Scienza greco-romana. Scienza e istituzioni nella Tarda Antichita
Scienza e istituzioni
Le quattro scienze matematiche ‒ aritmetica, geometria, astronomia e musica, riunite e conosciute all'alba del Medioevo con il nome di quadrivium ‒ contrariamente a quello che spesso ancora si legge in alcuni studi storici sulle scienze nel mondo antico, non sono mai state oggetto dell'insegnamento di base impartito ai giovani delle classi sociali elevate, né in epoca ellenistica nei ginnasi o nelle scuole private né in epoca imperiale da parte degli insegnanti assunti stabilmente dalle città. L'insegnamento di base, od ordinario, non aveva niente a che fare né con l'enkýklios paideía, nozione filosofica apparsa alla fine del I sec. a.C. per designare una formazione enciclopedica e non comune, né con il ciclo delle sette arti liberali, che comprendeva le quattro scienze matematiche. Questo cielo, anzi, apparve tardi (è presente nel De ordine di Agostino, un'opera giovanile fortemente influenzata dal neoplatonismo, e nel neoplatonico Marziano Capella, V sec. d.C., ma non in Varrone) e fu concepito nell'ambito della filosofia neoplatonica durante il III sec. d.C. come programma di studi preliminari allo studio della filosofia. Le fonti letterarie ed epigrafiche relative all'insegnamento ordinario nei ginnasi ellenistici e nelle scuole private non parlano mai di un insegnamento regolare delle scienze matematiche; ugualmente, i testi giuridici di epoca imperiale destinati a regolare le condizioni d'impiego degli insegnanti da parte delle città dell'Impero, non fanno mai menzione di personaggi che impartissero un insegnamento di scienze matematiche o di una sola scienza matematica. Chi cercava un insegnamento in queste materie doveva seguire una formazione professionale o extraprofessionale presso gli ingegneri, gli architetti o gli agrimensori ‒ ma, tranne per questi ultimi, non sappiamo niente dei loro percorsi formativi ‒ oppure seguire un insegnamento di filosofia, nell'ambito del quale spesso s'impartivano le scienze matematiche. D'altra parte, nell'Antichità molti scienziati erano noti come filosofi e, per quanto riguarda l'epoca imperiale, fra i matematici il cui nome è giunto fino a noi Diofanto è il solo di cui non possediamo indizi che lo classifichino fra i filosofi; l'insegnamento presso un filosofo era ricercato solamente da una ristretta minoranza di giovani dopo la fine, o verso la fine, degli studi di grammatica e di retorica, cosicché, durante tutta l'Antichità, le conoscenze matematiche, anche superficiali, erano piuttosto rare.
L'insegnamento e la ricerca matematica nelle scuole filosofiche: il fondamento ontologico
I legami fra le scienze matematiche e la filosofia erano particolarmente stretti nell'insegnamento dell'Accademia antica, dei medioplatonici, o neopitagorici, e dei neoplatonici; queste scienze, con le loro branche ‒ come la geografia, l'ottica, la meccanica, ecc. ‒ , non erano trascurate neppure dagli stoici e dai peripatetici. Per i platonici, le discipline matematiche che contavano di più in relazione all'insegnamento filosofico erano direttamente l'aritmetica, la geometria, l'astronomia e la musica; le altre, essendo orientate verso il mondo sensibile, occupavano un rango secondario. Fra le opere matematiche di epoca imperiale generalmente si menzionano quelle dei medioplatonici del II sec. d.C., come Teone di Smirne e Nicomaco di Gerasa, e dei neoplatonici, come Teone di Alessandria (seconda metà del IV e inizio del V sec.; René Roques data la sua morte fra il 413 e il 415), sua figlia Ipazia (assassinata nel 415 da alcuni cristiani), Proclo (410-485), Marino (seconda metà del V sec.), Giovanni Filopono che, nella sua fase neoplatonica, riprodusse i corsi del suo maestro Ammonio (prima metà del VI sec.), Simplicio (VI sec.) e Olimpiodoro (VI sec.). Nella maggior parte dei casi, tuttavia, si passa sotto silenzio il fondamento ontologico di queste opere, che pure spiega molti aspetti della dottrina neoplatonica, spesso mal compresi dagli scienziati moderni, come la 'mistica dei numeri', o aritmologia, e l'astrologia. È dunque opportuno innanzitutto mettere l'accento sullo sfondo ontologico delle opere matematiche dei medioplatonici e dei neoplatonici, utilizzando come esempi l'Introduzione all'aritmetica di Nicomaco di Gerasa e il commento di Proclo al Libro I degli Elementi di Euclide.
Nicomaco procedeva nel modo seguente: dopo aver definito la filosofia come amore della sapienza e la sapienza essenzialmente come scienza degli esseri intelligibili e soltanto accidentalmente come scienza degli esseri sensibili, egli divideva l'insieme di questi esseri in due categorie, ossia le grandezze (divisibili all'infinito) e le molteplicità (capaci di un aumento infinito). Ci si potrebbe meravigliare del fatto che un platonico applicasse queste nozioni anche alle realtà intelligibili, ma Nicomaco giustificava preliminarmente quest'uso affermando che gli accidenti dei corpi, e quindi la grandezza e la molteplicità, sono essi stessi incorporei e preesistono ai corpi in modo immutabile. Queste due categorie ‒ grandezza e molteplicità ‒ sono conoscibili per noi solamente grazie alle quattro scienze matematiche: l'aritmetica, la musica, la geometria e la sferica (altro nome dell'astronomia), concepite come scale e ponti che consentono al nostro pensiero di passare dalle realtà sensibili, oggetto di opinione, alle realtà intelligibili, oggetto di scienza (Introductio arithmeticae, I, 3, 6). Nell'opera di Nicomaco si trova per la prima volta una dimostrazione vera e propria dell'unità delle quattro scienze matematiche, unità che in Platone e nell'Epinomide è invece postulata più che provata. Al ragionamento epistemologico Nicomaco aggiungeva un argomento fondato sull'ontologia, capace, secondo lui, di fornire una prova ulteriore dell'importanza delle quattro scienze, dei quattro metodi (téssares méthodoi, tradotto molto più tardi da Boezio con quadruvium, la via quadruplice, donde, in epoca ancora successiva, la deformazione quadrivium per indicare la parte matematica del ciclo delle sette arti liberali, che è un'invenzione neoplatonica) e soprattutto dell'aritmetica, che ha una funzione di principio rispetto alle altre tre:
L'aritmetica stessa, non soltanto perché abbiamo detto che preesiste alle altre scienze nel pensiero (diánoia) del dio artefice come una ragione cosmica e paradigmatica su cui, come su un abbozzo e su un modello archetipico, si fonda il demiurgo di tutte le cose per ordinare le realizzazioni tratte dalla materia e far trovare loro il proprio fine, ma anche perché essa possiede per natura un'anteriorità, nella misura in cui la sua distruzione implica la distruzione delle altre scienze, senza essere distrutta da esse. Per esempio, 'vivente' (zõon) è anteriore per natura a 'uomo', perché la distruzione di 'vivente' implica quella di 'uomo'; ma la distruzione di 'uomo' non implica quella di 'vivente'. […] Lo stesso vale per le scienze di cui abbiamo parlato. Infatti, se la geometria esiste, implica necessariamente l'aritmetica. È in effetti con quest'ultima che si dice tri-angolo, tetra-gono, otta-edro […] e altre cose del genere, di cui parla la geometria, e non si possono concepire queste cose senza i numeri implicati da ciascuna di esse. (ibidem, I, 4, 2-4)
Il neoplatonico Giamblico riprese quest'opera di Nicomaco, con alcune modifiche (aggiunte e omissioni), nella sua opera Sull'introduzione aritmetica di Nicomaco, che faceva parte di una grande raccolta di studi sulle matematiche pitagoriche e sulla filosofia pitagorica in generale, vista con gli occhi di un neoplatonico. L'opera di Nicomaco ebbe una grande importanza fino alla fine del neoplatonismo; nel VI sec. fu tradotta dal greco in latino da Boezio e commentata da Filopono e Asclepio.
Nella prefazione al suo commento al Libro I degli Elementi di Euclide (In primum Euclidis Elementorum librum commentarii), il neoplatonico Proclo sottolinea, analogamente a quanto aveva fatto Nicomaco, che le quattro scienze matematiche hanno le loro radici nelle forme intelligibili dell'essere. Ciò significa che, per Proclo, le leggi delle scienze matematiche, stabili e immutabili, non possono risultare da un'astrazione delle forme geometriche e dei rapporti numerici presenti nel mondo sensibile, poiché quest'ultimo è instabile, muta continuamente ed è quindi inconoscibile; le scienze matematiche, prodotto dell'anima razionale umana, sono invece immagine delle realtà esistenti nel mondo intelligibile in quanto modelli paradigmatici, 'idee'-'numeri', cause di tutte le realtà sensibili. L'anima razionale umana ha potuto contemplare questi modelli prima di calarsi nel corpo e di discendere nel mondo sensibile; è quindi l'attività dell'anima umana che, ricordando, produce il sapere geometrico e aritmetico spontaneamente dentro sé stessa, mediante un concentrarsi del pensiero su sé stesso. Il fattore determinante nella costituzione della geometria e dell'aritmetica è dunque la reminiscenza, e non la percezione delle cose sensibili, la quale è soltanto ciò che provoca l'attività interiore dell'anima grazie a una certa somiglianza tra le figure geometriche esistenti nella realtà sensibile e le forme geometriche intelligibili. Gli oggetti delle quattro scienze matematiche occupano una posizione intermedia fra le forme intelligibili dell'essere e le forme del mondo sensibile; per questo motivo esse sono particolarmente adatte a preparare al sapere teologico, alla conoscenza degli esseri intelligibili e dell'Uno; la matematica riceve impulso dal mondo sensibile, ma il suo oggetto ultimo è l'essere puro delle forme intelligibili.
In Proclo, come in Agostino ‒ nelle cui opere (De ordine, II) compare per la prima volta il ciclo delle sette arti liberali, elaborato molto probabilmente dal neoplatonico Porfirio ‒, l'incitamento agli studi matematici e, in ultima analisi, alla filosofia avviene tramite la bellezza sensibile, immagine della bellezza in sé, percepita o con l'udito o con gli occhi. L'anima si rende conto che la bellezza delle cose sensibili si fonda su proporzioni numeriche e armoniche, sull'ordine e sulla simmetria che sono studiati dalla musica, dalla geometria, dall'astronomia e dall'aritmetica, scienze che la purificano dal suo amore per le cose sensibili e la guidano alla conoscenza delle realtà intelligibili; tuttavia, la scienza che è superiore alle scienze matematiche e che ne è il coronamento, cioè la filosofia nel suo stato più puro, è la dialettica, che anche in Agostino è chiamata "scienza delle scienze". I numeri intelligibili, dei quali i numeri del mondo sensibile sono soltanto immagini conformemente alla tradizione pitagorico-platonica, hanno dunque una valenza ontologica, perché sono 'idee', gli archetipi secondo i quali l'Universo è stato costituito dal demiurgo del Timeo di Platone. Questo presupposto spiega l'esistenza di opere come i Theologoumena arithmeticae (Teologia aritmetica) di Nicomaco, di cui Fozio fece un riassunto e i cui estratti ci sono pervenuti attraverso i Theologoumena arithmeticae del neoplatonico Giamblico. Questi trattati aritmologici, partendo dalle valenze ontologiche attribuite ai numeri intelligibili o 'idee'-'numeri' (dalla monade fino alla decade), assegnano ai numeri corrispondenti del mondo sensibile determinati caratteri simbolici e una specie di potenza derivata, immagine della potenza dei numeri intelligibili. D'altronde, l'aritmologia, o mistica dei numeri, mantenne fino alla fine del paganesimo un'importanza notevole (presente, fra l'altro, anche nell'enciclopedia del ciclo neoplatonico delle sette arti liberali di Marziano Capella, il De nuptiis Philologiae et Mercurii, nella sezione relativa all'aritmetica).
Presso i medioplatonici e i neoplatonici anche l'importanza dell'astrologia si spiegava con questa fede in un ordine cosmico incrollabile governato dai numeri e dai loro rapporti reciproci, e con la legge della partecipazione graduale di tutti i livelli del Cosmo sensibile gli uni agli altri e del Cosmo sensibile al Cosmo intelligibile; tuttavia, essi non pensavano che gli astri potessero avere un'influenza determinante sul destino degli uomini, ma che semplicemente lo annunziassero, vale a dire che gli astri non costringevano gli uomini ad agire in un modo o nell'altro, ma erano segni premonitori. D'altra parte, l'opinione di Aristotele (per il quale ogni movimento era causato dal primo mobile, cioè dalla sfera delle stelle fisse, e dunque ogni mutamento sulla Terra era prodotto dai movimenti determinati secondo le leggi matematiche nel mondo perfetto superiore) costituiva una base favorevole per lo sviluppo dell'astrologia, così come la dottrina stoica della simpatia cosmica universale. Non è dunque sorprendente trovare in genere un grande interesse per l'astrologia presso i matematici, che nella Tarda Antichità appartenevano il più delle volte all'una o all'altra di queste scuole. Alla scuola stoica, per esempio, si rifacevano il matematico e astronomo Gemino (attivo verso il 70 a.C.), il geografo Strabone (prima del 60 a.C.-20 d.C. ca.), l'astrologo e sacerdote egiziano Cheremone (I sec. d.C.) e Cleomede (150-200 d.C. ca.), autore di un trattato astronomico. Naturalmente, soprattutto in epoca ellenistica c'erano anche filosofi che non riconoscevano nessun valore all'astrologia, ma possediamo soltanto pochissimi testi filosofici di età imperiale che testimoniano una tale ostilità (Favorino in Aulo Gellio, Noctes Atticae, XIV, 1; Sesto Empirico, Contra astrologos oppure Adversus mathematicos, V). Anche i cristiani condannavano l'astrologia e si può supporre un'attitudine simile fra gli epicurei per tutto il tempo in cui questa scuola è esistita, cioè fino alla fine del II sec. d.C.; l'introduzione di Tolomeo al Libro I della Tetrabiblos riassume gli argomenti principali che di solito utilizzavano gli avversari dell'astrologia e li confuta opponendovi i fondamenti filosofici e astronomici di questa disciplina (senza mai utilizzare il termine 'astrologia').
I primi due secoli dell'era cristiana Fra i matematici e medioplatonici del I sec. d.C. vi erano Dercilide e Trasillo, astronomo, astrologo e amico dell'imperatore Tiberio, che scrisse sulla dottrina dei principî pitagorici e platonici e curò un'edizione delle opere di Platone; purtroppo, la sua Introduzione all'astrologia è andata perduta, tranne il sommario. Lo stesso sfondo filosofico si ritrova nel trattato di Teone di Smirne Esposizione delle conoscenze matematiche utili per leggere Platone. Come è annunziato dal titolo e come l'autore spiega nella prefazione, questo trattato si rivolgeva in particolare agli studenti di filosofia privi di conoscenze matematiche (il che conferma ulteriormente il fatto che le quattro scienze matematiche non facessero parte dell'insegnamento ordinario). Si tratta di "un'esposizione sommaria e breve delle nozioni matematiche necessarie di cui hanno assoluto bisogno coloro che iniziano la lettura di Platone"; conformemente alle argomentazioni di Platone nel Libro VII della Repubblica, qui le scienze matematiche sono cinque: aritmetica, geometria, stereometria, astronomia, musica. Come Nicomaco, anche Teone si sforzava di mostrare il fondamento ontologico che collegava fra loro queste cinque scienze.
Anche il grande astronomo, astrologo e geografo Claudio Tolomeo (100 ca.-178 ca.) fu fortemente influenzato dal platonismo, e dunque vicino al movimento piuttosto complesso e diversificato dei medioplatonici. La Suda (Lexicographi Graeci, Suidae Lexicon, ed. Adler, I, 4, p. 254) lo ricorda come filosofo, e senza dubbio è così che lui stesso si considerava; ne è prova il primo capitolo della Syntaxis (Almagesto), che contiene la sua professione di fede filosofica. Analogamente a Nicomaco, Teone di Smirne e Proclo, che assegnavano alla matematica una posizione intermedia fra le forme intelligibili dell'essere e le forme del mondo sensibile, anche Tolomeo collocava la matematica in una posizione intermedia, fra la teologia e la fisica; egli però non soltanto giudicava gli oggetti della fisica inconoscibili a causa del loro carattere fluttuante, come faceva la tradizione platonica, ma riteneva anche gli oggetti della teologia accessibili solamente per congettura, e ciò era contrario alla dottrina platonica. Le scienze matematiche, soprattutto l'astronomia, erano per lui l'unico mezzo per arrivare a supposizioni ‒ e non a conoscenze ‒ relative agli oggetti della teologia, perché l'astronomia era già di per sé stessa una specie di teologia, visto che si occupava delle cose divine del cielo, cioè degli astri. La matematica contribuiva anche alla conoscenza limitata degli oggetti della fisica, perché la sua essenza (ousía) era alla base dell'essenza della fisica e della teologia (questa era una chiara allusione al carattere ontologico della matematica).
Tolomeo fece comunque propria l'eredità di Platone (Timaeus, 47 b-e) sottolineando la valenza etica degli studi matematici, e soprattutto dell'astronomia: la contemplazione della bellezza e dell'ordine eterno che caratterizzano il movimento degli astri aiuta l'essere umano a fare ordine nella propria anima; le 'belle' teorie matematiche sono quindi insegnate con lo scopo dichiarato di condurre a una vita virtuosa e, infatti, l'identità, l'ordine, la simmetria e la calma osservati dai matematici nella corsa degli astri fanno sì che essi diventino amanti di questa bellezza divina e che abituino le proprie anime a una condizione simile. I tre trattati di Tolomeo, le Fasi delle stelle fisse, la Tetrabiblos e gli Armonici, formavano sicuramente un insieme coerente con la Syntaxis e con le Ipotesi planetarie; le Fasi e la Tetrabiblos sono opere di carattere astrologico; argomento degli Armonici sono le analogie fra le strutture musicali, il carattere umano e i corpi celesti. La prefazione alla Tetrabiblos contiene anche un'importante difesa di ciò che oggi noi chiamiamo astrologia; Tolomeo scrisse inoltre anche un trattato su una disciplina annessa alla matematica, la geografia.
Le sue opere (v. cap. XXXI), sia di astronomia, astrologia e musica sia di geografia, furono considerate nei secoli successivi come una specie di culmine e di superamento della scienza precedente, avendo in gran parte determinato la scomparsa delle opere che le avevano precedute. La stessa situazione si verificò con il meccanico Erone di Alessandria, con il quale si può considerare conclusa la storia della meccanica greca; attualizzando e completando l'opera di Filone di Bisanzio, Erone creò infatti l'opera di riferimento per i secoli successivi nel campo delle scienze applicate.
Mentre è sicuro che l'astronomo Trasillo, amico di Tiberio, sia vissuto alla corte di Roma e di Capri, ed è molto probabile che Claudio Tolomeo ed Erone abbiano insegnato ad Alessandria e siano stati membri del Museo (tutte le osservazioni astronomiche di Tolomeo sono localizzate ad Alessandria), non sappiamo dove abbiano operato i matematici e medioplatonici Dercilide, Nicomaco e Teone di Smirne. Sappiamo con certezza soltanto che non potevano più tenere corsi nell'ambito dell'Accademia di Platone, perché all'epoca essa non esisteva più ad Atene in quanto istituzione (in questo senso, l'Accademia smise di esistere poco dopo Antioco di Ascalona, cioè verso la fine del I sec. a.C.). È possibile, però, che essi avessero accesso a scuole private o un insegnamento stabile retribuito nella città di Atene, ad Alessandria o in molte altre città dell'Impero romano, situate nella Grecia europea, in Asia Minore, in Egitto o nell'Africa del Nord (molte città di cultura greca o greco-siriaca, pur essendo di medie dimensioni, possedevano ottime biblioteche e anche piccoli musei, sull'esempio di Alessandria). Conosciamo i nomi di alcuni medioplatonici che insegnarono a Roma, Cartagine, Alessandria, Licopoli (Asiūṭ), Pergamo, Smirne, Atene e Cheronea, ma il numero di quelli di cui non ci è giunta traccia deve essere notevole. Quanto al famoso Museo e alla non meno famosa Biblioteca reale di Alessandria, la Biblioteca fu distrutta nel 48 a.C. durante la guerra di Cesare, mentre il Museo sopravvisse al disastro e continuò a godere della protezione degli imperatori romani, che assicurarono un vitalizio a coloro che ne erano membri e finanziarono le loro ricerche più o meno fino alla fine del IV secolo. Non sappiamo se Claudio Tolomeo e quel grande specialista delle scienze applicate che fu Erone di Alessandria facessero parte del Museo né se i membri del Museo impartissero un insegnamento, tuttavia la cosa sembra probabile, visto che alla fine del IV sec. Teone di Alessandria (membro del Museo) insegnava la matematica nell'ambito della filosofia neoplatonica.
Il neoplatonismo
Durante l'epoca del neoplatonismo (III-VI sec.), che approssimativamente coincise con la scomparsa delle altre scuole di filosofia, le quattro scienze matematiche continuarono a essere insegnate nell'ambito delle scuole filosofiche. Quest'abitudine era talmente generalizzata che Porfirio, nella Vita di Plotino (14, 7-10), si sentì obbligato a ricordare che il suo maestro non impartiva un insegnamento matematico benché fosse istruito in queste discipline. L'insegnamento neoplatonico nel campo della matematica consisteva principalmente nel commentare le opere di Nicomaco e di Euclide, e i trattati di Tolomeo. In generale, però, non si trattava di una pura esegesi e i commentatori introducevano anche idee nuove e propri argomenti; Proclo, per esempio, nel commento al Libro I degli Elementi di Euclide tentò di elaborare una dimostrazione del quinto postulato di Euclide sulle parallele. Pratiche di questo genere sono attestate per quasi tutti i neoplatonici conosciuti che insegnavano, come Porfirio in Sicilia e a Roma; Giamblico ad Apamea; Teone, Ipazia, Ammonio e suo fratello Eliodoro ad Alessandria; Proclo e Marino ad Atene; Simplicio a Ḥarrān in Mesopotamia, dopo aver studiato ad Alessandria e ad Atene; Asclepio, discepolo di Ammonio, e Filopono, che operava anche lui ad Alessandria.
Che Pappo, il quale fu, con Diofanto, l'ultimo grande matematico dell'Antichità, insegnasse filosofia, è attestato dalla Suda; d'altra parte, lo stesso Pappo (Collectio mathematica, VII, 1-2) annoverava expressis verbis anche la meccanica fra le occupazioni dei filosofi. Ora, un filosofo dell'inizio del IV sec. poteva essere soltanto neoplatonico, e il fatto stesso che si sia dubitato dell'autenticità del commento di Pappo al Libro X degli Elementi di Euclide (trasmesso in traduzione araba) a causa del suo carattere neoplatonico e che lo si sia voluto attribuire a Proclo, parla a favore della tesi di un Pappo neoplatonico. Non c'è ragione neppure di non attribuire a Pappo un giuramento di carattere neoplatonico riferito negli scritti alchemici a un filosofo di nome Pappo. Quanto a Teone di Alessandria, filosofo e membro del Museo secondo la Suda, non ci possono essere dubbi che si trattasse ugualmente di un neoplatonico. Per prima cosa, Teone era il padre e l'insegnante di Ipazia, nota sia per aver collaborato ai lavori matematici del padre sia per aver tenuto corsi di matematica e di filosofia neoplatonica, attestati dalle lettere del suo discepolo Sinesio, futuro vescovo di Cirene; il padre insegnò dunque alla figlia non solamente la matematica, ma anche la filosofia neoplatonica. In secondo luogo, si trovano tracce di filosofia neoplatonica nel commento di Teone alla prefazione della Syntaxis di Tolomeo; si tratta innanzi tutto della spiegazione del fatto che Tolomeo, in questa prefazione, pur parlando di filosofia, non aveva aperto ai propri studenti orizzonti filosofici più ampi. Secondo Teone, il motivo è che gli studenti che si accingevano allo studio della Syntaxis non avevano ancora raggiunto un livello di conoscenze matematiche (che, agli occhi dei neoplatonici, preparavano alla filosofia) sufficiente a renderli capaci di penetrare più profondamente nella filosofia. Questa spiegazione si fondava su un'attitudine tipicamente neoplatonica, espressa chiaramente nelle prefazioni dei commenti neoplatonici del V e del VI sec., quella di concepire un corso di studi filosofici come basato sulla lettura di un numero definito di trattati di Aristotele e di dialoghi di Platone in un ordine prestabilito, sapientemente graduato secondo le esigenze pedagogiche e adattato allo stato delle conoscenze degli studenti. Bisognava progredire lentamente e non saltare neppure un gradino nel corso dell'apprendimento; questa preoccupazione di graduare l'insegnamento, presente anche nelle spiegazioni che Teone diede in seguito a proposito del suo metodo di commentare la Syntaxis, aveva colpito e stupito l'editore del commento senza che egli fosse riuscito a trovarne la causa. La stessa preoccupazione di graduare l'insegnamento aveva portato, per quanto riguarda gli studi preparatori alla filosofia neoplatonica, alla concezione del ciclo delle sette arti liberali. Il medesimo intento pedagogico, che consisteva nell'adattare l'insegnamento alle conoscenze dell'uditorio, si manifesta anche nei due commenti di Teone alle Tavole manuali di Tolomeo. Come egli stesso sostenne nelle rispettive prefazioni, il "commento grande" in cinque libri conteneva una spiegazione perfettamente scientifica del trattato di Tolomeo, mentre il "commento piccolo" si rivolgeva alla maggior parte dei suoi studenti "non soltanto incapaci di seguire in modo sufficiente le moltiplicazioni e le divisioni, ma anche completamente ignoranti delle dimostrazioni geometriche". Teone si era dunque sforzato "di fare un commento il più sistematicamente possibile, esponendo semplicemente i metodi, per rendere più chiara la spiegazione di questa disciplina", e quindi di dare le istruzioni per l'uso delle Tavole senza spiegarne il perché (Teone, Commentario minore alle Tavole manuali, ed. Tihon, pp. 199 e 301). Questo procedimento non sarebbe stato comprensibile, se si fosse trattato di studenti di matematica il cui unico scopo fosse stato quello di imparare bene questa scienza, ma esso si giustificava perfettamente nel caso di studenti che volevano fare soprattutto studi di filosofia, e forse neppure sempre in modo approfondito, e che il più delle volte si limitavano al minimo indispensabile nell'apprendimento della matematica come disciplina preparatoria, con una predilezione per l'astrologia. Nello stesso modo, circa un secolo e mezzo più tardi, Giovanni Filopono, che era stato allievo ad Alessandria del famoso neoplatonico Ammonio (che teneva corsi sia di scienze matematiche sia sugli scritti di Aristotele e di Platone), destinava, secondo quanto affermato da lui stesso, il trattato Sull'astrolabio a studenti che non avevano conoscenze matematiche e dunque, ancora una volta, a studenti di filosofia, con l'intenzione perciò di scrivere un trattato molto più facile da comprendere di quello di Ammonio (perduto) sullo stesso argomento. In un certo senso si può parlare, in questo contesto, di 'divulgazione' della scienza, a condizione di capire bene che questa diffusione non mirava a un vasto pubblico e non gli era accessibile, ma si rivolgeva a un'élite molto ristretta; rari erano, infatti, i giovani che, dopo gli studi di grammatica e retorica, continuavano a frequentare un insegnamento di filosofia.
Riguardo ai matematici neoplatonici e ai luoghi del loro insegnamento, si è fatto spesso riferimento ad Alessandria e Atene, due importanti centri del sapere, probabilmente i due centri più importanti della Tarda Antichità. Non bisogna tuttavia dimenticare che nell'Impero romano vi erano numerosi altri centri di diffusione del sapere: per esempio, Roma, Milano, Ravenna (al tempo dei re goti), la Sicilia, Cartagine (Africa del Nord), in misura minore Marsiglia, Bordeaux (Burdigala), Tolosa, Autun (Augustodunum, nel III e IV sec.) e Treviri (Augusta Treverorum, nel III e IV sec.) per la parte latina; Bisanzio-Costantinopoli, alcune città greche dell'Asia Minore, della Siria e della Mesopotamia (quali, fra le altre, Antiochia, Edessa, Nisibi e Ḥarrān, ai confini con la Persia) per la parte greca o ellenizzata. Nel VI sec., inoltre, per la trasmissione del ciclo delle sette arti liberali al Medioevo latino furono importanti il monastero di Cassiodoro a Vivarium, nell'Italia meridionale, e il vescovado di Siviglia retto da Isidoro, nella Spagna visigota.
La Siria e la Mesopotamia ellenizzate hanno sempre avuto una grande importanza nella trasmissione del sapere; in epoca ellenistica, la geometria e l'astrologia babilonese sono transitate per questi due paesi dall'est verso l'ovest, e verso la fine dell'Antichità l'erudizione greca è spesso passata attraverso queste provincie agli Arabi e da essi al Medioevo latino. Così, la geometria elementare contenuta nel corpus che va sotto il nome di Erone di Alessandria è influenzata dalla matematica orientale; allo stesso modo, un certo numero di papiri matematici contenenti istruzioni elementari di tipo eroniano mostrano la medesima influenza. Trattati geometrici di questo genere sono stati considerati talvolta come testimonianze del declino della matematica greca, e questo sarebbe vero se li si considerasse come discendenti delle opere di Archimede o di Apollonio; un simile confronto sarebbe però improprio poiché, secondo alcuni testi babilonesi di cui siamo venuti a conoscenza piuttosto di recente, la geometria di Erone deve essere considerata soltanto come una forma ellenistica della tradizione orientale corrente. Un'influenza babilonese è visibile anche nella Sphaera barbarica di Teucro Babilonese (I sec. a.C.?), che si basava su una traduzione persiana e che fu utilizzata da Antioco (citato da Porfirio nell'Introduzione alla Tetrabiblos di Tolomeo), Retorio (VI sec.) e Abū Ma῾šar Ǧa῾far ibn Muḥammad al-Baḫlī (IX sec.) e in altre opere astrologiche, come i nove libri delle Anthologiae di Vettio Valente (astrologo greco di Antiochia, del tardo II sec. d.C.), così come negli Arithmetica di Diofanto.
A partire dai primi secoli dell'era cristiana, la matematica greca e, per il suo tramite, l'astronomia e l'astrologia babilonese, raggiunsero addirittura l'India diffondendosi attraverso la Persia e lungo le rotte navali dei Romani.
Il dibattito ad Alessandria e ad Atene dal III al VI secolo
Ad Alessandria, come ad Atene, l'insegnamento della matematica rimase strettamente legato a quello neoplatonico. Collegato o meno al Museo ‒ sede privilegiata, insieme all'insegnamento privato, durante i primi tre secoli dell'epoca imperiale, dell'indagine scientifica ‒ a partire dal III sec. l'apprendimento della matematica avvenne ad Alessandria, in un ambito quindi filosofico. Dopo la distruzione del Museo, alla fine del IV sec., la ricerca non fu più sovvenzionata dagli imperatori e, dopo un breve periodo durante il quale la città assunse come maestro ancora un filosofo neoplatonico, vale dire Ermia, la trasmissione del sapere matematico avvenne esclusivamente tramite l'insegnamento filosofico strettamente privato (a parte l'istruzione fornita da ingegneri e agrimensori, di cui si tratterà in seguito e della quale peraltro si sa ben poco). A causa delle forti tensioni fra la fazione cristiana, dominante ad Alessandria, e i pagani, non si può parlare, per esempio, di una 'cattedra di filosofia' sovvenzionata dalla città a proposito dell'insegnamento di Ammonio, di Olimpiodoro e di Eutocio (che va identificato probabilmente con l'omonimo matematico, allievo di Ammonio e di Isidoro di Mileto, di cui si parlerà più avanti), e immaginare che questi tre filosofi abbiano potuto succedersi su questa cattedra pubblica (d'altra parte lo stesso uso del termine 'cattedra' implica il riferimento a un sistema universitario ed è dunque un anacronismo). L'insegnamento neoplatonico fu praticato ad Alessandria ancora per un certo tempo dai cristiani Elia e David (allievo di Olimpiodoro e di Eutocio, come egli stesso afferma nel commento agli Analitici conservato in traduzione armena), protetti dalla loro appartenenza religiosa; nel complesso, comunque, non bisognerebbe parlare di una 'scuola' neoplatonica di Alessandria, ma di 'scuole', perché ogni filosofo, di solito formatosi ad Atene, organizzava il suo insegnamento per conto proprio.
Per quanto riguarda la scuola filosofica neoplatonica di Atene, si è già detto della rottura completa, istituzionale e materiale che si era prodotta fra essa e l'Accademia di Platone, tanto che la biblioteca della scuola non era più quella di Platone e dei suoi successori, ma aveva dovuto essere costituita ex novo. I membri di questa scuola formavano una comunità privata che viveva delle proprie rendite, soprattutto di donazioni. Contrariamente a quanto avveniva ad Alessandria (Damascio, Vita Isidori, ed. Zintzen, fr. 265), il patrimonio di questi neoplatonici produceva un reddito annuale considerevole, cosicché gli insegnanti non dipendevano dagli onorari pagati dagli allievi. In genere, si ritiene che questa scuola abbia avuto inizio con Plutarco di Atene, fra la fine del IV e l'inizio del V sec., e che si sia conclusa nel 529, con l'editto di Giustiniano; i suoi direttori furono chiamati 'diadochi' di Platone perché ne reclamavano l'eredità spirituale, essendo convinti della correttezza della loro interpretazione delle opere platoniche. Anche ad Atene i neoplatonici vissero momenti difficili, benché in misura minore rispetto ad Alessandria; Proclo, per esempio, che pure ‒ secondo il suo biografo ‒ si teneva deliberatamente lontano dalla vita pubblica, fu costretto a lasciare la città per un certo tempo. Dopo la chiusura della scuola di Atene alcuni dei suoi membri trovarono rifugio a Ḥarrān, città bizantina ai confini con la Persia, sulla quale i re persiani esercitavano una forte influenza proteggendo i pagani e gli eretici, come, per esempio, i manichei; è in questa località che Simplicio visse e insegnò almeno fino al 550.
Trasmissione ed edizioni dei testi matematici
Quasi nulla ci è giunto delle opere matematiche dei neoplatonici del V e del VI sec., benché ci fossero fra loro matematici famosi. Della scuola di Atene sono arrivati fino a noi solamente alcuni trattati di Proclo: possediamo il suo commento al Libro I degli Elementi di Euclide; l'Astronomicarum positionum hypotyposis, che è una rassegna critica delle tesi astronomiche di Tolomeo; una parafrasi della Tetrabiblos di Tolomeo e un commento a quest'opera, la cui autenticità non è certa; un trattato intitolato De eclipsibus, che rappresenta un capitolo dell'Astronomicarum positionum hypotyposis e che è conservato in due diverse traduzioni latine. Del successore di Proclo, Marino, un ottimo matematico che insegnò le quattro scienze matematiche al futuro diadoco Damascio, si conserva soltanto l'introduzione ai Dati di Euclide, mentre il commento è andato perduto. Per quanto riguarda i neoplatonici che insegnavano ad Alessandria, non abbiamo nessuna traccia di opere matematiche dei due filosofi Ammonio e Asclepiodoto di Alessandria, dei quali il primo fu, secondo Damascio, il più grande matematico dei suoi tempi, mentre il secondo fu famoso non soltanto come matematico ma anche come meccanico (Vita Isidori, ed. Zintzen, frr. 79, 126, 199). Sappiamo che Eliodoro, fratello di Ammonio, collaborò a un'edizione della Syntaxis di Tolomeo o ne fu il direttore, e che fu probabilmente l'autore di due opere astrologiche: un commento al trattato astrologico di Paolo di Alessandria (seconda metà del IV sec.) e una Astronomikḕ didaskalía. Di Filopono, allievo di Ammonio, sono conservati un Commentario alla Introduzione aritmetica di Nicomaco e un trattato Sull'astrolabio, una versione semplificata del trattato o dei corsi corrispondenti di Ammonio.
Generalmente identificato con il filosofo neoplatonico Eutocio, che tenne dei corsi sull'Isagoge di Porfirio (Elia, In Analytica priora, ed. Westerink 1961, p. 134, 4-5) e che, secondo David (In Analytica priora, conservato in traduzione armena in Arevšatyan 1967), fu suo maestro insieme a Olimpiodoro, il matematico Eutocio di Ascalona sarebbe stato l'ultimo editore e commentatore neoplatonico di testi matematici. Ci sono alcuni indizi che potrebbero suggerire questa identificazione: Eutocio dedicò, con grandi segni di rispetto, il commento a Sulla sfera e sul cilindro di Archimede (il cui testo, aggiunto al commento, era stato edito dal suo maestro Isidoro di Mileto, mēchanikós, cioè ingegnere) a un certo Ammonio, nel quale si riconosce in genere il neoplatonico Ammonio (m. 520 ca.) che si suppone sia stato maestro di Eutocio prima di Isidoro (m. prima del 538 e incaricato nel 532 insieme ad Antemio di Tralle ‒ m. ben prima del 558 ‒ della ricostruzione della basilica di Santa Sofia a Costantinopoli); le date approssimative della vita di Eutocio il matematico e di Eutocio il neoplatonico, contemporaneo di Olimpiodoro, allievo di Ammonio, coincidono; infine, Eutocio dedicò ad Antemio il suo commento con edizione delle Coniche di Apollonio, alcuni anni prima del 558. Prima di parlare dell'attività di Eutocio, che si è tentati di considerare l'ultimo esponente della tradizione alessandrina come editore e commentatore, ritorniamo al neoplatonico Teone, padre di Ipazia, e alla sua opera in questo ambito.
Poiché l'insegnamento neoplatonico, inclusa la matematica, consisteva nel commentare un certo numero di opere di riferimento, bisognava per prima cosa avere sotto mano il testo, e averlo in una versione leggibile per gli studenti; occorreva dunque innanzi tutto produrre un'edizione del testo, non nel senso moderno del termine (cioè confrontando tutti i manoscritti esistenti per giungere alla costituzione di un testo il più vicino possibile alla versione originale), ma rendendo più chiari i passi oscuri ed eliminando gli errori di copiatura evidenti che risultavano dalla trasmissione del testo per opera di generazioni di copisti. Questo procedimento, comunque, non escludeva il ricorso ad altri due o tre manoscritti, se ce n'era la disponibilità. I commenti erano anch'essi legati direttamente all'insegnamento, essendo la redazione dei corsi orali.
Tutti i manoscritti e le edizioni degli Elementi di Euclide di cui disponiamo si basano sull'edizione di Teone; un solo manoscritto (Vat. gr. 190) e alcuni papiri (frammenti) hanno potuto essere identificati come versioni preteoniane e hanno consentito di stabilire la natura dei cambiamenti introdotti da Teone rispetto al testo originale (se si può ancora parlare di una versione originale, visto che anche il testo del manoscritto è certamente già un testo rivisto). Teone curò anche l'edizione dei Dati e dell'Ottica di Euclide ‒ quest'ultima in una versione piuttosto semplificata ‒ nonché dei Libri I e II e un commento di tutti i libri della Syntaxis di Tolomeo, mentre l'edizione del Libro III e probabilmente dei libri seguenti fu realizzata dalla figlia Ipazia. Questo dato emerge chiaramente dalle sue indicazioni a proposito di alcuni libri del commento; a proposito dei Libri I e II è detto chiaramente che sia il commento (hypómnēma) sia l'edizione (ékdosis) sono dovuti a lui, mentre l'indicazione all'inizio del Libro III informa che l'edizione è a cura di sua figlia. Non possediamo nessun manoscritto che contenga una versione preteoniana della Syntaxis: Teone produsse anche l'edizione che permise la conoscenza del testo delle Tavole manuali di Tolomeo da parte degli astronomi arabi. Come si è detto, egli scrisse due commenti a quest'opera, uno di tenore scientifico, e l'altro destinato agli studenti privi di conoscenze matematiche. La Suda (Lexicographi Graeci, Suidae Lexicon, ed. Adler, I, 2, p. 702, 15) gli attribuisce, fra l'altro, anche un trattato sul Piccolo astrolabio, mentre attribuisce a sua figlia Ipazia i commenti agli Arithmetica di Diofanto e alle Coniche di Apollonio, nonché alle Tavole manuali di Tolomeo (Lexicographi Graeci, Suidae Lexicon, ed. Adler, I, 4, p. 644, 3-5), ma nessuno di questi testi ci è stato trasmesso.
Di Eutocio di Ascalona possediamo un commento ai primi quattro libri delle Coniche di Apollonio, dedicato ad Antemio, con la sua edizione del testo (messo di fronte a vari manoscritti con varianti, Eutocio afferma di avere inserito nel testo la versione che gli sembrava più chiara e le altre in margine). Questo testo fu messo a confronto da uno dei fratelli Banū Mūsā, che, nel IX sec., elaborarono una traduzione araba del testo di Apollonio, con una sua versione preeutociana, e nell'edizione di Eutocio si trovarono meno errori; furono tradotti dunque i primi quattro libri secondo l'edizione di Eutocio e gli altri tre secondo il manoscritto preeutociano. I commenti di Eutocio su due trattati di Archimede, Sulla sfera e sul cilindro e Misura del cerchio, si fondavano invece sulle edizioni curate dal suo maestro Isidoro di Mileto, edizioni che sono ancora il fondamento delle nostre edizioni moderne. Un altro commento riguarda l'Equilibrio dei pianeti di Archimede.
L'insegnamento della matematica al di fuori delle scuole filosofiche: il caso della geografia
La ricerca geografica, materia connessa alla matematica, dopo aver rivestito una grande importanza fra i filosofi peripatetici e stoici e al Museo di Alessandria, fu piuttosto trascurata dai neoplatonici, per i motivi sopra accennati. Ciononostante, dovette essere molto diffusa una specie di geografia elementare, cioè l'utilizzazione di carte geografiche nell'insegnamento della grammatica e della retorica, perché era necessaria per la rappresentazione, per esempio, del periplo di Ulisse e degli avvenimenti raccontati nelle opere storiche materia di studio. Le carte erano esposte anche in luoghi pubblici per informazione del grande pubblico e per propaganda politica, allo scopo d'illustrare l'estensione e il potere dell'Impero romano. L'amministrazione romana, a partire dalla fine della Repubblica, contribuì in larga misura a tracciare queste carte; il mappamondo di Agrippa esposto nel Portico di Vipsania, visto da Plinio il Vecchio, e i commentari geografici che questi lasciò alla sua morte (se ne conservano alcuni frammenti) testimoniano gli sforzi romani per l'esplorazione e la misura dei confini dell'Impero, sforzi che continuarono per molti decenni al tempo di Augusto. Nei secoli successivi furono certamente favorite le ricerche di cartografia e ciò apportò dei miglioramenti alla rappresentazione del mondo. Il grammatico e retore Giulio Onorio (IV-V sec.) nel suo insegnamento utilizzava una carta geografica e uno dei suoi allievi pubblicò gli appunti presi durante le spiegazioni del maestro a proposito di questa carta (Geogr. Lat. Min., Cosmographia Iulii Caesaris, pp. 21-55; anche per Cosmographia [dello Pseudo-Etico], pp. 71-103); si trattava di un tipo di carta tonda o ellittica, con numerose note toponomastiche. Cassiodoro conosceva questo scritto e ne raccomandava la lettura ai suoi monaci. Ugualmente destinate all'insegnamento della grammatica e della retorica erano le carte murali esposte sotto i portici delle scuole meniane di Autun, di cui parla il retore Eumene nel 298 nel suo discorso per il restauro di queste scuole (Panegirici Latini, orazione V). Malgrado la rarità delle testimonianze, letterarie o di altra natura, non si va certamente troppo lontano dal vero se si suppone che l'uso delle carte nell'insegnamento della grammatica e della retorica fosse molto diffuso; d'altra parte, lo sforzo dell'amministrazione romana di migliorare continuamente le carte ‒ compito degli agrimensori (mensores, gromatici) ‒ dovette restare costante sotto l'Impero e, benché i Romani non abbiano contribuito particolarmente al progresso scientifico della geografia, le loro conquiste militari e le loro estesissime relazioni commerciali hanno certamente arricchito la conoscenza geografica dell'Impero.
Per quanto riguarda i trattati geografici di portata scientifica, dopo Strabone, Marino di Tiro e Tolomeo, non ce ne sono stati né fra i Greci né fra i Romani. Del I sec. d.C. possediamo una Chorographia, scritta sotto forma di periplo (períplous) dal retore Pomponio Mela, e i Libri III-VI (sempre sotto forma di períplous) della Naturalis historia di Plinio il Vecchio. Anche quest'ultima opera non aveva lo scopo di rendere i suoi lettori degli scienziati, bensì dei Romani colti nel senso della cultura enciclopedica (enkýklios paideía). Il compilatore Gaio Giulio Solino (del III/IV sec.) utilizza Pomponio Mela nei suoi Collectanea rerum memorabilium e precisa di non voler scrivere una geografia nel vero senso della parola, ma di utilizzare il quadro geografico come un comodo supporto per notizie aneddotiche su uomini, animali, piante esotiche e popolazioni mitiche che abitano ai confini del mondo, poiché in ciò che è straordinario sta il fermentum cognitionis; quest'opera ha esercitato una forte influenza sulla Tarda Antichità e sul Medioevo.
Le professioni collegate alle scienze matematiche: architetti, ingegneri, agrimensori
Le professioni degli architetti (si dovrebbe parlare piuttosto di capomastri, perché la nozione moderna di architetto è troppo ristretta), degli ingegneri (mechanici) e degli agrimensori (agrimensores, gromatici, geometrae) acquistarono un'importanza crescente a partire dall'inizio dell'epoca imperiale, in relazione ai progressi dell'urbanizzazione, alla passione edificatoria degli imperatori, al numero considerevole dei lavori pubblici realizzati (campi militari romani, strade, acquedotti, ponti); dovette dunque esistere una formazione specifica finalizzata a queste professioni, comprendente almeno la matematica applicata. Grandi funzionari di Stato come Vitruvio (sotto Cesare e Augusto) e Sesto Giulio Frontino non c'informano però sulla propria formazione professionale di architetto e di ingegnere, forse perché consideravano questi aspetti professionali come secondari ‒ rispetto alla loro carriera di uomini di Stato ‒ e acquisiti nell'ambito di una vasta cultura.
Vitruvio, infatti, sottolinea due volte con gratitudine il fatto che i suoi genitori si erano preoccupati che egli ricevesse un'istruzione molto ampia, una enkýklios paideía nel vero senso del termine, e quando parla dei suoi maestri (praeceptores) di architettura (De architectura, IV, 3, 3) si limita a ricordare la trasmissione orale delle conoscenze da maestro a discepolo in opposizione all'apprendimento libresco su trattati, nella maggior parte greci. Ai suoi occhi, inoltre, questi praeceptores non erano soltanto tecnici esperti, ma anche maestri di deontologia professionale e di morale individuale (ibidem, VI, praef., 4-5). Vitruvio prestò servizio come cavaliere negli stati maggiori e fece parte, in tarda età, dell'entourage di Augusto; Frontino esercitò le funzioni di prefetto urbano, di comandante della legione 'secunda adiutrix' nella Germania Inferiore, di console (tre volte), di governatore della Britannia e di proconsole d'Asia. Dalle loro opere ‒ i dieci libri del De architectura di Vitruvio (che trattano anche di idraulica [acquedotti, pozzi, cisterne], di macchine e di stratagemmi militari, nonché di gnomonica [quadranti solari, orologi ad acqua, ecc.]), e, di Frontino, De aquaeductu urbis Romae, Strategemata, il trattato De agri mensura (di cui possediamo soltanto estratti) e quello sulla Poliorcetica (perduto) ‒ veniamo a sapere che le loro attività si esercitavano almeno in quattro ambiti: nella costruzione di edifici pubblici, nella conduzione dell'acqua, nell'artiglieria e costruzione di macchine da guerra, nell'agrimensura.
Questa combinazione di specialità differenti era consueta, come si vede anche da altri esempi, fra i quali basta menzionare Apollodoro di Damasco, il famoso architetto e ingegnere che costruì il Foro di Traiano e un ponte sul Danubio, e che scrisse un trattato di poliorcetica che ci è pervenuto. Ciò che caratterizza Apollodoro, come quasi tutti gli scienziati greci, è il fatto che egli fosse per prima cosa e principalmente architetto e ingegnere, benché nel corso della carriera abbia esercitato anche funzioni amministrative legate alla sua professione; invece, gli uomini di Stato romani come Cicerone, Varrone, Agrippa, Vitruvio, Frontino, Plinio il Vecchio e Celso, ritenevano che il centro della propria vita fosse altrove e consideravano le attività svolte in ambito scientifico piuttosto nella prospettiva del dilettantismo e della cultura enciclopedica. Questa riunione di differenti specializzazioni professionali in una sola persona, architetto (capomastro) o ingegnere (mēchanikós), aveva una lunga tradizione; Pappo, nella Collezione matematica, la ricollega a Erone e, dopo aver sottolineato l'interesse dei filosofi per la meccanica, distingue in questa scienza una parte pratica e una parte teorica: "La parte teorica comprende la geometria, l'aritmetica, l'astronomia e la fisica, la parte pratica la metallurgia, il montaggio, la carpenteria, la pittura e le altre attività manuali connesse con queste. Chi è stato educato sin dall'infanzia in queste branche del sapere [la parte teorica], ha acquisito una certa abilità in queste arti [la parte pratica] e possiede una natura adatta a dominarne la varietà, sarà, dicono, il migliore inventore di procedimenti meccanici e il migliore capomastro (architéktōn). Ma quando a una sola persona è impossibile eccellere in tante branche della matematica e allo stesso tempo imparare le arti che abbiamo ricordato, raccomandano a chi voglia dedicarsi allo studio della meccanica di utilizzare quelle arti particolari di cui ha già padronanza per gli scopi a cui può servire ciascuna di queste arti" (VIII, 1-2). Questo testo di Pappo è interessante poiché mostra che l'apprendimento della matematica teorica si praticava talvolta in età molto precoce, ma non ci informa sul quadro all'interno del quale questo apprendimento era inserito.
Le numerose iscrizioni che menzionano architetti militari e civili ‒ e fra questi ultimi distinguono uomini liberi, liberti e schiavi ‒ testimoniano che la professione era molto diffusa, ma forse non nelle stesse proporzioni in tutte le provincie. Il Codex Theodosianus (una selezione di leggi promulgate fra il 313 e il 438) contiene un decreto dell'imperatore Costantino del 334 (Codex Theodosianus, XIII, 4, 1), nel quale si constata la mancanza di architetti nelle provincie africane e si promettono borse di studio per incoraggiare i giovani di circa diciotto anni dotati di istruzione negli studi letterari (liberales litteras) a imparare questa professione (XIII, 4, 1). Se nella maggior parte delle provincie probabilmente ci fu sempre abbondanza di architetti (soprattutto architetti di origine greca, come testimonia lo scambio di lettere fra Traiano e Plinio il Giovane [Epistularium ad Traianum imperatorem cum eiusdem responsis liber, X, 49, 3]), forse soltanto pochi di loro ebbero voglia di insegnare, secondo quanto lascia intendere un editto degli imperatori Costanzo e Costante dell'anno 344 (Codex Theodosianus, XIII, 4, 3, ripreso nel Codex Iustinianus, X, 66), nel quale gli ingegneri (mechanicos), gli agrimensori (geometras) e gli architetti (architectos) sono incoraggiati, con la promessa di immunità, a perfezionarsi continuamente e a insegnare. D'altra parte, nell'editto di Diocleziano De pretiis rerum venalium, del 301, si menziona l'ammontare dell'onorario mensile che ogni allievo doveva pagare a un insegnante di architettura (architecto magistro), un onorario relativamente basso rispetto a quello degli insegnanti di grammatica e di retorica.
Prima di passare agli agrimensori (agrimensores, gromatici), è certamente utile fare alcune precisazioni a proposito del termine geometra, a causa del suo doppio significato ‒ di insegnante di geometria e di agrimensore ‒ e dello status sociale della persona che designava. In alcune iscrizioni di epoca imperiale l'epiteto geometra designa chiaramente alcuni agrimensori: per esempio, in CIL III, n. 6041, esso si riferisce a un agrimensore al servizio di un comune; in V, n. 8319, a un agrimensore degli archivi imperiali; in VIII, n. 11428, compare la doppia designazione mensor geometra e si tratta di un agrimensore militare. Nel contesto dell'editto degli imperatori Costanzo e Costante, di cui si è parlato, si trattava senza dubbio di agrimensori che gli imperatori incoraggiavano a perfezionarsi e a insegnare, ma il significato che bisogna dare al medesimo termine nell'editto di Diocleziano non è chiaro; in questo editto, infatti, accanto agli insegnanti di letteratura (grammatici) greca e latina si parla anche di un geometra insegnante, che riceve dai propri studenti lo stesso salario dei grammatici, ma un salario inferiore a quello degli insegnanti di retorica. Per prima cosa, si pone la questione se si trattasse di un insegnante di agrimensura oppure di geometria pura, e poi, nel caso che fosse vera la seconda ipotesi, se egli avesse lo stesso status degli insegnanti di scuola elementare (institutor litterarum, calculator), di letteratura e di retorica (grammatici e rhetores) e talvolta di filosofia, che erano assunti stabilmente dalle città in numero fisso e con uno stipendio pagato dalle città o dagli imperatori (oltre agli onorari pagati dagli studenti), accompagnato da immunità di ogni genere. Le materie insegnate da questi insegnanti costituivano l'istruzione normale dei giovani di classe elevata; si tratta dunque di sapere se l'insegnamento della geometria facesse parte dell'istruzione abituale in epoca imperiale, contrariamente a quanto avveniva in epoca ellenistica. A partire da Vespasiano e Antonino Pio (Digesta, XXVII, 1, 6, 1-2), le stesse prescrizioni giuridiche relative agli insegnanti dell'istruzione abituale si sono effettivamente perpetuate fino al V sec. (Codex Theodosianus, XIII, 3, 1; 3, 3; 3, 11; 3, 16; 3, 17; 3, 18), e in tutti gli editti non si parla mai di un geometra insegnante; questa figura compare però nel citato editto sui prezzi promulgato da Diocleziano nel 301, che riguarda, fra l'altro, gli onorari massimi che dovevano essere pagati dagli studenti agli insegnanti di ogni genere: di stenografia, di scrittura libraria e di scrittura antica, di architettura, di geometria e di agrimensura, di grammatica latina e greca, di retorica. In questo editto si parla soltanto dell'ammontare massimo degli onorari che gli studenti dovevano pagare e non si fa distinzione fra insegnanti assunti dalle città (che erano quasi dei funzionari) e quelli privati, eppure, almeno nelle grandi città, accanto agli insegnanti 'funzionari' c'erano quelli privati che insegnavano le stesse materie ma vivevano solamente degli onorari pagati dagli studenti, pur potendo contare anche su alcune immunità. Benché non si possa decidere se in questo editto di Diocleziano ci si riferisse a un insegnante di geometria pura o a uno di agrimensura, quasi certamente non si trattava di un insegnante assunto dalla città ma di un insegnante privato.
Il geometra è menzionato ancora una volta in Digesta, L, 13, 1, nel contesto della giurisdizione riguardante le liti sugli onorari: nel Libro VIII del trattato di Ulpiano sui tribunali, scritto durante il regno di Caracalla, il praeses provinciae doveva trattare soltanto le liti riguardanti gli onorari dei medici e degli insegnanti di studi liberali, come i retori, i grammatici e i geometrae, ma non dei filosofi, che dovevano disprezzare il denaro, né degli insegnanti di diritto. Inoltre, benché non si trattasse di maestri nel vero senso del termine, c'era la consuetudine che si discutessero le liti riguardanti gli onorari anche di coloro che insegnavano a leggere e a scrivere, degli insegnanti di scrittura libraria, degli avvocati, degli insegnanti di calcolo o dei contabili (tabularius). In questo commento giuridico di Ulpiano non si distingue fra insegnanti liberi e quelli funzionari, ma, tenuto conto del fatto che negli editti sugli insegnanti stipendiati di una città non si parla mai di un insegnante di geometria, anche qui poteva trattarsi soltanto di un insegnante privato; in ogni caso, l'esistenza stessa di questa professione sembra implicare che l'insegnante di geometria, almeno nelle città abbastanza grandi, potesse contare su un pubblico sufficiente a garantirgli i mezzi di sussistenza. Questo pubblico era costituito essenzialmente da membri dell'alta borghesia che, non contenti della formazione consueta fornita dalle città, esclusivamente letteraria e retorica, volevano dare ai propri figli una cultura enciclopedica nel senso dell'enkýklios paideía cara a Vitruvio, a Plinio il Vecchio e a Quintiliano, che costituiva una formazione eccezionale per la sua vastità, e non era abituale. L'insegnante di geometria poteva trovare una parte dei suoi allievi anche fra i futuri architetti, ingegneri e agrimensori, ma non si hanno informazioni a riguardo (è probabile che il Celso tanto lodato dall'agrimensore Balbo nel suo scritto parzialmente conservato nel Corpus agrimensorum, del II sec. d.C., fosse un insegnante di geometria).
Alla fine della Repubblica e in epoca imperiale, la professione di agrimensore (agrimensor, mensor, gromaticus, geometra, ecc.) era una delle più importanti. Lo status sociale degli agrimensori era altrettanto vario che quello degli architetti: vi erano in primo luogo gli agrimensori militari e quelli civili, e fra questi ultimi si distinguevano uomini liberi, liberti e schiavi. Sulla base delle iscrizioni funerarie di epoca imperiale, si possono distinguere quattro tipi di agrimensori: gli agrimensori militari, quelli degli archivi e dei domini imperiali, quelli al servizio dei comuni italici (mensor publicus); i cittadini liberi e professionisti autonomi.
Gli agrimensori militari ricevevano la propria formazione durante il servizio militare e l'apprendimento avveniva probabilmente sul campo in modo puramente pratico, cioè accompagnando e osservando i maestri. Il loro compito principale era l'organizzazione dei campi (castrametazione) e, in occasione della fondazione di colonie in territorio conquistato, la divisione di grandi superfici in lotti regolari e facili da rappresentare sulle carte catastali, le formae, in vista dell'assegnazione ai veterani e ad altri privilegiati (secondo il metodo della divisione per scamna e della centuriazione). A ciò si aggiungeva il compito di ufficiale di approvvigionamento nel caso in cui le truppe dovessero essere alloggiate in una città. I soldati che ricevevano questo tipo di formazione si chiamavano discentes mensorum. In un primo tempo, esercitavano le funzioni di agrimensori i centurioni e i tribuni militari, ma a partire dal II sec. d.C. fece la sua comparsa il grado subalterno di mensor militare.
I mensores degli archivi imperiali (soprattutto nelle provincie) e dei domini, erano il più delle volte schiavi o liberti degli imperatori, i quali dovevano verificare le dichiarazioni delle tasse fondiarie (census), e talvolta anche dividere in lotti vasti terreni sottoposti a tassazione. Era inoltre loro compito esaminare il carattere dei terreni (per es., se erano o meno sottoposti a tassazione), verificarne la grandezza mediante le carte catastali e rimettere dei nuovi cippi laddove fossero scomparsi. Dovevano sapersi orientare in carte catastali di origine e di epoche diverse, spesso non aggiornate, e fare delle expertises in caso di lite. Tenuto conto dello status sociale di questi mensores (come si è detto, in maggioranza schiavi o liberti) e del fatto che la maggior parte di essi aveva dei nomi greci, è probabile che questi funzionari di livello relativamente alto avessero ricevuto la loro formazione ad Alessandria, dove esisteva probabilmente, sin dall'epoca tolemaica, una lunga tradizione d'insegnamento dell'agrimensura sulla base di un sapere geometrico teorico (si pensi a Metrica e Diottrica di Erone). Poiché l'Egitto era una provincia imperiale, era facile per gli imperatori fare di questi studenti dei propri impiegati o dare agli schiavi una formazione in questo campo; in ogni caso, gli agrimensori stipendiati dallo Stato dovevano sostenere degli esami (i professi) e in seguito, a partire da Costantino, formarono un corpo ufficiale di mensores con a capo un primicerius.
Ci sono poche iscrizioni relative agli agrimensori indipendenti, ma l'importanza di questo ramo della professione è stata certamente maggiore di quanto le scarse testimonianze lascino supporre. Probabilmente, più i loro rappresentanti appartenevano a classi sociali elevate e meno rendevano nota questa attività particolare, così come, d'altra parte, i centurioni e i tribuni militari dell'inizio dell'epoca imperiale esercitavano le funzioni di agrimensori ma la cosa non è menzionata. Nel I sec. d.C., sembra che gli imperatori utilizzassero nelle provincie, oltre ai centurioni, soprattutto gli agrimensori indipendenti; così, Igino fu impiegato come agrimensor in molte provincie; un altro personaggio ricorda in un'iscrizione (CIL VI, n. 198) di aver eseguito due volte lavori pubblici di agrimensura al tempo di Vespasiano; Q. Paconio Agrippino, un alto funzionario dello stesso periodo, svolse a Cirene funzioni di mensor senza che questa qualifica professionale fosse menzionata e benché, sotto l'imperatore Claudio, egli si fosse qualificato, in un'iscrizione di Creta, come agrimensore (Inscr. Creticae III, nn. 25-29).
Sulla formazione degli agrimensori civili indipendenti non abbiamo indicazioni; mentre durante la Repubblica le loro competenze erano in genere acquisite nel corso del servizio militare, in epoca imperiale, con la dislocazione delle legioni e la loro trasformazione in esercito di mestiere, dovette costituirsi una tradizione di insegnamento specifico. È probabile che gli scritti degli autori classici del Corpus agrimensorum siano stati concepiti come trattati d'istruzione destinati agli agrimensori indipendenti, e l'ipotesi è corroborata dal fatto che questi scritti si riferiscono esclusivamente alla situazione giuridica dei territori dell'Italia e alla centuriazione delle colonie di veterani; i problemi del census, delle tasse fondiarie e dell'amministrazione dei domini imperiali non sembrano essere stati oggetto d'interesse. I compiti molteplici ed eterogenei degli agrimensori funzionari che erano impiegati negli archivi delle provincie dell'Impero e nell'amministrazione dei domini imperiali, non trovano quasi nessuna eco negli scritti di Igino e di Siculo Flacco, che hanno come oggetto quasi esclusivamente il territorio dell'Italia esente da tasse fondiarie e non fanno quasi mai riferimento alla connessione, tipica delle provincie, fra l'assegnazione dei terreni e il prelievo delle tasse fondiarie. Mentre, in epoca imperiale, l'importanza e il numero degli agrimensori funzionari crescevano sempre più, gli agrimensori liberi tendevano a essere relegati in secondo piano. Le città italiche e le poche colonie indipendenti nelle provincie impiegavano gli agrimensori nelle loro amministrazioni, sia come schiavi appartenenti ai comuni, sia come cittadini liberi ma dipendenti dai magistrati municipali; questa categoria di agrimensori, tuttavia, ha lasciato poche tracce nelle iscrizioni e altrove.
Nell'Impero romano, la medicina ‒ come d'altronde le altre scienze ‒ non si è mai liberata dell'ascendente greco. Questo fatto è messo in evidenza, fra l'altro, dall'importanza delle quattro scuole di medicina a Roma ‒ ossia la dogmatica, l'empirica, la metodica e la pneumatica ‒ che non soltanto erano state tutte fondate da medici greci, ma erano anche basate su correnti diverse della filosofia greca. Due scrittori latini, l'enciclopedista Celso nel I sec. e il poeta Ausonio (Griphus ternarii numeri, 67-69) nel IV sec. d.C., figlio di un famoso medico di Bordeaux (l'antica Burdigala) e nipote di una donna medico, menzionano soltanto tre di queste quattro scuole: la scuola metodica, quella empirica e quella dogmatica (dogmatikḗ o logikè haíresis; rationalis disciplina), ma forse non per gli stessi motivi. Probabilmente, la scuola pneumatica, fondata nel I sec. a.C. da Ateneo di Attalia, discepolo dello stoico Posidonio, non era in voga a Roma prima del regno di Traiano, e per questo motivo Celso negli otto libri De medicina fece una breve presentazione di tre scuole soltanto. Per quanto riguarda Ausonio, invece, la fama della scuola pneumatica non era probabilmente abbastanza grande da penetrare in Gallia fino alla provincia aquitana, una provincia remota nella quale, tuttavia, nel IV sec. il greco era ancora abbastanza conosciuto. Ausonio fece infatti dire a suo padre: "In latino non ero brillante, ma la lingua attica mi bastava per esprimermi in modo elegante" (Parentalia, 4, 9-10).
Queste parole potrebbero indicare un'origine greca da parte di padre, ma rivelano anche il fatto che il padre trovasse a Bordeaux delle persone con cui parlare greco, sia che fossero dei membri di una colonia greco-siriaca di commercianti, come ce n'erano molte in Gallia, o persone della città di grado sociale elevato. Il fatto che Ausonio abbia fatto gli studi di medicina in greco e su libri greci è molto probabile a causa della preponderanza dei medici greci in Gallia; a ogni modo, secondo Ausonio nel IV sec. a Bordeaux l'insegnamento della grammatica comprendeva ancora il greco. In ogni caso, le quattro scuole non possedevano un quadro istituzionale, e il termine 'scuola' designava piuttosto un'appartenenza, talvolta molto vaga, a una certa tendenza metodologica.
La ricezione della medicina greca nel mondo latino
La trasmissione delle dottrine e delle tecniche mediche è avvenuta per il latino mediante compilazioni e traduzioni di opere greche; per il greco, invece, dopo la formazione di un corpus di scritti medici selezionati, essa si è compiuta o passando da Alessandria a Costantinopoli, o tramite le lingue del Medio Oriente, soprattutto l'arabo e il siriaco. Per la trasmissione in lingua latina, è stato di primaria importanza il già citato Celso (Aulo Cornelio Celso), autore di un'enciclopedia intitolata Artes, di cui si conservano soltanto gli otto libri De medicina (altre parti di questa enciclopedia trattavano di agricoltura e di retorica); si sa che Celso scrisse anche di filosofia ‒ essendo stato anche lui discepolo dei Sestî, conosciuti anche da Seneca ‒ e di tattica militare, ma non è sicuro che questi scritti appartenessero all'enciclopedia.
Celso non era un medico, così come Cicerone, Frontino e Firmico Materno non sono stati l'uno filosofo, l'altro ingegnere e il terzo astronomo-astrologo di professione. Tutti, come pure Varrone e Plinio il Vecchio, erano rappresentanti caratteristici di una certa parte delle alte classi sociali romane, che per interesse personale e perseguendo l'ideale di una cultura enciclopedica s'interessavano in modo più o meno approfondito a molte discipline della tradizione culturale e scientifica greca e si preoccupavano di essere utili ai propri compatrioti non soltanto come uomini di Stato, ma anche trasmettendo il proprio sapere nella propria lingua, il latino. Naturalmente questo dilettantismo, anche se di alto livello, non era in grado di evitare errori scientifici, talvolta abbastanza gravi; tuttavia, come Cicerone non destinava i propri scritti filosofici a filosofi di professione, ma ai suoi concittadini ‒ uomini di Stato o almeno appartenenti a una fascia sociale elevata ‒ così Celso non scriveva i suoi libri sulla medicina per i medici o gli studenti di medicina, ma per permettere ai suoi compatrioti di farsi un'idea dei principali metodi medici precedenti o contemporanei. Egli voleva indicare ai suoi lettori in quale stagione, a quale età o con quale costituzione individuale bisognasse prendere delle precauzioni, quale farmaco curasse quale malattia e come si preparassero i farmaci; insomma, voleva procurare i mezzi per praticare l'automedicazione. Allo stesso modo, Marcello di Bordeaux, soprannominato Empirico (IV/V sec.), di cui ignoriamo se fosse lui stesso medico o se occupasse un incarico importante a corte, nel suo libro De medicamentis non si rivolgeva ai medici, ma ai suoi figli e a tutti coloro che, pur essendo estranei a quest'arte, potevano trovarsi nella necessità di intervenire presso un malato.
I libri di Celso sono scritti in uno stile molto curato, e le ricerche recenti sono unanimi nell'affermare che egli non soltanto tradusse e compilò le fonti greche, ma seppe anche ordinare e riassumere gli argomenti in modo intelligente basandosi sul suo spirito critico che gli impediva, per esempio, di dare un'adesione incondizionata a una delle tre scuole di medicina (benché le sue simpatie andassero soprattutto ai dogmatici). Gli otto libri dell'opera De medicina comprendono tutte le diverse branche della medicina, che fino ad allora erano state trattate in libri sparsi: la dietetica, la patologia, l'anatomia, la chirurgia, la farmaceutica; in seguito, la maggior parte degli autori latini si limiterà invece alla farmaceutica. Il medico romano Scribonio Largo, che nel 43 partecipò alla spedizione dell'imperatore Claudio in Britannia, scrisse in latino e in greco; di lui possediamo solamente un libro di ricette in latino, le Compositiones, che utilizzava in massima parte fonti greche ma si fondava anche su osservazioni personali. Plinio il Vecchio incluse nella Naturalis historia lunghe sezioni sui rimedi vegetali e animali (20-27; 28-32), nello stesso modo in cui la parte sui minerali (33-37) contiene indicazioni sul loro impiego nella preparazione dei farmaci. Plinio non utilizzò molto l'opera di Celso e i pochi medici di origine romana o italica nominati fra le sue fonti ci sono ignoti; in ogni caso, la maggior parte delle fonti da lui utilizzate era in greco.
In genere, le compilazioni sono nefaste per la sopravvivenza delle loro fonti; ci si accontenta infatti troppo facilmente degli estratti che esse contengono. Le compilazioni di Celso e di Plinio (soprattutto quella di Plinio), scritte nel I sec. d.C. e dotate comunque di un valore reale perché riflettevano abbastanza fedelmente lo stato delle scienze del periodo, in seguito furono a loro volta saccheggiate, cosicché la scienza antica è stata trasmessa al Medioevo e al Rinascimento attraverso queste compilazioni, spesso in forma vergognosamente abbreviata e alterata. La Medicina Plinii, scritta nel IV sec. da Plinio il giovane, consiste in un riassunto in tre libri delle parti mediche della Naturalis historia di Plinio il vecchio, e fu concepita come un aiuto all'automedicazione; l'opera ebbe una notevole diffusione e nel VI sec. conobbe una specie di seconda edizione, un rifacimento completo, anche mediante l'interpolazione di estratti di medici-autori che scrivevano in un latino tardo. Il Liber medicinalis di Quinto Sereno, raccolta di ricette composta in esametri in epoca incerta (forse la seconda metà del IV sec.), si fondava sulla Medicina Plinii, sulla Naturalis historia di Plinio e probabilmente anche su una terza fonte ignota. Sia la Medicina Plinii che il Liber medicinalis di Sereno dedicavano un ampio spazio alla superstizione e alla magia, e furono entrambi utilizzati nella stesura del De medicamentis di Marcello di Bordeaux, già menzionato, il quale si fondava ampiamente su Scribonio Largo, confuso con Celso, e sulla tradizione locale e orale. La maggior parte dei medici-autori citati in quest'opera era nota all'autore manifestamente soltanto attraverso Scribonio.
Le traduzioni latine
Accanto a questo genere di letteratura medica, centrata principalmente sulla farmaceutica, che consisteva in parafrasi di estratti e in estratti di questi estratti, possediamo alcune traduzioni integrali di opere greche e compilazioni segnalate come traduzioni latine di estratti di opere greche. Il medico Celio Aureliano (V sec., di Sicca in Africa) ha lasciato una versione latina del trattato Sulle malattie delle donne del famoso medico metodico Sorano di Efeso (prima metà del II sec. d.C.), di cui si conserva l'originale greco, e ha tradotto in latino, con qualche adattamento, il trattato Sulle malattie acute e croniche dello stesso autore (di cui si è perduto il testo greco). All'inizio del V sec. fu tradotto anche il trattato De podagra di Rufo di Efeso, come pure le compilazioni Synopsis ed Euporista dello iatrosofista Oribasio (325-403), medico dell'imperatore Giuliano l'Apostata e direttore della sua biblioteca. L'imperatore gli aveva chiesto di scrivere un compendio delle opere di Galeno e alla fine Oribasio redasse, con citazioni spesso letterali dei trattati dei medici precedenti più famosi, un compendio di medicina in 70 libri (ne sono conservati circa 25), dai quali, verso il 390, ricavò per il figlio Eustazio (anche lui medico) i tre libri della Synopsis. Gli Euporista, collezione di rimedi curativi facili da procurarsi, erano destinati invece ai profani. Il medico Aviano Vindiciano, che visse nel IV sec. in Africa, dove era proconsole, compose sotto forma di lettera al nipote un compendio delle dottrine sul corpo umano, basato sul pensiero di Ippocrate (Ex libris medicinalibus Hippocratis intima latinavi); e altri suoi scritti latini ebbero anch'essi la loro importanza nell'ambito della trasmissione del pensiero greco. Il suo allievo Teodoro Prisciano redasse in greco gli Euporista, basati soprattutto sulla farmacologia di Galeno, e in seguito li tradusse in latino. Anche un altro medico africano, Cassio Felice (V sec.), lavorò a traduzioni di opere mediche greche e di lui possediamo il De medicina ex Graecis logicae sectae auctoribus liber translatus, in 82 capitoli, scritto nel 447; fra le fonti principali sono menzionati Ippocrate, Galeno e Vindiciano. Si noterà l'importanza, nel IV e V sec., dell'Africa del Nord come centro di trasmissione del sapere medico greco in latino. Per quanto riguarda l'Italia meridionale Cassiodoro (VI sec.) dovette avere nella biblioteca del suo monastero, a Vivarium, alcune traduzioni di opere di Ippocrate e di Galeno, perché nelle Institutiones ne raccomandava la lettura ai suoi monaci (Institutiones, I, 31). Ci sono giunte inoltre alcune traduzioni latine di opere del Corpus Hippocraticum risalenti al V e al VI secolo. Il manoscritto latino ambrosiano G. 108. inf. del IX sec. contiene commenti in latino, accompagnati da lemmi, a quattro opere di Galeno: Sulle scuole di medicina per principianti; L'arte medica; Sulle pulsazioni per principianti; Il metodo terapeutico per Glaucone. Esiste anche un compendio latino della Terapeutica di Alessandro di Tralle, che esercitava e insegnava a Roma nel VI sec., e la traduzione della Didaskalía sýntomos di Paolo d'Egina, medico alessandrino del VII sec. (la Bibliographie des textes médicaux latins, pubblicata nel 1988 dal Centre Jean-Palerne di Saint-Étienne, contiene, fra l'altro, un elenco delle traduzioni latine).
La tradizione greca: la formazione delle raccolte di testi medici
Per quanto riguarda la tradizione greca di epoca imperiale, nel corso di questi secoli si definirono la selezione degli scritti medici e la formazione del canone che sono state determinanti per la ricezione della medicina greca a Costantinopoli, nel Medioevo latino e in Oriente. Per prima cosa fu realizzata la raccolta degli scritti ippocratici in un corpus; nel II sec. d.C. videro la luce due grandi edizioni di testi ippocratici, autentici e non, delle quali quella di Artemidoro Capitone si è imposta alla posterità costituendo la base della trasmissione dei testi ippocratici nella Tarda Antichità e nel Medioevo fino ai tempi moderni; anche le traduzioni latine del V e VI sec., dipendevano da questa edizione. Gli scritti di Ippocrate non avevano mai smesso di essere letti; i membri della scuola empirica li avevano studiati a partire dal III sec. a.C. e anche i medici dogmatici e pneumatici si erano interessati a essi, poiché ciascuno vi trovava quello che gli faceva comodo.
Galeno (129-199/200) era nato a Pergamo, aveva studiato a Pergamo, Smirne, Corinto e Alessandria, ed esercitò alla fine la sua professione per lungo tempo a Roma, dove probabilmente morì. La sua attività scientifica e letteraria ebbe una grande influenza sull'interpretazione degli scritti ippocratici; egli ne commentò infatti i più importanti e compose un glossario ippocratico. Galeno riassunse e in gran parte soppiantò i commentatori che lo avevano preceduto; i suoi commenti a Ippocrate non soltanto furono letti a Bisanzio (Costantinopoli), ma furono anche tradotti in siriaco (sin dal IV sec. e soprattutto nel corso del VI sec.) e in arabo (nel corso del IX sec.), poi dall'arabo in latino e dal latino in ebraico. I commenti di Galeno a Ippocrate, che esercitarono dunque una forte influenza sulla medicina araba e sul Medioevo latino, sono importanti anche per quanto riguarda la tradizione del testo ippocratico; infatti, essi si fondavano molto spesso su un testo assai differente da quello dell'edizione di Artemidoro mentre i lemmi ippocratici contenuti nei commenti di Galeno sono stati, nella tradizione greca del testo, in genere 'corretti' secondo l'edizione di Artemidoro, le traduzioni in lingue orientali hanno conservato il testo che leggeva Galeno.
Poiché Galeno, nelle sue altre numerosissime opere mediche, da una parte aveva elaborato una sintesi critica della scienza medica precedente e contemporanea, e, dall'altra, aveva saputo dare alle sue ricerche una forma sistematica, i posteri studiarono quasi esclusivamente la sua opera. Sono sopravvissuti inoltre, probabilmente perché non c'erano testi equivalenti negli scritti di Galeno, i libri di Sorano Sulle malattie delle donne, la Materia medica di Dioscuride (I sec. d.C.) in cinque libri (su piante medicinali, farmaci a base di animali e di minerali), e le comode compilazioni di Oribasio ‒ cioè l'enciclopedia medica intitolata Collectiones medicae ‒ come pure la Synopsis e gli Euporista già menzionati.
L'immensa opera di Galeno, malgrado la sua grande reputazione, non ci è giunta però integralmente. Le esigenze dell'insegnamento portavano, da una parte, a una selezione dei suoi trattati e, dall'altra, a un loro ordinamento sull'esempio dell'ordine di lettura stabilito dai neoplatonici per i trattati di Aristotele e i dialoghi di Platone. D'altronde, lo stesso Galeno aveva proposto un ordine di lettura dell'insieme della propria opera (De ordine librorum suorum, K, XIX, 49-61); Ḥunayn ibn Isḥāq racconta, per esempio, che gli insegnanti di medicina di Alessandria avevano raccolto in un libro intitolato Per principianti quattro trattati di Galeno, e il manoscritto latino di Milano, già citato, contiene i seguenti commenti a questi trattati: Sulle scuole di medicina per principianti; L'arte medica; Sulle pulsazioni per principianti e Il metodo terapeutico per Glaucone (codice ambrosiano G. 108. inf.). Ḥunayn ibn Isḥāq conosceva inoltre un canone di 15 opere di Galeno, di cui collocava l'elaborazione ad Alessandria (Risala, nn. 3-20), canone che non è stato però conosciuto dalla tradizione bizantina. Si tratta, oltre ai quattro libri per principianti citati in precedenza, dei trattati seguenti: Anatomia per principianti; Gli elementi secondo Ippocrate; Sui temperamenti; Sulle facoltà naturali; Sulle cause e i sintomi delle malattie; Sui luoghi affetti; Trattato sulle pulsazioni; Sulla differenza delle febbri; Sulle crisi; Sui giorni critici; Il metodo terapeutico; alla fine di questo elenco Ḥunayn ibn Isḥāq afferma: "Ecco i libri la cui lettura era prescritta negli istituti di insegnamento medico ad Alessandria; erano letti nell'ordine in cui li ho presentati". Nella letteratura posteriore compare anche un sedicesimo trattato del canone alessandrino, dedicato alla Protezione della salute.
La maggior parte dei commenti ai trattati ippocratici e galenici discute della collocazione che ciascuno di questi trattati doveva avere nell'ordine di lettura; inoltre, a partire dal IV sec. (Oribasio), non si è mai smesso di fare delle raccolte sinottiche dell'opera di Galeno. Un esempio tardo ne è la Didaskalía sýntomos, il trattato (pragmateía) in sette libri, destinato ai medici, di Paolo d'Egina. Questa pragmateía, che ci è stata tramandata, era basata soprattutto su Galeno e su Oribasio, ed ebbe un grande successo, probabilmente soprattutto a causa della sua brevità (7 libri) rispetto alla grande enciclopedia di Oribasio (70 libri) e al Tetrabiblos del VI sec. di Aezio di Amida (16 libri suddivisi in 4 parti). L'opera, le cui fonti erano soprattutto Oribasio e Galeno, ma anche Ippocrate, fu tradotta in arabo nel IX sec. da Ḥunayn ibn Isḥāq, e probabilmente più o meno nello stesso periodo in latino.
Medicina e filosofia
Dell'opera filosofica di Galeno (circa 60 trattati), che agli occhi dell'autore era importante per il medico tanto quanto i suoi trattati medici, non ci è pervenuto quasi niente. Da Filopono (De aeternitate mundi contra Proclum) e da Simplicio (In Aristotelis Physicorum libros) veniamo a sapere che almeno il suo trattato Sulla dimostrazione (Apodeiktikḕ pragmateía), di cui egli stesso aveva vivamente raccomandato la lettura agli studenti di medicina, fu letto fino al VI secolo. Ma quando Ḥunayn ibn Isḥāq volle tradurlo, non riuscì più a trovarne un esemplare né in Mesopotamia né in Siria, né in Palestina o in Egitto. Quale può essere stato il motivo della scomparsa quasi totale dei trattati filosofici di Galeno? Molto probabilmente fu la loro incompatibilità con il neoplatonismo (furono scritti al tempo dei medioplatonici e si collocavano in questa corrente molto diversificata, di cui d'altra parte non ci è stato trasmesso quasi niente), che si era imposto come unica filosofia alla fine dell'Antichità.
Ancora qualche parola a proposito della relazione della medicina con la filosofia. Si è già detto della forte influenza esercitata dalla filosofia sulle scuole di medicina e sui medici che vi facevano riferimento; gli interessi enciclopedici di Celso, per esempio, lo portarono a scrivere anche di filosofia, e Sorano riuniva competenze di medico, di filosofo e di grammatico. Galeno riteneva che il medico perfetto dovesse essere allo stesso tempo filosofo, ed è questo il titolo di uno dei suoi trattati. La vastissima cultura di Oribasio, medico e amico di Giuliano l'Apostata, includeva certamente anche la filosofia, e si conosce, a parte un epitaffio per un medico e filosofo neoplatonico Asclepiade, almeno un altro neoplatonico, Asclepiodoto, allievo di Proclo e del famoso medico Giacomo Psicristo, che fu allo stesso tempo filosofo (anche se poco apprezzato da Damascio), matematico e medico. Lo stato delle ricerche sui testi medici arabi non ci permette ancora di sapere se sia giustificata la citazione, in alcuni scritti arabi, di nomi quali Damascio e Filopono come autori di commenti medici; sicuramente un Commento agli Aforismi di Ippocrate e un Commento al Prognosticon di Ippocrate sono stati falsamente attribuiti a Damascio dal copista e falsario Darmarios nel XVI secolo.
La questione se la medicina fosse una materia degna di essere studiata da un filosofo ‒ e anche se facesse parte delle arti fondate sul ragionamento, cioè delle scienze esatte (logikaì téchnai, epistẽmai, disciplinae) ‒ è stata discussa a lungo. Plutarco di Cheronea rispose affermativamente (De tuenda sanitate praecepta, 122 e). Marziano Capella escluse esplicitamente la medicina, come anche l'architettura, dal ciclo neoplatonico delle sette arti liberali, o piuttosto delle sette scienze (disciplinae), le uniche che preparassero l'anima al ritorno in patria, perché queste due materie si dedicavano a cose mortali e non avevano niente in comune con le cose divine; egli ammetteva tuttavia che la medicina e l'architettura fossero degne di essere studiate per se stesse, al di fuori del contesto filosofico (De nuptiis Philologiae et Mercurii, ed. Dick, IX, 891, pp. 471, 23-472, 3). Con argomenti analoghi, Macrobio (inizio del V sec.) nei Saturnali (ed. Willis, VII, 14-15, p. 454) separava la medicina dalla filosofia, lasciando capire che alcuni suoi contemporanei tendevano invece a considerarla nell'ambito della filosofia. Certamente per opporsi a questa posizione dei suoi contemporanei, e non alle Discipline del lontano Varrone (116-27), che probabilmente non poteva più leggere, anche Marziano insisteva sull'esclusione della medicina e dell'architettura dall'ambito ristretto delle vere scienze che dovevano essere ascoltate dall'assemblea degli dèi.
Gli iatrosofisti
Gli iatrosofisti rappresentarono un altro fenomeno culturale; si trattava di medici che, grazie a studi approfonditi di grammatica e di retorica, sapevano esprimersi con facilità sull'arte medica. Il termine 'iatrosofista' è di formazione tarda, benché denoti un fenomeno antico; lo si trova soprattutto in autori cristiani (Epifane, IV sec.; Giorgio Monaco, IX sec.), incuranti della ricercatezza stilistica arcaizzante che induceva invece gli altri scrittori greci a evitare i neologismi. Un'eccezione a questa regola è forse la Vita Isidori di Damascio, dove questo termine in effetti si trova (fr. 335 Zintzen = Suda, I 520, 21, s.v. Gésios), a meno che non sia stato introdotto nel testo dall'autore della Suda. Eunapio (346-414), nelle Vite dei filosofi e dei sofisti, parla spesso di questo fenomeno senza mai definirlo iatrosofista. Nella letteratura moderna spesso si dà a questo termine il significato di 'professore di medicina' e questa interpretazione non è sbagliata, a condizione di non intenderla in senso moderno, come equivalente del professore universitario di medicina. Ma sarebbe errato credere che gli iatrosofisti fossero i soli medici a insegnare e che l'insegnamento della medicina, nella Tarda Antichità, fosse puramente teorico e separato dalla pratica. In base alle informazioni che Eunapio (senza usare questo termine) ci dà sugli iatrosofisti Zenone di Cipro, Magno di Antiochia (ovvero Nisibe), Oribasio di Pergamo e Ionico di Sardi, questi uomini molto famosi praticavano la medicina mentre tenevano dei corsi: Zenone, per esempio, nella scuola privata che aveva fondato ad Alessandria, e Magno nel locale pubblico che aveva a disposizione in questa città (Vitae philosophorum et sophistarum). Il loro insegnamento comprendeva un'istruzione pratica (érgon) e un'istruzione teorica (lógos), ma naturalmente uno iatrosofista, come gli altri medici, poteva essere più incline e più abile nell'una o nell'altra. Alcuni medici, come Galeno a Roma, smisero abbastanza presto di fornire un insegnamento orale e pubblico, altri invece, come Gesio a Costantinopoli, cominciarono soltanto tardi a tenere lezioni pubbliche (Vita Isidori, ed. Zintzen, frr. 334-335).
Poiché nell'Antichità la retorica aveva un'importanza così rilevante, l'insegnante che sapeva parlare con eleganza e dare ai suoi corsi una forma ben strutturata secondo le regole dell'arte, aveva di gran lunga la meglio sui colleghi meno eloquenti. È per questo che, anche prima che si cominciasse a commentare principalmente le opere diventate canoniche, i medici che avevano un'istruzione adeguata, che esercitavano nelle grandi città o andavano di città in città, dovettero sforzarsi di parlare bene per conquistarsi una buona clientela e per attrarre un gran numero di allievi. Il fenomeno è dunque molto più antico del termine che è stato creato in seguito per designarlo.
Quanto al contenuto dell'insegnamento teorico ad Alessandria nel V e VI sec., esso molto verosimilmente consisteva essenzialmente nella lettura dei commenti di Galeno sui principali scritti di Ippocrate e in commenti al canone degli scritti di Galeno. La medicina pratica s'imparava, secondo una tradizione quasi millenaria, accompagnando il maestro nelle visite ai malati e c'erano certamente molti medici che trasmettevano la loro arte soltanto in questo modo; sembra tuttavia poco probabile che alcuni medici si siano limitati a tenere dei corsi.
La formazione e lo status sociale dei medici nell'Impero romano
La formazione dei medici in epoca imperiale non era regolamentata e tanto meno controllata dallo Stato; non sappiamo quasi nulla sulla sua durata media ed è anche probabile che una durata media non ci fosse. La formazione medica di uno schiavo non era certamente la stessa di quella di un uomo che apparteneva alle classi alte e aveva i mezzi per studiare in molte città presso diversi maestri, come per esempio Galeno, che studiò a Pergamo, Smirne, Corinto e Alessandria. L'affermazione di Galeno che l'istruzione di un medico presso i membri della scuola metodica durava solamente sei mesi potrebbe essere stata un'esagerazione malevola, diretta contro una scuola che egli detestava. Per quanto riguarda l'istruzione degli schiavi-medici, possediamo alcuni epitaffi che attestano di schiavi morti molto giovani (a 19 o 20 anni) ai quali era stato, ciò nonostante, già conferito il titolo di medico. Ma la cosa non è così sorprendente come può sembrare a prima vista rispetto al nostro sistema moderno considerando che l'istruzione degli schiavi cominciava molto presto, a circa 14 anni, e che la loro formazione durava due, al massimo tre anni, uno schiavo poteva benissimo essere medico a 19 anni e anche prima. Questi schiavi-medici morti giovani non potevano certo avere molta esperienza, ma avevano sicuramente terminato la loro istruzione, che doveva corrispondere a quella della media dei medici. Si può supporre inoltre, analogamente a quanto accadeva con altre formazioni di schiavi (per es., per la stenografia), che il padrone firmasse con lo schiavo-medico un contratto; lo schiavo, una volta diventato medico, lavorava in gran parte per conto del padrone e poteva essere venduto a un altro padrone o essere affrancato, pagando una somma più o meno considerevole, ma in genere conservava degli obblighi rispetto al suo ex padrone. Non sembra che siano esistiti schiavi-medici pubblici, cioè al servizio di una città, contrariamente a quanto avveniva per gli agrimensori.
Nelle grandi case private, che possedevano più schiavi-medici e, a maggior ragione, nella casa imperiale c'era una certa gerarchizzazione. I decuriones e i superpositi medicorum, per esempio, in genere erano liberti. Grazie alla legislazione imperiale conosciamo i gradi superiori della scala gerarchica dei medici nella casa imperiale, composta generalmente di uomini liberi (ingenui) (Codex Theodosianus, XIII, 3, 12, 16); c'erano gli archiatri, cioè i medici di corte, alcuni dei quali avevano la dignità di conte di primo o di secondo grado, ma i medici potevano appartenere anche al circolo degli 'amici' degli imperatori o al consilium principis, il che implicava una posizione sociale eminente. Questo fenomeno non si riscontra soltanto a partire dal III sec. d.C., ma già al tempo di Augusto. Sin dall'inizio dell'epoca imperiale, e già alla fine della Repubblica, la professione del medico, contrariamente a quanto si è detto spesso, godeva di una certa stima, cosicché i cittadini romani liberi (ingenui) e di buona famiglia si sentivano spinti ad abbracciare questa professione.
A Roma e nelle città dell'Italia e delle provincie ellenizzate, s'incontravano ovunque medici pubblici (chiamati anch'essi archiatri come i medici di corte); erano medici assunti dalla città, probabilmente per avere sempre un aiuto medico a disposizione in caso di epidemie o di affluenza improvvisa in occasione delle grandi feste religiose; tuttavia, per la Gallia non possediamo indizi che provino l'esistenza di una tale istituzione.
Roma aveva, almeno a partire dal IV sec., ma probabilmente già prima, più archiatri, uno per ogni quartiere (ibidem, XIII, 3, 8); verosimilmente anche altre grandi città avevano il diritto di reclutarne vari. Questi medici pubblici godevano degli stessi vantaggi degli insegnanti di grammatica, di retorica ed, eventualmente, di filosofia, che erano assunti stabilmente. La legislazione imperiale, dal II fino al V sec., garantiva loro uno stipendio, il più delle volte in natura (annonae), ossia in cibo e vestiti, oltre l'immunità e l'esenzione da incarichi civili (XIII, 3: De medicis et professoribus). Gli insegnanti di grammatica e di retorica avevano il diritto di farsi pagare in aggiunta un onorario da ogni studente, e i medici pubblici da ognuno dei propri pazienti; non si pretendeva assolutamente da loro che curassero i malati gratuitamente e tutt'al più ci si aspettava, tenuto conto del fatto che essi ricevevano uno stipendio dalla città, che non si occupassero soltanto dei ricchi, ma anche dei tenuiores, ossia di gente di umile condizione (XIII, 3, 8). Si dava anche per scontato che i medici pubblici insegnassero (XIII, 3, 3). Per essere assunti come archiatri a Roma, dove operavano numerosi medici pubblici, bisognava che questi medici si pronunciassero a favore della candidatura, il che non avveniva per il tramite di un esame delle conoscenze professionali, ma sulla base della buona reputazione del candidato. Nelle città medie e piccole era probabilmente il consiglio della città a essere incaricato dell''approvazione', che si fondava sempre sugli stessi criteri.
La mobilità degli altri medici ‒ altri cioè dai medici pubblici, dagli schiavi-medici e, in generale, anche dai liberti ‒ era grande; essi erano romani liberi (ingenui), spesso di ottima famiglia, e, per la maggior parte, stranieri: greci, ebrei, egiziani, ecc., che avevano ricevuto la cittadinanza romana ed erano nati liberi da genitori liberi. Lo stile di vita di epoca ellenistica, vale a dire quello del medico che andava di città in città, si era ampiamente mantenuto. L'affluenza dei medici greci in Italia e soprattutto a Roma è sempre stata considerevole ed è stata, d'altra parte, sin dalla fine della Repubblica, la condizione che ha permesso lo sviluppo della scienza medica nella parte latina dell'Impero. Così, la medicina ha iniziato a svilupparsi in Gallia per opera di medici greci, venuti prima a Marsiglia e poi penetrati a poco a poco nelle altre provincie della Gallia a mano a mano che avanzavano la conquista romana e l'organizzazione dell'amministrazione. La medicina celtica, quella dei druidi, fu distrutta dai Romani, insieme con tutte le altre loro pratiche; questo processo, avviato con Augusto, fu terminato sotto Tiberio. Con l'andare del tempo, alcuni Galli si sostituirono ai medici greci esercitando a loro volta la medicina; va notato che in Gallia, come d'altronde nelle altre regioni dell'Impero, le donne esercitavano, oltre alla diffusa professione di levatrice, in alcuni casi anche quella di medico; inoltre, esisteva poca specializzazione e sembra che i medici fossero soprattutto oftalmologi e chirurghi.
Conclusioni
Durante l'Impero romano, per l'esercizio della medicina l'apporto della scienza medica greca fu determinante e la sua influenza si estese fin nei territori più lontani della conquista romana, dove si diffuse, aiutata dal bilinguismo degli strati sociali elevati, grazie ai medici greci che vi esercitavano il loro mestiere; gli scritti medici greci trovarono dovunque nell'Impero romano un'ampia diffusione. La situazione cambiò però dopo il 395, con la separazione dell'Impero d'Oriente e dell'Impero d'Occidente, che ebbe come conseguenza una considerevole diminuzione della conoscenza del greco nell'Impero d'Occidente. Soprattutto a partire da questa data si cominciarono a tradurre integralmente in latino le opere mediche greche, specialmente nell'Africa del Nord, dove il contatto con la lingua greca si mantenne ancora per un certo tempo, come, d'altra parte, anche in Sicilia e nell'Italia meridionale; successivamente si eseguirono traduzioni latine di opere greche di medicina anche nel resto d'Italia, per esempio a Ravenna, a Roma e a Napoli. Come per la matematica greca, la Siria e alcuni dotti arabi svolsero un ruolo molto importante nella trasmissione dei testi medici; in Siria le traduzioni iniziarono verso la fine del IV sec. e a Baghdad, nel IX sec., Ḥunayn ibn Isḥāq dirigeva un grande centro di traduzioni arabe di opere greche, che si facevano o direttamente a partire dal testo originale o attraverso traduzioni siriache. Queste traduzioni arabe di opere mediche greche influirono fortemente sullo sviluppo della medicina araba e su quello della medicina del Medioevo latino attraverso le traduzioni latine delle traduzioni arabe, talvolta passando per lo spagnolo. Soltanto relativamente tardi (a partire dal XII sec.) si ricominciò a tradurre direttamente dal greco in latino. È così, per una via complicata e sorprendente, che la scienza medica greca, come la matematica greca, ha potuto estendere la sua influenza fino al Rinascimento.
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