegare l’esistenza di qualcosa a prescindere dal riferimento alle sue forme esterne e il suo approccio flessibile alla tassonomia e alla gerarchia delle cause, stanno a indicare che egli poteva offrire spiegazioni di fenomeni non facilmente interpretabili in senso teleologico. Non si può, però, fare a meno di notare una sorprendente affinità tra i tipi di spiegazione dei fenomeni meteorologici presentati da Platone e quelli adombrati da Aristotele.
Detto ciò, l’atteggiamento di Aristotele verso lo studio della Natura era non soltanto più elastico, ma anche più ot - timistico di quello di Platone. Con quest’ultimo egli condivideva l’intuizione della posizione privilegiata occupata dallo studio dei fenomeni che si producono con una perfetta regolarità e, allo stesso tempo, la fiducia nell’idea secondo cui i processi ordinati in ragione di un fine sono caratteristici dei livelli più elevati della Natura. L’impulso teleologico di Aristotele, tuttavia, non ha la sua origine nell’opera di un creatore consapevole; i processi naturali sono diretti al raggiungimento di determinate finalità e, quindi, le finalità stesse si presentano sotto diversi aspetti. In alcuni casi, i processi sono finalizzati al miglioramento degli organismi in cui si producono, mentre in altri casi la finalità dell’esistenza di qualcosa è da ricercarsi nella sua utilità per l’uomo (come la pioggia, il cui scopo è sia quello di fornire acqua fresca alla terra sia quello di irrigare le messi coltivate dall’uomo). Secondo Aristotele, poche cose non sono ordinate in ragione di un fine e l’esistenza di queste cose, che sono elencate nella parte finale del trattato De generatione animalium, è dovuta semplicemente al fatto che nella loro costituzione la materia prevale sulla forma.
All’inizio dei Meteorologica, è riassunto il lavoro già svolto nella Fisica e nel De caelo. Aristotele nella Fisica aveva trattato dei principî naturali della materia e del suo opposto, assieme al movimento e alla causalità; nel trattato sul cielo aveva esaminato ciò che accade al di là della sfera la cui superficie è descritta dall’orbita lunare. Nella sua filosofia prima si era impegnato a stabilire il ruolo di primaria importanza svolto dai modelli matematici nella dimostrazione scientifica, e nella sua precedente opera sulla natura della Natura aveva individuato nel comportamento dei corpi celesti e nel loro caratteristico moto circolare i più rappresentativi esempi di ordine naturale. Nei Meteorologica intende invece affrontare lo studio dei fenomeni fisici, atmosferici e terrestri che si producono nella sfera la cui superficie è descritta dall’orbita della Luna. Aristotele afferma che mentre alcuni di questi fenomeni ‘sublunari’ rimangono inspiegabili, altri sono, in una certa misura, spiegabili; sostiene, tuttavia, che tutti gli eventi che si verificano nella Terra, intorno alla Terra o sulla sua superficie, sono naturali, anche se non si producono con una perfetta regolarità. Facendo eco alla convinzione di Platone secondo cui in questioni così difficili la certezza non è acquisibile – per ragioni ontologiche – egli osserva, nel cap. VII del Libro I dei Meteorologica, che si deve considerare soddisfacente un resoconto dei fenomeni non realmente accessibili all’osservazione che riesce a darne una spiegazione possibile. In un certo numero di passaggi dei Meteorologica, egli sottolinea che le sue affermazioni sono basate sui fenomeni «esperibili»; i fenomeni in questo caso comprendono anche ciò che gli autori più antichi avevano detto in proposito, dal momento che Aristotele sostiene che le stesse opinioni ricorrono, non una, due, o più volte, ma in eterno.
L’approccio gerarchico di Aristotele allo studio della Natura è evidente nell’ordine in cui si svolge la sua esposizione; per primi sono i fenomeni che si producono nella regione più vicina alla sfera in cui si muovono le stelle. Questi fenomeni – comete, meteore, la cosiddetta «Via Lattea» – sono il prodotto dell’azione del fuoco (che naturalmente occupa la parte più elevata della sfera sublunare) e dell’aria. Ciascuno dei quattro elementi fuoco, aria, terra e acqua ha un suo luogo, ma ognuno di essi si trova in potenza nell’altro, come del resto avviene per tutte le cose per cui vi è un sostrato al quale in ultima analisi possono essere ricondotte (I, 2-3). Conformemente a una pratica consolidata, Aristotele introduce ogni nuovo argomento con un sommario delle concezioni dei suoi predecessori. Egli trova accettabile l’idea secondo cui le stesse stelle si trovano al di là della sfera sublunare e non sono composte da fuoco terrestre. La verità sulla natura e sul moto delle stelle, afferma, è stata stabilita «dai matematici» (egli aveva affrontato questo problema nel trattato sul cielo); tuttavia, prosegue, le luci sublunari hanno la loro origine nel moto circolare sovralunare che attraverso il suo attrito scalda la parte più esterna dell’atmosfera terrestre. Le stelle cadenti, l’aurora, le fiamme ardenti, quelle che alcuni chiamano «torce» e «capre», e le comete hanno la loro origine in questo processo.
Nel cap. IV del Libro I dei Meteorologica, Aristotele espone in modo più dettagliato l’idea di questo processo, supponendo che dal riscaldamento della terra ad opera del Sole si generino due tipi di esalazione: il primo è umido e simile al vapore, e ha la sua origine nell’umidità evaporata; l’altro è secco e ventoso, e ha la sua origine nella terra stessa. L’esalazione secca sale verso l’alto; il suo successivo, rapido moto ai limiti superiori della sfera sublunare la fa infiammare, ed è questa la causa di tutti i fenomeni menzionati precedentemente. In termini causali, l’origine materiale di questi fenomeni è individuata nell’esalazione secca, mentre la causa efficiente è il moto impartito dalla sfera celeste. Dal momento che si tratta di fenomeni che non si producono sempre nello stesso modo, e dato che Aristotele è preparato a considerare diverse spiegazioni causali per ogni singolo caso, non è sorprendente che egli non si preoccupi di stabilire se questi fenomeni abbiano o no uno scopo, una causa finale.
I successivi libri dei Meteorologica affrontano altri fenomeni naturali, disposti in ordine discendente, da quelli delle regioni più elevate della sfera sublunare al comportamento dei mari e dei fiumi, per finire con la natura e le origini delle sostanze che si trovano nella terra. Il Libro IV, la cui autenticità è stata più volte messa in dubbio sin dall’Antichità, prende infine in considerazione le modalità e la varietà dei processi naturali di scala ridotta – per esempio, la cottura e le sue tre specie: la maturazione, la bollitura e l’arrostitura – che caratterizzano l’interazione dei quattro elementi. Se il tema di Aristotele si svolge in modo più o meno ordinato, le spiegazioni dei fenomeni specifici, benché in definitiva fondate sul comportamento dei quattro elementi e sulle loro rispettive qualità, sono in misura crescente dirette alla descrizione di eventi circoscritti: più in basso si scende nell’ordine della creazione, meno si può pretendere di trovare un ordine.
Teofrasto di Ereso, allievo di Aristotele, proseguì la sua indagine nelle aree meno ordinate della Natura, compilando brevi trattati sulla natura degli elementi più problematici (Sul fuoco, Sui venti), e sulla generazione e la varietà delle sostanze contenute nella terra (Sulle pietre). In un passo della sua Metafisica che è stato oggetto di molte discussioni, egli ammonisce di non spingersi troppo oltre nella ricerca di un ordine nella Natura; ricercando l’ordine e la coerenza là dove non possono essere trovati, afferma, ci si espone al rischio di contrastare la comprensione scientifica del mondo. Teofrasto sembra spesso più interessato di Aristotele all’insolito e allo straordinario; alcune sezioni dei suoi Meteorologica ci sono pervenute in versioni arabe e siriache, che sono state recentemente pubblicate per la prima volta dall’Antichità, e in esse troviamo un’intrigante miscela di idee aristoteliche e platoniche.
Epicuro e i suoi seguaci (il più noto dei quali è il poeta romano Lucrezio) si dedicavano allo studio dell’attività della Natura per ragioni ben definite. Il desiderio di conoscenza in sé non era la loro principale motivazione; per gli epicurei era più importante il fatto che attraverso lo studio dei fenomeni terrestri rovinosi e fortuiti si acquisivano le prove certe che il nostro destino non è guidato da nessun agente consapevole. Gran parte dell’ultimo libro del De rerum natura di Lucrezio è dedicata all’esame di una serie di argomenti attraverso i quali l’autore si proponeva di dimostrare che i disastri naturali si producono casualmente, e non dovrebbero quindi essere temuti, al contrario di ciò che pensano molti, come espressione del disappunto divino per la condotta umana. In breve, per gli epicurei la meteorologia era, probabilmente, più un balsamo per gli animi inquieti che una disinteressata attività scientifica.
La filosofia epicurea si proponeva di guidare i suoi seguaci verso il raggiungimento di uno stato di affrancamento dagli affanni per le pene che affliggono l’umanità, e in particolare dal timore della morte. La nostra fonte più importante in questo caso è il tardo biografo dei filosofi greci Diogene Laerzio, attraverso il quale ci sono pervenute due epistole scritte da Epicuro ai suoi discepoli. Sembra che egli avesse ripreso la teoria atomistica di Democrito e avesse sostenuto che la verità può essere trovata soltanto nella realtà degli atomi e del loro opposto, il vuoto. Il mondo secondario delle apparenze che è generato dal movimento degli atomi nel vuoto ha un suo status, e gli uomini, che vivono in questo mondo secondario, devono dare un senso alle loro impressioni e alle loro sensazioni riguardo al mondo. In breve, l’epicureo doveva acquisire un certo genere di comprensione del mondo fenomenico se voleva raggiungere uno stato di serenità. Epicuro pensava di essere in possesso di argomenti in grado di dimostrare l’esistenza degli atomi e del vuoto; egli ripeteva che la loro combinazione e la loro dissoluzione in aggregati visibili avveniva necessariamente per caso e che egli era in grado, alla luce di ciò, di fare a meno dell’idea secondo cui ogni attività della Natura è guidata da una forza consapevole superiore all’uomo. Gli epicurei non negavano l’esistenza degli dèi; negavano semplicemente che gli dèi rivolgessero una particolare attenzione all’umanità o che cercassero di esercitare un’influenza morale sulla condotta umana. Nella filosofia epicurea la meteorologia era quindi in funzione della moralità.
Epicuro, dopo essersi affrancato dalla credenza secondo cui gli eventi naturali sono ordinati in ragione di un fine, o da quella secondo cui dietro le sventure che si abbattono su di noi si nasconde la punizione divina, intraprese la formulazione di un programma di spiegazione della Natura e dei fenomeni naturali in termini d’interazione necessariamente casuale delle sue particelle costitutive nel vuoto. Molti dei fenomeni meteorologici discussi da Aristotele sono spiegati anche dagli epicurei, benché il loro ordine espositivo, basato su motivazioni differenti, sia diverso da quello adottato da lui. I fenomeni destinati a essere sottoposti a un esame dettagliato sono prevalentemente selezionati tra quelli sorprendenti, minacciosi e spaventosi (per es., fulmini, terremoti e temporali violenti), e nell’elenco delle sue dottrine (Opere, fr. 10, 2), Epicuro paragona il nostro timore per le «cose che stanno in alto» (tà metéōra) al timore per la morte.
Gli epicurei pensavano che, dal momento che gli elementi fondamentali non si comportano in modo del tutto prevedibile, un dato fenomeno possa avere un certo numero di possibili spiegazioni, che non si contraddicono necessariamente a vicenda. Si potrebbe affermare che il punto di vista adottato da Epicuro fosse simile a quello di Aristotele, secondo il quale i fenomeni meteorologici non sono facilmente accessibili al nostro esame minuzioso e proprio per questo motivo le nostre osservazioni possono conciliarsi abbastanza ragionevolmente con più di una spiegazione, ma la somiglianza finisce qui; egli afferma, a un certo punto, che sarebbe stupido preferire un tipo di spiegazione a un’altra in queste circostanze. In una delle epistole che ci sono pervenute attraverso Diogene Laerzio, l’Epistola a Pitocle (nota anche come Perì toũ meteṓroun), Epicuro stesso spiega il suo approccio alla meteorologia, e il ricorrente discorso sulle difficoltà di questo tema – già riscontrato negli scrittori più antichi di testi meteorologici – acquista qui un tono nuovo, morale.
Per prima cosa si deve credere che della conoscenza di fenomeni celesti, sia che vengano trattati in connessione con altri, sia indipendentemente, l’unico scopo è la tranquillità (ataraxía) e la sicura fiducia, così come anche per le altre cose; né si deve sforzare ciò che è impossibile, né avere la stessa opinione riguardo a tutte le cose, sia nei ragionamenti sui generi di vita che in quelli che riguardano la soluzione delle altre questioni naturali, come per esempio che il tutto è fatto di corpi e di vuoto, oppure che gli elementi fondamentali della materia sono indivisibili, o tutte le altre cose che in un solo senso si possono accordare con i fenomeni. Questo però non si verifica nei fenomeni celesti, i quali hanno molteplici cause del loro verificarsi e della loro essenza molteplici determinazioni in accordo con i sensi. (Ad Pythoclem epistula, in: Diogene Laerzio, Vitae philosophorum, X, 85-86)
Epicuro apre la sua esposizione con la spiegazione delle origini e del comportamento del Sole, della Luna e delle stelle, rivolgendo una particolare attenzione alle fasi della Luna e alle eclissi lunari: fenomeni, questi, che rivestivano una particolare importanza per coloro che pensavano di scorgere in essi i segni dell’interferenza divina nelle cose umane. Egli affronta anche problemi meno minacciosi, come, per esempio, l’origine delle nuvole e quella della grandine, della pioggia e della neve. La possibilità dell’esistenza di segni annunciatori, meteorologici o no, è esclusa: «I pronostici del tempo possono prodursi negli animali per un concorso di circostanze» (X, 115); i fenomeni rovinosi – come, per esempio, i terremoti, i tuoni (l’incendiarsi dei venti), i fulmini – si producono per caso e, se riusciremo a capirne la ragione, essi non saranno più motivo di timore.
Lucrezio sviluppa dettagliatamente questo tema nell’ultimo libro del De rerum natura e, spiegando i fenomeni che gli uomini attribuiscono agli dèi, afferma di essere in grado di vanificare i timori e le superstizioni che atterriscono il mondo. Dietro ai fenomeni celesti vi è una ragione e una forma, egli ripete, ed entrambe possono essere comprese dall’umanità. La ragione e la forma, tuttavia, s’identificano con la ragione e la forma degli atomi e del vuoto, ed è soltanto per ignoranza che gli uomini attribuiscono agli dèi i fenomeni che li spaventano: gli dèi hanno ben altro da fare. Il tuono, per esempio, ha molte possibili cause, tutte razionali; infatti, può essere prodotto dall’urto delle nuvole che volano in alto, al di sopra della Terra (VI, 96), o dal loro lacerarsi o schioccare, o dal loro strofinarsi o, ancora, dal vento che squarcia le nuvole facendole esplodere con un suono terribile, o dallo stridore del fuoco del fulmine (simile a quello del ferro rovente immerso nell’acqua), o dallo spezzarsi del ghiaccio e dallo scrosciare della grandine. Il lampo (VI, 218) può verificarsi a causa della collisione delle nuvole (Lucrezio fa qui un’analogia con le scintille che si producono quando una pietra colpisce violentemente il ferro), o dalla spinta dei venti racchiusi nelle nuvole. La sezione più lunga di questo libro (VI, 219-422) tratta del più spaventoso di tutti i fenomeni meteorologici: il fulmine. I fulmini non cadono mai dal cielo sereno, afferma Lucrezio; essi sono costituiti da fuoco puro esente da mescolanza con vento o pioggia. I fulmini hanno il potere di passare attraverso gli oggetti solidi, di uccidere e di distruggere, ma, nonostante ciò, essi non hanno un’origine sovrannaturale. Allo stesso modo, i terremoti non sono che il prodotto delle raffiche dei venti raccolti nelle cavità sotterranee. L’attrazione degli epicurei per la spiegazione dei fenomeni naturali rovinosi dimostra che essi li temevano come chiunque altro, se non di più.
L’ammonimento a non confidare nella buona sorte per tollerare le avversità con animo sereno e per fuggire il lusso, rivolto da Seneca, filosofo e uomo politico stoico, al suo amico Lucilio, dà l’avvio a una delle più vaste descrizioni della natura dei fenomeni meteorologici che ci sia pervenuta dall’Antichità. Lucio Anneo Seneca, filosofo, uomo politico e consigliere dell’imperatore Nerone, condusse una vita contrastata che si concluse con un suicidio particolarmente atroce, eseguito sotto la supervisione imperiale. Egli riteneva lo studio dei fenomeni meteorologici utile all’uomo pubblico poiché allontanava la mente dalle cose mondane e dalle preoccupazioni limitate della vita di tutti i giorni, e incoraggiava il giusto senso delle proporzioni, il senso dell’inevitabile vulnerabilità della propria posizione nel più vasto ordine delle cose. Seneca, nelle Questioni naturali, tutt’altro che scoraggiato di fronte alla complessità degli argomenti, invita energicamente i suoi lettori a trovare diletto nelle difficoltà. Lo studio dei misteri più complessi e più insolubili della Natura, ripete, incita ad acquisire una sottigliezza, un’umiltà e un’agilità di pensiero che si rivelano molto utili per noi; in breve, esso incoraggia e alimenta l’apátheia, quel prezioso stato di immunità dagli affanni della vita che costituisce lo scopo principale dell’etica stoica.
Gli studiosi fanno spesso riferimento a una dottrina stoica e persino a una scuola stoica di filosofia, tuttavia non sembra lecito supporre che le dottrine di tutti quelli che si autodefinivano ‘stoici’ formassero un tutto ordinato e in sé coerente. Se Seneca ammetteva di coltivare l’antica teoria meteorologica per un motivo in ultima analisi di carattere etico, ciò non significa che lo stesso valesse per tutti gli stoici. Seneca riconosce il suo debito verso i primi, autorevoli stoici – citando frequentemente Asclepiodoto e Posidonio – e quando parla dei colleghi stoici li definisce «la nostra gente » (nostri), ma allo stesso modo è spesso attratto dai conflitti interni che caratterizzavano la vita della maggior parte delle istituzioni intellettuali greco-romane.
Come Platone e Aristotele, gli stoici erano fautori di una concezione teleologica della Natura e, cosa più significativa, elaborarono una complessa dottrina sull’importanza del fato e della predestinazione, e sull’interrelazione di tutte le cose nel Cosmo. Diogene Laerzio, nel suo riassunto generale della fisica stoica, afferma che secondo gli stoici non soltanto le differenti parti dell’Universo sono legate tra loro, ma esistono relazioni di natura ancora più profonda tra l’etica, la fisiologia e la psicologia della vita umana, e lo studio della Natura in generale. Sembra che la maggior parte degli stoici ritenesse, come i più antichi filosofi platonici e aristotelici, che la parte della filosofia che tratta degli dèi – o della perfezione – fosse quella più elevata (Naturales quaestiones, I, 1). Mentre l’ideale di vita epicureo s’identificava con il raggiungimento dell’apolitica ataraxía (uno stato di liberazione dagli affanni, cioè, più facilmente conseguibile attraverso il distacco dalla vita pubblica), il saggio stoico ricercava una forma di immunità dalle forze avverse, l’apátheia, che gli consentiva di partecipare attivamente agli affari pubblici. L’interesse di Seneca per la meteorologia, quindi, era caratterizzato da un lato dal desiderio di spiegare quanto sia precaria la vita umana di fronte ai terribili disastri naturali che si verificano di quando in quando, e, dall’altro lato, dall’ideale dell’indagine disinteressata in questioni prive di un valore pratico che non sia quello dello sviluppo dell’intelligenza e della formazione del carattere di chi le studia.
La meteorologia stoica era una branca della fisica, che assieme all’etica e alla logica costituiva il tripode della formazione filosofica stoica. I predecessori stoici di Seneca e probabilmente gli stessi fondatori della scuola, Crisippo e Zenone – con altri antichi rappresentanti come, per esempio, Posi do nio, Cleante, Apollodoro e Asclepiodoto – concordavano nel ritenere (o almeno così sembra, dal momento che nessuna delle loro opere ci è pervenuta integra) che gli elementi del mondo materiale (terra, aria, fuoco e acqua) fossero «sostanze dalle quali inizialmente si forma, attraverso l’alterazione organica, tutto ciò che esiste, e nelle quali tutto si dissolve, senza che esse subiscano queste due sorti». Nell’Universo tutto è collegato e tenuto insieme dalla tensione del pneũma che permea di sé il Cosmo. La nozione di principio elementare è molto simile a quella di Aristotele e così, nell’esporre la sua sinossi del contenuto della Meteorologia di Posidonio e di quella di Zenone, Diogene Laerzio elenca una gamma di temi molto simile a quella che troviamo in Aristotele (Libro VII, 152-4). In un brano che, ancora una volta, riflette l’ampia visione aristotelica delle parti di cui si compone l’Universo, Seneca osserva nelle Questioni naturali (II, 1, 1) che l’Universo comprende le «cose del cielo», le «cose dell’aria » e le «cose della terra» (caelestia, sublimia e terrena). Il resoconto di Diogene riporta le spiegazioni degli stoici del fenomeno del raffreddamento e del riscaldamento dell’aria (attraverso l’azione del Sole), e del nome dei venti a seconda delle regioni da cui provengono. Il vento ha la sua origine nell’umidità che sotto l’azione del Sole evapora dalle nuvole e l’arcobaleno è prodotto dalla riflessione dei raggi del Sole nelle nuvole che contengono molta umidità o (secondo un’opinione attribuita specificamente a Posidonio) dalla formazione dell’immagine di un segmento del Sole in una nuvola. Le comete e le meteore sono fuochi che si producono quando l’aria densa si innalza fino alla regione rarefatta dell’etere; le stelle cadenti sembrano avere un origine simile. La pioggia è il risultato della trasformazione delle nuvole da vapore in acqua, e la grandine e la neve sono differenti generi di nuvole gelate. Il lampo è causato dallo strofinarsi delle nuvole e i fulmini si producono quando queste entrano violentemente in contatto tra loro. I venti impetuosi e i temporali hanno ugualmente la loro origine nelle nuvole che scoppiano o esplodono. I terremoti sono prodotti dall’azione del vento imprigionato nella terra; Posidonio, con l’autore dello pseudoaristotelico De mundo (un’opera che mostra una chiara influenza degli stoici), offre una sorprendente classificazione dei differenti tipi di terremoto basata sui diversi spostamenti del terreno che essi provocano.
Seneca ritorna al tema etico nella prefazione al Libro IV delle Questioni naturali, rivolgendosi ancora una volta a Lucilio. I suoi interessi scientifici seguitano a essere di tipo meteorologico (benché sia necessario precisare che questo termine non è mai impiegato da Seneca), ma il suo pensiero è sempre più rivolto a considerazioni di carattere morale; le insidie che l’adulazione riserva all’uomo pubblico occupano uno spazio rilevante nel suo discorso. Per sfuggire a questa che è considerata la più detestabile delle minacce, Seneca consiglia a Lucilio di dedicarsi allo studio del Nilo e del motivo per cui questo fiume durante l’estate straripa dai suoi argini. Segue poi una lunga discussione sulla natura del Nilo, accompagnata da digressioni sui coccodrilli egiziani, sulla natura e le origini delle acque di questo fiume, da descrizioni degli uomini che abitano l’Egitto, del tempo atmosferico di questo paese e così via. In questi racconti è chiaramente percepibile l’influenza di Erodoto, ma Seneca cita esplicitamente anche un gran numero di prearistotelici, tra cui figurano Talete, Enopide, Sofocle, Euripide, Diogene di Apollonio, e Anassagora.
La disposizione del materiale nelle Questioni naturali è quindi guidata e modellata tanto dagli interessi etici e morali di Seneca quanto dal curriculum storico del suo argomento. Il lungo discorso sull’origine della pioggia e della neve del Libro IV (IV A), benché erudito, sembra più incentrato sul desiderio di allontanare le menti degli uomini dalle consuete ragioni che portavano a interessarsi di queste cose. La neve, afferma Seneca (IV B, 13, 1) è usata dagli uomini avidi e smodati per conservare il loro cibo e il loro vino; il saggio stoico, invece, deve ricercare la cultura piuttosto che la sua sorella illegittima, il lusso, studiando le sue origini, e non il suo valore utilitario per l’umanità. L’acqua in generale ha un alto valore per Seneca a prescindere dalla sua utilità medica perché essa è disponibile per tutti, e non deve essere acquistata. Se in alcune produzioni della Natura il negligente e l’indisciplinato scoprono la lussuria, in esse è presente anche la provvidenza. È probabile, naturalmente, che Seneca sia ricorso a pregiudizi tipicamente romani per colorire la presentazione del suo materiale scientifico. L’assenza di un appropriato contesto in cui collocare l’opera dei suoi predecessori greci (come, per es., Posidonio, gran parte della cui opera meteorologica ci è pervenuta attraverso il geografo Strabone, che la riporta sotto forma di parafrasi) rende molto difficile sapere in quale misura questo genere di motivazione morale nello studio della Natura permeasse effettivamente la scienza stoica in generale.
Nel complesso, il profilo dell’antica meteorologia era dunque quello di una scienza guidata tanto dalle filosofie etiche, o persino dall’idealismo politico, quanto dalle filosofie astratte della Natura. In generale questa disciplina era caratterizzata da un’impellente esigenza di sistematizzare o di imbrigliare il caos per fini spesso estranei al campo d’indagine convenzionale della scienza della Natura. Naturalmente l’intera storia della meteorologia non si esaurisce qui, in quanto il tempo atmosferico, le stagioni e i fenomeni terrestri erano studiati in generale dai medici, dai marinai e dagli agricoltori, per non menzionare i diversi generi di esperti di prognosi. La meteorologia, nonostante il suo carattere pratico, era soprattutto il campo in cui si scontravano diverse spiegazioni indeterminate. Dalla scienza della Natura di carattere ricreativo di Platone, all’aspetto morale disinteressato messo in luce da Seneca, gli studenti e gli insegnanti spesso non avevano molto di più con cui combattere e difendere sé stessi oltre la loro retorica, e questa caratteristica pervadeva tutta la scienza antica della Natura.
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