Scienza greco-romana. Plinio, la tradizione enciclopedica e i Mirabilia
Plinio, la tradizione enciclopedica e i Mirabilia
Molte delle accezioni oggi implicite nel termine 'scienza' non definiscono in modo appropriato il sapere teorico dei Romani. L'esattezza, la sperimentazione sistematica, perfino ciò che noi definiremmo 'oggettività scientifica' erano estranei ai fondamenti logici o alla metodologia di quel sapere; inoltre, i Romani non erano interessati, nella stessa misura dei Greci, alla teoria. In tutte le branche del sapere il principio fondamentale era quello della praticità, e ciò si rifletteva nell'uso del termine artes (in greco téchnai) per designare le 'conoscenze pratiche' o del termine disciplina per designare genericamente l'istruzione. Questi termini non operavano una distinzione tra arti e scienze, e perfino scientia significava 'conoscenza' piuttosto che 'scienza'.
Benché la distinzione tra la capacità di astrazione dei Greci e la praticità dei Romani sia una semplificazione eccessiva (v. par. 3, per es., sulla dottrina sofistica greca), bisogna osservare che gli stessi Romani l'adottarono frequentemente per definire la propria identità culturale, l'evoluzione della quale dipendeva in misura notevole dai Greci. Per i Romani, infatti, la praticità significava possesso delle conoscenze necessarie, non alla vita di tutti i giorni, ma allo stile di vita 'romano'. La complessa ideologia della tradizione morale romana esercitava la sua influenza sia sugli argomenti studiati sia sul modo in cui questi venivano affrontati, e, a giudicare dalle informazioni tratte dalla letteratura enciclopedica e dai manuali tecnici, erano particolarmente popolari le conoscenze considerate appropriate all'identità del popolo romano.
Questo capitolo inizierà con un esame della teoria agricola dei Romani, sulla quale ci è pervenuto il più completo corpus unitario di letteratura tecnica. Si esaminerà poi la tradizione enciclopedica e l'opera di Plinio il Vecchio, autore della vasta Naturalis historia che esemplifica in modo ideale le conquiste dei Romani in ambito scientifico e, allo stesso tempo, evidenzia i problemi che si presentano nel definire 'scientifiche' queste conoscenze. L'evidente interesse di Plinio per il regno animale si rivela nell'accurato esame dell'antica tradizione zoologica, che, nel contesto culturale e storico del periodo compreso tra il tardo ellenismo e l'inizio dell'Impero romano, influenzò notevolmente l'evoluzione della cosiddetta 'letteratura fantastica', nota come 'paradossografia' o tradizione dei mirabilia.
"È dalla classe degli agricoltori che provengono gli uomini più coraggiosi e i soldati migliori" (Catone, De agri cultura, praef., 4). L'immagine di popolo di agricoltori in cui i Romani si riconoscevano non era una semplice opinione sulle proprie origini, divenuta vaga col passare del tempo, ma un'espressione dinamica del loro futuro destino di conquistatori del mondo e di edificatori dell'Impero. La coltivazione della terra aveva prodotto una stirpe di uomini robusti e dai costumi semplici che si accordavano col carattere militare romano; essi avevano progressivamente conquistato un territorio sempre più esteso, assicurando la crescita dell'Impero e il regolare sostentamento dei governatori e degli stessi conquistatori. Poiché la pietas dei Romani attribuiva questo successo al favore degli dèi, il rapporto tra i Romani e la terra che li nutriva assunse un'aura religiosa: Plinio (Naturalis historia, XVIII, 21) fa infatti un gioco di parole con il verbo latino colo, 'curo', che, riferito alla terra, significa 'coltivare', e riferito agli dèi 'venerare': "La terra, la quale è chiamata madre e si dice venga onorata attraverso la coltivazione"; la proprietà della terra divenne dunque la più nobile forma di ricchezza (Cicerone, De officiis, I, 150-151). Nella storia dell'antica Roma alcuni episodi sottolineano il ruolo svolto da grandi statisti e da generali, come, per esempio, L. Quinzio Cincinnato (dittatore tra il 485 e il 439), che abbandonò letteralmente l'aratro per servire Roma e che, una volta compiuto il suo dovere, ritornò ai campi, o da eroi come G. Fabrizio Luscino (console tra il 282 e il 278) e M. Curio Dentato (console nel 290, nel 284, e tra il 275 e il 274), che aravano con le proprie mani le porzioni loro assegnate del territorio conquistato grazie alle loro vittorie (Columella, De re rustica, I, praef., 13-14).
Col passare del tempo, l'ager publicus, il territorio di proprietà dello Stato, in gran parte frutto delle confische effettuate a danno delle popolazioni vinte, fu diviso tra i cittadini; i ricchi acquistarono grandi proprietà e furono fondate nuove città e colonie. Così, la misurazione della terra divenne un'importante competenza autonoma. Accanto alla misurazione delle tenute e dei lotti, alla progettazione delle colonie e allo svolgimento di pratiche associate a queste operazioni, quali l'imposizione della tassa sulla terra e l'arbitrato nelle dispute che avevano come oggetto la terra, gli agrimensori romani (agrimensores), come gli agricoltori, svolgevano compiti strettamente legati alle necessità dell'esercito romano, come, per esempio, la progettazione dei campi militari (castrametatio). Benché nel periodo imperiale la misurazione topografica militare fosse divenuta una professione autonoma e specializzata, i suoi rapporti con la misurazione topografica civile non s'interruppero. Gli agrimensori civili spesso apprendevano il loro mestiere nell'esercito (Sesto Giulio Frontino, governatore della Britannia dal 74 ca. al 78, ne è il più celebre esempio), mentre gran parte del lavoro svolto dall'agrimensura civile era costituito dall'assegnazione della terra ai veterani dell'esercito. Così, l'agrimensura è, per certi aspetti, un esempio dell'inseparabilità tra la componente civile e militare dello Stato romano e la terra dalla quale lo Stato dipendeva; essa, inoltre, ci consente di comprendere come i Romani definissero e valutassero concettualmente i territori conquistati e il modo in cui, suddividendoli, imposero al territorio un ordine strettamente connesso ai loro rapporti con la Natura stessa.
Le tecniche dell'agrimensura erano già state praticate dai Babilonesi, dagli Egizi e dai Greci. Il contributo dei Greci era in gran parte costituito dalla geometria teorica, elaborata da Talete di Mileto (624/623-548/545), e da altri filosofi ionici, nonché da Pitagora (VI sec. a.C.) e dai suoi seguaci occidentali, uno dei quali, Archita di Taranto (attivo nella prima metà del IV sec. a.C.), fu definito da Orazio nelle Odi, I, 18, 1-2, 'misuratore della terra e del mare'. Le significative innovazioni introdotte nell'età ellenistica comprendevano gli scritti di geometria di Euclide (attivo intorno al 300 a.C.) e gli studi sulla latitudine e sulla longitudine di Dicearco (fine IV sec. a.C.), di Eratostene (276/272-196/192) e di Ipparco (II sec. a.C.). Il suolo greco non era facilmente e regolarmente divisibile e le piante delle città erano spesso irregolari, ma s'impiegarono probabilmente gli agrimensori nella fondazione di nuove colonie e Ippodamo di Mileto, nel 479 a.C., nel progettare la ricostruzione del Pireo in seguito alle guerre persiane, diede inizio alla tradizione di disegnare in forma quadrata o rettangolare le piante delle città. Tuttavia, fu soprattutto con i Romani che le tecniche della misurazione topografica divennero una professione a parte e che ebbe inizio la tradizione, conservatasi per molti secoli, di redigere opere di riferimento pratiche e istruttive. Non tutte le conoscenze tecniche o pratiche erano considerate degne di un cittadino romano, soprattutto se di illustri natali: nonostante la maggior parte degli agrimensori non appartenesse a una classe sociale particolarmente elevata, lo status della loro arte era tuttavia valorizzato in virtù dei suoi vincoli con la terra. Alcuni autori, inoltre, tracciano un parallelo tra le tecniche agrimensorie e quelle praticate nella divinazione. In ogni caso, sottolineare la praticità dell'agrimensura romana non significa sostenere che essa fosse una semplice operazione, priva di contenuto intellettuale.
Il Corpus agrimensorum, una collezione di manuali e di brani scelti di agrimensura, è un'associazione di conoscenze diverse tipica della tradizione romana, nella quale le scienze matematiche greche sono combinate con molti consigli pratici, insieme a una discussione delle leggi romane sulla terra: in tale modo la teoria greca è applicata alla pratica romana. Questi manuali dimostrano che, sebbene l'istruzione romana fosse prevalentemente basata sulla letteratura e, in misura ancora maggiore, sulla retorica, agli agrimensores si richiedeva la conoscenza di un'ampia gamma di nozioni, molte delle quali oggi sarebbero considerate scientifiche. Oltre a nozioni di carattere legale, i manuali contengono, infatti, istruzioni sulla geometria dei diversi generi di superficie, sull'orientazione, sul calcolo delle distanze, sul campo visivo, sulla livellazione e sull'astronomia. Le nozioni trattate non furono mai sviluppate indipendentemente dalle conoscenze pratiche, necessarie in questo campo, e la stessa cosa si verificò indubbiamente anche per gli attrezzi. La groma, per esempio, era una semplice croce orizzontale imperniata su un'asta dalla quale pendevano quattro fili a piombo ed era usata per individuare visuali perpendicolari fra loro e angoli retti, che servivano a suddividere il terreno nei tipici quadrati di 200 iugera, chiamati centuriae perché la loro superficie era cento volte maggiore di quella dei campi che si diceva fossero stati distribuiti nell'antica Roma. Oltre alle testimonianze contenute nei manuali, la centuriazione è dimostrata dall'attuale schema di suddivisione dei campi stessi (in particolar modo nella valle del Po e in Tunisia, nel sito dell'antica Cartagine) e dalle iscrizioni su pietra ritrovate ad Arausio (Orange), in Provenza. Oltre alla groma, l'agrimensore tipico usava, molto probabilmente, una meridiana portatile, un archipendolo e strumenti per misurare e per disegnare. Occorre notare che, benché Erone di Alessandria avesse progettato e perfezionato strumenti più raffinati di misurazione (quali la dioptra), questi ultimi non sostituirono la semplice attrezzatura portatile di base che comprendeva tutti gli strumenti tradizionalmente necessari all'attività tipica dell'agrimensore.
L'agrimensura si sviluppò a partire dal II sec. a.C., con l'accrescersi delle necessità di misurazione topografica del territorio di Roma, divenuto più vasto in seguito alle conquiste. Durante l'Impero, essa assunse un carattere più professionale e la maggior parte dei manuali che ci sono pervenuti risalgono al periodo compreso tra la fine del I sec. e l'inizio del II sec. d.C. Tra le opere contenute nel Corpus agrimensorum, la più antica e significativa testimonianza è rappresentata dall'opera in due volumi di Frontino, il celebre autore del trattato De aquaeductu urbis Romae. Ci sono pervenute inoltre opere di Igino, autore dell'epoca di Traiano (benché uno dei trattati che gli sono attribuiti sembra sia stato compilato da un autore più tardo, Balbo, che rivestiva probabilmente la carica di agrimensore durante le campagne di Traiano in Dacia), di M. Giunio Nipsus (II sec. d.C.), di Innocenzo (IV sec. d.C.), di Siculo Flacco (di cui sono ignote le date di nascita e di morte) e di Agenio Urbico (fine del IV sec. o inizio del V sec. d.C.). Tuttavia, le conoscenze scientifiche necessarie agli agrimensori non erano contenute soltanto nei manuali tecnici redatti da e per gli specialisti. Per esempio, L. Giunio Moderato Columella, un facoltoso proprietario terriero di Cadice che verso la metà del I sec. d.C. compilò quello che è ritenuto il più completo trattato latino di agronomia, inserì nel Libro V le istruzioni necessarie a calcolare l'area di terreni agricoli diversamente configurati, sostenendo di essere stato esortato a fornire queste informazioni benché non fossero strettamente pertinenti alla materia trattata ed egli stesso non fosse un esperto (De re rustica, V, 1, 1-3). Non è quindi sorprendente che le sue indicazioni siano meno esatte di molte di quelle contenute nel corpus, ma è significativo che esse facciano la loro comparsa in un contesto differente, anche se analogo. Ciò dimostra che alcune conoscenze tecniche relative a questa pratica interessavano non solamente gli specialisti, ma anche i patrizi di campagna, che appartenevano per nascita a una classe sociale elevata e che avevano ricevuto un'istruzione completa, secondo un modello educativo che era parte integrante della tradizione enciclopedica romana e che potrebbe anche spiegare l'interesse di un romano delle classi elevate come Frontino, apparso sorprendente ad alcuni studiosi.
Questi cittadini potevano aver appreso la misurazione topografica militare durante il tempo trascorso nell'esercito in qualità di ufficiali; lo stesso Columella, infatti, verso il 36 d.C. era stato tribuno militare nella sesta legione. Alcune delle conoscenze apprese in tempo di guerra sulla progettazione dei campi militari potevano risultare utili, in tempo di pace, per progettare una tenuta agricola, e un celebre aneddoto, citato nei trattati di agricoltura, narra di due cittadini i cui calcoli, sotto questo aspetto, si erano rivelati errati. È noto che lo stravagante L. Lucullo, che nel 74 a.C. era stato console e, all'inizio degli anni '60 a.C., generale nelle campagne condotte da Roma in Oriente, costruì degli edifici troppo grandi per le effettive dimensioni del suo podere. Il virtuoso giurista Quinto Mucio Scevola (console nel 95 a.C.) commise invece l'errore opposto (Columella, De re rustica, I, 4, 6; Plinio, Naturalis historia, XVIII, 32). Il progetto del grande generale Gaio Mario si dimostrò invece mirabilmente esatto perché egli riuscì ad applicare in modo conveniente le conoscenze di misurazione topografica militare alle sue attività in tempo di pace. Plinio narra inoltre che gli statisti e i generali dei tempi antichi aravano i loro poderi con le proprie mani, sostenendo che il loro successo fosse dovuto almeno in parte al fatto "che quelli trattassero i semi con la stessa cura riservata alla guerra e disponessero i campi con la stessa attenzione usata per gli accampamenti" (Naturalis historia, XVIII, 19).
Come si è detto, nell'antica Roma il sapere era collegato all'ideologia tradizionale. Esso non si sviluppò su un piano esclusivamente teorico, ma in collegamento con attività quali l'agricoltura e la guerra che erano condizionate dall'immagine tradizionale, nella quale i Romani si riconoscevano, di popolo vigoroso, coraggioso e semplice, disciplinato e autosufficiente, sottomesso e rispettoso verso la patria, verso gli antenati e gli dèi. Data l'importanza dell'agricoltura in quest'ottica, non è certo sorprendente che la più antica opera latina in prosa pervenutaci sia il trattato De agri cultura di Catone il Censore (234-149), l'eminente statista celebre soprattutto per la severità con cui interpretava la tradizione romana. Tuttavia, Catone non prendeva in considerazione soltanto questioni di carattere ideologico, e nel lodare l'agricoltura rispetto alle altre occupazioni espone alcune considerazioni di carattere pratico sui vantaggi e sui rischi relativi a quest'attività (De agri cultura, praef., I, 3). Secondo la biografia scritta da Plutarco, egli era un pragmatico uomo d'affari (Cato Maior, 21); se la sua opera non è del tutto ideologica, non vi sono tuttavia sufficienti ragioni per definirla, sia pure nel senso più ampio, scientifica. Le indicazioni in essa fornite sono arbitrarie e si suppone che il lettore debba accettarle senza altra garanzia che non sia l'autorità dello stesso Catone; le notizie di carattere pratico sono combinate con abbondanti dosi di folclore e di massime tradizionali. La struttura stessa del trattato è confusa e non dà indicazioni sull'esistenza di un corpus ordinato di conoscenze agronomiche che, attraverso verifiche e sperimentazioni, avrebbe potuto essere ulteriormente sviluppato.
Un discorso diverso va fatto per il secondo trattato agronomico, il De re rustica, compilato in tre volumi nel 37 a.C., all'età di ottantuno anni, da Marco Terenzio Varrone, un grande erudito vissuto negli ultimi anni della Repubblica (116-27). Il primo libro è dedicato all'agricoltura propriamente detta, il secondo all'allevamento e il terzo alla coltivazione di specialità raffinate per il mercato in espansione dei generi alimentari di lusso. Quest'opera segna un progresso rispetto a quella di Catone per due ragioni: in primo luogo essa fornisce le prove dei mutamenti che si stavano imponendo nella pratica agricola (la crescita del mercato dei generi di lusso, già ricordata, e l'accrescersi dell'interesse commerciale delle colture della vite e delle piante da frutto ‒ De re rustica, I, 2, 6-7 ‒ e dell'allevamento del bestiame ‒ II, praef., 6); in secondo luogo, essa dimostra che le conoscenze pratiche di base impiegate dagli agronomi romani potevano essere dotate di una base razionale e essere sottoposte a un processo di elaborazione sistematica che, ben a ragione, può essere detto 'scientifico'.
A questo metodo, volto a tramandare e allo stesso tempo perfezionare un corpo tradizionale di conoscenze pratiche, si conformò anche il più esauriente e dotto agronomo latino, Columella. Il suo trattato De re rustica, redatto tra il 60 e il 65, era suddiviso in dodici libri, il primo dei quali dedicato alle costruzioni e al lavoro, il secondo al terreno e al raccolto, il terzo, il quarto e il quinto alla coltura della frutta, delle olive e della vite, il sesto e il settimo al bestiame, l'ottavo al pollame e ai pesci, il nono alle api e alla selvaggina, il decimo al giardinaggio, l'undicesimo e il dodicesimo ai compiti del fattore e di sua moglie. Columella scriveva soprattutto dal punto di vista del commercio su vasta scala, e ciò si rileva dal suo interesse per la forza lavoro degli schiavi e per il costo del lavoro.
Questi tre trattati sull'agricoltura non erano affatto le uniche opere sull'argomento; molte altre sono andate perdute, tra le quali quelle dei due Saserna (149-60), di Gneo Tremelio Scrofa (I sec. a.C.), di Giulio Attico e di Giulio Grecino (entrambi vissuti all'inizio del I sec. d.C.). Plinio dedicò la parte compresa tra il Libro XIV e il Libro XIX della sua Naturalis historia ai temi dell'agricoltura e della coltura degli alberi da frutta e della vite; l'impostazione di questa parte dell'opera è significativa, in quanto in essa si ricordano le massime tradizionali e si cita Catone con rispetto e approvazione. Plinio percepiva distintamente l'importanza di tramandare e allo stesso tempo integrare e migliorare, attraverso nuove scoperte e acquisizioni, le conoscenze sull'agricoltura che si erano accumulate nel corso dei secoli (XIV, 2-6). Egli prendeva nota delle nuove varietà di alberi da frutta (XV, 42, 47, 90-91, 104), nonché del perfezionamento dei vari macchinari agricoli (XVIII, 171-173, 261, 296) e criticava o modificava le asserzioni di altri autori, incluse quelle di un contemporaneo più anziano come Columella.
Da questa testimonianza letteraria emergono due motivi: in primo luogo, se non esisteva un'agronomia scientifica nel senso proprio del termine, esisteva tuttavia un esauriente corpo di conoscenze, elaborato, razionale e sistematico. Gli antichi agronomi non possedevano le nozioni di chimica necessarie ad analizzare con precisione gli elementi costitutivi di un terreno fertile. La loro conoscenza della generazione era fondamentalmente compromessa dalla credenza che, nella maggior parte dei casi, i caratteri ereditari degli animali si trasmettessero principalmente per via materna, il che precludeva qualsiasi tentativo di selezionare il bestiame. Inoltre, non si conoscevano nei dettagli i cicli di crescita delle piante. Tuttavia, tutti gli autori riconoscono la grande varietà di condizioni agricole presenti soprattutto nel territorio italico e dedicano una grande attenzione alle diversità di composizione e di struttura del suolo che si presentano all'agricoltore (Varrone, De re rustica, I, 9; Columella, De re rustica, II, 2, 1-21; Plinio, Naturalis historia, XVII, 25-41). Spesso elaborano, integrando sistematicamente l'esperienza passata, molte pratiche che saranno successivamente verificate dalla scienza moderna: valutano scrupolosamente il rendimento relativo del letame, del concime di origine organica e di altri generi di fertilizzante, e si dilungano in raccomandazioni che possiamo considerare il corrispondente rudimentale delle moderne analisi del contenuto di minerali essenziali quali l'azoto, il fosforo e il potassio (Varrone, De re rustica, I, 38; Columella, De re rustica, II, 14, 1-5; Plinio, Naturalis historia, XVII, 42-56). Erano inoltre note per esperienza le proprietà fertilizzanti dei legumi (Plinio, Naturalis historia, XVII, 55-56) e gli agronomi sapevano che la pratica del maggese non era il solo modo di ristabilire e di conservare la fertilità del terreno (Catone, De agri cultura, XXXV, 2; Varrone, De re rustica, I, 44, 2-3; Columella, De re rustica, II, 17, 4; Plinio, Naturalis historia, XVIII, 187). Plinio aveva altresì osservato che le variazioni climatiche potevano essere sfruttate dall'uomo attraverso un sistema di drenaggio e di irrigazione (Naturalis historia, XVII, 30) e riconosceva l'importanza della selezione dei semi per l'incremento del raccolto (XVIII, 85). Anche la complessità degli innesti, i cui principî elementari erano già noti ai Greci, era familiare ai Romani (Columella, De re rustica, V, 11, 1-15) e favoriva l'introduzione di nuove varietà di frutta (Plinio, Naturalis historia, XV, 49). Per quanto riguarda la relativa assenza dello sviluppo dei mezzi meccanici agricoli, essa fa parte della questione a lungo dibattuta della generale assenza di progresso tecnologico nell'antichità, ma occorre riconoscere che la natura arida e collinosa di molte aree avrebbe in ogni caso precluso l'impiego di macchinari pesanti.
In secondo luogo, è chiaro che la tradizione ideologica dominante che era alla base della mentalità agricola del tempo, nel complesso, non ostacolò il perfezionamento di nuove idee e tecniche. Plinio osserva che il lavoro degli schiavi è spesso più scadente di quello dei liberi, ma a un argomento di carattere morale (il lavoro degli schiavi offende la divina madre Terra) egli aggiunge la spiegazione realistica che gli schiavi sono semplicemente più negligenti (ibidem, XVIII, 19-21). Anche Columella esprime analoghi giudizi, morali e pratici, sul lavoro degli schiavi (De re rustica, praef., 1-3); nello stesso brano, inoltre, egli espone alcuni argomenti teologici per contestare l'idea secondo cui la fertilità della terra andava irreversibilmente declinando (idea forse connessa alla credenza, molto diffusa nell'antichità, del decadimento delle età o alla teoria stoica del declino periodico del Cosmo al quale faceva seguito una rinascita: v. Plinio, Naturalis historia, VII, 73). Tuttavia, benché sostenga che la terra, in virtù della sua natura divina, sia perennemente giovane e feconda, Columella cita frequentemente misure pratiche ‒ quali, per esempio, la concimazione ‒ atte ad assicurare la fertilità del suolo.
Come esercitavano la loro influenza questi trattati? Naturalmente, le nozioni elementari di molte tecniche descritte erano familiari a qualsiasi umile ortolano, a prescindere dal fatto che avesse letto i manuali. Infatti, secondo Plinio (ibidem, XIX, 51), agli appezzamenti di piccole dimensioni, cioè ai poderi dei poveri, dovevano essere applicati metodi di coltivazione intensiva che richiedevano una scrupolosa attenzione per la concimazione e per l'irrigazione e la piena utilizzazione del suolo attraverso l'avvicendamento delle colture. In genere, l'uso di argomenti che presupponevano un certo grado di istruzione, il tempo stesso necessario alla lettura e gli evidenti pregiudizi su vasta scala di uno scrittore come Columella lasciano supporre che questi autori, ricchi proprietari terrieri, si rivolgessero a un pubblico di loro pari. Questi uomini erano gli autori della tradizione enciclopedica romana e al tempo stesso coloro ai quali essa era potenzialmente destinata, e ciò esemplifica in modo ideale l'adattamento della teoria intellettuale alla praticità romana.
L'unica enciclopedia romana che ci è integralmente pervenuta è la Naturalis historia, scritta da Plinius Secundus (detto Plinio il Vecchio, 23-79), un romano di alto rango che apparteneva all'ordine equestre. Egli non entrò mai a far parte del Senato, ma percorse tuttavia una brillante carriera nell'apparato amministrativo-militare dell'Impero in qualità di governatore provinciale e di funzionario finanziario, dedicandosi, allo stesso tempo, a intensi e vasti studi, descritti in modo memorabile da suo nipote Plinio il Giovane (Lettere, III, 5).
L'opera di Plinio si distingue dai trattati tecnici precedentemente descritti, e diviene, nel senso da noi inteso, enciclopedica, in virtù della sua prospettiva. Il termine 'enciclopedia' non farà però la sua comparsa, nel titolo di un'opera di questo genere, prima del XVI sec., e le opere che fanno parte della cosiddetta 'tradizione enciclopedica' antica non si conformavano a un modello prestabilito. Ciò che le accomunava era il modello educativo tipicamente romano, precedentemente descritto, che si proponeva d'impartire un'istruzione pratica o un insegnamento utile per la vita. Ciononostante non sarebbe corretto sostenere che i Greci non abbiano avuto nessuna influenza nell'emergere di questa tradizione; benché la loro concezione della conoscenza presentasse generalmente un carattere più specialistico e teoretico, i sofisti, per esempio, avevano affrontato il tema dell'educazione in un modo più pragmatico. I maestri itineranti sofisti del V sec. a.C. impartivano insegnamenti sulle cognizioni necessarie alla vita di tutti i giorni, e la loro attitudine alla praticità è esemplarmente rappresentata dalla versatilità di Ippia di Elide, che, benché fosse un esperto in tutte le branche del sapere, si vantava di aver confezionato con le sue stesse mani il mantello, le scarpe e l'anello che indossava (Cicerone, De oratore, III, 127). Le conoscenze insegnate dai sofisti erano essenzialmente quelle che Aristotele definisce eleuthériai epistẽmai, conoscenze convenienti a un uomo libero e bene educato, o, citando le stesse parole di Plinio, "tutti i settori che, per i Greci, compongono la 'cultura enciclopedica'" (tẽs enkyklíou paideías) (Naturalis historia, praef., 14).
Ciò che accomuna le opere enciclopediche romane non è tanto una ben definita gamma di argomenti o un preciso e definito modello letterario, quanto piuttosto l'implicita finalità pedagogica. Lo scopo era di fornire in una sola opera tutte le informazioni di cui un cittadino attivo e coscienzioso aveva bisogno per compiere i suoi doveri civici; il lettore poteva così acquisire un'educazione culturale completa che gli sarebbe stata utile nella sua futura attività. L'oratore ideale descritto da Cicerone esemplifica questo modello; egli doveva possedere una vasta esperienza culturale e morale ed essere un esperto nell'attività politica (De oratore, III, 72-76).
Tradizionalmente si ritiene che il primo esempio di letteratura enciclopedica sia stato rappresentato da una breve opera di Catone il Censore (Praecepta ad filium) e, benché non sia facile ricostruirla in base ai frammenti che ci sono pervenuti, sembra che in essa avesse una grande importanza il concetto di istruzione pratica. Inoltre, ciò che sappiamo della personalità dell'autore ci autorizza a supporre che si trattasse di un'opera redatta secondo i principi dello spirito enciclopedico romano; tuttavia, quasi certamente essa non aveva l'impostazione o l'organizzazione sistematica delle opere enciclopediche più tarde. Le Disciplinae di Varrone e le Artes di A. Cornelio Celso (inizio del I sec. d.C.), infatti, erano suddivise in sezioni, ciascuna delle quali era dedicata a una disciplina o ars. L'opera di Varrone si articolava in nove libri, rispettivamente dedicati alla grammatica, alla dialettica, alla retorica, alla geometria, all'aritmetica, all'astrologia, alla musica, alla medicina e all'architettura. Quella di Celso, invece, prendeva in esame l'agricoltura, la medicina, la scienza militare, la retorica e forse la filosofia e il diritto. Le prime sette discipline trattate nell'opera di Varrone divennero, nel Tardo Medioevo, le sette arti liberali che, a loro volta, furono ripartite nel trivium (grammatica, dialettica e retorica) e nel quadrivium (aritmetica, geometria, astronomia e musica). Da questo punto di vista si può certamente affermare che la tradizione romana formulò il programma per il successivo sviluppo dell'enciclopedia medievale.
Questi testi testimoniano dell'ampia prospettiva richiesta dallo spirito enciclopedico; molto del materiale su cui si basavano era preso necessariamente a prestito da altre fonti. Plinio, la cui Naturalis historia è l'unica enciclopedia che ci sia pervenuta integralmente, aveva consultato un gran numero di fonti latine e greche, in particolar modo le opere di Aristotele sugli animali e i manuali sulle piante e sui minerali di Teofrasto e di altri autori. Ciononostante, queste opere non erano del tutto prive di apporti originali; Plinio, per esempio, annota frequentemente le sue stesse osservazioni e critica o modifica le sue fonti, per cui la sua Storia naturale è un autentico prodotto del suo ingegno. Queste opere enciclopediche esemplificano inoltre in modo ideale il metodo espositivo sistematico necessario a presentare il sapere in una forma realistica e istruttiva destinata all'intellettuale non specialista, all'uomo d'affari pragmatico. La ripartizione dello scibile in artes o disciplinae non era comunque un requisito essenziale. La Storia naturale di Plinio, per esempio, è suddivisa in trentasette libri che non corrispondono a una ripartizione dello scibile, ma sono strutturati e ordinati in conformità alla vita stessa, cioè alla Natura e ai suoi elementi costitutivi, considerati dal punto di vista di un romano dell'epoca di Plinio. Quest'ultimo, infatti, dichiarava che il suo oggetto era "la natura degli esseri viventi" (Naturalis historia, VII, 1). Alla praefatio e al Libro I (un vero e proprio indice delle fonti e degli argomenti) seguono il Libro II che esamina il Cosmo nel suo insieme e i libri successivi (III-VI), che costituiscono una grande sezione geografica. Quindi l'autore prende a esaminare il regno animale (VII-XI), a partire dalla creatura più nobile, l'uomo, "in funzione del quale sembra che la Natura abbia generato tutto il resto" (VII, 1), per finire con gli insetti. Seguono poi le sezioni dedicate alle piante (XII-XIX), ai medicamenti vegetali (XX-XXVII) e animali (XXVIII-XXXII), e, per ultime (XXXIII-XXXVII), quelle sui minerali. In modo inconsueto per un'opera antica, il Libro I della Storia naturale contiene, come si è già detto, un indice generale degli argomenti trattati ed è questa una caratteristica che accresce il suo interesse come opera di consultazione accanto a quelle articolate in artes.
La forma scelta da Plinio per la sua opera è unica, e per comprendere questa scelta è necessario considerare le condizioni culturali e la mentalità dominante nella metà del I sec. d.C. In un certo senso, naturalmente, la struttura della Storia naturale era stata influenzata dal metodo di classificazione e dall'organizzazione del materiale che Plinio aveva trovato nelle opere di Aristotele e dei suoi seguaci; ancora più significativo del metodo di classificazione era però il contesto culturale e politico da cui essa era, in qualche misura, ispirata e originata. Le conquiste di Alessandro Magno avevano ampliato, nel senso letterale del termine, gli orizzonti del mondo greco, rendendo più familiari strani paesi popolati da una flora e da una fauna esotica. Inoltre, la singolarità di alcune nuove scoperte evocava il tema autonomo dello straordinario, al punto che certi scrittori, i paradossografi, integrarono la classificazione sistematica delle informazioni sul mondo naturale, divenuto più vasto, con la descrizione della narrazione degli aspetti più strani, inconsueti e miracolosi della Natura. Al tempo di Plinio, inoltre, l'espansione militare romana e lo sviluppo del commercio avevano ampliato ulteriormente i confini del mondo conosciuto e avevano destato l'interesse dei contemporanei per l'eterogeneità della Natura, per la sua versatilità e per la sua infinita capacità di generare entità nuove e affascinanti. L'Africa, secondo il famoso proverbio greco citato da Plinio (ibidem, VIII, 42), generava sempre qualcosa di nuovo, e gli ufficiali romani rivaleggiavano tra loro nel narrare storie appassionanti sugli strani paesi in cui avevano soggiornato durante il servizio prestato nell'amministrazione delle province (V, 1-12); alcuni dei più autorevoli, come per esempio il mentore dell'imperatore Vespasiano, G. Licinio Muciano (morto nel 77 ca. d.C.), scrissero opere in cui descrivevano le cose meravigliose notate durante i loro viaggi.
Per un romano di alto rango del I sec. d.C., il mondo naturale non era solamente un settore della conoscenza, consultabile o relegabile in un manuale di zoologia o di botanica, ma era anche la scena appassionante e in continua espansione su cui interpretava il suo ruolo pubblico di ufficiale del potere imperiale. I Romani erano indiscutibilmente i dominatori di tutto il mondo conosciuto e il completo controllo terrestre e marittimo, da essi esercitato anche oltre i confini dell'area di effettiva influenza politica, consentiva loro di commerciare con le regioni della Terra più distanti e meno conosciute. D'altronde, la scarsa conoscenza delle civiltà dell'Estremo Oriente non permetteva di smentire la credenza che Roma fosse il centro da cui i suoi cittadini esercitavano il dominio sul mondo, e ciò è riassunto dall'affermazione di Plinio (ibidem, XXVII, 3) secondo cui, grazie alla pace universale imposta da Roma, le erbe salutari potevano giungere in città dai più remoti angoli del mondo. Questo fatto esemplifica in modo ideale la supremazia di Roma nel mondo. Il popolo romano diviene "un altro Sole" del tutto comparabile al Sole che, secondo la dottrina stoica, era il principio sovrano e divino della Natura (II, 12-13). Il paragone tra Roma e la Natura, considerata come madre primordiale, diventa esplicito nelle ultime righe della Storia naturale, laddove l'Italia è definita "regina e seconda madre del mondo"; fondare un'opera enciclopedica romana sulla Natura appariva quindi essere nell'ordine delle cose.
La sfera di competenza del romano di alto rango, ben educato, era rappresentata in primo luogo dagli affari pubblici, che a quel tempo s'identificavano, sotto molti aspetti, con il mondo. Quando Plinio dichiara che il suo oggetto sarà la "natura degli esseri viventi", egli intende 'vita' nell'accezione specificamente latina del termine. La centralità del cittadino romano nel mondo che lo circondava rispecchiava la generale e antica credenza che la specie umana occupasse una posizione preminente nella Natura, risalente alla più antica età del pensiero greco e rinvenibile negli scritti di Platone e di Aristotele, il quale mantenne la sua influenza anche durante l'era cristiana. Nella Storia naturale di Plinio le teorie antropocentriche si traducono in una descrizione non tanto della Natura quanto dell'uomo nella Natura. Sono quindi spiegate le conoscenze pratiche necessarie all'uomo che interagisce col mondo che lo circonda, come nei manuali suddivisi in artes. È descritta l'utilizzazione delle piante nella medicina, della semenza e del suolo stesso nell'agricoltura, dei colori nella pittura, del legno e dell'argilla nella scultura, della pietra nell'architettura e dei metalli preziosi nella metallurgia. Inoltre, il tema della Natura, che per Plinio s'identificava con quello della vita, conferisce alla sua opera un'unità e una coerenza che rispecchiano in modo esemplare la contemporanea concezione romana del mondo.
È soprattutto la filosofia stoica che sorregge la concezione di Plinio dell'uomo nella Natura. Come molti Romani suoi contemporanei, egli, sebbene non fosse un filosofo, subiva infatti ecletticamente l'influenza di diverse correnti filosofiche ellenistiche, tra le quali dominava lo stoicismo. Secondo questa dottrina, la Natura è divina e la scintilla o soffio che pervade l'Universo è la ratio, cioè l'intelletto o la ragione, che, tra tutte le creazioni della Natura, solamente l'uomo possiede nel pieno significato del termine, occupando così una posizione di assoluta superiorità nell'ordine naturale. La Natura è descritta prevalentemente, anche se non esclusivamente, come provvidenziale per l'uomo. Il mondo naturale e i suoi elementi costitutivi esistono soprattutto in funzione dell'uomo, che è la creatura più importante. Plinio considerava in genere il rapporto tra l'uomo e la Natura positivo e armonioso, anche se non privo di tensioni e ambiguità causate dalla ratio posseduta dall'uomo: quest'ultima, infatti, lo induce ad abusare dei doni della Natura che egli manipola in modo da arrecare, in definitiva, un pregiudizio morale a sé stesso, forgiando, per esempio, il ferro per costruire le armi (XXXIV, 138) e l'oro (XXXIII, 6) per fabbricare oggetti di lusso non necessari (IX, 139 segg.; XXII, 118; XXXIII, 4), invece di accontentarsi di vivere, come consiglia la massima stoica, 'secondo natura'.
Nella Storia naturale, le parti dedicate alla medicina e alla magia chiariscono molti aspetti di questa concezione. Plinio considerava la medicina uno degli aspetti del piano provvidenziale ideato dalla Natura per il benessere dell'uomo, e quindi un certo numero di libri sono dedicati non soltanto alla descrizione delle piante ma anche a una più esauriente discussione sulla loro utilizzazione nella medicina. Ritenendo che la Natura avesse disposto che i rimedi necessari all'uomo dovessero essere semplici, facilmente reperibili e accessibili a tutti (XXIV, 4), Plinio disapprovava la preparazione di pozioni elaborate e complicate, sia perché pensava che cercare di migliorare la semplice perfezione della Natura fosse un indizio dell'arroganza intellettuale dell'uomo, sia perché a causa della loro complessità queste pozioni venivano a rientrare nella categoria dei beni di lusso. Ad aumentarne il prezzo concorreva anche la provenienza esotica di molti dei loro ingredienti; oltretutto, la distanza percorsa ne indeboliva l'efficacia, diversamente dalle erbe comuni, provenienti invece dagli orti o dalla campagna (XXIV, 5).
Alcuni strani rimedi suscitavano una condanna anche più severa, come, per esempio, quelli che erano preparati con parti del corpo umano e che erano considerati, per la maggior parte, atrocità contrarie all'ideale umanitario della Storia naturale. Coloro i quali consigliavano questi rimedi erano paragonati ai Magi (magi), cioè ai maghi (XXVIII, 6-7), e nella Storia naturale i rimedi dei Magi sono frequentemente citati. La scelta degli ingredienti usata dai Magi è giudicata, se non proprio barbara, almeno stravagante, frivola e palesemente irrazionale (XXVIII, 228-229; XXX, 95) e a causa di ciò essi suscitano il disprezzo e lo scherno di Plinio, che definisce frequentemente i Magi come falsi e impostori (XXX, 17-19). Tuttavia, dietro a questa retorica, si nasconde una convinzione più complessa, secondo la quale i Magi e quegli scrittori greci che ne approvavano apertamente i rimedi rappresentavano un'oscura minaccia per la dottrina romana di Plinio.
Molti rimedi romani a base di erbe, citati senza alcun commento nella Storia naturale, possono apparire magici al lettore moderno, un'impressione che è confermata da alcuni commenti dello stesso Plinio sui guaritori indigeni (XXV, 174). Tuttavia, dall'intensità e dalla frequenza dei suoi attacchi ai Magi, si può dedurre che egli li considerasse, in un certo senso, una seria minaccia in quanto, dopotutto, la magia era fondamentalmente il tentativo dell'uomo di manipolare la Natura. Nella letteratura antica erano frequentemente attribuite ai maghi azioni in contrasto con le leggi della Natura, come, per esempio, far scendere la Luna dal cielo, spostare le montagne e far scorrere i fiumi in senso inverso (Ovidio, Metamorphoses, VII, 199 segg.). Le asserzioni inverosimili dei Magi riguardo ai loro strani ingredienti potevano essere definite 'menzogne', ma Plinio sosteneva che, a prescindere dalla loro falsità, esse rappresentassero l'arrogante sfida dell'uomo al potere divino della Natura. L'intelletto umano, benché di natura superiore, non poteva superare il supremo intelletto.
Tuttavia, se praticata correttamente, l'arte della medicina esemplificava in modo ideale la benevolenza della Natura nei riguardi della specie umana, per non menzionare l'ideale umanitario, espresso nella Storia naturale (II, 14), dell'uomo che soccorre il suo simile. I maghi erano probabilmente i più palesi trasgressori di questo ideale, ma Plinio disapprovava anche la superstizione e l'ignoranza che potevano viziare le basi più elementari dell'arte di curare. La medicina che si basava sull'utilizzazione delle piante, praticata dai contadini ignoranti, assumeva spesso una sfumatura di magia; si pensava infatti che, per esempio, le erbe medicinali potessero essere ripiantate allo scopo di provocare un nuovo insorgere della malattia contro la quale erano state usate (XXV, 174). Gli esperti delle arti curative potevano rifiutarsi di rivelare i loro segreti per timore di perdere il potere ottenuto grazie a queste conoscenze (XXV, 16). Più in generale, Plinio si rammaricava dei problemi provocati dalla diffusione di queste conoscenze in un ambiente dominato dall'ignoranza, in cui il sapere si trasmetteva soprattutto attraverso la tradizione orale piuttosto che attraverso la tradizione letteraria.
I commenti che nella Storia naturale Plinio dedica all'uso e all'abuso della medicina in un ambiente più raffinato sono ugualmente rivelatori dei suoi intenti ideologici; infatti, il comportamento dell'individuo nei riguardi della sua salute doveva seguire sempre i principî dell'autosufficienza e del buon senso (XXII, 14), e si dovevano utilizzare rimedi semplici e necessari. Egli incoraggiava l'uso dei sistemi di cura che prescrivevano uno stile di vita disciplinato, come, per esempio, il riposo, l'esercizio fisico o una dieta semplice (XXVIII, 53). Si dovevano, d'altro lato, evitare un ingiustificato timore, l'ipocondria e la dipendenza eccessiva e poco dignitosa dai medici (XXII, 15; XXIX, 23) e dai 'rimedi' di lusso, o esageratamente costosi, che allettavano i sensi più che la salute del corpo (XXIX, 26, 28). L'ideale di Plinio era tipicamente romano e rappresentava in modo paradigmatico la concezione romana, precedentemente descritta, dell'uomo e del mondo. Questa rude stirpe di combattenti che dominava il mondo apprezzava la semplicità e l'autosufficienza ed evitava il lusso che debilita e la dipendenza che degrada, soprattutto quella dai medici, che erano spesso di origine straniera e servile. In effetti, per quanto riguardava gli stranieri, per uno scrittore romano come Plinio era difficile da accettare anche la dipendenza letteraria e intellettuale dalla tradizione greca. Le ambizioni intellettuali dell'autore della Storia naturale, il suo desiderio di presentare un'opera incomparabilmente esauriente e di grande comprensibilità (praef., 14) e soprattutto l'orgoglio di appartenere, assieme alla sua opera, alla cultura romana, lo inducevano ad assumere una posizione ambivalente verso le sue fonti greche, anzi, verso i Greci in generale (praef., 24; III, 42, 122, VII, 107 segg., 130 segg.; XXVIII, 5-7; XXIX, 17).
Il modello di comportamento romano trovava una conferma nello stoicismo. La semplicità, l'autosufficienza, la libertà personale, i doveri civici, il dinamismo e il rifiuto di ogni genere di indolenza e di passività, tutti gli ideali romani potevano essere rafforzati dal richiamo alla dottrina stoica che in questo periodo poneva sempre più in evidenza l'etica, cioè, 'il modo di vita'; così, la Storia naturale di Plinio, combinando le informazioni relative ai fatti con una concezione di carattere morale, costituisce senza alcun dubbio un'esauriente e realmente enciclopedica guida alla vita e al suo contesto cosmologico.
Plinio ha presentato la sua descrizione della conoscenza e delle conquiste dell'uomo nel contesto di un esame esaustivo del mondo naturale; la sua immagine della Natura riflette la sua immagine dell'identità romana e, allo stesso tempo, è fondata su di essa. Questa concezione, personale e soggettiva, della Natura era molto diffusa nell'Antichità, ma sembra essere stata particolarmente rilevante nella tradizione zoologica. Alla fine dell'Antichità, esisteva una ricca e varia raccolta di credenze tradizionali sul regno animale, in cui accanto a sobrie osservazioni figuravano episodi pittoreschi e fantastici; essa, infatti, non era assolutamente un corpo coerente di conoscenze, sistematicamente e periodicamente riesaminato alla luce di ricerche sempre più approfondite. Questa 'tradizione' fu saccheggiata per scopi determinati, poiché essa poteva essere adattata agli interessi filosofici e culturali degli scrittori pagani e cristiani, ma poteva anche figurare in opere destinate prevalentemente all'intrattenimento.
Il De natura animalium di Claudio Eliano (170 ca.-235) è un caso esemplare di questa tradizione. Gran parte del suo materiale derivava indirettamente da Aristotele, soprattutto attraverso Aristofane di Bisanzio (267 ca.-180), ma altri racconti provenivano dalla tradizione popolare non filosofica che risaliva a Esopo e al folclore popolare. Il mondo animale descritto da questa combinazione di fonti disparate è peculiare di Eliano; è teatrale e di grande effetto, un dramma divertente in cui sono frequenti scene di litigi, rappresentato sullo sfondo del mondo naturale, in cui gli animali sono cacciati e uccisi da altri animali e dall'uomo. Il suo sensazionalismo lo accomunava alla Cynegetica, un'opera di Oppiano sulla caccia, pressoché contemporanea (fine del II sec. d.C.), ma quella di Eliano è una rappresentazione drammatica allegorica, gli animali rappresentando infatti metaforicamente le virtù e i vizi dell'umanità. I cacciatori sfruttano i vizi delle prede per catturarle: per es., lo skáros o labro pappagallo (De natura animalium, III, 2) e diverse triglie (I, 12) adescati attaccando all'amo una femmina. In altri brani il dramma s'intensifica attraverso la descrizione di scene parallele tratte direttamente dall'epica greca; per esempio, il combattimento tra gli elefanti rivali in amore si sviluppa sulla falsariga di quello tra Paride e Menelao, rispettivamente amante e marito di Elena di Troia, narrato nel Libro III dell'Iliade di Omero (ibidem, X, 1). In altre occasioni esso si richiama alle tragedie greche, che, a loro volta, erano basate sui grandi paradigmi morali ed estetici della mitologia greca, così, una puledra e un puledro, inconsapevolmente coinvolti in un rapporto incestuoso (cosa che ricorda il mito di Edipo), si uccidono (IV, 7).
Queste storie spiegano due ulteriori aspetti dello stile di Eliano. In primo luogo, benché fosse nato a Preneste, una città italica, egli adottava consapevolmente una mentalità filoellenica e scriveva nella lingua greca invece che in quella latina, secondo i principî della rinascita culturale greca del suo tempo. Egli divenne famoso per la purezza del suo greco e si vantava delle sue fonti greche e della sua fedeltà alla cultura greca con lo stesso entusiasmo con cui Plinio, il patriota romano, si era vantato, in ogni possibile occasione, dell'influenza e dei valori di Roma; indubitabilmente, il suo mondo naturale era greco, così come quello di Plinio era romano. In secondo luogo, i suoi racconti alludono spesso alla superiorità morale degli animali sugli uomini, un'idea che fu successivamente sviluppata e sfruttata dagli scrittori cristiani, soprattutto nella loro ricerca di paradigmi morali e religiosi.
Molti scrittori cristiani utilizzarono la tradizione zoologica, e in generale la Natura, in modo allegorico, con semplici paragoni ma anche con più complessi paralleli o 'anagogie'. Gli animali simboleggiavano le azioni di Dio e gli insegnamenti della Bibbia; così, a un livello elementare, i rettili erano allegoria dell'inganno o i lupi della voracità (Clemente Alessandrino, 145/150 ca.-211/217 ca.; Protreptico, I, 4, 1), mentre a un livello più profondo, la rinascita nella Natura, narrata per esempio nel mito della fenice, era frequentemente utilizzata come un'anagogia della resurrezione del corpo. Il pellicano che riporta in vita col sangue del suo petto il piccolo morto da tre giorni, era un'allegoria del sacrificio di Cristo ‒ la morte a cui fa seguito la resurrezione ‒ e divenne in seguito una delle immagini più durevoli nella tradizione cristiana. Lo scrittore greco noto nella metà del II sec. col nome di Fisiologo, che attingeva agli stessi racconti utilizzati da Eliano, compilò una raccolta di allegorie animali che fu tradotta in latino e divenne infine la principale fonte dei bestiari medievali.
Altri scrittori impiegarono diversamente la tradizione zoologica. Gli autori degli esameroni, i commentari dei sei giorni della creazione, come, per esempio, Basilio di Cesarea (330 ca.-379), preferirono un'utilizzazione esegetica piuttosto che allegorica della tradizione zoologica, impiegandola, assieme ad altri aspetti del pensiero cosmologico greco, per spiegare la storicità dell'esposizione biblica. Attraverso il comportamento degli animali si poteva inoltre illustrare l'azione della provvidenza divina nell'Universo. Tuttavia, anche in questi testi è presente un elemento di moralità: l'istintiva sottomissione degli animali alla legge divina per il loro stesso bene doveva convincere l'animale umano, l'unico dotato della ragione e del potere di scelta, della necessità di usare questi doni per adempiere al volere divino.
In generale, gli scrittori cristiani nell'utilizzare la zoologia e la storia naturale si proponevano un fine fondamentalmente teologico e filosofico, che consisteva nel rendere comprensibile e riconoscibile la grandezza di Dio, e allo stesso tempo disapprovavano le indagini sulla Natura fine a sé stesse. Eliano sottolineava l'aspetto divertente del De natura animalium, compiacendosi, nella prefazione, della sua eleganza linguistica e dell'assenza di terminologia tecnica e, nell'epilogo, del ricercato valore artistico della sua composita tessitura di storie, scritte per vincere la noia e la monotonia. Mentre Eliano voleva soprattutto intrattenere, le storie di Plinio, come si è detto, sono in genere subordinate alle concezioni cosmologiche gerarchiche che subivano l'influsso dello stoicismo; per Plinio, gli animali rispecchiano il mondo degli uomini in diversi modi, ma nella Storia naturale sono molto rari i superficiali aneddoti di carattere morale presenti nell'opera di Eliano. Entrambi gli autori utilizzano storie che narrano dei conflitti e dell'amicizia nel mondo animale; le loro componenti sensazionali e sentimentali aggiungono colore e varietà all'elegante tessitura di racconti di Eliano, ma la trattazione di Plinio è più complessa e pone frequentemente in rilievo la teoria filosofica della 'simpatia' e dell''antipatia'. Quest'ultima postula l'esistenza di un sistema generale di forze attrattive e repulsive, che agisce in tutti gli ambiti della Natura, grandi e piccoli, e che spiega la coesione e la turbolenza presenti nell'insieme del sistema cosmologico. Tuttavia, come romano, Plinio era ben conscio del valore ludico di queste storie; le sue descrizioni dei combattimenti tra animali, perfino in uno scenario naturale, possono riflettere il linguaggio e le immagini dell'anfiteatro. In ogni caso, il conflitto era anche un aspetto del lato più oscuro della Natura e molte contese tra gli animali riflettevano le leggi naturali della sopravvivenza e dell'equilibrio tra le specie (per es., al cattivo coccodrillo la Natura ha voluto opporre più di un nemico: Naturalis historia, VIII, 91). Anche quando rappresenta un conflitto impiegando le tipiche espressioni delle opere latine destinate all'intrattenimento, Plinio fa in modo che l'umanità tragga un insegnamento dalla Natura che, di quando in quando, provoca le discordie al fine di procurarsi un divertimento (ibidem, VIII, 34).
Eliano e Plinio, da punti di vista differenti e con diversi gradi di enfasi, hanno dunque visto la possibilità d'impiegare il mondo naturale e, più in particolare, il regno animale come scenario di un teatro di intrattenimento. Erano entrambi consapevoli del fascino esercitato sulla mente dell'uomo da tutte le cose che rientrano nell'ambito dell'inconsueto e dello straordinario; era un'attrazione irresistibile, universale ed eterna. Da sempre, i racconti delle meraviglie della Natura avevano attratto l'immaginazione dell'uomo ed erano già una componente di alcune grandi opere della letteratura greca antica come, per esempio, l'Odissea di Omero e le Storie di Erodoto. Tuttavia, un tale interesse si accrebbe in modo significativo nell'età ellenistica e in quella romana con l'estensione del mondo conosciuto in seguito alle conquiste di Alessandro e, successivamente, attraverso l'espansione militare e l'attività commerciale di Roma. E la tradizione della letteratura fantastica si sviluppò poco a poco. Essa non si proponeva di classificare e di valutare il mondo naturale ma d'intrattenere un pubblico assetato di cose strane e nuove; le infinite meraviglie (in greco thaumásia, in latino mirabilia) e le attrattive della Natura come, per esempio, laghi e fiumi, popoli e costumi strani e, inevitabilmente, molti animali, formavano la base della tradizione paradossografica. Questo genere era prevalentemente costituito da una serie di manuali di piccolo formato compilati, per la maggior parte in greco, tra il II sec. a.C. e il II sec. d.C., che non esponevano argomenti di carattere filosofico o morale, ma una serie di aneddoti legati tra loro solamente da un tema centrale (per es., i prodigi acquatici, gli strani costumi di alcune popolazioni, ecc.) o da un ordine geografico.
Uno dei più antichi paradossografi fu il poeta Callimaco (305 ca.-240), uno studioso che lavorava presso il Museo di Alessandria; il suo incarico ufficiale era significativo. Le biblioteche reali del periodo ellenistico custodivano un'ampia gamma di opere letterarie e i testi dei paradossografi citano spesso un gran numero di autori come fonti. Per esempio, Antigono di Caristo (prima metà del II sec. a.C.), autore di una delle più ingenti opere paradossografiche che ci siano pervenute, attingeva generosamente dalle opere di Aristotele e da quelle dello stesso Callimaco, ma citava anche (benché non sempre direttamente) autori molto distanti tra loro, come gli storici Teopompo di Chio (378 ca.-dopo 323) e Timeo (356 ca.-260), il cronista della cultura indiana Megastene (350 ca.-290), l'autore delle prime opere sulla Persia e sull'India Ctesia di Cnido (attivo alla corte persiana tra il 415 e i1 399), e molti altri nomi di autori oscuri come Mirsilo di Metimma, Filita di Coo, Amelesagoras d'Atene e Archelao d'Egitto.
I paradossografi erano spesso studiosi molto eruditi, ma la loro erudizione era prevalentemente letteraria e antiquaria. Nelle loro opere, che erano concepite in modo da agevolare un'accumulazione frammentaria e acritica di informazioni di seconda mano, senza tenere conto della loro attendibilità, non erano esposte indagini personali o teorie originali. Essi interpretavano, conducendola agli estremi, la tendenza ‒ già descritta ‒ad attingere alla raccolta di fatti e di folclore che costituiva l'antica tradizione zoologica. Alcuni scrittori antichi sostenevano che limitarsi ad assecondare l'inclinazione del pubblico per l'insolito fosse immorale (Plutarco, De curiositate, 521 b-c), incoraggiasse la menzogna e producesse un genere letterario senza valore (Aulo Gellio, Noctes Atticae, IX, 4, 12). Il genere paradossografico era comunque parte integrante di un più generale e dinamico interesse, rivolto esclusivamente alle ricchezze e alle potenzialità del mondo naturale, che generò, tra le altre, ricerche di grande valore intellettuale, come, per esempio, quelle di Aristotele e dei suoi seguaci e quelle, più vaste, condotte con energia e con entusiasmo da Plinio. I racconti straordinari contenuti nelle opere di questi due autori furono frequentemente ripresi: Solino (III-IV sec.) redasse la Collectanea rerum memorabilium, una raccolta di racconti di carattere paradossografico che provenivano, in gran parte, da Plinio; e le Auscultationes mirabiles, una compilazione generica di storie di incerta datazione, erroneamente attribuita ad Aristotele, condivide probabilmente almeno una fonte con questo autore.
Benché la sua opera sia una ricca fonte di storie inverosimili, Plinio giudicava spesso non attendibili o era decisamente scettico nei confronti dei racconti che narravano dei licantropi, delle fenici e di altre storie incredibili (Naturalis historia, VIII, 80; X, 3); era scettico anche nei confronti delle storie definitivamente confermate dai più recenti progressi nel campo della conoscenza (un noto esempio in proposito è quello citato nella Naturalis historia, XVII, 58, relativo alla riproduzione della pianta della palma). Inoltre, a quel tempo si credeva comunemente all'esistenza di molti animali che in seguito si dimostrò mitica, come testimonia l'episodio dell'ippocentauro inviato in dono all'imperatore Claudio (41-54 d.C.), registrato da Plinio (ibidem, VII, 35) e, all'inizio del II sec. d.C. dal paradossografo Flegonte di Tralle. Plinio afferma che la fenice portata a Roma durante l'impero di Claudio era un'evidente contraffazione (X, 5), ma in generale sarebbe stato difficile smascherare e valutare un eventuale inganno. Altre 'meraviglie' riguardavano oggetti realmente esistenti, ma che erano male interpretati; esemplare è il caso dei fossili, emersi in occasione di terremoti, che si riteneva fossero le ossa dei leggendari giganti (VII, 73). Come sostiene Plinio, criticando certi racconti palesemente incredibili dei viaggiatori della sua epoca, il problema principale era piuttosto l'eccessivo entusiasmo e non una deliberata volontà di mentire.
La Storia naturale è l'opera che esemplifica in modo ideale gli aspetti positivi dell'interesse per le meraviglie della Natura. Le storie straordinarie in essa narrate divertono ma, allo stesso tempo, descrivono il potere e la diversità della Natura; l'ampia collezione di racconti è inoltre un prezioso archivio che racchiude informazioni su numerosi autori la cui opera non ci è pervenuta. Tuttavia, ciò che è più importante è che l'opera dimostra che un certo numero di scrittori della Tarda Epoca Repubblicana e dell'inizio dell'Impero, che appartenevano allo stesso ambiente di Plinio e che erano frequentemente associati alla letteratura tecnica, erano altresì interessati all'aspetto meraviglioso della Natura. Pompeo Trogo, Cornelio Valeriano, Turranio Gracile e Trebius Niger contribuirono infatti con racconti di mostri marini, di fenici e, nel caso di Niger, con una storia su una memorabile piovra gigante, alla composizione della Storia naturale, e la stessa opera nel suo insieme è un esempio di questo miscuglio di reale e fantastico, sobrio e congetturale. Questi due elementi erano complementari piuttosto che contraddittori e l'espansione pratica della sfera militare e politica di Roma alimentò le congetture sul teatro naturale, divenuto più ampio, dove stava volgendo al termine il dramma romano.
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