Scienza greco-romana. Nascita delle scienze e relazioni tra discipline
Nascita delle scienze e relazioni tra discipline
Nella Grecia antica, le scienze non sono nate improvvisamente come Atena tutta armata dalla testa di Zeus. Anche i termini che servivano per designare le varie discipline hanno assunto una certa determinazione e stabilità soltanto lentamente e con ritmi diversi per ciascuna di esse. Nei poemi omerici è possibile trovare una quantità di informazioni e di credenze che riguardano gli astri, i fenomeni atmosferici, le proprietà dei suoni e della luce, descrizioni geografiche ed etnografiche, tanto che si è potuto parlare di essi come di una sorta di 'enciclopedia tribale'. Fin dall'antichità, Platone ha definito Omero come il maestro di tutti i Greci, mentre l'autore dello scritto Sulle articolazioni (che rientra nel corpus di scritti medici attribuiti a Ippocrate) lo ha citato come autorità su questioni riguardanti il bestiame.
In epoca omerica si riteneva che il sapere del poeta-cantore andasse oltre l'ambito di ciò che era immediatamente sensibile e visibile a tutti; tale sapere infatti abbracciava presente, passato e futuro e, per questo, era strettamente imparentato a quello del mántis, l'indovino (Ilias, I, 70). In entrambi i casi era grazie all'intervento della divinità che si aveva accesso a questa forma di sapere eccezionale e autorevole. L'autorità del poeta, infatti, dipendeva dall'ispirazione e dall'invasamento di Apollo e delle Muse, che tutto hanno visto e "tutto sanno" (Ilias, II, 484-487; Odyssea, VIII, 487-491). Da tali sorgenti divine proveniva non soltanto la capacità formale del poeta, che per questo appariva come una sorta di artigiano della parola, ma anche la conoscenza di contenuti inaccessibili ai più. Sarebbe tuttavia erroneo pensare che nel mondo omerico poeta e indovino fossero gli unici personaggi dotati di un sapere basato sull'autorità divina. Anche un buon artefice del legno, un téktōn, doveva la sua abilità all'ispirazione e alla guida della dea Atena (Ilias, XV, 410-412).
In età molto più tarda, nel II sec. d.C., Plutarco si riferì ai tentativi compiuti per associare le nove Muse ai vari campi del sapere sulla base di una tripartizione in filosofia, retorica e matematica, quest'ultima a sua volta articolata in musica, aritmetica e geometria (Quaestiones conviviales, IX, 14, 744 a-f). Ciò presupponeva però come consolidata una distinzione fra discipline scientifiche, di cui non esiste traccia nei poemi omerici. Le informazioni presenti in tali poemi, infatti, si trovano incastonate in un racconto che aveva lo scopo di trasmettere codici generali di comportamento e non un insieme strutturato di conoscenze a sé stanti. Se si vuole parlare di 'enciclopedia' omerica, occorre sottolineare che essa racchiudeva e trasmetteva tutto ciò che si doveva sapere, più che tutto ciò che si poteva sapere o si conosceva. La stessa cosa vale per il poeta Esiodo, il quale attribuiva all'ispirazione delle Muse il proprio sapere, che abbracciava presente, passato e futuro (Theogonia, 1-43). Una vasta sezione del suo poema, Le opere e i giorni, fornisce precetti sui periodi opportuni per compiere lavori agricoli o affrontare il mare in base all'osservazione degli astri o di fenomeni meteorologici, senza per questo avere la pretesa di essere un trattato completo di agricoltura e di navigazione. A insegnare e trasmettere le regole di questi mestieri provvedeva, in una cultura prevalentemente orale, l'apprendistato all'interno del nucleo familiare. Esiodo stesso dichiarava di non essere esperto di navigazione, senza per questo rinunciare alla pretesa di mostrare le 'misure' del mare, nei loro limiti stagionali, o gli intendimenti di Zeus; era infatti l'insegnamento delle Muse a consentirgli la conoscenza di cose delle quali non aveva esperienza diretta (Opera et dies, 648-650; 661-662). Il poeta si presentava dunque come mediatore fra il mondo degli dèi e il mondo degli uomini, e, in quanto tale, capace di ancorare lo stesso sapere tecnico all'orizzonte del pensiero divino, da cui dipendeva.
Nei testi più antichi, il termine 'sapiente' (sophós) è usato per indicare in primo luogo il saper fare, l'abilità di artigiani, indovini, poeti o medici, o, in generale, la capacità di condurre le faccende della vita individuale o collettiva, più che il possesso di numerose conoscenze. Nei poemi omerici, la figura di Odisseo è caratterizzata da diversi epiteti, formati dal prefisso 'molto' (poly-): Odisseo è colui che ha visto molto, che sa molto e che molto sa escogitare per uscire da situazioni difficili. Con lo stesso prefisso è coniato il termine polymathía, che letteralmente significa l'apprendimento di molte cose, per esperienza diretta o attraverso l'insegnamento. Proprio la polymathía sarà la qualità che verrà riconosciuta a Omero molti secoli dopo, in un'opera apocrifa attribuita a Plutarco, Sulla vita e sulla poesia di Omero; tuttavia, questo termine, la prima volta in cui è usato, verso l'inizio del V sec. a.C., in un frammento di Eraclito di Efeso, possiede una valenza negativa: "Polymathía non insegna intelligenza, altrimenti l'avrebbe insegnata a Esiodo e Pitagora e poi a Senofane ed Ecateo" (DK 22 B 40). Eraclito non precisa quali siano i contenuti del sapere molteplice, e il fatto che egli menzioni Pitagora non autorizza a concludere che si tratti di discipline matematiche; discipline che, in seguito, nella cultura greca, verranno indicate come i mathḗmata per eccellenza, termine che letteralmente significa le cose che sono apprese attraverso un insegnamento. Infatti, la documentazione più antica, da Erodoto a Isocrate o Platone, non associa Pitagora al sapere matematico e tantomeno indica come dediti a questo sapere Esiodo, Senofane ed Ecateo, gli altri personaggi coinvolti nella condanna di Eraclito. Un altro frammento di Eraclito fornisce la ragione della sua critica a Esiodo: "Maestro di moltissimi è Esiodo. Essi sono certi che egli conosceva moltissime cose, lui che non era in grado di conoscere il giorno e la notte, che infatti sono uno" (DK 22 B 57). Qui Eraclito non contesta il fatto che Esiodo abbia appreso una molteplicità di cose, quanto la sua incapacità di cogliere l'unità di ciò che in questo presunto molteplice sapere di oggetti o eventi rimaneva separato e irrelato, e la pretesa, su queste basi, di essere maestri di altri. Eraclito non sa o non tiene conto del fatto che anche Senofane aveva criticato Omero ed Esiodo, biasimando gli uomini per "avere tutti appreso da Omero" (DK 21 B 10). Senofane dubitava che fossero gli dèi a rivelare il sapere agli uomini, poiché riteneva che questi fossero costretti a una lenta ricerca nel tempo per arrivare alla scoperta del meglio (DK 21 B 15). Nel caso di Pitagora, secondo Eraclito, non si sarebbe trattato di un sapere di origine divina; egli assimilava la poulymathíē di Pitagora a una sapienza (sophía) apparente, costruita da Pitagora attraverso la selezione da scritti altrui (DK 22 B 129). È difficile dire con esattezza quali fossero gli scritti ai quali, secondo Eraclito, Pitagora attingeva; in ogni caso fa qui la sua comparsa una realtà relativamente recente: non tanto la scrittura, quanto il libro vero e proprio, di cui non appare menzione nei poemi omerici e in quelli esiodei, considerato come deposito da cui il sapere può essere rubato o attinto per essere presentato come proprio.
Le immagini più tarde dei cosiddetti primi 'filosofi' o fisiologi attribuiscono loro indagini e dottrine che riguardano i settori più svariati del sapere: dai fenomeni celesti e meteorologici a quelli embriologici, fino alla geometria (come nel caso di Talete, Anassagora, Democrito, per non parlare di Pitagora). Si tratta di immagini, elaborate almeno a partire da Aristotele e Teofrasto, che presuppongono come avvenuta una distinzione tra discipline scientifiche. Lo stesso catalogo degli scritti di Democrito (che risale a Trasillo, I sec. d.C.) è già di per sé lo specchio di una figura di sapiente capace di dominare i più diversi ambiti del sapere. Tuttavia questo documento non può essere considerato in grado di testimoniare una partizione fra ambiti disciplinari nettamente distinti. Se consideriamo uno scritto in prosa della metà circa del V sec. a.C., come le Storie di Erodoto, è possibile constatare come in esso possano coesistere, senza preoccupazioni di articolazioni disciplinari, informazioni non soltanto storiche e geografiche, ma anche zoologiche, botaniche e anatomiche.
La figura del polymathḗs riappare verso la fine dello stesso secolo nel ritratto di Ippia di Elide fatto da Platone (Hippias maior, 285 b 7-e 2; Hippias minor, 366 c 5 - 368 e 1; Protagoras, 318 d 9-e 4). In queste pagine Platone non usa il termine polymathía, ma qualifica Ippia come "assolutamente il più sapiente tra tutti gli uomini in moltissime téchnai" (Hippias minor, 369 b) e fornisce un vasto elenco delle cose più notevoli di cui Ippia diceva di avere scienza. L'elenco è incompleto, ma i dati comuni ai tre testi platonici sono: (1) "gli astri e ciò che avviene nei cieli", (2) la geometria, (3) il numero (arithmós) e il calcolo (logismós), (4) indagini di tipo grammaticale e musicale. A questa lista in entrambi gli Ippia s'aggiunge la mnemotecnica; nell'Ippia maggiore si accenna anche all'archaiología, ossia all'esposizione delle genealogie degli eroi e degli uomini e alle fondazioni di città, mentre nell'Ippia minore s'include addirittura la fabbricazione di oggetti artigianali, di abbigliamento e di ornamento. Da dove ha tratto Ippia queste conoscenze? Platone non lo dice, ma non è da escludere che si potesse trattare di un insegnamento trovato nei libri. Nell'incipit di un suo scritto (DK 86 B 6), Ippia afferma che si tratta del risultato di un'aggregazione di materiali selezionati da opere altrui: testi di poesia o di prosa, di origine greca o barbara, secondo criteri di importanza e affinità degli argomenti trattati. Ciò non gli impediva di considerare la propria opera pienamente originale; l'originalità infatti derivava non dai materiali raccolti, ma dal modo in cui essi erano collegati tra loro. A suo parere, dunque, il fatto di attingere da libri scritti da altri non era da considerarsi una macchia, cosa che invece Eraclito aveva rimproverato a Pitagora. Studi recenti hanno mostrato che in questo scritto relativo a Ippia possono forse essere rintracciati gli inizi di quella che si sarebbe poi chiamata dossografia filosofica; in ogni caso, non si può escludere che esso raccogliesse anche materiali che riguardavano discipline scientifiche, come la geometria. Il ritratto platonico di Ippia metteva in scena un uomo enciclopedico, capace di dominare ed esibire una molteplicità vastissima di ambiti del sapere, fino a quello tecnico legato all'attività manuale. Proprio in questo consisteva la sua eccezionalità, che gli consentiva di sottrarsi a ogni forma di dipendenza o di inferiorità nei confronti di quanti detenevano un sapere specialistico. Si trattava infatti di una somma di conoscenze per lo più non padroneggiabili da un solo uomo, anche se la terminologia usata nei testi platonici per caratterizzarle e distinguerle appare ancora fluttuante.
Se confrontiamo la lista degli ambiti di sapere attribuiti a Ippia con l'elenco che compare in un testo situabile cronologicamente all'incirca fra Eraclito e Ippia, il Prometeo incatenato (versi 450-506), che è attribuito a Eschilo, si può trarre qualche indizio per misurare il cammino percorso nella fissazione terminologica dei diversi ambiti. Il catalogo delle téchnai donate da Prometeo agli uomini comprende soltanto arti utili, come l'allevamento degli animali, la navigazione, la capacità di distinguere il sorgere e il tramontare degli astri e delle stagioni, la divinazione, la cura delle malattie, oltre all'invenzione della scrittura e del numero. Il riferimento al numero non comporta alcuna allusione al pitagorismo né all'aritmetica intesa come scienza teorica; i numeri qui sono strumenti per contare e calcolare, che, in quanto tali, contribuiscono alla sopravvivenza degli uomini. Questo catalogo rientra nel topos letterario del primo inventore (prõtos heuretḗs), che metteva in primo piano l'utilità delle scoperte per gli uomini. È interessante che in esso non compaia la geometria, anche se è difficile sostenere che questo silenzio sia da mettere in relazione con il fatto che Erodoto, non molto dopo Eschilo, attribuisse agli Egizi la scoperta di quella che egli già chiama col termine 'geometria' (II, 109, 3). Resta il fatto che nel Libro I (74, 1-2; 75, 3-6; 170, 1-3) delle sue Storie, nel racconto delle imprese scientifiche e tecniche di Talete non s'usano mai i termini astronomia e geometria intesi come ambiti disciplinari ben definiti. E lo stesso avviene a proposito delle indagini sul calendario attribuite a Solone (I, 32, 2-4).
La situazione appare diversa e molto meglio definita in un altro testo teatrale, le Nuvole di Aristofane, rappresentato verso il 423 a.C. e ripreso pochi anni dopo. In questa pièce sono raffigurate l'investigazione e l'insegnamento di una pluralità di conoscenze sotto la guida di un unico maestro, Socrate (versi 143-217). I termini geometria e astronomia sono impiegati non per indicare delle scienze, ma strumenti, come il regolo e il compasso, usati per misurare i percorsi degli astri o le dimensioni di porzioni di terreno. Da questo punto di vista, fra geometria e geografia sembra intercorrere una stretta parentela, conformemente al senso letterale della parola geometria: misurazione di terre. Quanto al termine geografia, esso è usato per indicare una disciplina scientifica soltanto nel III sec. a.C. con Eratostene di Cirene, mentre è assente tanto in Platone che in Aristotele. Oltre alla geometria e alla geografia, Aristofane si riferisce a indagini e ad insegnamenti su temi che potremmo qualificare di tipo anatomo-fisiologico. È probabile che una denominazione globale e univoca per coloro che si dedicavano a tali ricerche non fosse ancora di uso corrente: Strepsiade, uno dei personaggi della commedia, confessa di non conoscerne il nome con esattezza e propone quello di merimnophrontistaí, equivalente pressappoco a 'gente che pensa a darsi pensiero' (versi 100-101) e verosimilmente coniato da Aristofane stesso. C'è tuttavia un ambito che s'impone sugli altri, quello che riguarda "le cose in alto nell'aria (metéōra prágmata)" (versi 225-234; 489-490; 1283-1284), cosa che può apparire del tutto naturale in una pièce che pone al centro le nuove divinità venerate da questi ricercatori, le nuvole. Per designare quanti si consacrano a questo tipo di studi, Aristofane impiega anche i termini meteōrophénakes e meteōrosophistaí, che alla lettera significano 'impostori che si presentano come esperti sui metéōra'. Il rappresentante per eccellenza dei meteōrosophistaí è Prodico, ossia un personaggio che nella storiografia moderna è classificato tra i sofisti e non tra i filosofi della Natura. Tutto ciò mostra ancora una volta la debolezza, se non l'arbitrarietà, di tali classificazioni moderne. Allo stesso modo, il sofista Protagora era attaccato dal poeta comico Eupoli (DK 80 A 11) come un empio impostore a proposito dei metéōra. Oltre a Socrate e Prodico, in Aristofane si trova menzionato Metone, autore della riforma del calendario ateniese del 433 a.C., descritto come una sorta di Talete del V sec., ossia come colui che doveva ormai apparire il 'sapiente' per eccellenza. Negli Uccelli (versi 995-1009), un'altra commedia di Aristofane, Metone è un personaggio che si dedica al tempo stesso alla ricerca astronomica, compiuta mediante strumenti di misura, all'indagine su problemi geometrici, come la quadratura del cerchio, e all'organizzazione dello spazio urbano secondo schemi geometrici, alla maniera del pressoché contemporaneo Ippodamo di Mileto. Lo stesso Ippodamo che Aristotele presenta in modo pittoresco (Politica, II, 8, 1267 b 22-30) non soltanto come urbanista e autore di un progetto di riordinamento politico della città, ma anche come uno che intendeva essere competente sull'intera Natura (phýsis). Forse è a partire da qui che il tardo lessicografo Esichio definirà anche Ippodamo come un meteōrológos (DK 39 A 3). Nel caso del Metone di Aristofane, non si deve necessariamente pensare a una rappresentazione storicamente fedele nei particolari, quanto piuttosto al ritratto di un uomo che riunisce in sé una pluralità di saperi. Aristofane non sembra fissare, né percepire, alcuna distinzione tra questi ambiti. Un solo elemento è comune alla sua rappresentazione degli intellettuali, la loro inutilità, espressa dalla parola 'oziosità' (argía). La scala di valori, dominante nel tema del primo inventore, si trova qui radicalmente rovesciata.
Le commedie di Aristofane, in questo, riflettono un fenomeno proprio dell'ultima parte del V sec., ossia l'emergente consapevolezza della specificità della vita intellettuale consacrata esclusivamente a studi sprovvisti di utilità immediata, quella che sarà detta vita teoretica o contemplativa. Un primo, importante documento di essa sono i frammenti di una tragedia di Euripide, l'Antiope. Questi frammenti sembrano alludere ad Anassagora come a una figura ormai emblematica, quella di colui che abbandona la propria città natale per trasferirsi ad Atene, dove coltivare gli studi. Il nucleo centrale di questo nuovo tipo di vita era ravvisato appunto nella meteōrología, ossia nell'indagine sui fenomeni celesti, atmosferici e climatici. In un testo che con ogni probabilità risale agli ultimi decenni del V sec., Gorgia accenna ai meteōrológoi, presentati come un gruppo distinto rispetto a quanti pronunciano discorsi politico-giudiziari o filosofici (Oratio in Elenam, par. 13). Forse, già in quest'epoca, l'investigazione dei metéōra è collegata a quella dei fenomeni sotterranei (Platone, Apologia Socratis, 18 b-c, 19 b-c). Entrambi gli ambiti hanno la prerogativa di essere oscuri, ossia non accessibili alla percezione diretta, ragione per cui possono essere spiegati soltanto con ragionamenti di tipo analogico o mediante tesi generali sulla natura del Cosmo, quelle che il medico autore de L'antica medicina chiama "ipotesi" (1, 3). È su questo sfondo che si vengono costituendo le nozioni generali dell'indagine sulla Natura (perì phýseōs historía), nella quale possono trovare collocazione non soltanto le ricerche pertinenti alla meteōrología, nel senso già illustrato, ma anche le concezioni generali sulla natura dell'uomo, sulla sua struttura e costituzione corporea, sulle funzioni fisiologiche e sull'embriologia. L'indagine sulla Natura può abbracciare questioni diverse: quale sia la forma della Terra o come si generino e crescano gli esseri viventi, o ancora quale sia l'organo mediante il quale gli uomini pensano (ibidem, 20, 1-2; Platone, Phaedo, 96 a; Senofonte, Commentarii, I, 1, 11). Su questa linea, Aristotele denominerà physiológoi i primi filosofi, presupponendo però la propria teorizzazione della physikḗ come scienza o filosofia della Natura, che le scuole filosofiche dell'età ellenistica rivendicheranno alla propria competenza come una delle parti in cui si articola la filosofia, accanto alla logica e all'etica.
Si potrebbe assumere che un sapere appare specializzato quando esiste un riconoscimento pubblico del fatto che solamente alcuni ne sono detentori. Non è un caso che una delle prime formulazioni esplicite della nozione di sapere specializzato compaia, ancor prima che in Platone (Io, 537 c 6; Charmides, 171 a 4-9), nello scritto medico già citato, L'antica medicina (4, 1): "non è appropriato chiamare qualcuno competente (technítēs) di ciò in cui nessuno è incompetente (idiṓtēs), ma di cui tutti hanno conoscenza (epistḗmones) a causa dell'uso e della necessità". In questo senso, la differenziazione dell'alimentazione adeguata per gli uomini, fondata sulla cottura, da quella animale non è caratteristica di un sapere speciale, mentre lo è l'individuazione di una dieta per i malati, differenziata da quella dei sani. Già nei poemi omerici la medicina appare un sapere speciale pubblicamente riconosciuto: il medico, accanto al poeta, all'indovino e all'artigiano del legno, è qualificato come un dēmiourgós (Odyssea, XVII, 383-387), un individuo che mette la propria competenza a disposizione del pubblico e si sposta per fornire le proprie prestazioni a quanti ne hanno bisogno. Il medico è "un uomo che ne vale molti altri" (Ilias, XI, 514), rientra tra le figure socialmente apprezzate, contrapposte a quella del mendico, che nessuno inviterebbe nella propria casa. Quando, nel VI sec. a.C., Solone vorrà illustrare, nell'elegia Alle Muse, il fatto che gli uomini mirano a diverse attività, elencherà la navigazione, il lavoro agricolo, le tecniche manuali, la poesia, la divinazione e appunto la medicina. La medicina appare dunque sin dall'inizio caratterizzata come un sapere speciale, da insegnare a coloro che desiderano diventare a loro volta medici. Nell'Iliade gli eroi medici Machaone e Podalirio hanno ricevuto la loro arte dalla divinità, ma generalmente la trasmissione del sapere medico doveva avvenire in famiglia. Non è un caso che, secondo la tradizione, medici fossero sia il figlio, sia il genero di Ippocrate, rispettivamente Tessalo e Polibo, mentre il medico Erissimaco, che è messo in scena da Platone nel Simposio, è a sua volta figlio di un medico, Acumeno. Lo stesso giuramento, attribuito a Ippocrate e risalente al IV sec., attesta come, almeno in certi ambienti, fosse il nucleo familiare del medico maestro ad accogliere il futuro medico. Stando a Platone (Respublica, V, 467 a), ai suoi tempi l'apprendistato interfamiliare del sapere artigianale era ancora la forma dominante di trasmissione del sapere; invece, per quanto riguarda la medicina, la scultura e la pittura, egli parla anche di un insegnamento a pagamento da parte, rispettivamente, di Ippocrate, Policleto e Fidia (Protagoras, 311 b-c). Si trattava di un insegnamento privato, che non implicava l'esistenza di un curriculum ufficiale di studi, con esami e rilascio di titoli. Erodoto attesta che da tempo, in alcune città, come Egina e Crotone, esistevano medici particolarmente abili e reputati (III, 131, 1-2). Galeno (De methodo medendi, I, 1 in: K X 5-6) parlerà di un'antica e salutare competizione tra gruppi di medici, da lui qualificati come cori connessi a precise aree geografiche: due in Asia, nell'isola di Coo e a Cnido, e uno in Italia, formato da Empedocle, Filistione e altri. Anche in un'iscrizione di Delfi del IV sec. a.C. si accenna a una comunità (koinón) di medici di Coo e di Cnido. A volte questi cenni sono stati interpretati come riferimenti a vere e proprie scuole e centri di ricerca, sul modello del posteriore Museo di Alessandria; ma in queste epoche la formazione medica doveva ancora avere una certa fluidità e non prevedeva necessariamente scuole istituzionalmente organizzate in maniera rigorosa.
È difficile dire se il caso della medicina o delle tecniche artigianali possa essere esteso anche ad altre aree del sapere, dal momento che non risulta attestata l'esistenza di professionisti socialmente riconosciuti nell'ambito del sapere matematico o astronomico; né risulta attestata la presenza di scuole nelle quali tale sapere fosse trasmesso. Tuttavia, il fatto che nel V sec. esistessero alcuni matematici tutti originari dell'isola di Chio, come Enopide o Ippocrate, potrebbe confermare l'esistenza di nuclei embrionali di ricerca in questi settori. Certo, il caso della comunità pitagorica a Crotone e poi a Taranto non può essere generalizzato all'intero mondo greco; le Nuvole di Aristofane tuttavia mettono in scena, con tratti parodistici e, dunque, in qualche modo riconoscibili anche da un gran numero di spettatori, un luogo separato dallo spazio pubblico, chiamato phrontistḗrion, letteralmente 'pensatoio', nel quale sotto la guida di un unico maestro, Socrate, sono insegnati e praticati gli studi che abbiamo illustrato nel paragrafo precedente. Ciò sembra presupporre che queste forme di sapere, almeno in Atene, non fossero più coltivate soltanto da individui isolati. Nella Repubblica, a proposito della stereometria, Platone avanzerà osservazioni che mostrano, in misura pressoché unica nella Grecia classica, la piena coscienza della funzione positiva che stima sociale, organizzazione e istituzionalizzazione possono svolgere nello sviluppo delle indagini scientifiche (VII, 528 b-c). Egli riconosce che gli studi di stereometria, nonostante l'assenza di una stima pubblica nei loro confronti, riescono a imporsi e ad avanzare per l'attrazione che esercitano su alcuni individui; sostiene tuttavia che ben diversa sarebbe la loro crescita se non fossero abbandonati a disordinate iniziative individuali, ma fossero affidati da una città, consapevole della loro importanza, alla sovrintendenza e alla guida di un individuo capace di orientarli con continuità ed energia. Sappiamo che ciò non avvenne nella Grecia classica, ma una soluzione di ripiego in questo senso dovette apparire l'attività stessa di Platone a capo dell'Accademia. Certo non immemore di questo passo della Repubblica e forse della prassi effettiva nell'Accademia dovette essere Dicearco, l'allievo di Aristotele, quando attribuì il progresso verificatosi al tempo di Platone nei mathḗmata, e precisamente negli ambiti della 'metrologia', della geometria, dell'ottica e della meccanica, proprio alla funzione di 'architetto' svolta da Platone. Questi affidava i diversi problemi da risolvere a ricercatori competenti, tra i quali è menzionato esplicitamente Eudosso di Cnido. L'immagine di Platone che guida indagini di gruppo dovette imporsi anche al più ampio pubblico cui era destinata la scenetta descritta dal poeta comico Epicrate che rappresenta alcuni ricercatori, incluso un medico proveniente dalla Sicilia, raccolti intorno a Platone, mentre sono intenti a formulare definizioni e classificazioni di carattere botanico (Ateneo, II, 59 c-f).
Accanto alla trasmissione orale del sapere medico, già nel V sec. cominciò a costituirsi una letteratura scritta destinata ai futuri medici. Galeno (Anatomicae administrationes, II, 1 in: K II 280-282) avrebbe collocato l'inizio della scrittura di promemoria di anatomia nel momento in cui la professione medica aveva cominciato a trasmettersi ed estendersi anche fuori della cerchia familiare. Esempi di scritti di questo genere sono per noi le sequenze di cartelle cliniche, attribuite a Ippocrate, che vanno sotto il nome di Le epidemie, le quali avevano la prerogativa di essere successivamente ampliabili con integrazioni sia dell'autore stesso sia di altri medici. A operazioni di questo tipo dovettero dar luogo anche le cosiddette Sentenze cnidie, per noi perse, contro cui polemizza l'autore di Sul regime delle malattie acute. Prendeva così piede l'idea che il sapere medico fosse un sapere cumulativo, al quale potevano contribuire anche le generazioni successive. Sulla stessa linea si muove l'autore dello scritto Sul regime, il quale, ben lungi dal confutare i suoi predecessori, li loda per le loro scoperte e si limita ad apportare aggiunte (I, 1, 1-3). Lo scritto diventa allora un serbatoio dal quale attingere il sapere, anche saltando, almeno in parte, la mediazione orale. Non è un caso che proprio verso la fine del V sec. sia attestata l'esistenza delle prime forme di biblioteca (Euripide, Hippolytus, 451-454; Senofonte, Commentarii, I, 6, 14; IV, 2, 1 e 8, 9). Sarebbe tuttavia errato ritenere che questo tipo di medicina colta, che trovava espressione nello scritto, mettesse fuori gioco altre forme di terapia; esse infatti hanno continuato a essere praticate per tutta l'Antichità.
Per le altre discipline la documentazione non è così abbondante, ed è difficile estendere a esse quanto sappiamo della medicina. Occorre però tener conto del fatto che molte forme di sapere tecnico hanno continuato a essere trasmesse oralmente attraverso l'apprendistato, senza raggiungere il piano della scrittura. Un ostacolo da non trascurare era dovuto alla persistenza del segreto professionale; questo tipo di segreto non era praticato nell'agricoltura, motivo per cui Senofonte decise di dedicare a questa disciplina una trattazione scritta (Oeconomicus, XV-XVI). Proprio verso la fine del V sec. venne accentuandosi una cesura tra le tecniche legate all'attività manuale e quelle indipendenti da essa. Questa cesura è esplicita in Platone, il quale attribuisce a Gorgia la distinzione tra una prassi esercitata mediante le mani e una esercitata mediante le parole e i discorsi, da identificarsi con la retorica. In questo dialogo, però, Socrate ha buon gioco nel mostrare che nel secondo tipo di prassi rientrano anche l'aritmetica, la tecnica del calcolo, la geometria e molte altre téchnai (Gorgias, 450 b 3-e 2; Politicus, 258 c 3-e 5). Nel In primum Euclidis elementorum librum commentarii, Proclo riferisce che già alla fine del V sec. esistevano alcuni scritti di geometria e, precisamente, quelli di Ippocrate di Chio. Probabilmente Proclo attingeva le sue informazioni, direttamente o indirettamente, dalla Storia della geometria di Eudemo di Rodi, allievo di Aristotele. Quando Simplicio, tardo commentatore di Aristotele, riporterà le soluzioni avanzate da Ippocrate dei vari casi del problema della quadratura delle lunule, dirà di esporre "alla lettera" il resoconto datone da Eudemo; tuttavia Simplicio si trova costretto ad aggiungere, a scopo di chiarezza, alcune cose tratte dagli Elementi di Euclide e ciò a causa del carattere riassuntivo (hypomnēmatikón) dell'esposizione di Eudemo, conforme alla concisione propria dell'"uso arcaico". Il testo offerto da Simplicio è dunque il risultato di una doppia stratificazione rispetto al testo originario di Ippocrate, anche se si può ipotizzare che questo già possedesse alcuni degli elementi che caratterizzano il tipo di scrittura geometrica codificato in Euclide. Malgrado questi casi, anche per la geometria l'insegnamento orale continuava a essere un veicolo essenziale di trasmissione; stando a Platone, orale era l'insegnamento di Ippia, così come quello di Teodoro di Cirene (tra il V e il IV sec.). Infine, non bisogna dimenticare che orale è la straordinaria performance di soluzione di un problema geometrico alla quale perviene lo schiavo del Menone.
Tuttavia abbiamo anche il caso opposto, cioè di una tecnica manuale che si solleva al piano della scrittura: si tratta della scultura. Gli antichi attribuivano allo scultore Policleto, in una data imprecisata della seconda metà del V sec., la composizione di uno scritto intitolato Canone, nel quale erano enunciati i rapporti proporzionali che dovevano intercorrere tra le varie parti del corpo umano; il testo era affiancato da una statua, nella quale questi rapporti erano incarnati e resi visibili. Se per 'manuale' s'intende un corpo di regole generali, di spiegazioni, di prescrizioni, di raccomandazioni e di divieti, il cui studio dovrebbe aiutare l'allievo a impratichirsi e perfezionarsi in un'arte o in un mestiere, allora si può dire che il libro di Policleto, integrato dal supporto figurativo della statua, fosse un manuale. Questo non escludeva affatto l'apprendistato diretto nella bottega, ma poteva fornire un ulteriore ausilio sia nella fase dell'apprendimento, sia come memorizzazione delle regole del mestiere. Non sappiamo però se tale libro avesse come destinatari soltanto gli scultori; non si può escludere che fosse indirizzato anche a coloro che in generale erano interessati a conoscere le regole che presiedevano all'arte statuaria, per disporre di criteri in base ai quali giudicarne e apprezzarne i risultati. Nel momento in cui comincia ad essere depositato nello scritto, il sapere tecnico può allargare il proprio spazio, uscendo dall'ambito separato della bottega e dei gruppi familiari e professionali, per aprirsi anche a un pubblico senza volto, lontano nello spazio e nel tempo, fatto di nuovi destinatari non necessariamente interessati all'apprendimento di un mestiere. Attraverso lo scritto si modificano l'area e le modalità di circolazione della conoscenza.
Rivolgendosi anche a destinatari diversi dagli uomini del mestiere, il sapere tecnico può diventare oggetto di una forma di conoscenza non più diretta alla semplice riproduzione e trasmissione, ma anche alla sua analisi e discussione. In tal modo il sapere coltivato dagli specialisti può essere inserito entro coordinate teoriche e culturali più ampie, dando luogo a comparazioni, distinzioni, integrazioni o contrasti con altre forme di conoscenza.
I processi che abbiamo tentato di ricostruire s'inquadrano in una diffusione più generale delle attività intellettuali nella seconda metà del V secolo. Non tutto è inventato nella distinzione, formulata più volte da Platone, tra gli intellettuali del tempo antico, che non ritenevano di dover fornire esibizioni pubbliche (epideíxeis) del proprio sapere davanti a uomini di ogni genere, e i nuovi intellettuali, da lui chiamati sofisti e descritti come venditori di mathḗmata ad acquirenti in grado di pagare. Questi ultimi offrivano dimostrazioni del loro sapere "affinché anche i calzolai apprendano ascoltando" (Theaetetus, 180 c 7-d 7). L'insieme di conoscenze di Ippia era destinato a essere esibito nell'agorà o in occasione di festività come i giochi a Olimpia, davanti a un pubblico che non era composto di soli specialisti; così come i suoi poemi e discorsi "su tutti gli argomenti e in tutti gli stili" erano scritti in vista di una lettura pubblica (Platone, Hippias minor, 368 c-d). È significativo che tra le conoscenze di Ippia fosse inclusa anche la mnemotecnica; questa capacità gli garantiva il possesso stabile delle proprie conoscenze e la possibilità di esibirle al momento voluto, mentre, come materia di insegnamento, permetteva agli allievi di acquisire e ritenere, se non proprio lo stesso sapere del maestro, almeno una parte di esso.
La dimensione pubblica, che nella seconda metà del V sec. caratterizzava le esibizioni del sapere, era collegata al diffondersi di un gusto per le dispute, che non riguardava i soli 'specialisti'. Tale gusto trovava infatti un terreno fertile nello sviluppo della pratica del dibattito in ambito politico e giudiziario, sviluppo caratteristico della pólis come forma di organizzazione politica. Lo scritto ippocratico La natura dell'uomo (1, 2-3; 2, 1-2) fa riferimento all'esistenza di competizioni nelle quali alcuni oratori si affrontavano su un tema determinato ‒ in questo caso, la natura dell'uomo ‒ allo scopo di conseguire la vittoria di fronte a una cerchia di ascoltatori; ciò non riguardava la sola medicina, ma anche altri ambiti del sapere. Gorgia (Oratio in Elenam, par. 13) accenna all'esistenza di dibattiti con discorsi contrapposti tra meteōrológoi, e l'autore di un altro scritto ippocratico, il De arte (Perì téchnēs), parla dei molti che "si fanno un'arte di biasimare le arti", in particolare la medicina, negando che essa sia una téchnē. Il contesto (1, 1-3) mostra che costoro non sono medici come forse non era medico neanche lo stesso autore dello scritto (che rinvia a un altro discorso da lui steso in difesa delle diverse téchnai: 9, 1). Talvolta questo testo è messo in relazione con un passo del Sofista (232 d-e) platonico, nel quale il giovane Teeteto interpreta la seguente affermazione come un'allusione a tesi sostenute da Protagora di Abdera: "Le cose che riguardo a tutte le téchnai nel loro insieme e a ciascuna singolarmente occorre obiettare a ciascuno specialista (dēmiourgós) si trovano messe pubblicamente per iscritto per chi vuole apprenderle". Questa frase potrebbe riferirsi a uno scritto sui mathḗmata attribuito a Protagora, nel quale erano prese in esame tutte le forme del sapere e non soltanto le matematiche in senso tecnico; se però fosse possibile includere nella critica protagorea delle téchnai o dei mathḗmata la confutazione della geometria, attribuitagli da Aristotele mediante l'assunto che "non in un solo punto il cerchio e la retta sono tangenti" (Metaphysica, II, 997 b 35 - 998 a 4), allora avremmo la conferma che la geometria era concepita come una téchnē o un máthēma specifico, suscettibile di interessare anche i non specialisti e di essere criticato in uno dei suoi presupposti fondamentali.
La polymathía di Ippia si trovava così rovesciata in una sorta di confutazione globale delle téchnai, elaborata nello scritto di Protagora. Non a caso Platone rappresentava Protagora nell'atto di rimproverare altri sofisti ‒ e in particolare Ippia ‒ di guastare i giovani riconducendoli a forza a interessarsi delle tecniche particolari, "insegnando loro il calcolo, l'astronomia, la geometria e la musica" (Protagoras, 318 d 9 - e 4). I tentativi di risolvere il problema della quadratura del cerchio attribuiti a Antifonte e Brisone (vissuti tra il V e il IV sec.), i quali non erano per così dire matematici di professione, nonché la rappresentazione aristofanea di un Metone interessato a questioni di quadratura, documentano la diffusione, anche al di fuori di un ambito strettamente specialistico, di un gusto per i problemi difficili o insolubili, sulla linea di una tradizione di indovinelli e di enigmi. Secondo Aristotele (De sophisticis elenchis, IX, 11, 171 b 34 - 172 a 7; Physica, I, 2, 185 a 14-17), questi tentativi di quadratura del cerchio si basavano su premesse non geometriche e pertanto estranee alla geometria come scienza fondata su principî propri, quindi a suo avviso non era compito dei geometri confutarli.
Nel caso della medicina l'apertura a un pubblico più ampio era ovviamente legata anche alla necessità che fossero il paziente e i suoi parenti o amici a scegliere il medico curante. Inoltre, già nel V e certamente nel IV sec. in alcune città era prassi comune scegliere medici pubblici (Senofonte, Cyropaedia, I, 6, 15). In queste situazioni il medico doveva provare la propria competenza e a ciò contribuiva naturalmente la reputazione acquisita. Ma non bisogna dimenticare la scarsa efficacia terapeutica della medicina antica, tra l'altro drammaticamente emersa all'inizio della guerra del Peloponneso, quando gli stessi medici erano rimasti vittime della peste scoppiata ad Atene (Tucidide, II, 47, 4); di qui l'importanza del riconoscimento, ricorrente in vari scritti ippocratici, della non curabilità di tutte le malattie. Il medico era dunque costretto a ricorrere anche alla parola e, in taluni casi, allo scritto per convincere il pubblico, affrontando tematiche mediche più generali, non limitate alla necessità contingente immediata. Platone, nelle Leggi, contrappone il medico degli uomini liberi, che fornisce ai suoi pazienti spiegazioni delle terapie da impiegare, a quello degli schiavi, che si limita a effettuare la cura (IV, 720 a-e; IX, 857 c-d). E il costituirsi di un'audience interessata a tematiche mediche è confermato dal fatto che Tucidide ritiene opportuno inserire nella sua storia una narrazione della peste ad Atene nella quale non esita a impiegare un lessico tecnico per descrivere i sintomi e indicare le cause dalla malattia. Così, Platone nel Simposio, una riunione conviviale di persone colte che s'intrattengono con discorsi su un tema prescelto, mette in bocca a Erissimaco una celebrazione di Eros tutta costruita su concezioni mediche. Nella Repubblica (III, 405 a-d) la medicina è ormai esplicitamente presentata, accanto alle questioni giudiziarie, come un ambito che riscuote un interesse, eccessivo agli occhi di Platone, anche da parte di molti uomini liberi che non esercitano questa professione. D'altra parte, l'esibizione orale o scritta di concezioni rivali della medicina poteva generare nei non specialisti (i dēmótai o idiṓtēs, la gente comune) la convinzione che questa disciplina non costituisse un sapere vero e proprio, esattamente come avveniva di fronte al dissenso (diaphōnía) tra gli indovini nell'interpretazione di segni uguali fra loro (De diaeta acutorum, 7-8, 44). Nasce di qui un certo affanno dei medici più consapevoli nel cercare di dimostrare e convincere con i loro scritti che la medicina, pur riconoscendo i propri limiti terapeutici, possiede uno statuto scientifico. L'autore dello scritto Sulle fratture ritiene necessario fornire ad altri medici quello che egli chiama un apomáthēma, una sorta di insegnamento alla rovescia, consistente nel riferire gli errori compiuti da falsi medici, per non ripeterli (capp. I, XXV). È chiaro però che queste indicazioni potevano essere d'ausilio anche per eventuali lettori comuni allo scopo di distinguere il vero medico da quello falso.
Possiamo presumere che in altri ambiti del sapere, come l'aritmetica o la geometria, la situazione fosse meno drammatica che nella medicina, ma un altro tipo di pericolo dovette minacciare quella che era chiamata meteōrología. L'interesse per questo genere di indagini presso alcuni esponenti dei ceti più elevati della società ateniese trova esemplificazione nel ricco Callia, il quale, secondo la descrizione del Protagora platonico, ospitava nella sua casa gli intellettuali di successo di passaggio ad Atene, come Protagora, Prodico e Ippia. Una tradizione che andava da Platone a Plutarco (Pericles, 6, 1-5) attribuiva allo stesso Pericle un interesse per i metéōra; Plutarco lo avrebbe addirittura ritratto nell'atto di assistere a una discussione pubblica tra Anassagora e l'indovino Lampone sul caso straordinario di un caprone con un corno solo, che poteva essere spiegato come un prodigio di origine divina oppure come il risultato di processi puramente naturali. In questi contesti dimostrare interesse per ambiti di ricerca difficili e nuovi poteva anche portare prestigio.
Non si deve neppure trascurare il collegamento che s'istituì progressivamente tra preparazione militare dei comandanti e acquisizione di conoscenze geometriche e astronomiche. Polibio (IX, 14-16; 19-21) esprimerà una tesi, diffusa in età ellenistica, a riguardo della necessità che i comandanti di eserciti disponessero di conoscenze non soltanto meccaniche, per la costruzione delle macchine belliche, ma anche astronomiche per le eclissi, o geometriche per la tattica; si trattava di un punto di vista esistente almeno dai tempi di Platone (Respublica, 527 d 2-6). Secondo il racconto di Plutarco (Nicias, 23, 3-5), il primo ad aver scritto un libro sulle fasi lunari era stato Anassagora; ciò aveva contribuito a renderlo noto, ma al tempo stesso lo aveva coinvolto nella diffidenza generale verso quelli che "allora erano chiamati fisici e meteōroléschai" (letteralmente gente che fa chiacchiere sui metéōra); tale diffidenza, secondo Plutarco, sarebbe cessata soltanto quando l'influenza degli scritti di Platone avrebbe reso i mathḗmata accettabili a tutti, ma una dose d'invenzione non può certo essere esclusa da questo racconto. Sono ancora oggetto di discussione l'esistenza di un decreto di Diopite del 438-437 contro l'insegnamento dei metéōra (o metársia), riferita dallo stesso Plutarco (Pericles, 32, 2), e la storicità di processi e condanne di intellettuali ad Atene, incluso Anassagora. È difficile tuttavia negare che una certa sospettosità verso questo tipo di indagini esistesse, visto che trovava espressione anche nel libro di Anassagora (Platone, Apologia Socratis, 26 d). Questo sospetto si articolava secondo una gamma che andava dal rilievo della loro pericolosità sul piano delle credenze religiose o dell'educazione dei giovani a quello della loro inutilità per le funzioni etico-politiche e militari proprie del cittadino. I meno sospettosi, in genere, sottolineavano la loro inutilità, tema che ancora sarebbe stato discusso nelle scuole filosofiche del IV sec.: l'Accademia di Platone e il Liceo di Aristotele, dove, tra l'altro, venivano a contrapporsi le immagini di Talete, che per osservare il cielo di notte cade in un pozzo (Platone, Theaetetus, 174 a ‒ ma il tema è già reperibile in una favola di Esopo, n. 65), unita a quella del geometra Ippocrate di Chio, sprovveduto nel condurre le sue faccende economiche (Aristotele, Ethica Eudemia, VIII, 14, 1247 a 15-21), con quella dello stesso Talete capace, grazie alle sue osservazioni astronomico-meteorologiche, di prevedere un buon raccolto di olive e di trarne quindi profitto, procurandosi il monopolio dei frantoi (Aristotele, Politica, I, 11, 1259 a 5-21).
Il punto cruciale era però costituito dall'educazione dei giovani, com'era già venuto in chiaro nelle Nuvole di Aristofane, dove si sottolineava l'influenza nefasta dell'insegnamento di discipline "oziose", che conducevano a rovesciare i valori tradizionali, come il rispetto per i genitori. Un connotato saliente del ritratto platonico dei sofisti, Ippia compreso, era di andare a caccia di giovani abbienti, ai quali impartire insegnamenti a pagamento. Nel Protagora (311 b - 312 b 4; 315 a 3-5) Platone descrive un colloquio tra Socrate e il giovane Ippocrate, un aspirante allievo di Protagora, nel quale l'insegnamento a pagamento, seguito per diventare medici o scultori, è nettamente distinto dall'insegnamento seguito per uno scopo non professionale. Socrate porta l'esempio dei maestri ad Atene seguiti dai bambini non per diventare specialisti o professionisti in queste materie, ma per ottenere semplicemente un'educazione (paideía), come conviene all'uomo libero e idiṓtēs. Secondo Senofonte (Commentarii, IV, 7, 2-9) era stato Socrate stesso a precisare sino a qual punto l'uomo 'ben educato' dovesse essere esperto (émpeiros) di geometria, astronomia, calcoli e medicina. Senofonte attribuiva infatti a Socrate proprio quella concezione strumentale degli studi che Aristofane aveva invece esplicitamente escluso dal suo ritratto. Ciò che occorreva apprendere in queste discipline ‒ secondo il Socrate di Senofonte ‒ riguardava soltanto la misurazione dei terreni in vista di compravendite, la distinzione tra i giorni, i mesi e le stagioni, i calcoli e la conoscenza di quanto contribuisce alla salute. Tutto ciò che oltrepassava questi scopi strettamente utilitari, per esempio l'apprendimento della geometria sino ai livelli di più difficile comprensione o dell'astronomia sino alla conoscenza degli astri e dei pianeti e delle loro distanze rispetto alla Terra, doveva essere radicalmente respinto.
Si può ragionevolmente supporre che sui limiti da porre a questi studi nell'educazione dei giovani, l'opinione di una parte consistente della società greca, nonché di quella ateniese, allora tra le più evolute culturalmente, convergesse. Nell'Antidosi e nel Panatenaico, Isocrate avrebbe sostenuto che quanti si occupano di astronomia, geometria e altri mathḗmata di questo genere, sono utili ai loro allievi "meno di quanto essi promettono, ma più di quanto ne pensano gli altri". Secondo Isocrate, la maggior parte delle persone considera questi mathḗmata soltanto una forma di chiacchiera e di meteōrología e pertanto inutile nella vita privata e pubblica. Egli condivide questo giudizio, che presenta come tradizionale e diffuso; a suo avviso, non c'è alcun vantaggio a raggiungere in questi studi un livello di grande tecnicità ed esattezza, a meno che non si scelga di ricavarne di che vivere esercitando a propria volta l'insegnamento. Se tuttavia si guarda all'apprendimento su un piano diverso, che non sia quello dell'utilità diretta, questi studi svolgono una certa funzione in relazione al fatto che costringono l'allievo a sottomettersi a una sorta di ginnastica mentale su argomenti difficili e forniscono al pensiero velocità e capacità di comprensione. Si tratta di una vera e propria 'ginnastica' mentale, che svolge una funzione preparatoria in vista dei compiti, soprattutto politici, propri dell'età adulta. Si tratta dunque di un'utilità puramente formale, ginnica, senza rapporto con i contenuti. Da questo punto di vista, è chiaro che l'apprendistato in queste discipline poteva e doveva essere ammesso soltanto per un periodo limitato di tempo. Senofonte, a differenza di Isocrate, poneva invece dei limiti anche sul piano dei contenuti, introducendo un'argomentazione diversa, secondo la quale sia l'astronomia sia la geometria, a suo avviso, potevano impegnare la vita intera di un uomo, impedendogli così di apprendere molti altri mathḗmata utili (Commentarii, IV, 7, 3 e 5). Saranno proprio queste prospettive di Senofonte e di Isocrate a risultare vittoriose anche sulla lunga durata; le discipline scientifiche, infatti, saranno ammesse a far parte dell'educazione generale soltanto a condizione che si restringa la complessità dei contenuti da apprendere o che l'insegnamento si riduca all'aspetto formale e di addestramento.
La necessità di acquisire una formazione generale che riguardasse anche le discipline scientifiche si legava a un problema già incontrato a proposito della medicina: chi poteva giudicare e valutare il sapere degli specialisti? È chiaro che questo problema era collegato alla questione precedente: sino a che punto era necessario apprendere le discipline ormai specializzate e complesse? Che lo specialista potesse essere giudice dei propri colleghi nello stesso ambito di competenza, per esempio il medico giudice di altri medici, sembrava fuori discussione. Questa tesi si trova espressa con chiarezza in Platone: giudice di uno specialista può essere soltanto un altro specialista (homótechnos) (Charmides, 171 a 4-c 2; Io, 531 d-e). Lo stesso Platone, tuttavia, altrove ammette che anche il non specialista possa essere buon giudice delle opere dei tecnici; in questi casi, però, generalmente egli attribuisce al non specialista una forma superiore di sapere: quello di colui che sa usare i frutti delle arti produttive o quello dell'architéktōn, che presiede e guida l'attività di altri specialisti, senza essere egli stesso direttamente impegnato in tali attività. Infine, nelle Leggi, pur riconoscendo l'utilità generale dello studio delle matematiche, Platone lascerà a pochi specialisti il compito di svolgere indagini che raggiungano alti livelli di esattezza (akríbeia) (VII, 818 a 1-7). E allo stesso modo si regolerà Aristotele (Politica, VIII, 2, 1337 a-b). Sempre nelle Leggi, Platone presenterà come massimo male non tanto l'inesperienza nel sapere matematico, quanto, ancora una volta, la polymathía (VII, 819 a 3-6). Questo tema si trova svolto più ampiamente in un dialogo attribuito a Platone, ma composto verosimilmente nell'Accademia platonica, intitolato gli Anterastaí. L'obiettivo del dialogo è di mostrare che la filosofia non può consistere nella polymathía, anche se questa fosse ristretta alle sole téchnai degne di essere apprese da un uomo libero e, quindi, con esclusione delle tecniche manuali. Né basta dire che l'apprendimento non debba raggiungere il livello di esattezza proprio dello specialista; né è sufficiente aggiungere che l'insegnamento non deve condurre a trascurare il resto, come già aveva sostenuto Senofonte, perché lo scopo è solamente quello di "seguire quanto viene detto dallo specialista (dēmiourgós) in modo superiore ai presenti" e di fornire contributi con il proprio parere, per poter risultare più competente dei presenti su quanto si dice e si opera nell'ambito delle téchnai.
Certamente queste restrizioni consentono di rispondere all'obiezione secondo la quale è impossibile che uno stesso individuo apprenda anche soltanto due téchnai, ma non a quella secondo cui il filosofo dotato di polymathía sarebbe come un atleta di pentathlon, sempre inferiore nelle singole gare rispetto agli atleti di ciascuna specialità (135 b - 136 d). È interessante notare che nella prima età imperiale Trasillo identificherà l'interlocutore anonimo di questo dialogo, il quale sosteneva la riduzione della filosofia a polymathía, con Democrito, "vero e proprio pentatleta" nella filosofia e in varie scienze (Diogene Laerzio, IX, 37). Di fatto, in ogni caso l'interlocutore anonimo delineava una figura di uomo libero, per il quale era appropriato acquisire una cultura generale anche nell'ambito del sapere scientifico, senza doversi per questo trasformare in uno specialista. Si tratta della figura dell'uomo colto (pepaideuménos), che affiora anche nelle pagine di Aristotele. Accanto allo specialista, che esercita professionalmente un sapere o un'arte, e all'architéktōn, che presiede a queste attività, Aristotele colloca ‒ nel momento in cui affronta il problema della scelta di quanti debbono ricoprire cariche pubbliche ‒ anche colui che ha acquisito una cultura generale riguardante "per così dire, tutte le téchnai" e che quindi sa formulare giudizi (krínein) corretti sui discorsi e sull'attività degli specialisti, non meno di quanto sappiano fare questi ultimi (Politica, III, 11, 1281 b 38 - 1282 a 12). Da un passo del De partibus animalium (I, 1, 639 a 1-16) sembra di poter inferire che la correttezza di questo giudizio riguardi non tanto la verità di quanto è affermato, dal momento che essa rimane di competenza degli specialisti stessi, quanto il metodo e le modalità con cui è condotta la dimostrazione e, quindi, la struttura del discorso. Per questo aspetto la figura del pepaideuménos in Aristotele è stata avvicinata a quella del dialettico.
Il problema delle relazioni tra le discipline scientifiche emerse in primo luogo all'interno di ciascuna di esse per esigenze di metodo, ma in seguito, nella Grecia classica, si sviluppò come effetto di una loro progressiva assimilazione nel quadro di una paideía generale. In questo caso si poneva la questione se le diverse discipline andassero semplicemente affiancate l'una all'altra, con un unico elemento di unificazione dato dal fine educativo o culturale ‒ che si poneva al di là di esse, come abbiamo visto nei casi di Senofonte, Isocrate e altri ‒ oppure se esistessero connessioni anche concettuali e metodiche. Nel ritratto platonico, Ippia presentava le diverse discipline come semplici porzioni del suo sapere globale, senza accennare a una loro connessione. I primi a porsi il problema sono stati ancora una volta i medici e non soltanto per istituire relazioni con altri ambiti di conoscenza, ma anche per stabilire demarcazioni rispetto a saperi che essi giudicavano soltanto presunti. Di lunga data, infatti, doveva essere l'associazione tra medico e indovino, dato anche, tra l'altro, il carattere predittivo di entrambe le attività, fondate sull'interpretazione di segni: già in Eschilo compare un riferimento, in veste mitica, alla figura dello iatrómantis, l'indovino medico (Supplices, 260-270). Preoccupazione di alcuni medici ippocratici sarà di sottrarre la medicina all'abbraccio o alla subordinazione nei confronti della divinazione e delle forme di terapia magica; il caso più celebre è costituito dall'autore del De morbo sacro, ma già Sofocle non considerava appropriato per il vero medico tentare terapie mediante incantesimi (Aiax, 581-2). Per un altro verso, alcuni scritti ippocratici, riprendendo l'antica idea di una connessione tra malattie, clima e andamenti stagionali (Ilias, XXII, 30-31; Pindaro, Pythia, III, 47-50), ritennero essenziale per la teoria e la pratica medica la conoscenza dei fenomeni celesti, meteorologici e climatici. Questo punto di vista è esemplarmente riassunto dall'affermazione dell'autore del De aëre, aquis, locis che "l'astronomia non poco contribuisce alla medicina", in cui si registra la prima ricorrenza a noi nota, insieme a quella delle Nuvole già citata, del termine 'astronomia'. Un'attenzione per il calendario e per la meteorologia è presente anche nel Prognostico, dove si sottolinea la difficoltà di effettuare calcoli precisi dei giorni critici, visto che neanche i mesi e l'anno potevano essere numerati secondo giorni interi; d'altra parte, ne Le Epidemie (I, 23) è ribadita la necessità di tener conto dei fenomeni celesti e delle particolarità con cui essi si presentano in ciascun territorio per diagnosticare la peculiarità di ciascuna malattia.
Questo allargamento delle conoscenze mediche ad ambiti che, a rigor di termini, non rientravano nelle competenze dello specialista, se portato all'estremo poteva condurre a ritenere che la medicina dovesse essere fondata sulla conoscenza generale della natura dell'uomo o, addirittura, dell'Universo. Una posizione che è esemplarmente contraddetta dall'autore de L'antica medicina, il quale afferma che la medicina non può essere fondata su tesi generali, chiamate 'ipotesi', perché queste possono essere applicate in modo proprio soltanto nel campo dei metéōra e delle "cose sotterranee", corrispondenti all'ambito di ciò che rimane oscuro alla percezione umana (1, 1-3; 20, 1-2). In questo modo si veniva a tracciare una linea invalicabile di demarcazione, nel senso che la medicina rivendicava uno statuto di autonomia, di esclusiva pertinenza dei medici dotati di un sapere specializzato, il quale non doveva essere corrotto con inserzioni o interferenze esterne. Anche su questo punto appare dunque pienamente confermato il pluralismo tipico della medicina antica.
Il problema delle connessioni, tuttavia, non rimase circoscritto alla medicina. La stessa elaborazione delle prime carte geografiche, a partire da quella attribuita ad Anassimandro, dovette comportare infatti il ricorso a figure e nozioni geometriche. La tradizione antica non di rado, a proposito di personaggi come Metone o Enopide di Chio ‒ al quale è attribuita la risoluzione di alcuni problemi geometrici ‒, descrive le loro ricerche geometriche come finalizzate alla risoluzione di problemi astronomici. Effettivamente la connessione fra geometria (in particolare la geometria sferica) e astronomia rimase una costante nel sapere matematico antico e celebrò i suoi trionfi con Eudosso di Cnido, specialmente con la sua teoria delle sfere omocentriche, elaborata per spiegare i moti circolari dei pianeti intorno alla Terra e le loro apparenti irregolarità. Anche l'impossibilità di risolvere aritmeticamente il problema dei rapporti tra grandezze incommensurabili e la risoluzione di esso in termini geometrici dovettero richiamare l'attenzione su differenze e analogie fra aritmetica e geometria: segno di ciò è infatti la riduzione, attribuita a Ippocrate di Chio, del problema della duplicazione del cubo ‒ impossibile da risolvere numericamente, data la limitatezza del campo numerico conosciuto dai Greci ‒ alla ricerca di due medie proporzionali in proporzione continua tra loro. Non si dimentichi poi che Platone denomina Teodoro di Cirene "il geometra" e contemporaneamente gli attribuisce la competenza e la capacità d'insegnare non soltanto nozioni di geometria, ma anche di astronomia, di armonia e di calcolo (Theaetetus, 145 c 7-d 3; 161 e 4-7; 164 e 7 - 165 a 3); lo stesso complesso di competenze, d'altra parte, è assegnato al suo allievo Teeteto (145 a 1-9). Così il caso di Ippia cessò di essere isolato e nel IV sec. a.C. le discipline matematiche apparivano ormai caratterizzate come un insieme omogeneo. Di fatto, in una data imprecisata della prima metà di tale secolo, il pitagorico Archita di Taranto si riferiva a un gruppo di individui che avevano assunto a oggetto dei loro interessi i mathḗmata e avevano fornito una conoscenza chiara della velocità degli astri, del loro sorgere e tramontare, nonché della geometria piana e sferica, dell'aritmetica e della musica. "Infatti queste discipline (mathḗmata) sembrano essere sorelle, perché si rivolgono alle due primissime forme dell'essere che sono sorelle" (DK 47 B 1). Dell'autenticità di questo frammento si è a lungo dubitato; recentemente si è invece argomentato in suo favore, anche se non risulta tuttora chiaro in cosa consistessero le forme a cui Archita si riferiva e quindi in che senso fossero imparentate le discipline che se ne occupavano. In ogni caso, pare assodato che i vari settori elencati da Archita, anziché essere di pertinenza di specialisti diversi, costituissero l'oggetto d'indagine di un unico gruppo di studiosi. Non è chiaro se questi ultimi siano da identificare con quelli che nella cerchia pitagorica erano chiamati 'matematici' per distinguerli dagli 'acusmatici', ossia coloro che si limitavano ad ascoltare gli insegnamenti impartiti.
All'inizio di un altro frammento di Archita, della cui autenticità si è pure dubitato (DK 47 B 4), si afferma che la logistica, in rapporto alla sapienza, sembra essere molto superiore alle altre téchnai, poiché è in grado di trattare persino le questioni geometriche in maniera più evidente della stessa geometria. Solitamente si attribuisce al termine 'logistica' il significato di tecnica del calcolo mediante numeri naturali, ma, se così fosse, Archita non sarebbe giunto a riconoscere il primato della geometria sull'aritmetica dei numeri naturali, dato dalla scoperta dell'incommensurabilità. Questo primato è riconosciuto da Plutarco (Quaestiones conviviales, VIII, 2, 1, 718e; DK 44 A 7a) quando fa asserire a Filolao di Crotone ‒ un altro pitagorico antecedente ad Archita ‒ che "la geometria è principio e metropoli degli altri (verosimilmente mathḗmata)". Questa asserzione può essere intesa nel senso che la geometria era il modello per le altre discipline matematiche o anche il nucleo fondamentale da cui esse si dipartivano, come le colonie dalla comune madrepatria; ma forse è anche possibile che con il termine 'logistica' Archita facesse riferimento non tanto alla tecnica del calcolo, quanto al dominio dei lógoi, ossia dei rapporti, e quindi a una teoria delle proporzioni. Sarebbe allora questa a portare a compimento la risoluzione di problemi geometrici e a costituire il legame di parentela che connette fra loro le discipline di cui si parla nel frammento 1, dato che lógoi e proporzioni sono utilizzati anche nell'aritmetica, nella musica e nell'astronomia. Infine, bisogna aggiungere che, stando a Diogene Laerzio (VIII, 83), Archita sarebbe anche stato il primo a indagare metodicamente le questioni meccaniche facendo uso dei principî matematici e, quindi, a inglobare anche la meccanica nell'alveo del sapere matematico.
Questo accumulo di conoscenze nei vari settori sembra in contrasto con il principio, enunciato più volte da Platone e da Aristotele, secondo cui ciascun individuo poteva esercitare nel modo migliore una sola arte. Nel caso delle scienze matematiche e, secondo Aristotele, anche della filosofia della Natura, entrambi i filosofi, infatti, non facevano più valere questo principio, ma ammettevano la possibilità che uno stesso individuo diventasse competente in una pluralità di discipline. Rimaneva però ferma la separazione tra le arti produttivo-manuali e le scienze teoriche, nel senso che quello che pareva imprescindibile sul piano delle prime, non valeva nelle seconde. Tali eccezioni si basavano anche su una separazione tra sapere professionale, acquisito ed esercitato in vista di una retribuzione, e sapere disinteressato o legato soltanto all'educazione: le scienze, infatti, potevano coesistere l'una accanto all'altra, addizionandosi e integrandosi, nel quadro di una paideía globale (da cui nascerà poi l'enkýklios paideía). La questione consisteva nel trovare i criteri che consentissero e giustificassero questa coesistenza, e dall'analisi dei rapporti esistenti di fatto, o soltanto auspicati, tra le varie discipline scientifiche, emergeranno i primi tentativi di fornire una sorta di classificazione delle scienze.
A questo punto c'imbattiamo inevitabilmente nella Repubblica di Platone e precisamente nei libri VI e VII, dove sono descritti i mathḗmata più importanti, nei quali dovevano esercitarsi (gymnázein) i futuri governanti della città: l'aritmetica e i calcoli, la geometria piana, la stereometria, l'astronomia e la musica. Il discorso di Platone si svolge a livello normativo, prescrivendo come queste discipline debbano essere studiate, non solo contro l'opinione corrente, ma anche contro il modo in cui sono praticate e concepite dai matematici stessi. In questo contesto egli affronta anche la questione della parentela tra le scienze: "Sembra che, come gli occhi sono stati conformati per l'astronomia, così le orecchie lo siano state per il movimento armonico e che queste scienze (epistẽmai) siano sorelle (adelphaí), come dicono i Pitagorici" (Respublica, VII, 530 d 6-9). Questo riferimento è generalmente messo in rapporto col testo già citato di Archita, ma alcuni interpreti, per sostenere che Platone non si riferisce ad Archita, sottolineano due differenze: (1) Platone denomina sorelle l'astronomia e l'armonica, mentre Archita aggiunge anche l'aritmetica, la geometria e forse la stereometria, che egli chiama sferica; (2) l'ordine in cui le discipline sono menzionate da Archita non corrisponde esattamente a quello di Platone. Per quanto riguarda la prima differenza, si può notare che in un altro passo della Repubblica (VI, 511 b 1-2) è addirittura Glaucone, fratello di Platone, a parlare della geometria e delle "tecniche che le sono sorelle", probabilmente interpretando un punto di vista alquanto diffuso; in generale, sembra che Platone tenda a giudicare imparentate fra loro tutte e cinque le discipline. Inoltre, l'ordine diverso con cui sono presentate non è di per sé una ragione sufficiente per escludere che Platone si possa riferire ad Archita, anche se non conosciamo il criterio di classificazione seguito da Archita stesso.
Questo non significa che la posizione di Platone sia riducibile a quella di Archita, ma le differenze tra i due devono essere cercate altrove: differenze che non possono essere rintracciate solo nel brano della Repubblica (VII, 530 b - 531 b) in cui si fa riferimento ai pitagorici come a coloro che nelle loro indagini perdono tempo sulle cose sensibili. Il fatto è che Platone non stabilisce una gerarchia tra le varie discipline matematiche né nel senso di Filolao né in quello di Archita. Ai suoi occhi la gerarchia sussiste piuttosto fra l'insieme delle cinque discipline e la dialettica, che è il loro "fastigio" e "coronamento" (534 e 2-3). Per quanto riguarda le cinque discipline, infatti, egli scrive che noi spesso diamo loro "il nome di scienze (epistẽmai) per obbedire alla consuetudine (éthos)" (533 d 4-5), mentre più appropriato sarebbe parlare di homología, ossia di un accordo o di una convenzione, dato che esse non mettono in discussione né rendono conto a sé e ad altri dei principî dai quali partono, ritenendoli evidenti a chiunque (533 c 1-5).
Questo è il primo passo a noi noto in cui si usa il termine epistḗmē a proposito delle matematiche, ma non bisogna dimenticare che il contesto della discussione è pedagogico. Anche per Platone le matematiche hanno una funzione ginnica, ossia di esercizio, come per Isocrate, in quanto consentono di far emergere le capacità di apprendimento, di memorizzazione e così via. A differenza di quanto pensava Isocrate, però, per lui sono anche propedeutiche sul piano dei contenuti, poiché orientano l'anima verso ciò che è realmente, anziché verso le entità del mondo sensibile. Rispetto all'insegnamento specialistico di queste discipline, Platone oppone un nuovo modo che le trasforma in preliminari per la dialettica. Questo programma pedagogico riguarda ciascuna disciplina in sé, e tutte nel loro insieme; così, per esempio occorre applicarsi alla logistica "non da profani (idiōtikõs), ma fino ad arrivare col pensiero a contemplare la natura dei numeri, non in vista della compravendita" (VII, 525 c 1-3). In un altro passo, Platone precisa che se, studiando tutte queste scienze, si arriva a cogliere i loro rapporti di comunicazione e parentela (koinōnían kaì syngéneian) reciproca e a dimostrare che esse sono affini (oikeĩa) tra loro, questo è l'obiettivo al quale mira la trattazione di esse (531 c 9-d 4). Ai giovani ventenni che avranno superato le precedenti prove pedagogiche saranno presentate le scienze che nella fanciullezza erano state loro insegnate alla rinfusa, "affinché essi abbraccino con uno sguardo complessivo i rapporti di parentela tra esse" (537 b 8-c 3). Questo passo conferma che Platone, come Archita, pensava a una parentela fra tutte le discipline e non soltanto tra astronomia e armonica, e al tempo stesso evidenzia come la conoscenza di questa parentela non fosse un dato, ma un obiettivo da perseguire nell'itinerario della conoscenza. Questa tesi della propedeuticità delle varie scienze rispetto alla filosofia dovette riscuotere un certo successo, se un poeta della commedia nuova, Nicomaco, ne farà la parodia indicando nell'astronomia, nella geometria, nella medicina e nel numero le discipline da apprendere come propedeutiche alla culinaria (Ateneo, VII, 290 e - 291 d). Resta aperta una questione: perché Platone ha disposto le diverse discipline in questo ordine di successione? Si potrebbe rispondere che sia stato per ragioni puramente espositive oppure per motivi pedagogici (in base ai quali si parte da ciò che è più semplice da apprendere per giungere a ciò che è più complesso), ma forse è possibile individuare anche altre ragioni che hanno presieduto alla costruzione platonica di questa sequenza. Aritmetica e logistica, nel loro insieme, occupano il primo posto perché sono l'elemento comune "di cui si servono tutte le téchnai, tutte le operazioni intellettuali, tutte le scienze, e che ciascuno deve anche apprendere per prime" (Respublica, VII, 522 c 1-3; Philebus, 55 d 1 - 56 c 4). Da questo passo emerge una corrispondenza precisa tra l'ordine oggettivo e l'ordine pedagogico di apprendimento; infatti, la prima disciplina che occorre apprendere è quella stessa che è presupposta ed è necessaria a tutte le altre. Dopo l'aritmetica, Platone introduce la geometria come ciò che si connette a essa, ma non chiarisce né giustifica questa successione (VII, 526 c 8-9); tra l'altro, egli non precisa che le dimensioni geometriche costituiscono qualcosa di più complesso o di ulteriore rispetto al numero, e afferma invece esplicitamente che la stereometria, cioè la geometria dello spazio, non può che seguire la geometria piana, poiché subito dopo la seconda dimensione occorre affrontare la terza, cioè quella dei cubi e degli enti dotati di profondità (528 b 1-3). Infine, se l'astronomia non è altro che "movimento dei solidi" (528 d 11-e 1), è ovvio che essa presuppone la stereometria in quanto scienza dei solidi (si potrebbe ipotizzare che su questo punto Platone guardasse alla nuova astronomia geometrica, elaborata da Eudosso). Rimane ancora la questione dei rapporti tra astronomia e armonia, a proposito dei quali è stata evocata l'influenza dei pitagorici su Platone. Nella Repubblica non si afferma esplicitamente che lo studio dei rapporti armonici presupponga quello dell'astronomia o si fondi su di esso; ciò che Platone suggerisce è piuttosto un parallelismo tra i due ambiti: "come gli occhi sono stati conformati per l'astronomia, così le orecchie per il movimento armonico". In questo caso, il termine 'sorelle' può essere preso alla lettera: non si tratta di scienze, di cui una sia deducibile dall'altra, ma di scienze che si situano su piani paralleli, come sorelle; effettivamente entrambe concernono una forma di movimento, di cui uno è antístrophon dell'altro, gli "risponde" (530 c 11-d 10), ed entrambe devono cercare numeri al di là degli accordi che colpiscono le orecchie e gli occhi, ossia accordi tra i numeri stessi (531 b 7-c 4). In questo senso, si potrebbe affermare che alla base sia dell'astronomia che della scienza armonica ci sia la scienza dei numeri e delle proporzioni, il che potrebbe giustificare al tempo stesso la priorità dell'aritmetica e l'attribuzione all'astronomia (e, in parallelo, all'armonica) dello statuto di scienza più complessa e culmine del sapere matematico.
Su questa linea si muoverà l'Epinomide, un dialogo attribuito già dagli antichi a Filippo di Opunte, allievo di Platone. Dopo aver distinto le vere e proprie scienze (epistẽmai) dalle arti il cui esercizio non è onorevole per un cittadino libero, incluse la divinazione e la medicina, il dialogo sottolinea che la vera sapienza è assicurata soltanto dalla conoscenza del numero. Il numero, infatti, ha tratto la sua origine dall'osservazione astronomica, ma al tempo stesso costituisce uno dei mathḗmata preliminari, insieme alla geometria e alla stereometria (da cui dipende lo studio dei ritmi e delle armonie), per il raggiungimento di quel culmine del sapere che era rappresentato dall'astronomia matematica. Anche in questo caso, come già era sostenuto nella Repubblica, lo studio delle diverse discipline porterà a scoprire l'esistenza di un unico legame (desmós) naturale tra esse (991 d 8 - 992 a 1).
Speusippo, il successore di Platone alla direzione dell'Accademia, sembra coltivasse una preoccupazione analoga; stando a Diogene Laerzio (IV, 2), egli sarebbe stato il primo a investigare ciò che era comune nei mathḗmata per istituire fra essi una parentela reciproca. È chiaro però che questa asserzione di priorità non ha fondamento, sebbene possa valere come conferma della centralità del problema all'interno dell'Accademia. In età ellenistica Eratostene di Cirene identificherà il legame di cui si parlava nell'Epinomide con la teoria delle proporzioni, mentre il neoplatonico Proclo preferirà ravvisarlo negli assiomi o principî comuni a tutte le scienze matematiche. Questa interpretazione di Proclo presuppone però la teoria aristotelica della scienza intesa come scienza dimostrativa, il cui risultato più brillante è identificato negli Elementi di Euclide, ed effettivamente Aristotele può essere visto come l'anello terminale di una discussione sviluppatasi nel IV sec. a.C. sul problema delle interrelazioni tra discipline scientifiche. Egli prende atto dell'autonomia acquisita dalle singole scienze e negli Analitici secondi afferma che ciascuna scienza si costruisce deduttivamente a partire da principî propri, relativi al genere di enti sui quali verte; da ciò deriva il divieto per ogni disciplina di operare invasioni nel campo delle altre scienze, ossia il principio che nel linguaggio aristotelico è chiamato metábasis eis állo génos. Questo significa, per esempio, che non è possibile dimostrare proposizioni geometriche mediante l'aritmetica o viceversa (Analytica posteriora, I, 7, 75 a 36-39). Analogamente una netta linea di demarcazione intercorre tra discipline matematiche e fisica: le matematiche, infatti, prendono in considerazione "per astrazione" determinate proprietà dei corpi, prescindendo da ogni connessione con le loro proprietà fisiche; mentre la fisica, a sua volta, non può assumere come oggetto delle proprie indagini gli enti matematici, ma si deve limitare a esaminare la Natura (phýsis), con la sua prerogativa di far tutto in vista di un fine (Physica, II, 193 b 22-35; De partibus animalium, I, 1, 641 b 11-12). Ora, gli stessi scritti di Aristotele mostrano l'impiego di procedure che sembrano contravvenire a questi divieti. Egli infatti avvia indagini di carattere interdisciplinare, per esempio nel De motu animalium, dove si mostra come il moto dei cieli sia condizione generale per ogni moto animale e, viceversa, come l'indagine sul moto degli animali consenta di correggere alcune assunzioni matematiche formulate nel De caelo. Indagini biologiche, che rientrano nell'ambito di quella che Aristotele chiama 'fisica', ossia 'scienza, o filosofia, della Natura', possono dunque collegarsi con indagini astronomiche, ma ciò ha una funzione euristica e non viola il principio generale della distinzione delle scienze. In questo senso, Aristotele può anche sostenere che rientra nelle competenze del 'fisico' investigare sui principî primi e sulle cause in generale della salute e della malattia; su questo tema convergono sia la maggior parte degli indagatori della Natura sia i medici più orientati filosoficamente (De sensu et sensibili, 436 a 27-b 1; De respiratione, 480 b 22-30).
Sempre secondo Aristotele, è possibile ravvisare una gerarchia tra le diverse discipline matematiche, da determinare in base al rispettivo grado di esattezza (akríbeia). A questo scopo egli fornisce una serie di criteri: per esempio, la caratteristica di avere come oggetto non soltanto l'accertamento dei dati, ma anche quello delle cause, oppure la caratteristica di partire da un numero minore di assunzioni, com'è il caso dell'aritmetica rispetto alla geometria, che deve assumere la "posizione" degli enti di cui si occupa (Analytica posteriora, I, 27, 87 a 31-37). Questi criteri di esattezza non coincidono in tutto col criterio rilevato da Platone nel Filebo, che consisteva nella maggiore o minore lontananza rispetto all'ambito del sensibile, ossia delle proprietà fisiche dei corpi; anche se Aristotele a volte descrive la gerarchia tra le scienze come un rapporto di subordinazione, fondato sul fatto che alcune di esse, come l'ottica, l'armonica e l'astronomia sono "più fisiche" rispetto alla geometria e all'aritmetica. Così, per esempio, mentre la geometria svolge le sue indagini su una linea fisica, ma non in quanto fisica, l'ottica indaga su una linea geometrica, ma non in quanto geometrica, bensì fisica (Physica, II, 2, 194 a 7-12). L'ottica assume infatti determinate proposizioni dimostrate in sede geometrica come principî per formulare le proprie dimostrazioni. Lo stesso discorso vale per le relazioni tra armonica e aritmetica e tra meccanica e stereometria; d'altra parte, ottica, armonica e meccanica possono essere viste come discipline che accertano i fenomeni, mentre le discipline sovraordinate ad esse, ossia rispettivamente geometria, aritmetica e stereometria, possono essere intese come scienze che dimostrano le cause, il perché di quei fenomeni stessi (Analytica posteriora, I, 9, 76 a 22-25; I, 13, 78 b 34 - 79 a 6). Questi rapporti di subordinazione, tuttavia, non intercorrono soltanto all'interno delle discipline matematiche, ma anche nelle relazioni fra queste ultime e le indagini pertinenti alla 'fisica' o alla medicina. Così, per esempio, la medicina accerta che le ferite circolari guariscono più lentamente, ma è il geometra che in base allo studio dei rapporti tra area e perimetro di una figura piana può spiegare il perché. Si deve dunque parlare, più propriamente, di triadi di discipline tra le quali intercorrono rapporti di subordinazione: in questo senso l'accertamento di un fenomeno come quello dell'arcobaleno compete al fisico, ma è proprio dell'ottico fornire spiegazioni di esso (Analytica posteriora, I, 7, 76 a 10-16), ed effettivamente, nei Meteorologica aristotelici è possibile reperire un'articolata spiegazione in termini geometrici del fenomeno dell'arcobaleno. Analogo rapporto sussiste fra i termini della triade costituita da acustica, come studio dei suoni fisici, armonica e aritmetica. Queste riflessioni aristoteliche mostrano chiaramente come nella seconda metà del IV sec. a.C. esistesse ormai un complesso ben articolato di scienze, rispetto alle quali si ponevano problemi sia di demarcazione di confini sia di relazioni reciproche.
Burkert 1962: Burkert, Walter, Weisheit und Wissenschaft. Studien zu Pythagoras, Philolaus und Platon, Nürnberg, H. Carl, 1962 (trad. ingl.: Lore and science in ancient Pythagoreanism, Cambridge (Mass.), Harvard University Press, 1972).
Cambiano 1971: Cambiano, Giuseppe, Platone e le tecniche, Einaudi, Torino, 1971 (nuova ed. riv. e aggiornata: Roma-Bari, Laterza, 1991).
Cavallo 1988: Le biblioteche nel mondo antico e medievale, a cura di Gugliemo Cavallo, Roma-Bari, Laterza, 1988.
Derenne 1930: Derenne, Eudore, Les procès d’impiété intentés aux philosophes à Athènes au Vème et au IVème siècles avant J.-C., Liège, Imprimerie H. Vaillant-Carmanne; Paris, Champion, 1930.
Detienne 1967: Detienne, Marcel, Les maîtres de vérité dans la Grèce archaïque, Paris, F. Maspero, 1967 (trad. it.: I maestri di verità nella Grecia arcaica, Roma-Bari, Laterza, 1977).
– 1988: Detienne, Marcel, Les savoirs de l’écriture en Grèce ancienne, sous la direction de Marcel Detienne, Villeneuve-d’Ascq, Presses Universitaires de Lille, 1988 (trad. it.: Sapere e scrittura in Grecia, Roma-Bari, Laterza, 1989).
Dicks 1970: Dicks, D.R., Early Greek astronomy to Aristotle, London, Thames & Hudson, 1970.
Edelstein 1967: Edelstein, Ludwig, Ancient medicine. Selected papers, edited by Owsei Temkin and Clarice Lilian Temkin, Baltimore (Md.), The Johns Hopkins University Press, 1967.
van der Eijk 1995: Ancient medicine in its socio-cultural context. Papers read at the congress held at Leiden University, 13-15 April 1992, edited by Philip J. van der Eijk, H.F.J. Horstmanshoff, P.H. Schrijvers, Amsterdam-Atlanta, Rodopi, 1995, 2 v.
Gladigow 1965: Gladigow, Burkhard, Sophia und Kosmos. Untersuchungen- Untersuchungen zur Frühgeschichte von Sophos und Sophie, Hildesheim, G. Olms, 1965.
Hadot 1984: Hadot, Ilsetraut, Arts libéraux et philosophie dans la pensée antique, Paris, Études augustiniennes, 1984.
Havelock 1963: Havelock, Eric Alfred, Preface to Plato, Cambridge (Mass.), Belknap Press, Harvard University Press, 1963 (trad. it.: Cultura orale e civiltà della scrittura. Da Omero a Platone, Roma-Bari, Laterza, 1973).
Kudlien 1967: Kudlien, Fridolf, Der Beginn des medizinischen Denkens bei den Griechen. Von Homer bis Hippokrates, Zürich-Stuttgart, Artemis Verlag, 1967.
– 1968: Kudlien, Fridolf, Die Sklaven in der griechischen Medizin der klassischen und hellenistischen Zeit, Wiesbaden, Steiner, 1968.
Lloyd 1966: Lloyd, Geoffrey Ernest Richard, Polarity and analogy. Two types of argumentation in early Greek thought, Cambridge, Cambridge University Press, 1966 (trad. it.: Polarità e analogia. Due modi di argomentare dei primi pensatori greci, trad. di S. Cuomo, Napoli, Loffredo, 1992).
– 1979: Lloyd, Geoffrey Ernest Richard, Magic, reason, and experience. Studies in the origin and development of Greek science, Cambridge-New York, Cambridge University Press, 1979 (trad. it.: Magia, ragione, esperienza. Nascita e forme della scienza greca, Torino, Boringhieri, 1982).
– 1987: Lloyd, Geoffrey Ernest Richard, The revolutions of wisdom. Studies in the claims and practice of ancient Greek science, Berkeley (Calif.), University of California Press, 1987.
– 1991: Lloyd, Geoffrey Ernest Richard, Methods and problems in Greek science, Cambridge-New York, Cambridge University Press, 1991 (trad. it.: Metodi e problemi della scienza greca, Roma-Bari, Laterza, 1993).
Snell 1924: Snell, Bruno, Die Ausdrücke für den Begriff des Wissens in der vorplatonischen Philosophie, Berlin, Weidmann, 1924.
Vernant 1974: Divination et rationalité, Jean-Pierre Vernant [et al.], Paris, Éditions du Seuil, 1974 (trad. it.: Divinazione e razionalità, Torino, Einaudi, 1981).