Scienza indiana. I professionisti della scienza e la loro formazione
I professionisti della scienza e la loro formazione
L'organizzazione indiana della società in caste, comunemente nota come 'sistema castale', consta di due sistemi paralleli che ebbero origine indipendentemente, quello del varṇa (lett. 'colore', probabilmente senza riferimento al colore della pelle) e quello della jāti (lett. 'nascita'). Le autorità brahmaniche sostenevano tuttavia, già a partire da Baudhāyana, che le jāti fossero derivate dai varṇa attraverso i matrimoni misti, e che l'appartenenza a un certo varṇa o a una certa jāti implicasse un'occupazione favorita. I quattro varṇa ‒ Brāhmaṇa, Rājanya o Kṣatriya, Vaiśya e Śūdra ‒ sono menzionati per la prima volta in un tardo inno del Ṛgveda (Veda degli inni; X, 90, 12) come categorie di una classificazione applicata in apparenza all'umanità intera. Non vi sono prove certe che i varṇa ponessero restrizioni ai propri membri rispetto al matrimonio, alla mescolanza con membri di classi diverse o al lignaggio. Piuttosto, come indica l'etimologia, i Brāhmaṇa si occupano del brahman ('incantesimi' o 'preghiere', cioè la religione), gli Kṣatriya o Rājanya del potere militare (kṣatra) e del potere politico (rājya), e i Vaiśya della gente comune (viś). La classe degli Śūdra, presumibilmente, comprende tutti gli altri membri riconosciuti della società vedica e, almeno secondo i testi di epoca più tarda, serve i tre varṇa superiori. Nel tardo periodo vedico, i primi tre varṇa sono chiamati ārya ('nobili'), mentre gli Śūdra sono definiti dāsa ('schiavi'). Ai soli Brāhmaṇa, Kṣatriya e Vaiśya è consentito apprendere i Veda ed eseguire o commissionare sacrifici vedici.
Non è noto con certezza il momento in cui l'appartenenza a un varṇa sia divenuta 'assolutamente' ereditaria. Nel corso della storia vi sono sempre stati gruppi che hanno attraversato il confine tra i varṇa, ma nei Dharmasūtra (raccolte di aforismi sulla legge religiosa e morale) e nelle Smṛti (codici tradizionali) si assume che entrambi i genitori debbano appartenere allo stesso varṇa affinché i figli ne possano essere membri. I varṇa divennero dunque, almeno in teoria, chiusi ed endogami, sebbene non esistesse, e tuttora non esista, persona od organismo deputati a verificare l'appartenenza di un individuo al varṇa del quale si dichiara membro. L'epica e i Purāṇa narrano peraltro storie di personaggi che cambiarono varṇa. Da testimonianze epigrafiche si può desumere il verificarsi di episodi analoghi anche in tempi storici.
Le norme concernenti il comportamento dei membri dei varṇa nei confronti dei membri del proprio e degli altri varṇa sono a ogni modo esaurientemente enunciate nelle Smṛti e, più tardi, nei nibandha ('trattati'). Nelle iscrizioni, poi, i sovrani affermano spesso di essere assidui difensori del sistema delle classi e degli stadi di vita (varṇāśrama) e di impedire la mescolanza tra i varṇa. Uno degli esempi più antichi è fornito dall'iscrizione pracrita in lode di Gautamīputra Sātakarṇi commissionata dalla madre Balaśrī, regina (mahādevī) Śātavāhana e nonna del mahārāja regnante, Pulumāvi, intorno alla metà del II sec. d.C. Ella dichiara che suo figlio ha scongiurato la mescolanza tra i quattro varṇa. Contemporaneamente, il mahākṣatrapa ('grande satrapo') śaka ('indo-scita') Rudradāman, rivale di Pulumāvi, dichiara di essere un rāja al quale tutti i varṇa chiedono protezione. Dunque, uno mleccha ('barbaro'), ossia un individuo che si colloca al di fuori del sistema dei varṇa, può presentare sé stesso come strenuo difensore di quel sistema, sebbene la figlia śaka di Rudradāman avesse sposato Vāsiṣṭhīputra Sātakarṇi, probabilmente fratello di Pulumāvi. È evidente come il vantaggio pratico derivante dai matrimoni reali (e probabilmente, seppure con assai minore frequenza, dai matrimoni ordinari) contasse, almeno fino a tutto il primo millennio dell'era cristiana, più dell'ideologia dei varṇa.
Agli inizi dell'era cristiana risalgono anche due attacchi di matrice buddhista al sistema dei varṇa chiusi. Si sosteneva che, secondo l'antica dottrina, un Brahmano è tale per carattere e cultura, non già per la semplice nascita (Śārdūlakarṇāvadāna e Vajrasūcī, quest'ultimo attribuito ad Aśvaghoṣa). È evidente che, nonostante la propaganda brahmanica, l'idea che l'appartenenza a un varṇa dipendesse esclusivamente dalla nascita si affermò soltanto gradualmente e, comunque, mai completamente.
I re della dinastia Śātavāhana, dunque, così come molti altri sovrani che regnarono alla fine del primo millennio a.C. e agli inizi dell'era cristiana, si atteggiavano spesso a Brāhmaṇa o Kṣatriya. Invocando il gotra ('lignaggio') materno, essi sostenevano che i loro genitori, in conformità con il dharma ('la legge religiosa e civile'), provenivano da gotra sia pure differenti, ma ammessi all'interno dei loro varṇa. Poiché la famiglia del re śaka Rudradāman adottò agevolmente un gotra (il Bṛhatphalāyana), quando una delle figlie andò in sposa a un membro di una famiglia Kṣatriya ortodossa, che si dichiarava discendente del leggendario Ikṣvāku, è di nuovo chiaro che il sistema esogamico del gotra, che operava all'interno del sistema dichiaratamente endogamico del varṇa, non era tale da impedire la combinazione di matrimoni vantaggiosi.
Il modello delle norme che, secondo le autorità del dharma, dovevano governare la vita sociale e professionale dei membri dei quattro varṇa era probabilmente rappresentato dal sistema delle jāti, lignaggi endogami i cui appartenenti erano dediti, in linea di massima, alla medesima occupazione. È stato suggerito da Morton Klass (1980) che le jāti fossero originariamente clan endogami ed egualitari che, all'epoca dell'introduzione dell'agricoltura nei vari distretti del subcontinente indiano, con conseguente produzione di surplus, diedero vita a organizzazioni corporative. Al loro interno, il clan che controllava le terre coltivabili di una certa area cedeva una quota del proprio surplus in cambio dei servizi dei clan che ancora vivevano di caccia e raccolta su terre non coltivabili, servizi prestati da aratori, pastori, vasai, barbieri, spazzini, ecc. In un'area relativamente piccola, la sotto-jāti ('sottocasta') era ‒ ed è tuttora nei villaggi indiani ‒ una comunità endogama autonoma. Essa stabilisce, con riunioni periodiche, le sue regole e le pene relative, tra le quali la più grave consiste nell'espulsione. In genere, il nome della jāti deriva dall'occupazione caratteristica o dall'animale totemico, cosicché essa appare diffusa su un'ampia porzione di territorio. Tuttavia, poiché non esiste un'autorità al livello della jāti, e le sotto-jāti sono chiuse l'una all'altra, l'unità sociale effettiva, o casta, s'identifica con la sotto-jāti. I membri dei varṇa, come pure gli intoccabili, sono divisi in jāti, a loro volta suddivisi in sotto-jāti, cosicché molti individui possiedono una duplice identità; sul piano della sotto-jāti, però, tutti i membri appartengono al medesimo varṇa.
Nelle città l'osservazione delle regole relative alla casta fu probabilmente meno rigida che nei villaggi. Durante l'epoca Maurya (321-185 a.C.), e ancora in seguito, le śreṇi ('corporazioni') autonome di mercanti, prestatori di denaro e artigiani erano costituite da individui appartenenti a jāti e varṇa diversi. Tali corporazioni potevano spostarsi da una località all'altra, i loro membri potevano anche cambiare occupazione e, poiché esse rivestivano grande importanza economica per lo Stato, era loro garantito ampio margine d'azione; spesso fornivano al re amministratori locali e regionali. Nonostante la teorica rigidità delle società indiane, una minoranza della popolazione godeva di buone opportunità e di mobilità sociale. Lo stile di vita piuttosto libero dei cittadini ricchi è efficacemente illustrato dalle storie presentate da Budhasvāmin nel suo Bṛhatkathāślokasaṅgraha (Epitome in versi della grande storia). Sebbene vi si faccia spesso riferimento alle norme del dharma sul varṇa, altrettanto frequentemente queste vengono infrante, con o senza giustificazione. Di regola i figli ereditavano le professioni dei padri, ma le consorti, gli amici e i compagni d'affari non appartenevano necessariamente ai gruppi teoricamente prescritti. Le jāti e le sotto-jāti di famiglie dedite a un certo mestiere cominciarono ad assumere una fisionomia stabile solamente alla fine del primo millennio dell'era cristiana.
Oltre alla struttura della società indiana tradizionale, straordinariamente complessa, esistono tipi di organizzazione non tradizionali, come quelli prevalenti nel Kerala, quelli praticati da gruppi religiosi ‒ come i Liṅgāyat del Karnataka, che rifiutano i varṇa ma sono raggruppati in jāti generalmente endogame, nonostante che il loro fondatore, Bāsava, predicasse l'uguaglianza ‒ e quelli vigenti presso i gruppi tribali.
Per dare un'idea dell'incredibile stratificazione della struttura della società indiana si riassumono qui i dati concernenti l'unità amministrativa britannica denominata Province Centrali. I Brāhmaṇa sono ripartiti in dieci principali divisioni territoriali: i Pañcagauḍa dell'India settentrionale includono i Sārasvata (del Panjab), i Gauḍa (della zona di Delhi), i Kānyakubja (dei dintorni di Kanauj), i Maithila (di Mithilā) e gli Uttara (dell'Orissa), mentre i Pañcadrāviḍa dell'India meridionale includono i Mahārāṣṭra (del Maharashtra), i Tailaṅga (dell'Andhra Pradesh), i Drāviḍa (del Tamil Nadu), i Karṇāṭa (del Karnataka) e i Gurjara (del Gujarat). Ciascuno di questi gruppi principali comprende numerose jāti. Gli Kṣatriya sono suddivisi in trentasei clan, a loro volta ramificati in numerosi sottoclan. I Vaiśya sono suddivisi in venti jāti maggiori e molte minori, che includono alcuni jñāti ('lignaggi') jaina. Degli Śūdra non si dà conto.
Nel 1916, R.V. Russell e R.B. Hīra Lāl hanno descritto le circa 275 jāti e alcuni jñāti in cui erano ripartiti i 16.000.000 di abitanti delle Province Centrali e del Berar. Ciascuna jāti è suddivisa in numerose 'cerchie matrimoniali'; queste includono jāti specializzate in diverse occupazioni. Per esempio, in campo agricolo si distinguono coltivatori di betel, bollitori di catecù, contadini, giardinieri, essiccatori di cereali, falciatori, erbivendoli e coltivatori di ortaggi; nel settore dell'allevamento si annoverano mandriani di bufali, mercanti di bestiame, vaccai, lattai e pastori; nel settore del vestiario e della lavorazione dei prodotti animali e vegetali si elencano lavoratori del bambù, cestai, stampatori di calicò, pulitori di cotone, filatori di cotone, tintori, coltivatori di canapa, conciatori di pellame, fabbricanti di piatti di foglie, calzolai, sarti, conciatori, filatori, tessitori e laccatori. È chiaramente improbabile che un esponente delle categorie suddette ‒ che costituivano la stragrande maggioranza della popolazione ‒ arrivasse a cimentarsi in uno śāstra, una 'scienza' tradizionale, benché molti dei mestieri menzionati richiedessero l'uso e la conoscenza di determinate tecnologie.
Coloro che, al contrario, potevano più probabilmente essere istruiti in uno śāstra ‒ oltre alle famiglie dedite a determinate occupazioni, in primo luogo quelle appartenenti al varṇa dei Brāhmaṇa ‒ erano gli astrologi (joṣī), gli auguri e divinatori (ojhā), gli scrittori e i funzionari (kāyastha). Nelle Province Centrali, il sistema delle jāti non promuoveva l'istruzione, sebbene essa fosse invece tollerata dal sistema dei varṇa.
Nel Gujarat, in particolare, vigeva un altro sistema di parentela, diffuso anche nel Rajasthan, quello, già citato, dei jñāti. Si ritiene che tali gruppi siano in parte discesi da coloni stranieri penetrati in questa regione nel corso di millenni; come le jāti, i jñāti traggono generalmente il proprio nome dalla città o dalla zona di cui sono presumibilmente originari. Per esempio, il Girinārāyaṇajñāti deve probabilmente il suo nome alla città di Girnār, il cui nome sanscrito era Girinagara; il Moḍhajñāti trae il suo nome da Modhera, l'Oisavālajñāti da Osavāla, i Prāgvāṭa forse da una località chiamata Porvāḍ, e lo Śrīmālajñāti da Śrīmala, altrimenti nota come Bhillamāla. I membri dei jñāti potevano essere sia hindu sia jaina. Se hindu, appartenevano anche a un varṇa; se jaina, non vi appartenevano, sebbene i membri jaina dei jñāti fossero tutti equiparati a Vaiśya, ossia membri della terza casta, data la frequenza con cui si dedicavano alle attività commerciali. Tuttavia, i jñāti non erano organizzazioni legate a professioni particolari; i loro appartenenti svolgevano le attività più diverse e frequenti erano i matrimoni tra membri di jñāti differenti. I jñāti compaiono a partire dal IX sec. e assumono rilevanza nel Gujarat durante il regno dei Caulukya, nella cui amministrazione sembra che i Prāgvāṭa abbiano svolto un ruolo di particolare rilievo. Alcune famiglie all'interno di questi jñāti ‒ soprattutto, ma non esclusivamente, jaina ‒ grazie alla loro ricchezza di mercanti, al loro potere politico come amministratori statali e alle opportunità a loro offerte come monaci di alto rango, favorirono lo sviluppo di una cultura intellettuale estremamente ricca nel Gujarat e nel Rajasthan, che trasse vantaggio anche dall'apporto di molte altre famiglie appartenenti al varṇa dei Brāhmaṇa.
In India l'istruzione nel campo delle scienze professionali tradizionali (śāstra) ‒ tra queste, per esempio, l'āyurveda ('medicina') e il jyotiṣa ('astronomia'), l'astrologia e la matematica, che consentivano a chi ne era esperto di guadagnarsi da vivere ‒ era ristretta ai membri della classe (varṇa) dei Brāhmaṇa e, al suo interno, ai membri di caste (jāti) o famiglie particolari; questa limitazione, tuttavia, non ebbe mai carattere assoluto. Altri śāstra, come la scienza della legge (dharmaśāstra), la retorica (alaṅkāraśāstra) o i sistemi filosofici (darśana), che fornivano poche o nessuna opportunità di lavoro al di fuori di una corte reale o di una scuola brahmanica (maṭha) ‒ seppure spesso riservati alla classe brahmanica ‒, non erano prerogativa esclusiva di caste o famiglie particolari; cionondimeno, intere generazioni di studiosi di una certa scienza (śāstrin) potevano appartenere a una stessa famiglia. Gli artigiani che dovevano padroneggiare una certa tecnica, come, per esempio, carpentieri, fabbri, scultori e perfino architetti, tendevano a formare jāti regionali, i cui membri, che pure sostenevano a volte di appartenere all'ultimo varṇa, erano spesso trattati alla stregua di intoccabili. I professionisti del campo del jyotiḥśāstra ('scienza dei corpi celesti') operavano a diversi livelli, spesso determinati di volta in volta dalla jāti di appartenenza. Per gran parte del jyotiḥśāstra non si hanno autorità femminili. La sola eccezione è costituita dal campo della divinazione; si possono qui ricordare Bāī Lākhū, Khanā e, se è lecito includerla, Nikaṣā, madre del demone (rākṣasa) Rāvaṇa. Nei villaggi esistevano spesso brahmani di basso rango che traevano oroscopi, elaboravano calendari (pañcāṅga) e svolgevano mansioni sacerdotali. Essi erano detti genericamente jyotiṣī oppure joṣī, o almeno così erano chiamate le loro jāti in gran parte dell'India settentrionale. In Assam e in Orissa, per esempio, essi erano invece noti come gaṇaka, nel Bengala come ācārya oppure daivajña, e nelle Province Centrali come bhadri oppure parsai. Tali jyotiṣī di villaggio, pur non possedendo in genere un'istruzione di livello elevato, dovevano essere in grado di calcolare fenomeni astronomici e di leggere e interpretare semplici testi sanscriti sull'astrologia e sulla divinazione. Alcuni certamente sfruttarono la limitata preparazione ricevuta per compilare i propri trattati di astrologia e di astronomia. È difficile identificarli, giacché un autore indiano raramente ammette un'origine modesta.
Per lavorare nel campo dell'astronomia teorica era necessaria una fonte di reddito, la quale poteva essere garantita dalla pratica dell'astrologia o dalla redazione di calendari o talvolta da un ricco protettore, di solito un mahārāja. Ogni corte reale aveva bisogno di un astronomo che avvertisse il re dei segni celesti incombenti, come le eclissi lunari e quelle solari o le saṅkrānti ('passaggio del Sole oppure di un pianeta da un segno zodiacale a un altro') pericolose. Numerose iscrizioni su rame del periodo antico e medievale testimoniano che i re, avvisati dai loro astronomi di corte, concedevano terre ai Brahmani allo scopo di scongiurare gli effetti malefici di un'eclissi; spesso, quindi, in caso di eclissi solare, a causa dell'impossibilità di determinare dove questa sarebbe stata visibile (date le imperfette conoscenze astronomiche), le terre erano concesse affinché l'infausta eclissi stessa fosse evitata. Tuttavia risulta spesso difficile stabilire se determinati astronomi godessero della protezione di sovrani. Sembra che Brahmagupta ne beneficiasse; egli menziona infatti Vyāghramukha come sovrano regnante allorché compose, nel 628, il suo Brāhmasphuṭasiddhānta e inoltre fa riferimento a dimostrazioni effettuate davanti al re allo scopo di stupirlo. I discendenti di Bhāskara furono al servizio dei re Yādava di Devagiri agli inizi del XIII sec., ma egli non menziona un patrono reale. In realtà, la protezione regale è assai più di frequente documentata nei secc. XVI, XVII e XVIII, allorché sembra che molti jyotiṣī siano stati alle dipendenze di imperatori e principi mughal, mahārāja rajput e altri protettori reali. Godettero talvolta di protezione quei pochi che scrissero di matematica, come Mahāvīra, che fu alle dipendenze di Amoghavarṣa Rāṣṭrakūṭa intorno all'850; alcuni insegnarono matematica nelle scuole, come molti tra i commentatori della Līlāvatī (La giocosa) e del Bījagaṇita di Bhāskara. Gli autori di testi di aritmetica per la pratica commerciale, quali Śambhunātha, probabilmente basarono le proprie opere sull'esperienza personale. Alcuni protettori reali dei jyotiṣī, presumibilmente kṣatriya, tra i quali si annoverano anche dei mahārāja, figurano essi stessi, a buon diritto, tra gli autori di testi sul jyotiṣa. Peraltro, di fatto, ai non brahmani era generalmente preclusa la possibilità di raggiungere un livello di istruzione sufficiente a poter scrivere sul jyotiṣa. Un'eccezione era costituita dai monaci jaina, i quali apprendevano il jyotiṣa dai maestri (ācārya) nell'ambito del proprio lignaggio (gaccha). Il gaccha aveva pertanto una grande importanza per i giovani jaina, giacché nel suo ambito essi apprendevano non soltanto i precetti della loro religione, ma anche le scienze secolari.
Come i jyotiṣī, i medici erano in massima parte brahmani; erano generalmente chiamati vaidya, ma soltanto i Vaidya del Bengala e quelli dell'Assam, noti come Bez, formavano una jāti. Come jāti questi vaidya bengalesi definiti Ambaṣṭha, ossia discendenti di coloro che nacquero da padre brahmano e madre vaidya, erano reputati inferiori sia ai brahmani sia agli Kṣatriya. In altre zone dell'India non esisteva una jāti che raggruppasse coloro che praticavano la medicina, sebbene diverse jāti ‒ gli Śākadvīpī, per esempio ‒ prestassero cure mediche in aggiunta allo svolgimento di altre funzioni. I monaci jaina dedicavano particolare attenzione all'āyurveda ('medicina'), e tra loro molti scrissero trattati su questo argomento. Si è anche validamente sostenuto che l'āyurveda fosse una creazione degli antichi monasteri buddhisti (Zysk 1991). Come avveniva per i jyotiṣī, le corti reali avevano i propri vaidya ('medici'). Ciò determinò la partecipazione di non brahmani, in particolare Kṣatriya e Kāyastha (la casta degli scribi), alla formazione della letteratura āyurvedica. Mentre questi gruppi presero parte allo sviluppo, alla pratica e alla trasmissione dell'āyurveda, la scienza rimase essenzialmente nelle mani dei Brahmani.
Il campo dell'artigianato era appannaggio dei cosiddetti Śūdra 'puri'. Le principali jāti sono: Tanti ('tessitori'), Kulāla ('vasai'), Karmakāra ('fabbri'), Suvarṇakāra ('orafi'), Sūtradhāra ('carpentieri e architetti') e Kasera ('ramai'); in diverse regioni dell'India tali caste possono assumere denominazioni differenti. Tra queste, soltanto la casta dei Sūtradhāra ha prodotto una letteratura, vāstuvidyā ('scienza dell'architettura'), che comprende sia la costruzione di edifici pubblici e privati sia la realizzazione di statue. L'autore Sūtradhāra di maggiore spicco fu Maṇḍana, attivo intorno alla metà del XV secolo. La trasmissione delle tecnologie manifatturiere avveniva in grandissima parte all'interno delle famiglie mediante l'istruzione orale e l'esempio pratico.
Nella regione del Kerala esistono diverse usanze peculiari relative al matrimonio, alla famiglia e all'eredità che hanno avuto importanti conseguenze sullo studio dell'astronomia e della matematica. I Nāyar, di origine dravidica, benché per via dei loro intrecci matrimoniali siano mescolati a Brahmani, sono matrilineari. La famiglia estesa, costituita dai discendenti dei suoi membri femminili, è detta taravād. Dopo essersi unite da bambine in un matrimonio pro forma con un Brahmano, le donne possono avere come amante qualsiasi Nāyar di pari rango o qualsiasi Brahmano; i bambini saranno allevati all'interno del loro taravād. I fratelli/zii e le sorelle/zie partecipano tutti della prosperità di cui gode il taravād. Grazie, in parte, alla disponibilità di donne nāyar, i brahmani Nampūtiri furono in grado di conservare le proprie norme familiari, in base alle quali poteva sposarsi legalmente soltanto il figlio maggiore di un lignaggio oppure, nel caso in cui questi fosse morto prima di avere un figlio, il più anziano dei fratelli rimasti. I fratelli più giovani vivevano con il maggiore nella proprietà familiare (illam), ma non avevano eredi legittimi. In tal modo (e ricorrendo, in caso di necessità, all'adozione), la proprietà rimaneva perennemente indivisa poiché passava sempre al discendente più anziano in linea diretta del suo fondatore. I fratelli, dei quali si doveva provvedere al sostentamento presso l'illam, erano liberi di dilettarsi, tra l'altro, con lo studio degli śāstra ('scienze'). Questa peculiare tradizione sembra sia stata seguita anche dai brahmani Emprāntiri, di rango sociale inferiore a quello dei Nampūtiri e originari di Tulava, nel Karnataka meridionale. Molti dei membri della scuola di astronomia e di matematica del Kerala erano Nampūtiri o Emprāntiri; tuttavia, i membri della scuola, concentrata in piccoli villaggi nei pressi di Cochin, non appartenevano esclusivamente al varṇa dei Brahmani.
I 'nati due volte' (dvija) ‒ ossia i maschi (e talora le femmine) appartenenti alle classi dei Brāhmaṇa ('sacerdoti'), degli Kṣatriya ('guerrieri') e dei Vaiśya ('artigiani', 'commercianti', ecc.), sottoposti al rito del conferimento della cordicella sacra (upanayana) ‒ adottavano solitamente il modo di vita (āśrama) del brahmacarya, ossia la condizione di studente celibe. In accordo con la più antica versione del sistema degli āśrama, originatosi presumibilmente nel V sec. a.C., il dvija che era stato iniziato tramite la cerimonia dell'upanayana (a un'età che varia a seconda delle fonti, ma più di frequente per i Brāhmaṇa a otto anni, e non oltre i sedici; per gli Kṣatriya a undici, e non oltre i ventidue; per i Vaiśya a dodici, e non oltre i ventiquattro) doveva dedicare dodici anni allo studio di varie discipline, oltre a quello dei Veda. Tale pratica educativa risale alle fasi più antiche della società aria; ne è prova l'esistenza delle Saṃhitā ('raccolte') vediche (alcune parti del Ṛgveda sono attribuibili alla metà del secondo millennio a.C.), dei Brāhmaṇa, degli Āraṇyaka e delle Upaniṣad più antiche. Questi testi furono composti e trasmessi oralmente; alcuni furono in uso per più di un millennio prima che in India vi fossero gli strumenti per dar loro forma scritta. Anche dopo l'introduzione della scrittura, la memorizzazione rimase per molto tempo il metodo di conservazione preferito. La formazione di studenti in numero sufficiente ad assolvere il compito di preservare i testi sacri, e successivamente anche quelli secolari, testimonia lo straordinario successo dell'antico sistema educativo indiano. Il suo sviluppo può essere ricostruito a partire da riferimenti contenuti negli strati più tardi del Ṛgveda (Veda degli inni). Quest'ultimo menziona le funzioni dei sacerdoti delle quattro Saṃhitā (Ṛgveda, X, 71, 11): la recitazione a memoria di versi (ṛk), il canto (sāman), l'enunciazione della sapienza atharvavedica e la sorveglianza dei sacrifici (yajus). Ciò dimostra che all'epoca esistevano già quattro tipi di esperti ben istruiti. Si fa menzione anche di un brahmacārin (ibidem, X, 109, 5), o praticante del brahmacarya, ma forse solamente nel senso di qualcuno che è casto. In un inno atharvavedico (Atharvaveda, ed. Roth, XI, 5) di lode al brahmacārin, quest'ultimo è invece chiaramente inteso come uno studente sotto la tutela di un maestro (ācārya).
I Brāhmaṇa contengono riferimenti più espliciti al brahmacārin e al suo rapporto con il proprio ācārya; a tale proposito si veda, per esempio, lo Śatapathabrāhmaṇa (Brāhmaṇa dei cento sentieri; ed. Gauḍa, XI, 3, 3, 1-7; XI, 5, 4, 1-18). È però nelle Upaniṣad che il sistema è più esaurientemente spiegato. Nella Chāndogyopaniṣad (Upaniṣad dei cantori; VII, 1, 2 e 4; VII, 7, 1) Nārada riferisce al suo ācārya, Sanatkumāra, di conoscere già (seguendo l'interpretazione di Śaṅkara) il Ṛgveda, lo Yajurveda (Veda delle formule sacrificali), il Sāmaveda (Veda dei canti) e l'Atharvaveda (Veda degli Atharvan), come pure l'itihāsapurāṇa ('tradizioni antiche'), il veda dei Veda ('grammatica'), il pitrya (o śrāddha, 'offerte agli antenati'), il rāśi ('calcolo'), il daiva ('divinazione'), il nidhi ('scienza della cronologia'), il vākovākya ('dialettica'), l'ekāyana ('governo'), la devavidyā ('etimologia'), la brahmavidyā ('pronuncia dei Veda', rituali vedici e prosodia vedica), la bhūtavidyā ('demonologia'), la kṣatriyavidyā ('scienza degli Kṣatriya', tiro con l'arco), la nakṣatravidyā ('scienza dei nakṣatra') e la sarpadevajanavidyā (che comprende: arte d'incantare i serpenti, profumeria, danza, canto, retorica, artigianato, ecc.). Nārada è qui rappresentato nell'atto di ricercare la conoscenza dell'ātman ('anima') presso un guru; egli doveva dunque aver già appreso le vidyā ('scienze') suddette da uno oppure da diversi guru.
La forma originaria del brahmacaryāśrama ('stadio di vita dello studente brahmanico'), così come ci è nota dai Dharmasūtra (raccolte di aforismi sulla legge religiosa e morale), prevedeva che il giovane brahmacārin fosse istruito dal suo guru, in genere suo padre, in un particolare caraṇa ('scuola vedica'), il quale seguiva una determinata śākhā ('recensione') dei Veda e si basava su una specifica raccolta di Kalpasūtra (raccolte di aforismi sull'esecuzione dei sacrifici vedici). Dopo il saṃskāra ('rito') dell'upanayana, lo studente viveva nella casa del suo guru e lo serviva in vari modi. L'istruzione era altrimenti gratuita, sebbene alla fine dei suoi studi l'allievo (śiṣya) dovesse fare un regalo, una vacca per esempio, al maestro. L'apprendimento avveniva ovviamente attraverso la memorizzazione e nel caso dei testi vedici ciò continuò anche dopo l'introduzione della scrittura. Per le discipline secolari vi erano maestri addetti allo studio avanzato. Spesso, di nuovo, il guru s'identificava con il padre o con un altro parente maschio, qualora lo studente seguisse la professione di famiglia o uno śāstra ('disciplina', 'scienza') tradizionale.
La Yājñavalkyasmṛti (Smṛti di Yājñavalkya; I, 3) menziona le quattordici materie 'vediche' di competenza dei brahmani: i Veda stessi (Ṛgveda, Yajurveda, Sāmaveda e Atharvaveda); i Purāṇa; il Nyāyasūtra (Aforismi sul Nyāya) di Gautama; i Mīmāṃsāsūtra (Aforismi della Mīmāṃsā) di Jaimini; il Dharmaśāstra (Trattato della legge religiosa e morale), presumibilmente una delle più antiche smṛti; i sei Vedāṅga, le membra dei Veda (i Kalpasūtra relativi ai rituali, cioè lo Śrautasūtra, il Gṛhyasūtra e il Dharmasūtra della propria scuola; il vyākaraṇa, o 'grammatica', cioè l'Aṣṭādhyāyī di Pāṇini; il jyotiṣa o 'astronomia calendaristica', ossia il Jyotiṣavedāṅga di Lagadha; il nirukta o 'analisi semantica', cioè il Nirukta di Yāska; la śikṣā o 'fonetica', sulla quale si potevano scegliere diversi testi; il chandas o 'metrica', ossia il Chandaḥsūtra di Piṅgala). È interessante constatare come non si faccia menzione dei Brāhmaṇa, degli Āraṇyaka e delle Upaniṣad. Questi erano forse inclusi nel termine generale 'Veda'. Le 14 scienze 'vediche' sono ripetute anche nel Viṣṇupurāṇa (III, 6, 25-26), con l'aggiunta di quattro discipline: āyurveda ('medicina'), dhanurveda ('tiro con l'arco'), gāndharva ('musica') e arthaśāstra ('scienza della vita pratica e del governo'). Il commentatore, Ratnagarbha Bhaṭṭācārya, ritiene che con esse si faccia riferimento alle opere di Dhanvantari, Bhṛgu, Bharata (il Nāṭyaśāstra) e Bārhaspatya.
Questi argomenti certamente non esauriscono l'elenco di materie che un guru poteva insegnare. Attraverso il metodo tradizionale, il maestro trasmetteva al suo allievo ogni sfumatura di pensiero, ogni pratica o pensiero religioso, ogni scienza pratica o teorica, ogni stile letterario, ogni aspetto del dharma. Nella fase più antica i testi di ciascuno śāstra furono composti in forma di raccolte di aforismi (sūtra); successivamente furono posti in versi, affinché gli studenti potessero memorizzarli facilmente. Oltre a favorire il processo di memorizzazione, la funzione del guru consisteva nello spiegare al neofita il testo base (mūla), spesso oscuro. In questo modo ebbero origine molti dei commentari in prosa di cui ancora oggi si fa uso. La persistenza del sistema guru-śiṣya e il suo rapporto con la conservazione delle professio-ni (e delle letterature) tradizionali all'interno delle famiglie possono essere illustrati mediante alcuni esempi tratti dal jyotiḥśāstra e dal dharmaśāstra.
Il sistema di istruzione orale nella tradizione vedica offerto da un guru ai propri figli, e talora ad altri allievi, finalizzato principalmente alla conservazione, tramite la memorizzazione, dei testi sacri e dei rituali a questi associati, divenne inizialmente la caratteristica primaria dell'āśrama ('stadio di vita') del brahmacarya (lo status di studente brahmanico) e successivamente, intorno agli inizi dell'era volgare, il metodo preferito di istruzione nel campo dei diversi śāstra. Le forme letterarie in cui questi śāstra si presentano furono determinate da questo sistema educativo. Lo studente memorizzava un mūla, il testo base, che era composto in sūtra ('aforismi') o in versi, e apprendeva il significato del mūla con l'ausilio dei commenti scritti dal proprio e dagli altrui guru. Insieme con lo sviluppo delle jāti ('caste') su base professionale e delle biblioteche familiari, questo sistema fece sì che gli śāstra indiani tendessero ad assumere un carattere spiccatamente locale. Molti scienziati indiani non avevano, infatti, che scarsi rapporti con gli studiosi residenti al di fuori del proprio circoscritto territorio.
Il paradigma guru-śiṣya, cioè l'insegnamento impartito dal maestro (guru) a un singolo allievo (śiṣya), o a un limitato numero di allievi, principalmente tramite memorizzazione, rappresentava in India il normale metodo di istruzione. Tale metodo prevaleva anche nei mahāvihāra ('monasteri') buddhisti, nei gaccha ('comunità') jaina e nei maṭha ('cenobi') hindu, ove erano principalmente insegnate idee di carattere religioso e filosofico, sia pure con una certa mescolanza di materie secolari; esistono tuttavia testimonianze concernenti istituzioni religiose, sia formali sia informali, all'interno delle quali era insegnato uno śāstra ('scienza', 'disciplina') secolare, l'astronomia. In varie epoche, esistettero istituzioni analoghe deputate all'insegnamento di śāstra come l'āyurveda ('medicina'), l'alaṅkāra ('retorica'), ecc.; a due di queste scuole, quella di Āryabhaṭa e quella di Pāṭṇā, è dedicata la Tav. II.
In India le famiglie costituivano spesso la cornice istituzionale nell'ambito della quale si procedeva sia alla formazione di esperti nei vari śāstra sia alla creazione, espansione e conservazione delle biblioteche. L'istruzione all'interno delle famiglie era normalmente indirizzata ai giovani membri e di frequente rappresentava un'occasione per la redazione di un commentario al testo memorizzato dallo studente. Alcuni commentari appaiono però originariamente composti per la lettura in classi numerose di studenti, invece che in ambito familiare. Un esempio è il Vāsanābhāṣya, commentario al Khaṇḍakhādyaka (Bocconcini) di Brahmagupta, pubblicato da Āmarāja, figlio di Mahādeva, nel 1200 circa. Āmarāja, membro del Janyālayakula (famiglia che fu al servizio dei mahārāja Caulukya del Gujarat dall'XI al XIII sec.), era lo zio del Mahādeva che compose i commentari alla Cintāmaṇisāraṇikā (Dispiegatrice della gemma dei desideri) di Daśabala nel 1258 e al Jyotiṣaratnamālā (Collana di gioielli dell'astronomia) di Śrīpati nel 1264. Abitò ad Ānandapura, città celebrata per la sua cultura e per essere stata il luogo d'origine dei brahmani Nāgara. Nonostante l'interesse familiare nei confronti dell'astronomia, Āmarāja studiò con un Trivikrama, evidentemente appartenente a un'altra famiglia, il quale scrisse, nel 1180, un supplemento al Khaṇḍakhādyaka, intitolato Khaṇḍakhādyakottara. Sembra che il Vāsanābhāṣya fosse stato originariamente concepito come testo per una classe di ragazzi (bāla). Per esempio, nel commento a Khaṇḍakhādyaka, I, 10-11 (Vāsanābhāṣya, p. 29), viene citato un verso che essi cantavano, mentre nel commento a Khaṇḍakhādyaka, I, 12 (Vāsanābhāṣya, pp. 31-32) s'insegna agli studenti, scorrettamente, come disegnare un modello planetario utilizzando un cerchio eccentrico sul quale ruota il centro di un epiciclo. Sembra che tra i membri della 'scuola' a cui appartennero Trivikrama e Āmarāja vi fossero anche Durga e Rīhlīya.
Un altro esempio di testo approntato per una classe consiste nel commentario (ṭīkā) al Karaṇakutūhala di Bhāskara, redatto a Mahāḍ (50 miglia a sud-ovest di Pune) da Ekanātha intorno al 1370. La prova del fatto che tenesse lezioni in una classe risiede principalmente in una versione manoscritta del commentario la quale presenta un testo alterato da aggiunte, omissioni e sostituzioni di parole e frasi, senza che questo ne comprometta la sostanza. Tale versione è verosimilmente da considerare una trascrizione di lezioni non rivista dal maestro, Ekanātha stesso. Questi fa riferimento a numerose opere assai poco note: la Kheṭasiddhi (Computazione dei pianeti) di Padmanābha, il Karaṇābhīṣṭa (Desiderato dei karaṇa) di Bhānu, e il Karaṇaśiromaṇi (Diadema dei karaṇa) di Vaidyanātha. Non è chiaro se costoro, insieme con Ekanātha, formassero una 'scuola'.
Il commentario di Ekanātha è collegato a quello della medesima opera composto da Caṇḍīdāsa a Yodhapura intorno al 1545. Caṇḍīdāsa commenta infatti soltanto i capitoli I-VIII del Karaṇakutūhala di Bhāskara, mentre le sezioni concernenti gli ultimi due capitoli sono prese a prestito dall'opera di Ekanātha. A proposito di Karaṇakutūhala, I, 18, Caṇḍīdāsa cita una coppia di versi che danno i rāmabīja, quindi osserva: "Questo rāmabīja non è nel Karaṇakutūhala, ma ci fu un mercante di nome Rāma che, avendo investigato [l'argomento], lo elaborò. È entrato nella nostra tradizione (sampradāya), ma non è in un libro; è applicato a causa del consenso della tradizione". Il sampradāya al quale appartenevano Rāma e Caṇḍīdāsa era depositario, come quello di Āryabhaṭa e Bhāskara, di un corpus di insegnamenti orali che fu sicuramente tramandato da maestro ad allievo. Rāma, un mercante, non fu un maestro, ma un allievo, la cui brillante idea fu accolta dalla scuola; un altro membro della scuola fu probabilmente Dayāratna Muni, allievo di Kīrtivardhana, che curò una revisione del commentario di Caṇḍīdāsa intorno al 1560, molto probabilmente a Koṭā. Sembra poi che Dāmodara, che scriveva nel 1551, sia stato allievo di Caṇḍīdāsa.
Un ulteriore indizio dell'esistenza di una scuola può consistere nella comune provenienza di molte famiglie di jyotiṣī ('astronomi') dalla medesima località. La regione più feconda, da questo punto di vista, è quella che circonda Pārthapura (l'attuale Pathri, circa 60 miglia a est di Pratiṣṭhāna), sul fiume Godavari. Nella prima metà del XIV sec. visse a Pārthapura una famiglia appartenente al Bhāradvājagotra, che aveva a capo Rāma; durante il XVI sec. il suo pronipote Jñānarāja, i figli di questi, Cintāmaṇi e Sūryadāsa, il nipote di Jñānarāja, Ḍhuṇḍhirāja, e il figlio di questi, Gaṇeśa, scrissero tutti ampiamente di jyotiḥśāstra ('astronomia', 'calendaristica') e nell'ultimo decennio del XIX sec. vivevano ancora a Pārthapura i loro discendenti. A Golagrāma, che faceva parte di Pārthapura, viveva nel tardo XV sec. un'altra famiglia del Bhāradvājagotra, che aveva a capo un Rāma. Il nipote di questi, Divākara, si recò a Nandigrāma per studiare con Gaṇeśa, e successivamente si trasferì a Kāśī (Benares). Qui operarono i suoi figli Viṣṇu, Mallāri, e Viśvanātha, i suoi nipoti Nṛsiṃha e Tryambaka, e i suoi pronipoti Divākara, Kamalākara e Raṅganātha, i quali sono tutti annoverati tra i più importanti jyotiṣī di Kāśī durante il XVII secolo. Sempre a Pārthapura, nel 1571, fu composta da Madhusūdhana una serie di tavole basate sul Brāhmapakṣa. Intorno alla metà del XVII sec. visse nella stessa città un altro autore di jyotiḥśāstra di nome Vīreśvara. A Kheṭa (la moderna Gangakheir), città sul fiume Godavari situata a circa 30 miglia a sud-ovest di Pārthapura, visse nella prima metà del XVI sec. una famiglia appartenente al Vasiṣṭhagotra, che aveva a capo Kṛṣṇadeva. I suoi nipoti, Kāśīrāja e Ballāla, furono entrambi rinomati jyotiṣī. Di gran lunga più importante fu però il figlio di Kāśīrāja, Vīrasiṃha, che attorno al 1670 prestò servizio come jyotiṣarāja ('re dell'astronomia', 'primo astronomo') presso la corte di Anūpasiṃha, mahārāja di Bikaner dal 1669 al 1698. A Bikaner, il mahārāja e il jyotiṣarāja realizzarono una straordinaria biblioteca, ricca di testi rari sul jyotiḥśāstra. Questa ineguagliabile concentrazione di famiglie di astronomi nel distretto di Pārthapura, specialmente nel XV e nel XVI sec., si spiega soltanto con la presenza di una scuola particolarmente vitale.
La tradizione di maggior spicco nella storia del jyotiḥśāstra è però incarnata dalla scuola del Kerala (v. sopra). Essa è caratterizzata da una successione ininterrotta di padri e figli, e di guru e śiṣya, che va dal XIII al XIX secolo. Tra i suoi membri spiccano Govindabhaṭṭa, vissuto ad Ālattūr tra il 1236 e il 1314, Parameśvara, attivo tra il 1380 circa e il 1460 nella medesima località, Mādhava, vissuto a Saṅgamagrāma tra il 1380 circa e il 1420, Nīlakaṇṭha, nato a Kuṇḍapura nel 1444, Jyeṣṭhadeva, attivo ad Ālattūr agli inizi del XVI sec., Citrabhānu, che scrisse a Śivapura nel 1530, Śaṅkara Vāriyar, che morì intorno al 1560, Nārāyaṇa, che completò la Kriyākramakarī di Śaṅkara, e Acyuta Piṣāraṭi, nato a Kuṇḍapura e morto nel 1612. A costoro si deve uno tra i più straordinari contributi al pensiero matematico anteriore al XVIII secolo.
Gli esempi citati dimostrano che le 'scuole' di jyotiḥśāstra ebbero spesso origine in vario modo al di fuori delle famiglie di jyotiṣī, sebbene queste ultime rimanessero l'ambito primario della creazione e conservazione dello śāstra stesso. Tali considerazioni valgono indubitabilmente anche per gli altri śāstra. I dati necessari a sostenere tale affermazione non sono stati ancora, tuttavia, convenientemente raccolti.
I monasteri od ordini monastici, buddhisti, jaina, e talvolta hindu, erano le istituzioni ove aveva luogo non solo l'insegnamento religioso di livello avanzato, ma anche quello filosofico e relativo ad altri śāstra. Se il compito dei monasteri era quello di insegnare ai neofiti le pratiche monastiche e settarie, in alcuni tra questi la presenza di monaci particolarmente colti e di biblioteche attraeva studenti ed eruditi da tutta l'India e, nel caso dei monasteri buddhisti, da tutto l'Oriente e il Sud-est asiatico. Nel corso del loro sviluppo questi centri di cultura beneficiarono di donazioni che consentirono loro di ospitare, nutrire e vestire i monaci studenti.
Buddhismo
Inizialmente le opere canoniche buddhiste erano tramandate a memoria dai membri della comunità (saṅgha). Come gli studenti brahmanici (brahmacārin), i giovani monaci (bhikkhu) buddhisti erano addestrati ad apprendere parola per parola varie sezioni degli estesi testi pāli del canone, o Tipiṭaka (in sanscrito Tripiṭaka). Le 'Tre ceste' del canone contengono i Sutta, ossia gli insegnamenti del Buddha, il Vinaya, che espone la disciplina monastica, e l'Abhidhamma, che verte su questioni dottrinali (del Vinaya e dell'Abhidhamma esistono più versioni). Sembra inoltre che ai bhikkhu fossero insegnate anche nozioni di medicina. Il Tipiṭaka fu verosimilmente posto in forma scritta a partire da un'epoca compresa tra il I sec. a.C. e il I sec. d.C., ma la tradizione della memorizzazione continuò in seguito ancora per lungo tempo.
È soltanto a partire dalla metà del primo millennio d.C. che si hanno testimonianze della funzione scolastica di monasteri (vihāra) o complessi di monasteri (mahāvihāra), a volte detti 'università' dagli studiosi moderni. Sebbene un vihāra di questo tipo esistesse probabilmente a Valabhī, in Saurāṣṭra, nel VI sec., la maggior parte di questi centri si trovava nell'India orientale, soprattutto in Magadha (Bihar), in Bengala e in Kaliṅga (Orissa). A Nālandā, un villaggio a poche miglia dall'antica capitale del Magadha, Rājagṛha, fu fondato un monastero buddhista poco dopo la visita di Faxian, nella prima decade del V sec., probabilmente durante il regno di Kumāragupta I, il mahārājādhirāja ('imperatore') Gupta (415-455 ca.). Secondo Xuanzang, che visitò Nālandā durante la terza decade del VII sec., ciascuno dei quattro successori di Kumāragupta ‒ Buddhagupta, Tathāgatagupta, Bālāditya e Vajra ‒ vi avrebbe costruito un monastero. Sempre secondo la medesima fonte, un re dell'India centrale ordinò la costruzione di un sesto monastero; l'intero complesso fu quindi protetto da alte mura dotate di un unico accesso. In questo complesso monastico (mahāvihāra):
v'erano alcune migliaia di confratelli, tutti uomini di grandi capacità e cultura, diverse centinaia dei quali altamente stimati e famosi […] studiando e discutendo, essi trovano il giorno troppo breve; giorno e notte si esortavano l'un l'altro, giovani e anziani aiutandosi reciprocamente al raggiungimento della perfezione. Se tra essi v'erano alcuni che non discutevano i misteri del Tripiṭaka, costoro, vergognandosene, vivevano in disparte. Perciò studenti stranieri venivano all'istituzione per porre fine ai propri dubbi e poi divenivano rinomati […]. Tra quelli che, venendo da paesi stranieri, desideravano essere ammessi alle scuole di discussione, i più, sconfitti dalle difficoltà dei problemi, si ritiravano; quelli che si dimostravano profondamente versati nella cultura antica e moderna erano ammessi, e soltanto due o tre su dieci avevano successo. (Watters 1961, II, pp. 164-165)
Nella settima decade dello stesso secolo, un altro pellegrino buddhista cinese, Yixing, che trascorse un periodo di studio a Nālandā, descrive un corso di studi generale che potrebbe rappresentare parte dell'offerta complessiva del mahāvihāra. Esso comprendeva: (1) grammatica e filosofia; i testi da imparare erano un Siddhaśāstra per principianti, l'Aṣṭādhyāyī (Trattato in otto capitoli) di Pāṇini, il Dhātupāṭha (Recitazione delle radici verbali), l'Uṇādisūtra (Aforismi sui suffissi primari detti 'Uṇādi') e la Kāśikāvṛtti (Commento letterale composto a Benares) di Jayāditya e Vāmana; (2) logica e metafisica con il Nyāyadvāratārakaśāstra (Trattato che salva attraverso la logica) di Nāgārjuna, la Jātakamālā (Ghirlanda delle vite anteriori [del Buddha]) ‒ che in realtà non è un'opera di logica o metafisica, ma una raccolta di leggende pie sulle vite precedenti del Buddha ‒ di Āryaśūra, il Mahābhāṣya (Grande commento) di Patañjali con il relativo commento di Bhartṛhari e, di quest'ultimo, il Vākyapadīya (Della frase e della parola); (3) un "Veda" sui segreti di cielo e Terra e della filosofia degli uomini, di Bhartṛhari, con un commentario di Dharmapāla. Questo ambizioso programma di insegnamento intensivo di grammatica sanscrita, logica e metafisica è da comparare con il tipo di istruzione impartita al neofita descritta da Xuanzang, che include grammatica elementare, arti meccaniche, astrologia, medicina, logica e cinque gradi di comprensione spirituale.
L'interesse degli stranieri per l'istruzione fornita a Nālandā è testimoniata anche da un'iscrizione risalente al regno di Devapāla (810-850 ca.), secondo la quale il sovrano indiano, su richiesta del re Bālaputra di Suvarṇadvīpa (Sumatra), concesse una donazione di cinque villaggi nelle vicinanze di Rājagṛha e Gayā a un monastero che il re di Sumatra stesso aveva fatto costruire a Nālandā.
Il padre di Devapāla, Dharmapāla (770-810 ca.), aveva fondato a Vikramaśīla, presso Bhagalpur, nel Bihar, esattamente a est di Nālandā, quello che sarebbe divenuto un altro famoso complesso monastico. Anche qui, come a Nālandā, gli studenti stranieri affluivano in gran numero e quelli di cui si è conservata notizia erano in gran parte tibetani. Tāranātha, lo storico tibetano del buddhismo vissuto nella prima metà del XVII sec., riferisce che nel monastero di Vikramaśīla risiedevano permanentemente 160 paṇḍita ('eruditi') e circa 1000 monaci. La specialità di questo monastero era l'insegnamento dei Tantra e tra i suoi paṇḍita v'erano molti famosi praticanti e autorità nel campo. Sia Nālandā sia Vikramaśīla, così come le istituzioni gemelle di Odantapura (Uddaṇḍapura) e Somapura del regno Pāla, furono distrutti dagli invasori musulmani tra la seconda metà del XII sec. e la prima metà del XIII secolo.
In Orissa il tantrismo buddhista prosperò ancora per molto tempo dopo la distruzione dei mahāvihāra del Bihar e del Bengala. Pitopāda (Biṭoba), uno dei responsabili della diffusione del Kālacakratantra (Tantra della ruota del tempo) nel tardo X sec., insegnò il buddhismo esoterico ad adepti come Nāropa nel mahāvihāra di Ratnagiri, a est di Cuttack e Bhubaneswar. Questo monastero, come hanno mostrato recenti scavi archeologici, fu fondato agli inizi del VI sec. ed esistette per un millennio intero; vi si formarono numerosi maestri tibetani.
Sebbene i monasteri buddhisti dell'India orientale vantassero numerosi paṇḍita, presso i quali accorrevano in gran numero studenti non soltanto dall'India, ma anche da Cina, Corea, Tibet e Sud-est asiatico, sembra che ciascuno di essi abbia fornito, in armonia con il paradigma guru-śiṣya ('maestro-allievo'), un'istruzione indipendente a piccoli gruppi di allievi. Naturalmente, i paṇḍita organizzavano dispute pubbliche, e alcuni di essi raggiungevano prestigio e autorità superiori rispetto ad altri; tuttavia, costoro non impartivano i loro insegnamenti collegialmente. In genere, un maestro formatosi in un monastero s'inchinava con gratitudine a un solo guru.
Jainismo
I monaci jaina avevano l'obbligo di studiare e memorizzare parte del corpus tradizionale, almeno prima che i testi Śvetāmbara fossero canonizzati e ricevessero forma scritta, agli inizi del VI secolo. Il canone Śvetāmbara si compone di dodici aṅga ('sezioni'), uno dei quali è andato perduto; dodici upāṅga ('sottosezioni'), che includono la Sūryapaṇṇatti e la Candapaṇṇatti sull'astronomia e la Jambuddīvapaṇṇatti sulla cosmografia; dieci paiṇṇa; sei cheyasutta; quattro mūlasutta; due testi miscellanei. Alcuni di questi testi canonici sono redatti nella forma di commentari, in ardhamagādhī, nijjutti (in sanscrito, niryukti); da ciò si evince che, se i testi di base erano stati insegnati e memorizzati sin dall'epoca della loro creazione orale, nacque in seguito una letteratura esegetica, anche questa orale, per facilitare l'insegnamento. Il canone jaina Digambara contiene testi simili agli undici aṅga Śvetāmbara, insieme con sette aṅgabāhya e quattro gruppi di anuyoga; si ritiene che questo canone sia stato fissato nel II sec. d.C., ma non è certo che questa affermazione risponda a verità.
Gli appartenenti alle prime comunità monastiche jaina erano organizzati secondo un ordine gerarchico in cui il rango dipendeva da quello che si era studiato e dal carattere morale. Dall'iniziale condizione di seha (śiṣya) o di antevāsin ('novizi studenti'), il candidato accedeva al rango di thera (sthavira; 'monaco'), successivamente a quello di uvajjhāya (upādhyāya; 'istruttore'), quindi a quello di āyariya (ācārya) o sūri ('maestro' e 'istitutore', che può fungere da guida della comunità monastica, il gaccha). Altri ranghi superiori, di poco o per nulla differenziati da quello di ācārya, erano quelli di gaṇadhara e di gaṇin.
Sin dai primi tempi i monaci jaina erano dunque impegnati, prevedibilmente, nell'insegnamento dei testi, nella creazione di nuove opere in forma di commentari o esposizioni della dottrina e in dispute erudite concernenti quest'ultima. Ciò non toglie che i monaci dovessero trascorrere i quattro mesi dell'estate e i quattro dell'inverno vagando in gruppi, mentre soltanto durante i quattro mesi della stagione delle piogge soggiornavano in una residenza (upāśraya), in alcuni casi dotata di biblioteca (bhaṇḍāra).
A partire dall'XI sec., se non prima, in Gujarat i monaci jaina cominciarono a produrre opere letterarie a carattere secolare (poesie o storie, sia in sanscrito sia nei pracriti letterari), sulla logica e sugli śāstra ('scienze' tradizionali), ossia jyotiṣa ('astronomia'), āyurveda ('medicina'), vyākaraṇa ('grammatica'), alaṅkāra ('retorica'), vṛtta ('metrica') e lessicografia. Era usanza di questi monaci eruditi fare menzione del loro maestro (ācārya), o di una successione (paramparā) di ācārya, e della comunità (gaccha) cui erano appartenuti. Da ciò si evince che questi gaccha, sebbene girovaganti nel paese per circa due terzi dell'anno, rappresentavano unità dedite all'istruzione in campo sia scientifico sia religioso.
Induismo
Numerosi maṭha ('cenobi') furono fondati in India da gruppi settari nel corso dei secoli. Soprattutto nel Sud, imaṭha Śaiva, Vaiṣṇava e Liṅgāyat spesso incorporavano scuole in cui i novizi erano istruiti sui fondamenti della filosofia religiosa della setta, come accadeva tra i buddhisti e i jaina, e sui metodi di disputa logica da adottare per difendere la dottrina in caso di dibattito con i fautori di altri sistemi.
Va osservato che spesso i maṭha settari sono stati considerati dagli studiosi moderni alla stregua di collegi, sebbene non vi siano prove che essi funzionassero diversamente dai monasteri che istruivano i novizi prima che questi raggiungessero lo status di monaco. Tale è, per esempio, il caso del maṭha fondato ad Aphsad nel VII sec. dalla mahādevī ('regina') Śrīmatī, madre di Ādityasena. L'unico carattere distintivo riconosciuto a questo maṭha risulta da un'iscrizione in cui è definito "come una casa nel mondo degli dèi". Sebbene l'opinione secondo cui un maṭha fosse un collegio sia infondata, tuttavia numerosi maṭha ricevevano donazioni per promuovere l'istruzione in materie d'interesse locale o per rendere disponibili spazi che potevano essere utili per un vero e proprio collegio.
I monasteri od ordini monastici di tutte e tre le principali fedi dell'India preislamica ‒ buddhismo, jainismo e induismo ‒ funzionarono, in diversi periodi storici, come centri d'istruzione non soltanto nell'ambito delle rispettive credenze settarie, ma in più vaste aree di conoscenza. Sappiamo assai poco sulla funzione svolta da tali istituzioni nell'insegnamento della cultura laica e sulla loro interazione con il sistema tradizionale di trasmissione delle conoscenze attraverso la linea di trasmissione maestro-discepolo (paramparā). Qualunque sia stata la loro efficacia, è evidente che nella storia dell'istruzione scolastica in India la loro importanza non è pari a quella dei numerosi guru e ācārya che insegnavano nelle biblioteche avite.
Soltanto tre degli śāstra ('scienze') tradizionali dispongono di dizionari tecnici in sanscrito: āyurveda ('medicina'), jyotiṣa ('astronomia', 'astrologia' e 'matematica') e śilpa ('architettura'). I dizionari āyurvedici sono di gran lunga i più numerosi. L'architettura gode invece dell'ausilio di un solo dizionario di termini tecnici, lo Śilparatnakośa (Tesoro dei gioielli dell'architettura), composto da Nirañjana Mahāpātra, in Orissa, agli inizi del XVII secolo. L'opera definisce i tipi di templi con le parti che li compongono e le loro decorazioni e in fine descrive le sculture che li adornano.
Medicina
Si è frequentemente affermato che il più antico dizionario medico indiano sia il Glossario di Dhanvantari (Dhanvantarinighaṇṭu), autorità leggendaria. Il testo pubblicato consiste in realtà di due opere separate, nessuna delle quali è però attribuibile a questo autore, né a lui è effettivamente attribuita all'interno del testo.
La prima di esse, la Dravyāvalī (Serie delle sostanze), consiste in un brevissimo elenco di sostanze medicinali di origine vegetale, animale e minerale, con indicazioni generali sulla loro utilizzazione medica ed è suddivisa in sette varga ('classi'). Ciascun varga prende il suo nome dalla prima sostanza che entra a farne parte (le prime cinque classi sono designate da sostanze d'origine vegetale): guḍūcyādi, śatapuṣpādi, candanādi, karavīrādi, āmrādi, suvarṇādi ('oro', ecc.) e miśrakādi ('sostanze miste', ecc.). Nel primo verso si rende omaggio a Dhanvantari quale "dio originario, i cui piedi di loto sono venerati da dèi e demoni". L'introduzione menziona l'esistenza di numerosi nighaṇṭu ('dizionari') precedenti; la redazione di questo testo può probabilmente essere fissata non più tardi del X secolo.
La seconda delle due opere, propriamente intitolata Dhanvantarinighaṇṭu, con buona probabilità risale al XIII sec. e fornisce per ciascuno dei dravya ('sostanze') menzionati nella Dravyāvalī una lista di sinonimi e una descrizione di qualità, come anche informazioni tratte da un Rājanighaṇṭu (Glossario reale) diverso dal Rājanighaṇṭu di Narahari, del quale, tuttavia, condivide il criterio organizzativo. Il Dhanvantarinighaṇṭu aggiunge molte sostanze a quelle incluse nella Dravyāvalī. Oltre alle caratteristiche fisiche delle sostanze, le qualità includono gli effetti contrapposti: pesantezza e leggerezza, l'essere smussato o affilato, raffreddamento e riscaldamento, oleosità e non oleosità, liscezza e ruvidità, densità e liquidità, cedevolezza e rigidità, stabilità e mobilità, sottigliezza e grossolanità, viscosità e fluidità. Le sostanze sono inoltre collegate ai sei rasa ('i sapori': dolce, acido, salato, aspro, amaro e astringente), ai tre doṣa ('gli umori': flegma, bile e aria) e ai sette dhātu ('gli elementi essenziali del corpo umano': fluidi, sangue, carne, grasso, ossa, midollo e sperma). Come già per la Dravyāvalī, l'unica relazione certa tra il Dhanvantarinighaṇṭu e Dhanvantari consiste nel fatto che quest'ultimo è onorato nel verso iniziale.
Tra le numerose opere di Cakrapāṇidatta (figlio di Nārāyaṇa, ministro di Nayapāla, mahārāja del Bengala dal 1038 al 1055, residente nel distretto di Vīrabhūma) vi è il Dravyaguṇasaṅgraha (Compendio delle qualità delle sostanze), composto intorno al 1075. Si tratta di un dizionario che definisce le qualità e l'utilizzazione medica di un gran numero di cibi raggruppati in quindici classi (varga): dhānya ('cereali'), māṃsa ('carne'), śāka ('vegetali'), lavaṇa ('sali'), phala ('frutti'), jala ('acque'), kṣīra ('derivati del latte'), taila ('oli'), ikṣu ('zuccheri'), madya ('alcolici'), kṛtānna ('cibi preparati'), bhakṣya ('commestibili'), anupāna ('fluidi') e miśraka ('misti').
Intorno alla fine del XII sec., Soḍhala, un brahmano del Rāyakavālavaṃśa del Gujarat, compose il Soḍhalanighaṇṭu, che è suddiviso in due sezioni: il nāmasaṅgraha ('catalogo dei nomi'), che fornisce i sinonimi di sostanze medicinali suddivise in nove varga ('classi'), e il guṇasaṅgraha ('catalogo delle qualità'), che descrive le qualità di sostanze raggruppate in ventisei varga. I primi sei varga della prima parte sono analoghi a quelli del Dhanvantarinighaṇṭu ricordato prima: guḍūcyāḍi, śatapuṣpādi, candanādi, karavīrādi, āmrādi, suvarṇādi, lakṣmaṇādi, anekārtha (nomi con vari significati) e miśraka ('misti'). I primi sette varga si ritrovano nella seconda parte, dove sono seguiti dai cibi: pānīya ('bevande'), kṣīra ('latte'), dadhi ('latte acido'), takra ('latticello'), navanīta ('burro'), ghṛta ('burro chiarificato'), taila ('oli'), madhu ('miele'), ikṣu ('zuccheri'), madya ('alcolici'), mūtra ('urina'), śūkadhānya ('cereali barbati'), jūrṇā ('cereali in polvere'), tṛṇadhānya ('riso selvatico'), śimbidhānya ('grano leguminoso'), kṛtānna ('cibi preparati'), anupāna ('fluidi'), māṃsa ('carne') e miśraka ('misti'). Molti di questi cibi sono menzionati anche nel citato Dravyaguṇasaṅgraha di Cakrapāṇidatta.
Al noto mecenatismo di Madanapāla, un mahārājādhirāja ('imperatore') regnante a Kāṣṭhā, a nord di Delhi, si deve la composizione del Madanavinoda (Divertimento di Madana), completato l'8 gennaio del 1375. Questo nighaṇṭu fornisce sinonimi, qualità e utilizzazioni mediche di numerose sostanze, che sono suddivise in tredici varga, tra i quali i primi quattro sono dedicati alle sostanze medicinali, i restanti ai cibi: abhayādi (Andropogon muricantus, ecc.), śuṇṭhyādi ('zenzero', ecc.), karpūrādi ('canfora', ecc.), suvarṇādi ('oro', ecc.), vaṭādi ('alberi di fico', ecc.), phala ('frutti'), śāka ('vegetali'), drava ('liquidi'), madhura ('dolci'), dhānya ('cereali'), kṛtānna ('cibi preparati'), māṃsa ('carne') e miśraka ('misti'). Gli ultimi otto versi del tredicesimo varga sono a volte presentati come quattordicesimo varga, un upasaṃhāra ('conclusione', 'ricapitolazione') di Madanapāla.
Il più esteso nighaṇṭu che ci sia pervenuto è il Rājanighaṇṭu (Glossario reale), composto in Kashmir da Narahari, probabilmente nel XV secolo. L'opera è basata su un criterio di classificazione completamente nuovo, come si evince dai titoli dei suoi ventitré varga: anūpādi ('acquatica'), bhūmyādi ('terrestre'), guḍūcyādi, śatāhvādi (=śatapuṣpādi), parpaṭādi, pippalyādi, śālmalyādi, prabhadrādi, āmrādi, suvarṇādi, pānīyādi ('bevande'), śālyādi, māṃsa ('carne'), manuṣya ('tipi e parti del corpo degli umani'; questo varga e i rimanenti non sono dedicati ai farmaci), siṃhādi ('animali'), rogādi ('malattie'), sattvādi ('qualità') e miśrakādi ('misti'), ekārthādi (parole che hanno da uno a undici significati).
Lo Śivakośa (Tesauro di Śiva), dizionario di omonimi elencati nell'ordine alfabetico delle loro consonanti finali, fu scritto da Śivadatta nel 1677. Questi compose anche una vyākhyā ('commentario') sulla propria opera, lo Śivaprakāśa (Luce di Śiva). Vi sono altri due dizionari di omonimi, lo Śabdapradīpa (Elucidazione delle parole) di Surapāla (1125 ca.) e lo Śabdaratnapradīpa (Elucidazione di quelle gemme che sono le parole) di Kāśīrāma (fine del XIII sec.), ove le voci sono elencate nell'ordine alfabetico delle lettere iniziali.
Esiste un'esposizione classica di medicina persiana in sanscrito, lo Hikmatprakāśa (Luce della sapienza), composto da Mahādeva Deva nel 1733. L'opera, contenente un gran numero di definizioni sanscrite di termini persiani, è suddivisa in tre khaṇḍa ('sezioni'). Il primo descrive la teoria galenica relativa ai quattro umori e alle loro funzioni, le condizioni e i fluidi corporei, la triplice natura del seme, l'esame dell'urina e l'esame della pulsazione. Il secondo khaṇḍa definisce le sostanze medicinali e le loro qualità; le sostanze sono elencate secondo l'ordine dell'alfabeto persiano in ventotto varga ('classi'). Il terzo khaṇḍa è dedicato alle sostanze medicinali composte, presentate secondo il medesimo ordine alfabetico.
Astronomia
L'unico dizionario classico sul jyotiḥśāstra ('astronomia') è la Gaṇitanāmamālā (Collana dei nomi usati nel calcolo), composta prima del 1650 da Haridatta o Haradatta, un brahmano appartenente al Kaṇḍolajñāti, lignaggio del Gujarat. In essa sono fornite varie classi di sinonimi dei ventisette nakṣatra ('costellazioni'), con l'omissione di Abhijit; dei numeri secondo il sistema bhūtasaṅkhyā, in cui gli oggetti che nel mondo esistono tradizionalmente in un dato numero simboleggiano quel numero; dei dodici segni zodiacali; delle dodici posizioni astrologiche; degli aspetti planetari, e in particolare dei luoghi di apacaya ('declino') e upacaya ('ascesa'), dei cardini, delle case succedenti e di quelle cadenti; dei domicili planetari; di ciascuno dei nove pianeti; della parola 'pianeta'; dei mesi; dei quattro tipi di mesi; delle diverse unità di tempo; delle suddivisioni di un segno zodiacale; delle direzioni; delle classificazioni dei segni zodiacali; degli ayana (da un solstizio a quello successivo); dei gola (da un equinozio a quello successivo); dell'entrata del Sole nei segni zodiacali; dei segni zodiacali occupati dal Sole in ciascuna delle sei stagioni; delle ulteriori classificazioni dei segni zodiacali; dei poteri astrologici dei pianeti; delle case, delle esaltazioni, delle deiezioni e dei trigoni dei pianeti.
Nel 1643, ad Agra, Mālajit, un brahmano del Gujarat, compose il Pārasīprakāśa (Luce dei persiani) per Šāh Ǧahān, il quale in cambio lo fregiò del titolo di vedāṅgarāya ('re delle scienze ausiliarie dei Veda'). Questo dizionario persiano-sanscrito di termini astronomici, astrologici e matematici verte in primo luogo sulla conversione delle datazioni Śaka in Hijrī e viceversa; poi fornisce, tra le altre cose, i nomi persiani dei mesi lunari, dei giorni della settimana, dei mesi solari, dei giorni di un mese solare, delle ventotto case lunari (correlate con ventotto nakṣatra), dei segni zodiacali, dei pianeti, delle direzioni, delle classificazioni astrologiche dei segni zodiacali, delle fasi lunari, di termini astronomici generali, degli aspetti planetari, delle posizioni astrologiche, di termini comunemente usati nelle predizioni astrologiche, dei numeri cardinali, dei numeri abjād, dei numeri ordinali, di termini matematici, delle fasi delle eclissi, dei termini usati quando si discute di cerchi e sfere, delle sfere celesti e dei cerchi massimi astronomici sulla sfera celeste.
Vrajabhūṣaṇa basò il suo Pārasīvinoda (Divertimento dei persiani), ultimato nel 1660, sul Pārasīprakāśa di Mālajit. Rispetto alla sua fonte, tuttavia, omette gran parte della terminologia astronomica e matematica. Il fine dell'opera è l'astrologia pura ‒ ossia muhūrta ('astrologia', ispirato a Mālajit) e jātaka ('astrologia genetliaca') ‒ in sanscrito, ma con ampio impiego di termini tecnici persiani.
Enciclopedie
La tradizione intellettuale indiana conosceva varie forme di enciclopedie: i Purāṇa, la letteratura di corte e i sommari di conoscenze concernenti i diversi śāstra ('scienze', 'discipline').
Tutte queste opere non furono però mai riconosciute come espressioni di un genere letterario o scientifico separato e rimasero prive dell'enfasi greca sull'interrelazione dei campi del sapere. Un panorama delle principali enciclopedie indiane è tracciato nella Tav. Va e Vb.
La scrittura fu forse introdotta in India durante l'occupazione achemenide del Gandhāra, del Sind e di parte del Panjab (515-326 a.C. ca.). Il sanscrito e alcune lingue pracrite cominciarono quasi sicuramente a essere scritte proprio in quest'epoca. Fu probabilmente non molto tempo dopo che governanti e uomini d'affari cominciarono a tenere archivi, mentre gli studiosi cominciavano a costituire biblioteche. Kauṭilya (Arthaśāstra, II, 7, 16-41) fa riferimento a libri contabili e a bilanci di cassa in contenitori, come pure alla registrazione scritta di bilanci, affermando esplicitamente che tali bilanci erano eseguiti giornalmente, ogni cinque giorni, ogni due settimane, ogni mese e ogni anno. Kauṭilya (ibidem, II, 4, 10) menziona poi l'akṣapaṭala ('ufficio del registro e revisione'), affermando che dovrebbe essere situato nelle vicinanze del palazzo reale. Un'iscrizione sulla parete di una grotta di Nasik, dovuta a monaci buddhisti e risalente agli inizi del II sec. d.C., è presentata come la copia di un atto di donazione scritto su tavola di legno, depositato presso l'archivio locale (phalakavāra).
Le più antiche testimonianze concernenti l'esistenza di collezioni di manoscritti consistono, tuttavia, nei riferimenti alle biblioteche reali e monastiche fornite dai pellegrini buddhisti cinesi che visitarono i luoghi sacri dell'India e spesso copiarono o raccolsero manoscritti in pāli e in sanscrito per portarli con sé in Cina. Il primo di costoro fu Faxian, che compì il suo pellegrinaggio tra il 399 e il 414. Secondo il suo resoconto, egli non riusciva a trovare copie del Vinaya (sezione del Canone buddhista dedicata alla disciplina monastica) nell'India settentrionale, giacché i testi sacri erano tramandati oralmente. In un monastero di indirizzo mahāyāna (scuola del 'Grande veicolo') di Pāṭaliputra ottenne però una copia del testo quale era stato accettato dal primo concilio e trascritto nel Jetavanārāma, situato al di fuori della porta meridionale di Śrāvastī, insieme con un certo numero di altri trattati canonici. Faxian trascorse gli ultimi due anni del suo soggiorno in India copiando sūtra ('testi canonici') nei ventiquattro monasteri di Tāmralipti.
È poi da considerare la testimonianza di Xuanzang, che effettuò il suo viaggio tra il 629 e il 645, raccogliendo, presso biblioteche monastiche e private, i manoscritti di 657 opere in sanscrito, la cui traduzione in cinese curò egli stesso al suo ritorno in patria. Egli menziona espressamente tre biblioteche. Nel suo resoconto del Concilio di Kaniṣka, Xuanzang afferma che il re costruì un monastero in Kashmir, ove furono collocati i testi del Tripiṭaka ('il Canone buddhista'), e che gli arhat ('perfetti'), riunitisi, composero 300.000 strofe di commento, le quali furono incise su lamine di rame, racchiuse in contenitori di pietra e quindi depositate in uno stūpa. Presso un altro monastero del Kashmir, il pellegrino si sarebbe imbattuto in uno stūpa di pietra eretto sulle reliquie di un arhat che, in una precedente incarnazione, era stato un elefante donato da un rāja dell'India orientale a un monaco buddhista del Kashmir per consentire a questi di trasportare nella sua terra d'origine i libri da lui acquistati. Nel monastero che il re fece scavare per Nāgārjuna nella roccia a Bhramaragiri, nel Kośala meridionale, furono depositate le scritture del Buddha Śākyamuni e gli scritti dei pusa (il termine cinese per bodhisattva). Lo Shijia-fangzhe riporta che "dopo la raccolta del Tripiṭaka tutti gli śāstra ['trattati'] furono qui conservati e a nessuno fu permesso di portarli fuori". Peraltro, tutti questi riferimenti non sono basati sulle osservazioni personali del pellegrino, ma incorporati in storie più o meno fantastiche a lui narrate. Esse testimoniano, se non altro, che i locali non trovavano insolite le collezioni di libri.
Yixing, pellegrino cinese che effettuò il suo viaggio in India tra il 673 e il 685, raccolse a Nālandā manoscritti dei testi buddhisti (il Tripiṭaka) contenenti in totale 500.000 śloka ('strofe'). Tra il 700 e il 712, al suo ritorno in Cina, Yixing tradusse dal sanscrito al cinese 56 opere, le quali occupavano 230 volumi. Nel cap. 36 del suo Resoconto, egli cita dal Vinaya le seguenti regole, concernenti la proprietà di un bhikṣu ('monaco'): "Ma le scritture e i loro commentari non devono essere divisi, ma conservati in una biblioteca per essere letti dai membri dell'Ordine. I libri non buddhisti devono essere venduti […] La porzione [la terza parte di oro, argento, monete, ecc.] appartenente alla Religione è impiegata per la copiatura delle scritture" (v. Takakusu 1966, p. 192).
I resoconti dei primi pellegrini cinesi confermano, quindi, che i monasteri buddhisti erano dotati di biblioteche, in alcuni casi di ampie dimensioni, e che singoli monaci disponevano spesso di biblioteche personali, che potevano includere anche testi non buddhisti. Tale situazione si protrasse sicuramente finché in India vi furono monasteri buddhisti. Ciò risulta evidente per due ordini di motivi: alcuni monasteri fungevano da istituzioni ove s'impartiva un'istruzione di livello elevato; molti dei loro residenti componevano trattati notevolmente eruditi, certamente grazie alla possibilità di accedere a estese raccolte. Questa conclusione è confermata dal fatto che il re Maitraka del Saurāṣṭra, Guhasena (553-589 ca.), fece una donazione ai monasteri Duḍḍā di Valabhī, nel 565, perché acquisissero i libri del 'vero dharma'.
Peraltro Valabhī fu distrutta dai Turuṣka (lett. 'Turchi') nel tardo VIII sec.; la biblioteca di Odantapura fu saccheggiata da Iḫtiyar al-Dīn Muḥammad al-Ḫaljī nel 1193; Vikramaśilā fu distrutta tra il 1206 e il 1235 e Nālandā poco dopo; Jagaddala e Somapura subirono la stessa sorte agli inizi del XIII secolo. Solamente in Orissa il monachesimo buddhista riuscì a sopravvivere, quanto meno a Ratnagiri, fino al XVI secolo.
In armonia con quanto notato da Faxian a proposito dell'impossibilità di trovare manoscritti dei testi sacri buddhisti nell'India settentrionale, le fonti jaina affermano che una carestia aveva causato la morte per fame di così tanti dotti anuyogadhāra ('precettori') jaina da mettere seriamente a rischio la permanenza della tradizione orale, che fino ad allora aveva consentito la conservazione della loro letteratura sacra. Di conseguenza si tennero concili nel IV o V sec., a Mathura, sotto Skaṇḍila Sūri, e a Valabhī, sotto Nāgārjuna, allo scopo di stabilire il testo della letteratura sacra e dargli forma scritta. Poiché ne risultarono due testi discordanti, secondo una certa versione della vicenda, Devarddhi Gaṇi convocò un altro concilio a Valabhī, sotto Dhruvasena I (519-549 ca.), nell'anno 993 dell'era del nirvāṇa di Mahāvīra, ossia a partire dalla morte del fondatore (se per questo evento si accetta la datazione al 466 a.C., il concilio fu tenuto nel 527), e stabilì il testo del Canone jaina degli Śvetāmbara. Naturalmente sia i monasteri buddhisti sia quelli jaina erano dotati, prima che le opere canoniche fossero scritte, di biblioteche contenenti altre opere; sembra però che le dimensioni delle biblioteche e l'attività letteraria in entrambe le religioni abbiano conosciuto un rapido incremento dopo il VI secolo.
Nell'XI sec., Bhojarāja di Dhārā (1005 ca.-1056), nel Mālava, aveva accesso a un'ampia letteratura relativa a molti śāstra. Sembra che il sovrano Caulukya Siddharāja Jayasiṃha (1094-1143), avendo conquistato il Mālava nel 1136-1137, abbia riportato nella sua capitale, Aṇahilapaṭṭana (l'attuale Pattan), la biblioteca di Bhojarāja. Si ritiene che Kumārapāla (1143-1174), successore di Siddharāja, abbia fondato ventuno biblioteche. In seguito, quando il suo successore Ajayapāla (1174-1177) divenne ostile al jainismo, un ministro di nome Udayana inviò molti dei manoscritti da Aṇahilapaṭṭana a Jesalameru. Agli inizi del XIII sec., il celebre ministro Vastupāla, morto nel 1240, oltre a possedere una notevole collezione personale di manoscritti, fondò biblioteche (bhāṇḍhāra) ad Aṇahilapaṭṭana, a Stambhatīrtha (attuale Cambay) e Bhṛgukaccha (attuale Broach).
È stata spesso avanzata l'ipotesi che molti dei manoscritti conservati in queste grandi biblioteche del Gujarat e del Rajasthan meridionale tra l'XI e il XIII sec. siano stati distrutti da invasori musulmani o da fanatici hindu; non esistono però testimonianze che lo comprovino. Le biblioteche di quel periodo sono in qualche modo collegate alle numerose biblioteche conservate fino all'epoca presente da laici jaina per l'uso dei monaci; a Pattan esistono tredici biblioteche, ove sono conservati 596 manoscritti su foglie di palma; a Cambay, nella biblioteca jaina Śāntinātha, sono custoditi 120 manoscritti su foglie di palma; nelle biblioteche di Jesalameru vi sono complessivamente 426 manoscritti su foglie di palma. Sebbene il manoscritto cartaceo raramente abbia in India una durata superiore ai 300 anni, nelle biblioteche jaina se ne conservano alcuni risalenti all'XI secolo. Pur essendoci state alcune perdite, queste non sono imputabili a un qualsiasi programma sistematico o premeditato di distruzione. Le biblioteche jaina del Gujarat e del Rajasthan fin qui nominate appartengono alla corrente Śvetāmbara del jainismo. Anche la corrente Digambara in Karnataka si dotò di biblioteche per i monaci; le più famose sono quelle di Śravaṇa Belgola e di Mudabiḍrī; i manoscritti su foglie di palma là conservati sono, in genere, più recenti di quelli degli Śvetāmbara.
Nell'India meridionale anche i templi hindu ospitarono grandi biblioteche, insieme con istituzioni scolastiche e maṭha. La storia di queste collezioni è in genere sconosciuta, sebbene esistano testimonianze di donazioni per l'istituzione di maṭha che possono essere datate a partire dal X secolo. Agli inizi del XII sec. Aparārka (1115-1130 ca.), nel suo commento alla Yājñavalkyasmṛti (Codice tradizionale di Yājñavalkya, I, 212, pp. 389-403), loda il vidyāvadāna (il donare la conoscenza ai brahmani), il quale comporta la venerazione dei manoscritti, il farne dono a maṭha o a singoli, nonché il compito di fornire agli studiosi il materiale scrittorio. I maṭha dell'India meridionale sono ancora oggi dotati di grandi biblioteche; particolarmente degni di menzione sono lo Śaṇkarācāryasvāmimaṭha di Śṛṅgeri, vicino Mysore, e lo Śaṇkarācāryamaṭha di Kumbhakonam, nel Tamil Nadu. In India, a ogni modo, la grande maggioranza dei manoscritti appartenne in passato, come accade attualmente, a singoli, le cui famiglie coltivavano per diverse generazioni lo studio di particolari śāstra ('scienze', 'discipline'). Costoro di regola trasmettevano le proprie biblioteche alle generazioni successive.
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