Scienza indiana. Il pensiero indiano
Il pensiero indiano
I diversi modi in cui nel tempo si è articolata questa domanda e le risposte date a essa sono da inquadrare, prima di tutto, all'interno di una varietà di opzioni storico-culturali ai cui estremi troviamo, da una parte, l'affermazione di una radicale alterità tra civiltà occidentale e indiana (spesso identificata tout-court con la civiltà 'orientale') e, dall'altra, quella di una sostanziale unità ‒ propria di un'unica e invariabile natura umana ‒ soggiacente a forme di manifestazione soltanto superficialmente diversificate, che parla con un linguaggio atemporale a chi solo la sappia interrogare. Significativamente diverse appaiono anche le risposte che sono state fornite rispettivamente nel mondo occidentale e in quello indiano (storicamente la domanda in sé è tuttavia sempre stata formulata nel mondo ‒ o almeno in un contesto ‒ occidentale).
La risposta occidentale è stata prevalentemente di segno negativo, connotata in particolare dai pronunciamenti influenti di Hegel e Husserl, spesso direttamente o indirettamente ripetuti. Questo si accompagna, in apparente contraddizione, a un generale apprezzamento della 'sapienza' degli Indiani, diffuso già in periodo pre-ellenistico e che non ha da allora conosciuto eclissi nella cultura e nell'immaginario dell'Occidente. Già Diogene Laerzio in apertura delle sue Vite dei filosofi (I.4) affermava l'impossibilità della traduzione stessa del termine 'filosofia' in altre lingue ("E così la filosofia è una creazione dei Greci: il suo stesso nome non ha nulla a vedere con una denominazione barbarica").
Nel delineare i requisiti che deve possedere la filosofia per essere tale, Husserl si rifà strettamente al modello greco, essendo stati i Greci gli unici a suo dire ad aver saputo sviluppare una pura teoria. La filosofia, come si legge in La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale (Mohanty 1992), deve essere svincolata da interessi pratici e il filosofo non deve essere coinvolto nelle attività mondane; deve essere caratterizzata dalla consapevolezza dello iato esistente tra mondo esterno e rappresentazione del mondo; deve ricercare una verità universale; non soggiacere ad alcuna credenza prestabilita e sottoporre tutto a esame critico. Questa visione husserliana della filosofia come pura teoria è poi omologa alla pura contemplazione del cristianesimo e anche alla 'purezza' delle scienze fisiche.
Prima di Husserl, già Hegel aveva tra l'altro rimproverato al pensiero indiano un'indebita quanto inestricabile commistione con la pratica, seppure nella sua dimensione più elevata di ricerca di trasformazione spirituale e di liberazione. A questa si aggiungevano altre considerazioni critiche, destinate ad avere un peso duraturo nel pensiero occidentale: quelle dell'India sono filosofie e religioni dell'unità e della sostanza, incapaci di apprezzare l'individuale nella sua concretezza, mentre l'interesse della filosofia è posto nel contenuto dell'unità, nella concretezza dell'assoluto, nella soggettività della sostanza, nell'attualità dell'autonomia. L'India è terra di 'albe', ma aurorale o primordiale sono per Hegel sinonimo di acerbo e di imperfetto; lo spirito del mondo va dall'Est verso l'Ovest, e in questo fatale percorso il passato (l'Est) non va vagheggiato ma soltanto conservato-superato (Halbfass 1973). Il giudizio di Hegel muterà in maniera apprezzabile a partire dalle Lezioni del 1825-1826 quando cominciarono a circolare in Europa le prime notizie e traduzioni dei testi del Sāṃkhya e del Nyāya, grazie in particolare all'opera pionieristica di Colebrooke, ma la sua parziale resipiscenza non conobbe la stessa risonanza delle prime stroncature.
Queste presunte manchevolezze vengono orgogliosamente assunte come pregi peculiari della cultura indiana nel suo insieme dalla più significativa ed influente delle risposte indiane alla questione posta in apertura. Il corrispetti-vo indiano di 'filosofia' è darśana (lett. 'visione'), affermano i seguaci del neoinduismo; il vasto campo semantico abbracciato da questa parola pone un forte accento sull'esperienza diretta e personale ‒ contrapposta al carattere astratto se non libresco dell'occidentale 'filosofia' ‒ cui si accompagna un totale coinvolgimento del soggetto pensante che qui non si limita a giocare con costruzioni più o meno eleganti e congruenti, ma cerca di individuare il tragitto della sua intera avventura mondana inscrivendolo nel contesto ‒ non solamente cognitivo ma soprattutto trasformativo ‒ dell'Assoluto. Questa rivendicazione dei neoinduisti, sebbene carica di significato nelle sue motivazioni in quanto risposta alle pretese normative dell'Occidente, è basata su una reinterpretazione molto forzata del termine darśana, cui viene attribuito un rilievo generale e dei connotati che gli sono sostanzialmente ignoti nell'India classica e medievale. Il termine ricorre in maniera sempre più regolare nella storiografia filosofica ‒ o per meglio dire dossografia ‒ classica a partire dal Ṣaḍdarśanasamuccaya (Summa dei sei darśana) di Haribhadra (VIII sec. d.C.) fino a culminare nel celebre Sarvadarśanasaṃgraha (Compendio di tutti i darśana) di Mādhava (XIV sec. d.C.), da cui l'Occidente trasse le prime cognizioni sistematiche sul pensiero indiano. Qui darśana vale quanto 'visione del mondo', ovverosia presentazione coerente di un insieme di teorie concernenti principalmente la natura del reale e le condizioni della sua conoscenza, integrate da concezioni di ordine etico-religioso (indicazioni sui modi della liberazione, l'unione col dio, ecc.) che però talvolta tradiscono un carattere di aggiunta seriore o posticcia a un preesistente nucleo già di per sé unitario e coerente. Nel significato, dunque, semmai di 'sistema [filosofico-religioso]' piuttosto che di 'filosofia' ‒ per di più con una diffusione ristretta più che altro alla dossografia ‒ darśana convive con quasi-sinonimi quali naya 'principio, metodo, procedimento [di parte, dogmatico]' (particolarmente presente in ambito jaina; v. oltre), vāda ('dottrina'), mata ('opinione, pensiero, concezione'), dṛṣṭi ('visione, concezione'), quest'ultima di frequente occorrenza nei testi buddhisti e quasi esclusivamente con la connotazione negativa di concezione unilaterale e potenzialmente autocontraddittoria. Con buona pace dei neoinduisti, dunque, non è nel termine darśana che può essere ravvisato l'equivalente indiano di 'filosofia' (Halbfass 1990); a esso sono oltretutto estranei anche quei connotati di immediatezza di personale esperienza e onnicomprensività che gli si volevano attribuire. Al contrario, non di rado è dato di scorgere una connotazione esattamente opposta, come quando viene definita dārśanika una discussione che non riesce a elevarsi su un piano più ampio e coinvolgente, ma che stagna all'interno di parametri scontati o fin troppo definiti; la traduzione più appropriata sembrerebbe allora quella di 'scolastica'.
Come equivalente indiano di 'filosofia' ha goduto di una certa fortuna il termine ānvīkṣikī, sul quale richiamò l'attenzione Jacobi (Jacobi 1929; Hacker 1958). Il termine in questione è un aggettivo femminile, che fa riferimento a vidyā ('scienza') sottintesa, col significato di '[scienza] investigatrice' ‒ dalla radice īkṣ- 'osservare' preceduta dal preverbo anu- 'tenendo dietro a', che può aggiungere tanto il connotato di 'posteriorità, ulteriorità' (rispetto alla presentazione del dato immediato), quanto di 'prolungata e intensa applicazione'. Il locus classicus è nella sezione iniziale dell'Arthaśāstra (Trattato sull'utile) di Kauṭilya (tradizionalmente assegnato al IV-III sec. a.C., di datazione però in realtà assai problematica), dove vengono elencate le quattro scienze fondamentali:
Le scienze sono: ānvīkṣikī, i tre Veda, le attività economiche e il buon governo. […] Una scienza (vidyā) è tale perché è grazie ad essa che si conosce il giusto (dharma) e l'utile. […] Ānvīkṣikī è quella scienza che è di aiuto all'umanità in quanto investiga, ricercando le ragioni, su quanto è giusto o ingiusto nei Veda, utile o inutile nelle attività economiche, corretto o scorretto nel governare, e su quello che in generale vi è di forte o di debole in queste scienze. (pp. 12-13)
Ānvīkṣikī, conclude Kauṭilya, è stata sempre considerata la fiaccola che illumina tutte quante le scienze, il mezzo di tutte le azioni, la base di tutte le norme religiose. Da questo e dai non molti altri passaggi in cui il termine ricorre risulta sufficientemente chiaro che, piuttosto che l'occidentale 'filosofia' o una qualsiasi altra disciplina definita, ānvīkṣikī stia a indicare un più generale atteggiamento critico e investigativo che perennemente saggia la validità delle norme che regolano le attività umane, estendendosi perfino a quello che si pone come il fondamento ultimo di ogni norma, e cioè il Veda stesso (donde le riserve avanzate nel Rāmāyaṇa, II.100.36, che mette in guardia contro la natura potenzialmente eversiva del sapere tradizionale). La stessa limitata diffusione di questo termine ne indica la portata non generale, imparagonabile dunque con quella di 'filosofia'. Ānvīkṣikī smetterà ben presto di incarnare questa sorta di illimitato anelito all'esame critico e alla continua rimessa in discussione, per subire invece una duplice giubilazione: da una parte la vedremo accomodata in molte delle liste tradizionali di 'luoghi di scienza' (vidyāsthāna) ‒ come, per esempio, quella della Kāvyamīmāṃsā (Esegesi della letteratura d'arte) di Rājaśekhara (IX-X sec. d.C.), che la pone accanto al tiro con l'arco o alla musica ‒, dall'altra essa troverà uno dei darśana tradizionali, il Nyāya, che se ne dichiarerà l'unico erede legittimo, trasformandola da sempre rinascente impulso alla critica in un sistema 'ortodosso' e altamente formalizzato. Lo stesso vale in sostanza per il termine parīkṣaka, nel quale qualcuno ha voluto vedere l'equivalente indiano di 'filosofo'. Parīkṣaka è più propriamente ogni 'acuto indagatore', colui che si interroga sulle cose invece di accettarle così come si presentano, alla maniera dell'uomo comune (loka).
Alla domanda posta in apertura è possibile abbozzare una risposta. Se è vero che effettivamente non esiste un equivalente indiano per 'filosofia', esistono tuttavia migliaia di autori e di testi che per venticinque secoli si sono interrogati ‒ a modo loro ed entro un contesto loro proprio ‒ sulla natura dell'io e dell'Universo, sull'epistemologia, sul linguaggio, sulla logica. Piuttosto che imporre un modello univoco ‒ che sarebbe oltretutto inapplicabile allo stesso pensiero occidentale nella sua globalità ‒ converrà invece individuare i parametri entro cui queste speculazioni si muovono e valutarne la portata, cominciando proprio dagli elementi che più sono risultati estranei ai critici occidentali.
È innegabile che nel pensiero indiano non esista la teoria 'pura'. Nessun pensatore affermerebbe, con Aristotele, che la spinta verso la conoscenza sia un dato primario e universale dell'uomo; piuttosto, in India si tenderebbe ad assegnare questo primato alla ricerca del piacere o della felicità (sukha). Quando, come è uso comune, in apertura di un'opera l'autore si dispone a dare una serie di informazioni al potenziale lettore o ascoltatore ‒ prima di tutto quali siano le sue credenziali ‒, egli si sofferma sempre, più o meno a lungo, anche su quale sia stato il suo prayojana, parola complessa che esprime sia la motivazione che lo ha spinto sia l'intento che egli si prefigge. A questo di norma segue l'esposizione del prayojana-prayojana ('il movente del movente'), che immancabilmente inscrive l'attività del pensatore in un contesto etico-religioso: il mantenimento del dharma o la ricerca della liberazione finale. Recenti studi (Steinkellner 1982; Franco1997) hanno messo opportunamente in luce questa componente perfino nella speculazione delle scuole logico-epistemologiche del buddhismo medievale, che più avevano l'aria di essere avulse da qualsivoglia preoccupazione soteriologica o devozionale.
Al pensiero filosofico indiano viene inoltre rimproverata la mancanza di uno slancio personale, di una ricerca della verità senza direzioni già in qualche modo predeterminate. L'atteggiamento prevalente del pensatore indiano è ben rappresentato dall'esordio famoso della Nyāyamañjarī (Mazzo di fiori della logica), del kāśmīro Jayanta Bhaṭṭa (seconda metà del X sec. d.C.): "Questa sottile essenza è estratta dalla foresta di erbe del sistema Nyāya, è estratta dalla scienza della logica come il burro dal latte. Come potrei io essere capace di escogitare qualcosa di nuovo? Tutt'al più è lecito aspirare a una qualche novità nella presentazione […]" (p. 5, vv. I.7-8). Esempi contrari di pensatori che affermano con orgoglio, venato talvolta di una febbrile amarezza, la propria unicità esistono ma sono estremamente rari; vengono in mente l'epistemologo buddhista Dharmakīrti (VII sec. d.C.), il materialista Jayarāśi (VII sec. d.C.), il neologico Raghunātha Śiromaṇi (prima metà del XVI sec. d.C.). La disciplina della logica, così come del resto ogni altra disciplina o più in generale ogni forma strutturata di umana attività deve avere il suo fondamento in un insegnamento atemporale dato una volta per tutte all'inizio di ogni evo cosmico e che prende forma in un testo o un corpus di testi (śāstra). Nello śāstra tutto è già presente (Pollock 1985); il nuovo deve essere già contenuto in parti di esso non (o non ancora) pervenute; innovare significa allargare la propria consapevolezza di quanto in realtà non ha mai cominciato o smesso di essere. Due trattati come lo Yogasūtra (Aforismi sullo Yoga) e l'Aṣṭādhyāyī (Trattato in otto capitoli) così diversi nel loro oggetto ma altrettanto fondamentali nei rispettivi domini ‒ lo yoga e la grammatica ‒ cominciano nello stesso modo: atha yogānuśāsanam ('Ecco l'insegnamento dello yoga') e atha śabdānuśāsanam ('Ecco l'insegnamento delle parole'), scegliendo entrambi, tra tanti possibili, il particolare termine anuśāsanam. Esso va interpretato, secondo quanto dice Vācaspati Miśra in apertura al suo commento allo Yogasūtra, nel senso pregnante di 'insegnamento' (śāsanam) 'susseguente a', 'conformantesi a' (anu-), derivato cioè da una totalità di sapere normativo che lo precede e lo alimenta come una fonte inesauribile. In base a due diversi orientamenti, tuttavia sottilmente complementari, anche lo śāstra ha un suo percorso: un testo virtualmente infinito e onnicomprensivo che via via decade, abbreviandosi o abbreviato da qualche divino trasmettitore preoccupato del progressivo declino delle facoltà degli uomini, oppure un testo breve e scintillante alle origini che deve via via diluirsi, allungandosi e complicandosi per offrire una presa appunto a quelle stesse declinanti facoltà di chi vive nei tempi calamitosi del Kaliyuga (l'età presente, quarta e ultima di una serie in progressiva involuzione). La pratica, per non ridursi a bruta meccanica, deve essere una diretta o indiretta emanazione dello śāstra. Se un'azione, una speculazione, una concezione sono 'giuste' senza che vi abbia parte lo śāstra, questo non è dovuto a un impossibile potere autonormativo dell'individuo ma all'essere in lui penetrato insensibilmente, come goccia a goccia, lo śāstra di cui è in qualche modo impregnato il suo vivere sociale. Il caso limite dell'azione 'giusta' davvero senza un radicamento nello śāstra non è, nella sua eccezionalità, in alcun modo significativo: è come la lettera dell'alfabeto che può capitare di vedere incisa nella corteccia di un albero, dice con una bella immagine di fonte sconosciuta Yaśodhara (XIII sec. a.C.?) nel suo commento al Kāmasūtra (Aforismi sull'amore, il testo che dà norme all'eros!), frutto inconsapevole del rodere delle termiti. In tutto ciò è impossibile non scorgere la complessa e avvolgente strategia di controllo sociale e culturale operata dalla classe dei brahmani, élite numericamente insignificante e non direttamente coinvolta nel potere politico o economico, ma dall'immenso prestigio, in seno alla quale la quasi totalità di questa letteratura sapienziale si sviluppa.
Tutto ciò ha tra i suoi effetti quello di offuscare qualsiasi prospettiva diacronica: il nuovo in un certo senso è sempre alle spalle o immerso a fianco del vecchio in un eterno presente. Queste dinamiche sono chiaramente individuabili nel vyākaraṇaśāstra, lo śāstra della grammatica o più in generale le scienze del linguaggio. L'indagine linguistica, pure di straordinario acume, non stabilisce tra i due principali strati della lingua sanscrita, quello vedico e quello cosiddetto 'classico', una differenziazione di ordine temporale ‒ il che sarebbe stata la cosa più ovvia, anche a un occhio meno perspicace di quello del linguista indiano ‒ ma ottiene sostanzialmente gli stessi effetti disponendoli fianco a fianco in un eterno presente spazializzato, solamente distinguendone i domini di applicazione (il vedico non sarà etichettato come la lingua del passato ma come la lingua specializzata nel rito).
Questo apparente rifuggire dall'innovazione e il bisogno di porre il centro di gravità il più indietro possibile nell'intento di dare stabilità e tenuta a un insieme si riflette già nella forma dei testi, e in primo luogo proprio dei testi filosofici. Partendo dall'esempio dei darśana, i sistemi filosofici o visioni del mondo classici (ma i prototipi del genere vanno cercati nella scienza del rito e della grammatica), vediamo all'origine un testo-radice, per lo più autoreferenziale, opera di un saggio 'onnisciente', redatto in una forma estremamente sintetica e spesso volutamente oscura e programmaticamente incompleta (sūtra). Intorno al sūtra si vanno via via addensando un numero impressionante di commenti, e di commenti di commenti, appartenenti a dei generi precisi, quali per esempio la vṛtti, il vārttika, il bhāṣya, la ṭīkā, ciascuno con le sue proprie caratterizzazioni e funzioni. Al succedersi dei commenti, che possono essere distanziati dal sūtra anche di parecchi secoli, è demandata l'introduzione continua del nuovo senza che mai ciò accada con un esplicito rinnegamento del testo-radice, di cui viene con forza affermata la perenne validità, ignorando o fingendo di ignorare il suo progressivo impallidire. È questo, del resto, il modo peculiare dell'India di venire a patti con la storia attraverso la sua virtuale negazione. Il ruolo fondamentale che è attribuito alla letteratura di commento è distintamente avvertito in tutta la civiltà indiana. Con una paradossalità che alla luce di queste considerazioni diviene soltanto apparente, vediamo i jaina Śvetāmbara che, di fronte a una eventuale catastrofe che rischi di portare tutto il loro canone scritturale alla distruzione, mostrano di preoccuparsi più della perdita dei commentari che delle scritture originali.
Alla radice di ogni śāstra troviamo quello che è lo śāstra per eccellenza, il Veda, rivelazione non umana (è śruti, 'audizione') ma su cui tutte le attività umane poggiano, sapere impersonale che secondo le posizioni più 'ortodosse' non è nemmeno l'opera di un dio (come vorrebbe, per es., il Nyāya), ma la diretta manifestazione dell'Assoluto come testo. Questo condizionamento della speculazione da parte della rivelazione è apparso esiziale ai critici occidentali, traumatizzati dallo scontro tra ragione e fede che ha attraversato tanti secoli del pensiero europeo. In realtà il rapporto tra speculazione filosofica e rivelazione è in India molto più sfuggente, oltre che fortemente diversificato. La posizione forse più esemplare è quella di Kumārila (VII sec. d.C.), proprio in quanto la scuola alla quale egli appartiene, la Pūrvā Mīmāṃsā, ovvero 'Antica esegesi', si pone come il primo baluardo dei Veda e lo strumento 'ufficiale' della loro interpretazione e utilizzazione.
Secondo Kumārila, sostenitore tra l'altro dell'assoluta impersonalità dei Veda, che non hanno un autore né umano né divino, l'autorità della rivelazione è assoluta soltanto nella sfera del dharma, vale a dire nell'universo religioso, ma limitatamente alle ingiunzioni legate alla sfera rituale, per le quali non si dispone di altra fonte di autorità e i cui effetti non rientrano nella sfera dell'esperienza (adṛṣṭārtha); per tutto ciò che è invece dṛṣṭārtha ('con effetto visibile') rimane arbitro l'intelletto umano. Ne consegue che raramente è dato di vedere nelle opere dei filosofi indiani un così esteso e sofisticato uso dell'argomentazione razionale come in colui che è il campione stesso dell'autorità dei Veda, cosa che gli viene severamente rimproverata dal maestro più rappresentativo della scuola gemella-antagonista, il Vedānta o Uttarā Mīmāṃsā ('Esegesi ulteriore'), il coevo Śaṅkara. L'autorità dei Veda, sostiene Śaṅkara, si estende anche ai contenuti e modi del nostro conoscere, ai quali fornisce quel sostrato e quella necessità che essi da soli non possono darsi. La rivelazione dunque non riguarda solamente cosa l'uomo debba 'fare' ‒ nell'accezione più alta del termine, quella rituale ‒ ma anche chi egli sia, quale sia la natura dell'Universo, ecc., insegnamenti che trovano posto particolarmente nell'estremo segmento della rivelazione vedica, quelle Upaniṣad o vedānta ('fine dei Veda') che Kumārila invece tratta come semplici digressioni illustrative (arthavāda) rispetto alla verità più alta delle ingiunzioni rituali (vidhi). I mezzi di conoscenza (pramāṇa) del soggetto individuale e più in generale il suo argomentare razionale (tarka) sono per così dire strumenti autoreferenziali, che rischiano continuamente di sboccare in vicoli ciechi e produrre, nella migliore delle ipotesi, verità provvisorie destinate a essere scalzate da un successivo uso più avvertito degli stessi mezzi. Il grande grammatico-filosofo Bhartṛhari (V sec. d.C.) aveva formulato questo principio una volta per tutte in un verso spesso citato del suo Vākyapadīya (Della frase e della parola): "Un oggetto, con sforzo definito secondo una certa natura grazie a un ragionamento inferenziale da parte di abili ragionatori, da altri ancora più abili può essere accertato in maniera diversa" (ed. Rau, I.34).
La preoccupazione, relativa al fatto che il ragionare autonomo finisca per innescare un delirio di onnipotenza o semplicemente si svilisca nell'autocompiacimento di una tecnica volta soprattutto a logorare tesi antagoniste (questa è una frequente accezione di tarka), è comune anche alle correnti estranee alla rivelazione vedica, quali il buddhismo o il jainismo. Al termine tarka, in ambiti di filosofia fondata sulla tradizione, è frequentemente associato l'aggettivo śuṣka, 'arido, secco, privo di succo'. Questo però non vuol significare, come più volte si è ripetuto, un rigetto tout-court della razionalità, visto che un altro termine affine ‒ yukti, 'congruità (dell'argomentazione e dell'esposizione)', 'intelligibilità', ecc. ‒, il quale come tarka rientra nel medesimo ampio campo semantico della occidentale 'ragione', gode invece di un quasi universale apprezzamento. Il ricorso alla rivelazione vedica risponde al bisogno di dare all'attività cognitiva e speculativa un ancoraggio solido, un fondamento esterno a essa. È anche in questo senso, meno immediato, che può essere inteso il cosiddetto apologo del 'decimo uomo', riferito da Śaṅkara nell'Upadeśasāhasrī (I mille versi sull'insegnamento). Dieci giovani che attraversano un fiume su una zattera sono presi dal dubbio che uno di loro sia stato inghiottito dalle acque; uno allora comincia la conta, la ripete più volte con ogni cura arrivando ogni volta al numero di nove. Dallo sgomento nel quale tutti precipitano li riscuote un personaggio che non fa parte del gruppo e si trova a passare lì per caso: dall'esterno gli è facile vedere che i giovani sono effettivamente dieci e che chi contava, non per disattenzione ma forse proprio per eccesso di coinvolgimento, dimenticava di contare sé stesso.
Può anche accadere, però, a riprova della complessità del mondo culturale indiano e, in generale, della sua riluttanza a troppo costrittive schematizzazioni, di imbattersi in sporadiche eulogie dell'assenza di radicamento (apratiṣṭhitatva), vista come stimolo all'indagine critica e alla continua rimessa in discussione (Halbfass 1991).
In realtà la natura e gli esiti di questa dichiarata dipendenza dalla rivelazione vedica sono probabilmente molto meno condizionanti di quanto il critico occidentale avesse temuto. Ciò dipende in primo luogo dalla natura stessa dei Veda, nei quali non esistono dottrine che possano considerarsi definite e univoche, e meno che mai un'articolazione in dogmi, il che rende il loro impatto molto meno invasivo anche nel pensiero di quelli come Śaṅkara che, in netta minoranza nell'insieme dei pensatori indiani, tendono a estendere la normatività dei Veda alla totalità delle attività umane e non alla sola sfera del dharma. I Veda non sono una forma di esperienza, ma piuttosto danno forma all'esperienza (Mohanty 1992); nella loro plasticità, consentono una inesauribile possibilità di reinterpretazioni, ovvero di introduzione del nuovo, diversamente dall'altra grande componente della tradizione, la smṛti, il 'ricordo', subordinata ai Veda e rispetto a essi molto più strutturata e tendente all'irrigidimento; piuttosto che dare dei contenuti all'esperienza cognitiva la rivelazione vedica le fornisce un vasto quadro di riferimento, che la sostiene senza soffocarla. La dipendenza dalla tradizione è poi essa stessa oggetto di approfondimento, di problematizzazione da parte degli stessi filosofi 'ortodossi', che per così dire la portano allo scoperto, incessantemente rimodulandone la portata e i significati. È inoltre di grande interesse la constatazione di come, pur essendo innegabile che intere branche del sapere ‒ come, per esempio, la grammatica, con il suo grande prestigio di scienza-modello ‒ nascano in ambiente sacrale e strettamente connesse col Veda, questo però non impedisca in alcun modo il loro svilupparsi in modi totalmente autonomi e 'laici'.
Da parte sua, lo stesso critico occidentale è ora sempre più consapevole di come la teoria 'pura' e libera da condizionamenti, che caratterizzerebbe per contrasto il pensiero occidentale, sia in realtà nutrita e guidata da paradigmi inconsapevoli, anch'essa dunque inevitabilmente condizionata da contesti e modelli culturali: del resto, è proprio della conoscenza umana l'essere via via soltanto la modificazione di conoscenze precedenti.
Poste queste necessarie premesse, la presentazione delle linee essenziali della filosofia indiana seguirà in parte il modello tradizionale incentrato sui sei sistemi brahmanici (Nyāya, Vaiśeṣika, Sāṃkhya-Yoga, Pūrvā e Uttarā Mīmāṃsā) ai quali si aggiungono Lokāyata, buddhisti e jaina. La riduzione dei sistemi al numero di sei (buddhismo, Nyāya, Sāṃkhya, jainismo, Vaiśeṣika e Pūrvamīmāṃsā) appare già ben radicata nell'opera del primo importante dossografo, Haribhadra, e diventerà la più diffusa, accanto ad altre opere che tendono a presentare visioni più differenziate, quale, per esempio, il Sarvadarśanasaṃgraha (Compendio di tutti i darśana), che descrive ben sedici darśana. Nelle presentazioni dossografiche ogni darśana appare come imbalsamato in una forma definitiva, senza che sia dato di ricostruirne il processo di formazione. Nonostante il variare anche notevole delle posizioni, i seguaci dei singoli darśana si percepiscono come sostanzialmente appartenenti a una stessa tradizione, che talvolta finisce per includere in senso lato anche jaina e buddhisti, e sporadicamente perfino gli universalmente vituperati Lokāyata, i 'materialisti'. Ancora una volta, a sorprenderci è Kumārila, che si mostra, lui campione della scuola ultraortodossa specializzata nell'ermeneutica dei Veda, inaspettatamente tollerante con i sostenitori di dottrine difformi da quelle della Mīmāṃsā, purché beninteso non si tocchi la prassi, il rito. Nei confronti della molteplicità dei punti di vista e delle dottrine si possono individuare alcuni atteggiamenti fondamentali, che vanno dal rifiuto totale a varie forme di accettazione condizionata. L'atteggiamento di stretta aderenza a una singola scuola con rifiuto di ogni altra posizione è quello relativamente più raro, commisto di connotazioni settarie di ordine religioso (per es. i Vaiṣṇava ekāntavādin, 'assolutisti') o, come nel caso dei Lokāyata, determinato dalla loro condizione di radicale e critico isolamento. Il rigetto delle tesi degli avversari nel buddhismo madhyamaka si inquadra nel rigetto programmatico di qualsiasi tesi in quanto tale, inclusa ‒ se ci fosse ‒ la propria. Molto più diffusa è una sorta di accettazione limitata, a patto che la scuola avversaria alla quale si riconosce una certa validità sia disposta ad accomodarsi in una scala rigidamente gerarchica al cui culmine sola campeggia la dottrina propria. Questo atteggiamento, in cui la tolleranza è soltanto di facciata, si unisce spesso alla concezione di una doppia verità (assoluta, la propria, e relativa, quella degli altri) o del venire incontro attraverso una graduazione della verità alle differenze qualitative degli esseri. Infine, il cosiddetto 'prospettivismo' di Bhartṛhari (Houben 1997), che accetta la molteplicità dei punti di vista come diretto portato della natura della realtà, considerandoli ciascuno un degno oggetto di attenzione e capace di dare il suo apporto al tentativo di fronteggiare la complessità del reale. Vi è qui una forte consonanza con l'atteggiamento prevalente nella filosofia jaina, noto come 'dottrina della non-univocità, o del non-assolutismo' (anekāntavāda). La disparità delle posizioni non è vista sotto il segno dello sconcerto e del caos, ma come una fonte di arricchimento per l'intelletto che grazie ad essa affina la sua capacità di discriminazione (Vākyapadīya, ed. Rau, II.487-489).
Seguendo in questo parzialmente la tradizione dossografica, la presentazione dei darśana verterà in particolare su alcune tematiche 'filosofiche', lasciando da parte per quanto possibile le componenti religiose. In alcuni casi, come si vedrà, nei quali la dimensione soteriologica ha tutta l'aria di un'aggiunta secondaria e tardiva, ciò potrà darsi senza far alcuna significativa violenza al significato unitario del sistema. I principali temi trattati, tra loro strettamente collegati, saranno: la natura del reale, la causalità, le modalità del conoscere, i mezzi di conoscenza validi, il linguaggio e la conoscenza verbale.
La forma dei testi
Il testo 'originale' nelle varie branche del sapere tradizionale tende a presentarsi in una forma molto succinta, di difficile o talora impossibile comprensione senza un supporto interpretativo, il quale era presumibilmente rappresentato in primo luogo dall'insegnamento orale di un maestro. Il termine sūtra con cui questo tipo di testo viene designato (Renou 1963) sembra sempre rimandare a un'esposizione più articolata, di cui il sūtra presenta soltanto i punti fondamentali, mirando a favorire, grazie alla sua brevità, una più agevole memorizzazione; a questo fanno riferimento i commentatori quando parlano di 'filo' (tale è infatti il significato letterale di sūtra) che tiene unite le perle di una collana, ovvero le varie parti di un insegnamento complesso. Un'altra interpretazione pone, invece, il termine nell'ambito della grande metafora indoeuropea del testo come 'tela' (tessuto o anche ragnatela), di cui il sūtra costituisce per l'appunto un 'filo'. La traduzione più corrente per sūtra è 'aforisma' (usata per denominare sia il singolo 'aforisma' sia l'insieme degli aforismi che compongono l'opera). Secondo una definizione tradizionale delle sue caratteristiche essenziali riportata da Madhva nel suo commento al Brahmasūtra, il sūtra deve consistere di un numero ridotto di sillabe (alpākṣara), contenere il succo di un insegnamento (sāravat), essere di portata generale (viśvatomukha), essere senza pause (o digressioni; astobha) ed esente da pecche (anavadya). Il modello ideale del sūtra, anche se non il più antico in termini assoluti, è rappresentato dalla grammatica di Pāṇini (Aṣṭādhyāyī, Trattato in otto capitoli; V-IV sec. a.C.), governata da ferree leggi di economia espositiva volte a una quanto più possibile estesa generalizzazione e la cui accessibilità è ulteriormente complicata dall'uso di uno specifico metalinguaggio e dalla necessaria applicazione di metaregole. Distanziandosi, per nostra fortuna, da questo modello irraggiungibile (in effetti, a voler andare oltre la laconicità di un sūtra quale quello conclusivo dell'Aṣṭādhyāyī, "a a", non resta che il silenzio), questo genere di letteratura presenta una gamma alquanto varia di livelli di concisione e di ellissi, che comunque rendono sempre quanto meno problematica una sua intrinseca intelligibilità come testo autonomo. Al sūtra, originariamente in prosa, si affiancherà più tardi la kārikā, una sorta di sūtra versificato, di norma meno ermetico e più fruibile anche mediante una lettura autonoma.
Il supporto primario del sūtra è costituito da un tipo di commento semplice e breve (vṛtti), che parafrasa il testo, colmandone le ellissi e mettendo a fuoco il procedere dell'argomentazione nelle sue linee generali. Sembra accertato che a ogni sūtra fosse legata già alla nascita una vṛtti (e sembra che anche la grammatica di Pāṇini disponesse di una vṛtti orale, non pervenuta). Se la vṛtti si propone uno scopo relativamente modesto, ma nondimeno fondamentale, il vārttika ‒ per il quale si può proporre la traduzione 'glossa' ‒ è invece un commento con intenti molto più ambiziosi, che guarda criticamente al testo con un largo margine di indipendenza. Esso si presenta sotto forma di brevi frasi nominali in prosa, di concisione tanto ricercata quanto invece piano è di norma lo stile della vṛtti (esistono tuttavia anche esempi di vṛtti estremamente ardue, una per tutte la vṛtti al primo capitolo del Vākyapadīya di Bhartṛhari). Il vārttika può anche assumere una forma versificata, prendendo allora il nome di ślokavārttika 'glossa composta in śloka' (verso di trentadue sillabe, di amplissima diffusione in ogni genere letterario); due esempi illustri sono quelli dovuti a Kumārila e ad Abhinavagupta. Secondo la classica definizione di Nāgeśa, il vārttika serve a formulare ipotesi su quanto possa esserci di non detto (anukta) o di espresso in maniera insoddisfacente (durukta) nel testo originale. Tra tutti i vari tipi di commento è di certo il meno sistematico, presentandosi normalmente nella forma di annotazioni sporadiche a parti del testo originale che abbiano suscitato la reazione critica del commentatore-glossatore.
Un commento di ampio respiro è invece il bhāṣya, che in vari esempi pervenuti incorpora vārttika precedenti o altri che possono essere stati composti dall'autore stesso del bhāṣya; il commento al testo originale avviene talora direttamente, ma più spesso con l'intermediazione di uno o più vārttika, che pongono problemi da risolvere e spunti per ulteriori riflessioni. Nella forma in cui questi commenti sono pervenuti non è sempre facile distinguere i tre livelli, sūtra, vārttika, bhāṣya ‒ e in particolare individuare il livello vārttika ‒, che tendono a restare annidati nel tessuto del testo; è spesso soltanto la peculiarità della loro forma ‒ una frase nominale molto sintetica e relativamente avulsa dal contesto ‒ che consente di metterli allo scoperto. Testi che a un'attenta analisi rivelano una tale struttura sono, per esempio, il Nyāyabhāṣya (Commento al Nyāya[sūtra]) di Pakṣilasvāmin (V sec. d.C.), il Tattvārthavārttika (Glosse al [sūtra sul] significato della vera realtà) di Akalaṅka (VII-VIII sec. d.C.), la Yuktidīpikā (Illuminatrice del ragionamento; VII-VIII sec. d.C.), il più esteso e importante commento alla Sāṃkhyakārikā (Strofe sul sistema Sāṃkhya). Secondo la definizione riportata dall'autore del bhāṣya per eccellenza (all'Aṣṭādhyāyī di Pāṇini congiuntamente con i vārttika di Kātyāyana), Patañjali (II sec. a.C.): "I conoscitori del bhāṣya lo definiscono come il commento che elucida il significato del sūtra per mezzo di parole che si conformano al sūtra, e che poi passa a elucidare le sue parole stesse". È degno di nota il fatto che spesso il mondo culturale e scientifico indiano non sembra fare differenza tra un sūtra e un suo determinato commento, appartenente a una delle categorie suddette, sentito come particolarmente esemplare o prestigioso, considerandoli come un testo unitario e in un certo modo come un'entità inscindibile. Tra gli esempi più significativi, appartenenti a differenti tradizioni, vanno menzionati gli Yogasūtra con il bhāṣya di Vyāsa, il Vākyapadīya con la vṛtti (opera probabilmente dello stesso Bhartṛhari), il jaina Tattvārthādhigamasūtra (Aforismi sulla comprensione del significato della vera realtà) con il bhāṣya di Umāsvāti, il buddhista Madhyāntavibhāga (Discriminazione tra il medio e gli estremi) con il bhāṣya di Vasubandhu, l'Arthaśāstra (Trattato sull'utile) con il bhāṣya di Viṣṇugupta (Bronkhorst 1992).
Esistono poi commenti di forma più generica e meno riconducibile a uno specifico modello, che presentano dettagliate esposizioni del testo originale spesso suffragate da abbondanti citazioni da opere considerate autorevoli, la discussione di tesi alternative e talvolta anche lunghi excursus, che possono formare un vero e proprio trattato nel trattato. Le denominazioni più correnti sono ṭīkā, per l'appunto 'commento esteso', vivṛti, lett. 'dischiusione', vimarśinī 'riflessione', vyākhyā 'spiegazione', e così via. Frequenti sono inoltre i titoli con intenti metaforici: pradīpa 'fiaccola', prakāśa 'luce', candrikā o kaumudī 'raggio di luce lunare'. Da commenti di questo tipo ci si aspetta ‒ come afferma il Parāśara-purāṇa (Le Antichità del saggio Parāśara) ‒ che forniscano la divisione delle parole, la spiegazione del loro significato, lo scioglimento dei composti, la costruzione della frase, la formulazione di obiezioni e il loro successivo appianamento.
In questo gioco di interpretazioni, di amplificazioni e di rimandi ‒ ci sono spesso commenti che spiegano commenti precedenti, destinati a essere poi a loro volta commentati ‒ il testo originale del sūtra, di norma ristretto a poche righe o al più a qualche pagina, rischia ai nostri occhi di essere totalmente soffocato sotto il peso delle migliaia e migliaia di pagine di commento. Così invece non è, essendo il sūtra espressamente investito del ruolo insostituibile di segno della continuità di una tradizione, ruolo che proprio la sua forma di testo 'embrionale' rende possibile. In virtù della ricchezza inesauribile di significato che gli viene attribuita, esso può costituire sia il punto di partenza sia quello di arrivo; uno dei requisiti caratteristici del sūtra è per l'appunto quello di essere polisemico (bahvartha). Possono beninteso sorgere dispute quanto alla legittimità dei diversi modi di porsi davanti a esso. Essi sono riconducibili a due tipi principali; secondo il primo, sostenuto da Kumārila, tutto ciò che è derivato da un sūtra deve in un modo o nell'altro essere presente nella lettera di esso, e di tutte le varie esposizioni il sūtra deve rimanere strettamente la 'matrice' (yoni); per il secondo, invece, l'autore del sūtra non è tenuto a indicare nella lettera del testo ciò che dal testo è ricavabile per diretta implicazione (è l'opinione, per es., di Vācaspati Miśra).
Una interessantissima esemplificazione di come un sapiente indiano percepisse le dinamiche del rapporto testo-commenti è fornita dalle acute considerazioni di Abhinavagupta (X-XI sec. d.C.) a proposito del corpus testuale della scuola tantrica della Pratyabhijñā (Riconoscimento [del Signore]). Autore del testo-radice, l'Īśvarapratyabhijñā-kārikā o -sūtra (Stanze sul riconoscimento del Signore) è Utpaladeva (prima metà del X sec. d.C.), il quale compose, simultaneamente al testo originale, anche una breve vṛtti, che lo rendeva intelligibile, e più tardi un esteso commento (ṭīkā o vivṛti) in cui sviluppava le varie implicazioni della dottrina e si confrontava con le scuole avversarie. Secondo Abhinavagupta, occorre distinguere tra due categorie di possibili 'ascoltatori-lettori': quelli che si avvicinano a questo insegnamento venendo da un passato di adesione ad altre dottrine, e quelli che per la prima volta si interrogano sulla natura della realtà. Questi ultimi devono affrontare prima il complesso aforismi-commento breve (sūtra-vṛtti) congiuntamente; questo li preparerà al momento finale, rappresentato dallo studio dei sūtra da soli. I primi, invece, devono cominciare con il commento esteso (ṭīkā), che li preparerà al complesso aforismi-commento breve, per poi approdare finalmente al testo-radice (sūtra), che non viene dunque all'inizio ma alla fine (v. sopra). Abhinavagupta menziona, inoltre, un momento ulteriore, in cui anche i sūtra vengono superati in favore di un finale raggiungimento del cuore stesso della dottrina, al di là della sua formulazione in parole, in identità con la coscienza del loro autore. Per dar conto delle reciproche relazioni dei vari strati del testo unito ai suoi commenti, Abhinavagupta usa anche un altro modello, tratto dalla speculazione filosofico-linguistica, la quale individua nella realtà onnipervadente del linguaggio quattro distinti livelli. In ordine di crescente dignità ontologica e di progressiva rarefazione essi sono: il linguaggio articolato e udibile del quotidiano commercio mondano (Vaikharī '[Voce] Corporea'), il linguaggio articolato ma non udibile del discorso interiore (Madhyamā '[Voce] Mediana'), il linguaggio che ha ormai compresso ogni attuale differenziazione e articolazione, coincidente con l'intuizione, ecc. (Paśyantī '[Voce] Veggente'), e infine Parā ('[Voce] Suprema'), parola-coscienza assolutamente indifferenziata che trascende le altre tre e insieme funge da loro necessario sostrato. Al livello della Voce Corporea apparterrà dunque il piano della ṭīkā, a quello della Mediana il piano del complesso sūtra-vṛtti, fino a culminare nel livello della Veggente proprio dei sūtra da soli. Nel piano della Voce Suprema, ovviamente, non si può ormai più parlare di 'testi'.
Il sistema Nyāya (lett. 'metodo', poi anche 'logica') si pone come il continuatore di due distinte tradizioni, l'ānvīkṣikī vidyā, la 'scienza dell'investigazione e dell'esame critico', e il vāda, il 'dibattito', di cui fin da tempi remoti l'India ha classificato i modi e stabilito le regole. La disputa colta sui più disparati argomenti ha caratterizzato tutta la storia della cultura indiana ‒ fino ai tempi moderni (basta partecipare a una delle ancora frequenti paṇḍitasabhā 'assemblee di sapienti') ‒ e ha lasciato delle tracce inequivocabili nella forma stessa dei testi e nei modi di sviluppo dell'argomentazione, nei quali prevale nettamente una forma dialogica, sia diretta sia più o meno mascherata sotto un gioco, che può essere intricatissimo, di presentazione di posizioni alternative, di soluzioni provvisorie cui seguono altre obiezioni, fino ad arrivare alla dottrina stabilita (siddhānta). Non sorprenderà, dato il ruolo goduto dalla grammatica di scienza modello fra le altre, di trovare proprio in un'opera grammaticale, il Mahābhāṣya (Grande commento [all'Aṣṭādhyāyī di Pāṇini]) di Patañjali (II sec. a.C.) l'esempio più prestigioso e immensamente influente di articolazione dell'argomentazione scientifica. Il dibattito, la controversia dotta (per la quale si usano anche i termini quasi-sinonimi di kathā e saṃbhāṣā), che hanno un antecedente vedico nei brahmodya (controversie sotto forma di enigmi, talora non dissimili dai koan dello Zen) e nei vākovākya (dispute dialogate su temi teologici), trovano le loro prime codificazioni nella medicina e nella scienza della liturgia. Strettamente connesse con le regole del dibattito sono le cosiddette tantrayukti, 'regole per la composizione di un trattato scientifico', le cui prime e più prestigiose codificazioni sono rinvenibili in testi di ambiti molto diversi quali la politica e la medicina, a sottolinearne il carattere di norme generali estendibili a tutte le branche del sapere. La descrizione che segue è quella della Suśrutasaṃhitā (Raccolta di Suśruta; II-III sec. d.C.?), sostanzialmente condivisa dall'Arthaśāstra (Trattatto sull'utile; IV-III sec. a.C.?), e presente, con l'aggiunta di quattro elementi, anche nell'altro grande classico della medicina, la Carakasaṃhitā (Raccolta di Caraka; I sec. d.C., v. cap. XIV): (1) argomento del discorso (adhikaraṇa); (2) giusta combinazione di parole (yoga); (3) determinazione del significato di una parola polisemica in base al contesto (padārtha); (4) illustrazione di cose ignote in base ad esempi noti (hetvartha); (5) breve enunciazione di un tema (uddeśa); (6) sua descrizione dettagliata (nirdeśa); (7) istruzione generale (upadeśa); (8) presentazione di una ragione logica (apadeśa); (9) risoluzione di una difficoltà presente in analogia con una passata (pradeśa); (10) anticipazione di un evento futuro in base a un'indicazione presente (atideśa); (11) eccezione (apavarga); (12) completamento del senso di una frase grazie al contesto (vākyaśeṣa); (13) implicazione (arthāpatti); (14) asserzione contraria (viparyaya); (15) riferimento a cose ripetutamente descritte in altra sezione (prasaṅga); (16) affermazione assoluta (ekānta); (17) ammissione della possibilità di punti di vista diversi (anekānta); (18) tesi provvisoria (pūrvapakṣa); (19) accertamento [attraverso domande e risposte] (nirṇaya); (20) accettazione implicita [di una posizione avversaria, se menzionata senza criticarla] (anumata); (21) sistemazione secondo un ordine precedentemente fissato (vidhāna); (22) anticipazione di argomenti destinati a futuro sviluppo (anāgatāvekṣaṇa); (23) accenno ad argomenti discussi in precedenza (atikrāntāvekṣaṇa); (24) dubbio (saṃśaya); (25) descrizione elaborata (vyākhyāna); (26) uso tecnico di un termine (svasamjñā); (27) spiegazione etimologica (nirvacana); (28) esemplificazione (nidarśana); (29) direzione (niyoga); (30) accorpamento di due o più temi (samuccaya); (31) presentazione di alternative (vikalpa); (32) comprensione in base al contesto di quanto non è espresso (ūhya) (Solomon 1976-78).
Alla presentazione di temi derivati dalla più antica eristica, il testo-radice del Nyāya (Nyāyasūtra, Aforismi sul Nyāya) aggiunge un'approfondita trattazione dei mezzi di conoscenza (pramāṇa) ‒ diffondendosi in particolare sulla formulazione del ragionamento inferenziale ‒ e una comparativamente sommaria cornice ontologica, con infine una coda soteriologica. Su questo testo, ripetutamente reinterpretato, si costruisce l'edificio del Nyāya classico, che verrà poi profondamente rinnovato e messo in discussione dalla cosiddetta 'Nuova Logica' (Navyanyāya), che ha ancor oggi un ruolo determinante negli ambienti del sapere tradizionale. Il Nyāya, a partire da Udayana (X-XI sec. d.C.), trasformerà il suo percorso in gran parte parallelo con quello del Vaiśeṣika nella vera e propria confluenza in una scuola unitaria.
Il corpus testuale del Nyāya ha dunque alla sua base il Nyāyasūtra, raccolta eteroclita di brevi aforismi, che ha assunto una sua forma (relativamente) definitiva nel IV sec. d.C. partendo da un nucleo originario databile intorno al II sec. d.C. Ne è considerato l'autore un saggio di nome Akṣapāda, il quale verrà in seguito (dal X sec. in poi) designato anche come Gotama o Gautama. La sua esistenza storica è assai dubbia e tutto quanto è tramandato di lui ha un sapore leggendario, a partire dal significato attribuito al nome Akṣapāda, 'che ha gli occhi nei piedi'. Questo deriverebbe da uno speciale dono degli dèi, preoccupati per i ripetuti incidenti (cadute, ecc.) a cui lo esponeva il suo continuo assorbimento in profonde elucubrazioni. Il primo commento pervenuto è quello di Pakṣilasvāmin, alias Vātsyāyana (seconda metà del V sec. d.C.), intitolato Nyāyabhāṣya (Commento al Nyāya[sūtra]). Esso fu l'oggetto di un importante sub-commento, il Nyāyavārttika (Glosse sul Nyāya) di Uddyotakara (VI sec. d.C.), impostato sulla reazione alle critiche portate al Nyāya dalla nascente scuola logico-epistemologica del buddhismo, guidata da Dignāga. Il Nyāyavārttika fu a sua volta commentato estesamente prima dal gruppo dei cosiddetti ācārya, 'Maestri', le cui opere non ci sono pervenute, e poi dal grande poligrafo Vācaspati Miśra (X sec. d.C.), che si dedicò all'elucidazione di darśana disparati senza univoche adesioni di scuola. La sua Nyāyavārttikatātparyaṭīkā (Commento lungo agli intendimenti delle glosse sul Nyāya) fu a sua volta commentata da Udayana (a cavallo tra il X e l'XI sec. d.C.) nella lunga e difficile Nyāyavārttikatātparyapariśuddhi (Accurata chiarificazione degli intendimenti delle glosse sul Nyāya), non integralmente pervenuta. Non si pensi però che i commenti ai Nyāyasūtra si concludano con l'opera prestigiosa di Udayana. Quest'ultimo fu a sua volta commentato da Vardhamāna (Nyāyanibandhaprakāśa, Illustrazione della compilazione del Nyāya), Vardhamāna da Padmanābha Miśra (Vardhamānendu, [Luce della] luna su Vardhamāna), Padmanābha da Śaṅkara Miśra (Nyāyatātparyamandana, Ornamento agli intendimenti del Nyāya).
Oltre alla diretta letteratura di commento al sūtra-radice, alcuni trattati indipendenti meritano una particolare menzione, a cominciare dalla Nyāyamañjarī (Mazzo di fiori della logica) e dal Nyāyabhūṣana (Ornamento del Nyāya), opere rispettivamente di Jayanta Bhaṭṭa e del di poco posteriore Bhāsarvajña, entrambi kashmiri. La prima, composta, secondo quanto affermato dall'autore stesso, mentre era in carcere e cercava un modo per passare il tempo, si segnala per l'obiettività della presentazione delle tesi avversarie e per l'esemplare eleganza dello stile. La seconda, scoperta soltanto recentemente, in forma di commento a un'altra opera dello stesso autore, il Nyāyasāra (Essenza del Nyāya), presenta posizioni fortemente personali e alquanto eccentriche rispetto alla tradizione corrente del Nyāya, che saranno poi in parte riprese dai maestri della Nuova Logica. Di notevole importanza sono anche due opere di Udayana, l'Ātmatattvaviveka (Discriminazione dell'essenza del sé), dedicata a confutare la negazione del sé da parte dei buddhisti, e la Nyāyakusumāñjali (Manciata di fiori del Nyāya), articolata dimostrazione dell'esistenza di Dio con confutazione dell'ateismo dei buddhisti, Materialisti, Sāṃkhya e Mīmāṃsaka.
Bhāsarvajña e Udayana possono essere considerati gli ultimi grandi esponenti del Nyāya classico e, insieme, come la cerniera che connette l'antica e la nuova logica. La fondazione del Navyanyāya è da attribuirsi all'opera rivoluzionaria di Gaṅgeśa, il [Pramāṇa]Tattvacintāmaṇi (Gemma dei desideri della vera essenza [dei mezzi di retta conoscenza]), composto intorno al 1325. Nei quasi tre secoli che separano Udayana da Gaṅgeśa si collocano alcuni interessanti pensatori, quali Maṇikaṇṭha, Śrīvallabha e Śaśadhara, dediti soprattutto a rielaborare l'insegnamento di Udayana. Il Tattvacintāmaṇi, la cui estensione corrisponde a ben 12.000 versi, presenta una divisione in quattro capitoli, dedicati ciascuno a uno dei quattro mezzi di retta conoscenza accettati dal Nyāya, e questo segna già una prima presa di distanza dalla dottrina classica con la sua suddivisione in sedici categorie (v. oltre). Molte delle problematiche classiche sono lasciate cadere per concentrarsi esclusivamente sui temi dell'epistemologia e della logica. L'opera di Gaṅgeśa diede origine, per più di tre secoli, a una mole impressionante di letteratura di commento, concentrata principalmente sul capitolo di gran lunga più importante dell'intera opera, quello dedicato all'inferenza, a sua volta diviso in 'sezione della pervasione' e 'sezione della conoscenza', rispettivamente dedicati alla definizione dell'inferenza e dell'invariabile concomitanza su cui essa si basa, e a quella del soggetto dell'inferenza e alle fallacie del ragionamento inferenziale; tra gli altri capitoli anche quello dedicato alla testimonianza verbale ricevette una prolungata attenzione. Data la peculiare concisione dello stile di Gaṅgeśa, accade di frequente che a essere oggetto di lunghi ed elaborati commenti siano solamente alcune brevi sezioni dell'opera o addirittura singole proposizioni. L'estrema cura delle definizioni è uno dei tratti identificativi del Navyanyāya, che, a partire da Gaṅgeśa, sviluppò una complessa e articolata terminologia che finì per imporsi in ogni branca del sapere. A partire dall'opera di Gaṅgeśa assistiamo anche a un radicale cambiamento negli interlocutori del serrato discorso critico del Nyāya. Scomparsi ormai dall'India i 'naturali' avversari ‒ i buddhisti ‒ l'argomentazione si concentra contro le dottrine della Mīmāṃsā, e non a caso particolarmente contro una delle due scuole principali, quella dei seguaci di Prabhākara, i quali maggiormente avevano subito il condizionamento dell'ultima stagione della filosofia buddhista.
L'ultimo grande esponente del Navyanyāya è Raghunātha Śiromaṇi, di cui è tramandata l'immagine inusuale nel mondo indiano di sprezzatore della tradizione e di innovatore audace, consapevole dell'eccellenza delle sue doti intellettuali che lo ponevano al di sopra dei suoi contemporanei. Le sue opere principali sono l'Anumānadīdhiti (Riflessione sull'inferenza), acutissima disamina dell'omonima sezione del Tattvacintāmaṇi, e il Padārthatattvanirūpaṇa (Descrizione della vera essenza delle categorie), in cui altera profondamente, con aggiunte ed eliminazioni, la dottrina delle categorie del Vaiśeṣika, inglobata nel Nyāya. "Tutto quanto i sapienti del passato hanno concordato nel ritenere o giusto o sbagliato", si legge alla fine dell'Anumānadīdhiti, "tutto andrà rimesso in discussione ora che sono io a parlare". I suoi contributi principali sono nell'analisi della concomitanza nel ragionamento inferenziale e delle varie forme della negazione. A riprova dell'interesse ormai quasi esclusivo, nell'ultima stagione del Navyanyāya ‒ che in India sopravvive ancor oggi ‒, per la logica formale, a cavallo tra linguistica e filosofia, a essere ripetutamente commentata nei secoli successivi sarà proprio l'Anumānadīdhiti, opera che l'estrema concisione e sottigliezza unite all'inflessibile rigore dello stile rendono una delle più ardue dell'intera letteratura filosofica indiana.
Il Nyāyasūtra nella forma diventata canonica consta di cinque capitoli (adhyāya, 'letture'), ciascuno diviso in due sezioni (āhnika, 'giornate'). Nell'interpretazione del commentatore Vātsyāyana, essi conterrebbero l'enunciazione (uddeśa) dei concetti fondamentali del Nyāya, la loro definizione (lakṣaṇa) ed esame critico (parīkṣā). Alla enunciazione e definizione di sedici categorie fondamentali è dedicato il primo capitolo; il secondo all'esame critico dei mezzi per raggiungere una conoscenza valida (pramāṇa), preceduto dall'esame di quella che ne è la necessaria precondizione, cioè il dubbio; il terzo all'esame critico dei primi sei tra i dodici oggetti del conoscere; nel quarto capitolo, la prima sezione è dedicata all'esame degli altri sei e alla confutazione di tesi antagoniste sull'argomento, mentre la seconda, seguendo un percorso molto meno lineare, tratta di nuovo della validità della conoscenza, quindi della teoria degli atomi, di alcuni temi relativi allo yoga, di due forme di dibattito e di argomentazione considerate scorrette; il quinto capitolo, infine, è dedicato alle 'obiezioni futili' (jāti) e ai 'luoghi di immobilizzazione' (nigrahasthāna), ovvero alle circostanze nelle quali uno dei due contendenti dialettici deve riconoscersi sconfitto.
La storia testuale del Nyāyasūtra è stata particolarmente tormentata, partendo da un nucleo originario rappresentato dai capitoli primo e quinto, dove è concentrata la teoria eristica, con successive aggiunte concernenti temi epistemologici, logici, ontologici e, infine, un'appendice soteriologica, poco integrata nell'insieme. Forse proprio tale carattere fluttuante del testo, esposto per secoli ad aggiunte o espunzioni, deve aver infine determinato Vācaspati Miśra a comporre in epoca già tarda (cosa non frequente, il testo è datato 898, purtroppo però senza indicazione dell'era alla quale si riferisce; delle due date possibili la più tarda, 976/977, sembra la più probabile), una breve operetta nota come Nyāyasūcīnibandha (Compilazione dell'indice del Nyāya[sūtra]), che è al tempo stesso una sorta di indice analitico e di fissazione definitiva di un canone.
Le sedici categorie che il Nyāya presenta sono in primo luogo le categorie fondamentali del dibattito, che dunque fungono da cornice dell'intero sistema, contenendo al loro interno i mezzi di conoscenza considerati validi (pramāṇa, menzionati al primo posto) e gli oggetti di valida conoscenza (prameya, al secondo). Sotto queste due categorie sono discusse la teoria epistemologica e logica, da una parte, e quella ontologica, dall'altra. Quest'ultima è sotto il segno del realismo e del pluralismo, riconoscendo all'oggetto una esistenza autonoma, indipendentemente dal soggetto conoscente; dal soggetto ci si aspetta che registri fedelmente il dato, col quale viene in contatto in forma diretta o indiretta, senza proiettare su di esso strutture soggettive. L'oggetto è visto come sostanza alla quale ineriscono delle qualità; le varie parti di cui esso consta non costituiscono sommate tra di loro la totalità dell'oggetto, essendo considerato il tutto un'entità distinta e trascendente l'accumulazione delle singole parti. Questa forma originaria di realismo ingenuo si dovrà però ben presto confrontare con le sottigliezze del fenomenalismo buddhista, culminante col pensiero di Dignāga e Dharmakīrti (v. oltre). Ne risulta un dibattito appassionante che culmina nell'opera di Udayana, in cui il realismo del Nyāya non muta radicalmente ma accetta con lucidità una consapevole problematizzazione. La visione del Nyāya finisce per rappresentare una sorta di formalizzazione del senso comune, largamente accettata, perlomeno al livello della realtà pratica, dalla generalità delle scuole brahmaniche, ma non solamente da queste, se si pensa che anche il pensiero tantrico hindu (per es., con Utpaladeva e Abhinavagupta), apparentemente così distante, considera le dottrine nyāya tutto sommato le più adeguate a dar conto della realtà empirica e a orizzontarsi in essa.
Le sedici categorie sono enunciate dal primo aforisma del Nyāyasūtra:
A condurre all'ottenimento del bene supremo è la conoscenza secondo realtà: 1) dei mezzi di retta conoscenza (pramāṇa); 2) degli oggetti di retta conoscenza (prameya); 3) del dubbio (saṃśaya); 4) della motivazione (prayojana); 5) dell'esempio (dṛṣṭānta); 6) della dottrina stabilita (siddhānta); 7) dei membri dell'inferenza (avayava); 8) del ragionamento ipotetico (tarka); 9) del definitivo accertamento (nirṇaya); 10) del [leale] dibattito (vāda); 11) della diatriba (jalpa); 12) del cavillo (vitaṇḍā); 13) delle ragioni logiche fallaci (hetvābhāsa); 14) del deliberato travisamento [delle tesi avversarie] (chala); 15) dell'obiezione futile (jāti); 16) dei punti di immobilizzazione (nigrahasthāna).
Quali debbano essere ammessi come mezzi di retta conoscenza è specificato nel sūtra (I.1.3): "Mezzi di retta conoscenza sono la percezione, l'inferenza, l'analogia e la testimonianza verbale". La disamina dei mezzi di retta conoscenza, la natura della conoscenza valida, la logica dell'inferenza e, infine, la sua articolazione nel sillogismo costituiscono via via l'elemento centrale del Nyāya, fino a diventare nel Navyanyāya quello esclusivo. Nonostante la presenza in esso di temi pertinenti anche all'eristica come pure, secondariamente, alla soteriologia, il Nyāya sarà generalmente identificato come il sistema specializzato nella logica e nell'epistemologia.
Come in tutto il pensiero indiano, il mezzo di conoscenza per eccellenza, da tutti accettato, è la percezione diretta. Il sūtra (I.1.4) ne dà la seguente definizione: "La percezione [è quel conoscere che] nasce dal contatto tra i sensi e l'oggetto, non è esprimibile in parole, non è deviante, ha un carattere definito". Ognuno di questi quattro requisiti è stato oggetto di attenta, e spesso divergente, analisi da parte dei commentatori (Jayanta ritenne anche che essi fossero estensibili a tutti quanti i mezzi di conoscenza). 'Che nasce dal contatto tra i sensi e l'oggetto' è il tratto meno problematico, anche se, come propone per primo Uddyotakara, richiede di essere articolato in sei tipi per poter dar conto di tutte le forme di diretta percezione diverse da quella, più usuale, dell'oggetto esterno. Il primo tipo si ha per l'appunto quando il senso percepisce l'oggetto esterno in quanto sostanza; il secondo quando della sostanza che è in contatto con il senso viene percepita una qualità o un universale; il terzo quando di tale qualità appartenente all'oggetto viene percepito l'universale (l'azzurrità di un loto azzurro); il quarto, proprio, per esempio, del senso dell'udito ‒ che è essenzialmente etere ‒ quando percepisce il suono che risiede appunto nell'etere; il quinto quando è percepita una definita qualità inerente al suono che a sua volta inerisce all'etere; il sesto, infine, proprio di quando la percezione di uno spazio vuoto ci dà la percezione dell'assenza del vaso che stava lì in precedenza.
Il secondo requisito, 'non è esprimibile in parole', è quello più dibattuto tra gli esegeti del Nyāya (Jayanta ne dà sei diverse interpretazioni). Mentre nel suo significato originale esso probabilmente mirava a tenere ben distinta la percezione da altri pramāṇa, come l'inferenza o l'autorità, in cui l'articolazione verbale è fondamentale, Vācaspati Miśra ne fece il perno di una sua peculiare interpretazione dell'intero sūtra. Akṣapāda-Gotama intenderebbe qui definire due diverse forme della percezione, l'una immediata e coincidente con la pura sensazione, l'altra già articolata in un giudizio percettivo in cui entrano in gioco concetti e parole. Operando una indubbia violenza sul testo, facendogli dire quanto diventerà corrente nella filosofia indiana solamente dopo il buddhista Dignāga (480-540 d.C.), e anche alterando l'ordine delle parole, Vācaspati intende il sūtra (I.1.4) come: "La percezione [è quel conoscere che] nasce dal contatto tra i sensi e l'oggetto e non è deviante; [possiede due forme, di cui l'una] non è esprimibile in parole, [mentre l'altra] ha un carattere definito". La presenza di due distinte fasi nella percezione, l'una priva e l'altra dotata di concettualizzazione (sa-vikalpaka, nir-vikalpaka) sarà uno dei capisaldi dell'epistemologia nyāya.
Tale concettualizzazione, secondo Jayanta, consiste essenzialmente nella comparsa di un elemento verbale, grazie al quale la percezione diventa vera e propria conoscenza ('questo è un vaso'). Se tutti i filosofi del Nyāya sono d'accordo nel considerare entrambi i momenti come percezione, opponendosi in ciò ai buddhisti, le loro posizioni variano circa l'articolazione interna di queste due fasi. La tesi di Vācaspati, secondo cui il particolare (questo) e l'universale (vaso) sono conosciuti già nel momento della sensazione anche se non sono messi in relazione di soggetto e predicato, è quella che prevarrà nella storia successiva del Nyāya. A raccoglierla e svilupparla è il fondatore stesso della Nuova Logica, Gaṅgeśa (XIV sec. d.C.), che darà a questa dottrina la sua forma definitiva: 'questo' e 'vaso', pur percepiti fin dal primo momento, sono posti in relazione di qualificando-qualificante soltanto nella fase successiva, e prima che ciò accada la sensazione rimane sostanzialmente inattingibile (atīndrīya). Accanto alla percezione ordinaria (laukika), secondo la Nuova Logica (precorsa però da Jayanta), ne esiste anche una straordinaria (alaukika), caratterizzata da un non-ordinario contatto con i sensi (alaukikendrīyasannikarṣa) e distinta in tre forme. La prima è quella che attraverso un universale percepito in un individuo particolare percepisce tutti gli individui appartenenti a quella classe; la seconda è quella che consente di cogliere un oggetto presente attraverso una percezione passata ('Io vedo un pezzo di legno di sandalo profumato', in cui la percezione presente è nutrita di quella passata); la terza è quella che nasce dalla pratica dello yoga e permette per esempio la visione di oggetti estremamente piccoli e lontani.
Degli ultimi due requisiti menzionati nel sūtra che definisce la percezione, il primo 'non deviante' sta, secondo quanto sostiene la generalità dei commentatori, a escludere gli abbagli percettivi, il secondo, che 'ha un carattere definito' se preso nel suo significato più piano, sta a eliminare le percezioni indistinte oppure dubbie.
Il secondo mezzo di retta conoscenza, l'inferenza (anumāna), è definito nel sūtra seguente (I.1.5), forse ancora più problematico del precedente: "Quindi viene l'inferenza, la quale è preceduta da quella [la percezione] ed è di tre tipi: con un antecedente [come probans], con un conseguente [come probans] e stabilita sulla base di generica [o generale] correlazione". Di tutte queste caratteristiche l'unica ad essere priva di ambiguità è la prima; nel contesto generale della filosofia indiana, infatti, l'inferenza è per lo più vista come un processo cognitivo che supplisce alla momentanea mancanza di una percezione diretta (ma esistono anche oggetti intrinsecamente inaccessibili alla percezione e soltanto inferibili, nityānumeya) e basa la sua validità su un'analoga esperienza diretta avuta in passato. Inoltre, una componente di attuale diretta percezione è sempre presente nel processo inferenziale, per il quale funge da necessario appoggio, oltre che da innesco (v. oltre).
A fronte della molteplicità di interpretazioni a cui questo sūtra diede adito nell'arco di diversi secoli, converrà partire da quella fornita nel commento più antico tra quelli pervenuti. Secondo il Bhāṣya di Vātsyāyana, l'inferenza del tipo pūrvavat è quella in cui l'effetto è inferito dalla causa (che è appunto 'antecedente'); per esempio: 'Quando vediamo salire le nuvole, inferiamo che pioverà'. L'inferenza del tipo śeṣavat è quella in cui la causa è inferita dall'effetto ('Quando vediamo che un fiume è ingrossato, inferiamo che a monte è piovuto'). Nell'inferenza del tipo sāmānyatodṛṣṭa è la ripetuta osservazione precedente di casi simili che ci permette di stabilire qualcosa anche se sfugge alla nostra diretta osservazione ('Abbiamo visto che ogni volta che una cosa si viene a trovare in posizioni differenti dalle precedenti è perché c'è stato un movimento; dunque, anche se non possiamo vederlo direttamente, il sole si muove').
Questa però non è l'unica serie di interpretazioni che Vātsyāyana presenta. Pūrvavat, prosegue Vātsyāyana, potrebbe anche dirsi di un'inferenza basata sulla precedente (pūrva) percezione diretta di due cose come inseparabilmente connesse: quando in seguito soltanto una delle due è percepita, viene inferita la presenza anche dell'altra. Śeṣa in śeṣavat potrebbe anche essere inteso nel senso di 'rimanente'; un'inferenza di questo tipo si basa su quello che 'rimane' dopo che altri possibili oggetti sono stati eliminati e di altri è stata stabilita preventivamente l'irrilevanza. Per esempio, supponiamo che ci si interroghi sulla natura del suono, ovvero in quale delle sei categorie (sostanza, qualità, azione, universale, particolarità e inerenza; v. oltre) esso debba essere fatto rientrare. Il constatare che il suono è esistente e non-eterno fa immediatamente escludere le ultime tre; per il resto si prosegue per eliminazione. Il suono non può essere una sostanza, perché se fosse tale non potrebbe avere come causa inerente un'unica sostanza; né un'azione, perché è la causa di un suono successivo. Dunque non rimane che considerarlo una qualità. L'inferenza sāmānyatodṛṣṭa è quella in cui la relazione tra probans e probandum non è percepibile e che perviene a determinare il probandum sulla base della somiglianza del probans con un'altra entità. Di questo tipo è l'inferenza del sé sulla base del desiderio: il desiderio è una qualità e noi vediamo che tutte le qualità ineriscono a un sostrato; ne consegue che quello che è il sostrato di qualità, quale appunto è il desiderio, è il sé.
Come si vede, anche il più antico tra i commenti pervenuti già appare esitante nell'assegnare al sūtra un significato definito; i commentatori successivi accumuleranno nei secoli una quantità incredibile di interpretazioni divergenti, alle quali si aggiungono quelle date nelle altre scuole, quali il Vaiśeṣika, il Sāṃkhya o la Mīmāṃsā, dove i tre termini ‒ talora in versioni lievemente differenti ‒ ugualmente ricorrono. Vale la pena qui di accennare almeno al commentatore immediatamente successivo a Vātsyāyana, Uddyotakara, che nel suo Vārttika (Glosse) propone altre due serie di interpretazioni, diverse tra loro e radicalmente diverse da quelle fornite dal Bhāṣya. Secondo la prima, i tre termini stanno rispettivamente: (a) per l'inferenza basata esclusivamente sull'accordo (kevalānvayin : 'il vaso può essere oggetto di designazione verbale perché è conoscibile'; per il Nyāya, infatti, tutto ciò che è conoscibile è anche denominabile); (b) per l'inferenza basata esclusivamente sulla differenza (kevalavyatirekin: 'l'elemento terra è diverso dagli altri elementi perché è dotato di odore'; è noto che nessuno degli altri quattro elementi ha odore); (c) per l'inferenza basata sulla combinazione di accordo-differenza (anvayivyatirekin: 'sulla montagna c'è fuoco perché c'è fumo'; tutte le volte che c'è un fuoco c'è fumo, tutte le volte che non c'è un fuoco non c'è fumo). Nella seconda interpretazione, i tre termini mirerebbero invece a stabilire le condizioni che abbracciano qualsiasi tipo di inferenza. Vale a dire: il probans, nel caso in questione, deve essere stato osservato nel passato come invariabilmente accompagnato dal probandum (pūrvavat); il probans deve essere stato osservato come invariabilmente accompagnato dal probandum anche nei rimanenti casi analoghi (śeṣavat); il terzo termine (sāmānyatodṛṣṭa), analizzato con molto artificio, si riferirebbe a tutte quelle inferenze che non sono basate sulla causalità ('in questa regione ci deve essere dell'acqua perché si vedono degli aironi'). Infine, con un procedimento tipico dei commentatori indiani, Uddyotakara riesce perfino a vedere nella laconica definizione del sūtra (I.1.5) anche le due condizioni che di norma vengono richieste all'inferenza, cioè non essere in conflitto né con la percezione diretta né con le scritture rivelate: esse sarebbero implicate dall'ultima parola del sūtra (ca, 'e').
Uno studio recente ha proposto con buoni argomenti di interpretare i tre termini, la cui prima menzione sembra quella dello Ṣaṣṭitantra (Le sessanta dottrine), alla luce di analoghe classificazioni dell'inferenza presenti in testi del buddhismo antico. Va infine sottolineata l'analogia con la descrizione dell'inferenza nelle scuole mediche. Il locus classicus è la Carakasaṃhitā (Raccolta di Caraka; Sūtrasthāna, XI.19-20), secondo cui l'inferenza si distingue in tre tipi, a seconda cioè che riguardi il presente, il passato o il futuro, esemplificati rispettivamente dall'inferire un fuoco dalla presenza del fumo, un avvenuto rapporto sessuale dal concepimento di un feto, la futura nascita di un certo frutto dalla presenza di un certo seme.
Il terzo dei quattro mezzi di retta conoscenza, l'analogia, è definito nel sūtra successivo (I.1.6): "L'analogia è quel mezzo che porta alla conoscenza di un oggetto in virtù della sua somiglianza con un altro oggetto comunemente noto". Secondo l'esempio classico, anche chi non conosce le fattezze specifiche del bovide chiamato gavaya ‒ ma al quale è detto che è simile ad una vacca ‒ è in grado di identificarlo. La tradizione nyāya distingue tre tipi principali di analogia: per somiglianza, per differenza e per peculiarità di attributi. Il primo è esemplificato dal caso citato sopra. Il secondo si ha quando l'oggetto denotato da un certo nome è descritto sulla base della sua marcata dissomiglianza con un'altra classe di oggetti a lui ben nota. Il terzo, quando, per esempio, si identifica un certo animale ‒ descritto come un quadrupede col collo lungo, le labbra prominenti e che si nutre di spine ‒ come cammello. La considerazione dell'analogia come valido mezzo di conoscenza e in particolare come mezzo di conoscenza autonomo e non riducibile ad altro è stata molto contestata, sia dall'interno che dall'esterno del Nyāya (Bhāsarvajña arriva a negarla totalmente, riducendo così il numero dei mezzi di conoscenza a tre). Gli avversari del Nyāya mettono in evidenza che nel caso comunemente citato, per esempio, si hanno tre distinte componenti: la conoscenza della somiglianza con la vacca deriva da una testimonianza autorevole (un pramāṇa distinto, il quarto); la visione del gavaya è ovviamente un atto di percezione; l'attribuzione ad esso del nome che gli spetta è un caso di inferenza. Ad alcune di queste obiezioni (seguite dalla loro confutazione) è data voce già nel Nyāyasūtra stesso. Come accennato sopra, alcuni degli argomenti degli oppositori sono ritenuti convincenti da Bhāsarvajña: l'analogia va eliminata dall'elenco dei mezzi di conoscenza perché essa si riduce alla cooperazione di testimonianza verbale e memoria. È esemplare per la definizione delle dinamiche dello śāstra il modo in cui Bhāsarvajña riesce ad operare tale drastica innovazione su di un punto fondamentale della dottrina nyāya ‒ come il numero dei mezzi di conoscenza ‒ senza mettere in discussione l'autorità del suo mitico fondatore Akṣapāda.
Il quarto e ultimo dei mezzi di conoscenza è la testimonianza verbale (śabda, lett. 'parola', 'linguaggio'), cosi definita dal Nyāyasūtra (I.1.7): "La testimonianza verbale è un'istruzione proveniente da una fonte autorevole". Anche su questo mezzo non mancano le obiezioni, parzialmente simili a quelle suscitate dall'analogia. Come segnala lo stesso Akṣapāda nel secondo adhyāya (I.45 e segg.), dedicato all'esame critico dei pramāṇa, si potrebbe obiettare che la testimonianza verbale sia solamente un caso particolare di inferenza dal momento che, proprio come si verifica nell'inferenza, si ha la conoscenza di qualcosa attualmente non accessibile alla percezione attraverso un segno, ovvero la parola che lo designa; per di più, la relazione che lega parola e significato sarebbe dello stesso tipo di quella che connette la ragione logica all'oggetto dell'inferenza. La replica del Nyāya è su due piani: le due relazioni non sono omologhe, poiché la prima deriva unicamente dalla convenzione linguistica mentre la seconda è di ordine naturale; inoltre, il vero fondamento della testimonianza verbale non va cercato nella parola in sé stessa, ma nell'autorevolezza di chi la pronuncia. Su che cosa sia 'autorevolezza' (āptatva) i filosofi del Nyāya e di tutte le altre scuole, brahmaniche e non, disputarono lungamente. La questione non può però essere impostata senza considerare quanto aggiunge il sūtra seguente: "Questa [testimonianza verbale] è di due tipi: il suo oggetto può essere percepibile o non percepibile" (I.1.8). Se la definizione di persona degna di fede, dice Vātsyāyana nel suo Bhāṣya (ad I.1.7), come 'uno che abbia la diretta conoscenza di un oggetto e sia motivato dal desiderio di comunicare l'oggetto così come egli l'ha direttamente percepito', è applicabile indistintamente a un veggente, a un nobile o a un barbaro, l'autorità circa ciò che non è accessibile all'esperienza dei sensi ‒ in altre parole non è di questo mondo ‒ è riservata ai veggenti, personaggi dotati di speciali poteri di penetrazione spirituale che in epoche remote hanno fatto da tramite alla manifestazione del Veda.
La logica
Si è a lungo disputato sul carattere autoctono o meno della logica indiana classica, con una gamma sfumata di posizioni che vanno dalla perentoria affermazione di una dipendenza diretta dal pensiero di Aristotele (Vidyabhusana 1920) alla totale autonomia. Nonostante una certa superficiale affinità delle due tradizioni, appare sufficientemente chiaro che la logica indiana è l'esito di uno sviluppo graduale a partire dalle tecniche in uso nel dibattito erudito fin da tempi molto remoti, con una lunga storia di progressivi aggiustamenti e di vicoli ciechi, che investe non soltanto ambiti filosofici o filosofico-religiosi e liturgici, ma anche, e pure con grande rilievo, ambienti scientifici, primo tra tutti quello medico. L'ipotesi, avanzata con incredibile disinvoltura da Vidyabhusana, che presuppone l'esistenza di traduzioni in sanscrito di opere di Aristotele, non ha alcun tipo di riscontro.
La ricerca logica nel contesto indiano verte essenzialmente su come articolare convenientemente e presentare in maniera formale il processo inferenziale. Ciò non è richiesto quando all'inferenza viene fatto ricorso, per così dire, 'a uso interno', rientrando questo modo di conoscere per via mediata nei meccanismi primari spontanei dell'umana attività cognitiva. Diverso è il caso in cui si voglia comunicare il risultato di tale conoscenza e si debbano dunque esplicitare tutti i passaggi mediante i quali ci si è pervenuti, al fine precipuo di convincere ‒ e qui si propone una volta di più l'ipotesi di una origine eristica di questa disciplina ‒ chi non abbia sperimentato in sé stesso il sorgere di questo processo, ovvero chi ne rimanga o se ne tenga distante, vuoi per torpidità intellettuale, vuoi per consapevole adesione a presupposti diversi (per es., un seguace di una dottrina avversaria). Dall''inferenza per se stessi' (svārthānumāna) si passa dunque all''inferenza per gli altri' (parārthānumāna), distinzione che sarà particolarmente messa in evidenza dai maestri della logica buddhista. Anche se tutte le scuole affrontano questo tema, esso è considerato un terreno privilegiato del Nyāya (come si è visto, al termine nyāya viene anche attribuito il significato di 'logica' tout court).
Nella forma Nyāya classica l'inferenza per gli altri si presenta come la concatenazione di cinque proposizioni, esito della semplificazione di una più antica serie di dieci, sempre interna alla tradizione nyāya, di cui fa ancora menzione (per criticarla) Vātsyāyana nel suo Bhāṣya; una diversa serie di dieci elementi è menzionata dal jaina Bhadrabāhu nella Daśavaikālikaniryukti (v. oltre). Il primo membro del sillogismo è rappresentato dalla ipotesi (pratijñā, lett. 'promessa'), ovvero l'asserzione che sarà oggetto della dimostrazione. L'esempio classico è 'sulla montagna c'è del fuoco', che però è generalmente espresso in forma di frase nominale come un rapporto soggetto-predicato: 'la montagna è dotata-di-fuoco' (parvato vahnimān). Il soggetto (pakṣa) viene così predicato della proprietà che si intende dimostrare (sādhya). Il secondo membro è la ragione logica (hetu), vale a dire l'affermazione della presenza nel soggetto di un certo segno (liṅga) tale da comportare anche la necessaria presenza in esso della proprietà ipotizzata: 'perché è dotata-di-fumo'. Il terzo membro è l'esempio (udāharaṇa), che in realtà consiste prima di tutto nell'asserzione di una necessaria correlazione (vyāpti) tra segno e proprietà da dimostrare e, quindi, in una esemplificazione in termini sia positivi (sapakṣa) sia negativi (vipakṣa): 'Infatti, qualsiasi cosa sia dotata-di-fumo è anche dotata-di-fuoco, come una cucina; e, viceversa, ogni cosa non-dotata-di-fumo è anche non-dotata-di-fuoco, come un lago'. Il quarto membro, che sintetizza il secondo e il terzo, è l'applicazione (upanaya) al caso in questione del principio generale esposto nel terzo membro: 'come la cucina, anche la montagna è dotata-di-fumo', oppure: 'diversamente dal lago, la montagna non è non-dotata-di-fumo'. Il quinto membro è la conclusione (nigamana), in tutto simile al primo membro, tranne per il fatto che ciò che nel primo membro era presentato come una tesi da dimostrare nel quinto è dato invece per acquisito.
In numero di cinque, dunque, sono stabiliti anche i termini che entrano in gioco nei cinque membri del sillogismo: il soggetto (pakṣa), paragonabile al termine minore della prima figura del sillogismo aristotelico; la proprietà da dimostrare (sādhya), paragonabile al termine maggiore; il segno (liṅga), paragonabile al termine medio; l'esempio positivo, o per somiglianza (sapakṣa); l'esempio negativo, o per differenza (vipakṣa). Questo schema, soltanto apparentemente definito, lascia in realtà aperti vari punti, che sono l'oggetto di discussioni che si protrarranno per secoli, incentrate soprattutto su che cosa sia precisamente l'oggetto dell'inferenza e come si arrivi a determinare la necessità della correlazione tra proprietà e segno. La posizione del Nyāya sulla prima questione è variabile: a seconda dei casi si può avere il termine minore in quanto connesso al termine maggiore ('la montagna come dotata-di-fuoco'), il termine maggiore in quanto connesso al termine minore ('il fuoco come connesso con la montagna') o il termine medio, preso nella sua dimensione individuale, come connesso al termine maggiore ('il fumo [del quale si ignora la precisa collocazione] come connesso col fuoco'). In realtà, le soluzioni proposte dai filosofi del Nyāya sono abbastanza diversificate ma possono essere meglio inquadrate solo dopo aver presentato la posizione dei buddhisti (a partire da Dignāga, v. oltre), che per gran parte appare responsabile del loro riesame critico relativamente all'intera questione.
Ugualmente importante, il secondo punto verte sulle necessarie caratteristiche della ragione logica (hetu), che il Nyāya stabilisce nel numero di cinque. La prima è il suo costituire una proprietà del termine minore (pakṣadharmatā; 'la montagna è dotata-di-fumo'); la seconda è la sua presenza in altri casi simili a quello del termine minore (sapakṣasattva; 'ogni cosa dotata di fumo [come lo è il termine minore] è dotata di fuoco, come, per es., la cucina'); la terza è la sua assenza in tutti i casi dissimili (vipakṣasattva; 'ogni cosa non dotata-di-fumo, diversamente dal termine minore, non è dotata-di-fuoco, come, per es., un lago'); la quarta è il suo non concernere qualcosa che già sia stato stabilito come inesistente o falso (abādhitaviṣayatva); la quinta è il suo non essere tale da collidere con altre ragioni logiche che portino a conclusioni opposte (asatpratipakṣitva). Se una ragione logica non risponde a queste cinque condizioni, cessa di essere tale per diventare una pseudo-ragione. Anche gli altri membri dell'inferenza possono essere imputati di analoghe fallacie, ma come rileva Jayanta, essendo la ragione logica il cuore stesso dell'inferenza, non mette conto di soffermarsi ad analizzare con la stessa attenzione anche le possibili fallacie degli altri membri. Basterà dunque una pseudo-ragione (Nyāyasūtra, I.2.4-9, ne esamina i cinque tipi principali) a determinare una pseudo-inferenza.
Ma questa considerazione in termini analitici non appare sufficiente a spiegare il sorgere dell'inferenza come fatto conoscitivo. I cinque membri devono essere fatti rientrare in un continuum dinamico da parte del soggetto che conosce e sintetizzati in una cognizione complessa cui viene dato il nome di 'considerazione del segno logico' (liṅgaparāmarśa). (Uddyotakara ad Nyāyasūtra, I.1.5) Infatti, secondo il Nyāya, né la conoscenza del segno di per sé, né la conoscenza della universale concomitanza (vyāpti) tra segno e elemento da inferire ‒ come vorrebbero i seguaci della Mīmāṃsā o del Vedānta ‒ possono costituire da soli la molla che fa scattare l'inferenza. Come dirà in seguito la Nuova Logica (navyanyāya), nel processo inferenziale si hanno non una ma tre successive 'considerazioni del segno logico' e soltanto alla terza l'inferenza si compie. Riprendendo l'esempio classico, il segno logico ‒ il fumo ‒ viene considerato una prima volta quanto al suo essere invariabilmente connesso col fuoco, in un momento precedente rispetto a quello dell'inferenza; una seconda volta, quando è direttamente percepito sulla montagna; e infine una terza volta, quando al fumo presente qui e ora viene associata la precedente conoscenza della invariabile concomitanza di ogni fumo col fuoco.
Anche il concetto di 'invariabile concomitanza' ha ricevuto una considerevole attenzione da parte dei filosofi del Nyāya, che raggiunge il suo culmine nell'opera di Gaṅgeśa. Se la ragione logica è il nucleo essenziale dell'inferenza, l'invariabile concomitanza tra termine maggiore e termine medio è la fonte della sua validità. Il concetto è stato variamente elaborato e formulato, dentro e fuori la scuola Nyāya, presentandosi ora come 'non-devianza' (avyabhicāra; Śrīdhara), ora come 'impossibilità di reciproca assenza' (avinābhāva; Praśastapāda, ecc.), ora come 'generica relazione' (sambandhamātra; Bhāsarvajña). Il termine più largamente accettato, anche se poi variamente qualificato, sarà quello di 'pervasione' (vyāpti) che dunque investe i suddetti termini maggiore e medio dell'inferenza nel ruolo rispettivamente di pervasore (vyāpaka) e pervaso (vyāpya, 'oggetto di pervasione'). Essi possono essere rappresentati come due cerchi concentrici; il termine di minore estensione ('l'essere-dotato-di-fumo') è abbracciato da quello di maggior estensione ('l'essere-dotato-di-fuoco'), nel senso che il primo non può darsi senza il secondo (mentre, come si vedrà, non è vero l'inverso). Non necessariamente i due termini devono avere differenti estensioni, come in questo caso; i due cerchi possono anche essere coincidenti e svolgere alternativamente, a seconda dei casi, la funzione di pervasore e pervaso. Anche quello che qui è il termine di estensione maggiore potrebbe essere usato come segno logico in un'inferenza, ma solamente a patto che vengano soddisfatte determinate condizioni. Il fuoco, in altre parole, può essere usato per stabilire l'esistenza del fumo, purché non di un generico fuoco si tratti ma di uno prodotto da un determinato tipo di combustibile (per es., delle foglie); si sa infatti che un metallo può essere reso incandescente dal fuoco senza per questo produrre fumo. In base a questa considerazione la tradizione nyāya fu indotta a specificare che la relazione tra pervadente e pervasore non doveva contenere alcuna condizione (upādhi) ‒ intesa nel senso di una proprietà che debba necessariamente essere presente in tutti i possibili casi del termine maggiore e, invece, soltanto in alcuni casi del termine medio ‒ ma essere innata o naturale (svābhavika), cioè presente incondizionatamente in tutti i casi. Sulle diverse possibili implicazioni dei concetti di upādhi e di vyāpti si soffermò a lungo Maṇikaṇṭha Miśra (XIII-XIV sec. d.C.) poi ripreso e ulteriormente sviluppato da Gaṅgeśa, che nel suo Tattvacintāmaṇi discute ben ventinove diverse definizioni di vyāpti, scartandone via via ventuno e, tra le restanti otto ritenute accettabili, fermandosi infine su una (in realtà, così intricata e impervia è l'argomentazione di Gaṅgeśa che il numero stesso delle definizioni studiate e rigettate è oggetto di disputa). Secondo la definizione superstite, la pervasione è "un'invariabile e incondizionata relazione tra termine medio e termine maggiore".
Rimane però aperto il problema di come sia possibile accertare l'esistenza di una tale relazione. La risposta maturata dal Nyāya deve fronteggiare due critiche estreme, ossia quella dei Lokāyata e quella della scuola logico-epistemologica del buddhismo. Secondo i primi, la conoscenza umana non può in nessun caso elevarsi al di sopra del particolare e dunque rimane esclusa da ogni possibilità di generalizzazione. Per i secondi, una tale relazione è possibile, il suo ambito però va ristretto in partenza ai soli rapporti di causalità o di identità (v. oltre). La posizione finale del Nyāya, essa stessa frutto della stratificazione delle varie soluzioni offerte nel tempo dai suoi esponenti, può essere complessivamente formulata nei seguenti termini. Ad accertare la pervasione è la ripetuta esperienza (bhūyodarśana) della concomitanza sia positiva sia negativa ‒ ovvero, presenza-presenza e assenza-assenza ‒ tra due elementi in varie circostanze, aiutata nei casi dubbi dal ricorso al ragionamento ipotetico (tarka). Il Nyāya tuttavia non si nasconde la difficoltà dell'affidare alla semplice percezione ‒ per quanto allargata ‒ di casi particolari la determinazione di una relazione di ordine generale, e cerca in seguito di superarla ipotizzando una qualità specifica della percezione, quella di poter cogliere nell'oggetto oltre alla forma individuale anche la sua dimensione di appartenenza a una classe, legittimando in tal modo il processo di generalizzazione. Si tratta della teoria chiamata sāmānyalakṣaṇapratyakṣa, ovvero 'percezione che coglie il carattere generale', presentata già da Jayanta come esempio di percezione non ordinaria (v. sopra).
L'avvento del Navyanyāya ha determinato una profonda e duratura modifica in primo luogo del linguaggio filosofico, al quale viene richiesto il più alto grado di precisione di contro alle ambiguità del linguaggio naturale. Ciò è ottenuto con il ricorso a una costellazione di termini tecnici e sfruttando fino in fondo l'intrinseca disposizione della frase nominale del sanscrito ad esprimere ogni immaginabile livello di astrazione, grazie anche alla facilità di coniare espressioni astratte con l'aggiunta di suffissi secondari, apposti non soltanto a singoli lemmi (per es., jñeya > jñeyatva, 'conoscibile > conoscibilità') ma anche a lunghi e complessi composti nominali. Ne risulta un linguaggio fortemente caratterizzato e, almeno in apparenza, estremamente aggrovigliato, nel quale il potere espressivo del linguaggio della quotidiana comunicazione è sacrificato integralmente sull'altare di una forse irraggiungibile univocità e totale aderenza ai contenuti dell'analisi logico-epistemologica, tentazione fallimentare ben nota anche alla filosofia occidentale. Eccone alcuni esempi. Un atto conoscitivo può essere presentato nell'esperienza ordinaria nella forma 'questo è un vaso' oppure 'questo vaso è azzurro'. Il filosofo navyanyāya parte dall'individuazione di due livelli: contenuto della conoscenza (viṣaya) e atto conoscitivo o soggetto conoscente a cui tale contenuto appartiene (viṣayin). La dimensione 'contenuto' si articola a sua volta in tre distinti elementi: un qualificando, una qualificazione e il tipo specifico di relazione che li lega. Nel primo esempio 'questo' sarà il qualificando, 'vaso' il qualificatore e la relazione una di identità. Nel tipico linguaggio del Navyanyāya la comune espressione 'questo è un vaso' diventerà 'quella conoscenza che possiede un elemento qualificando risiedente nel 'questo', definito da una aggettività risiedente in un vaso definito da una relazionalità risiedente nell'identità'. A costo dunque di una faticosa proliferazione di parole, quanto si intende raggiungere è individuare con precisione i ruoli svolti da ognuno degli elementi che la frase nominale lascerebbe nell'ambiguità: il vaso potrebbe per esempio essere, come lo è in altri contesti, il qualificando, e così via. Un ruolo centrale viene svolto dal concetto di 'limitatore' (avacchedaka) e 'limitato' (avacchinna), il quale nel suo impiego più ristretto sta a delimitare o individuare degli astratti relazionali, che come si è detto il sanscrito può creare con grande facilità. Un'espressione come quella che occorre nell'esempio classico dell'inferenza: 'nella montagna c'è del fuoco', generalmente presentata come 'la montagna è dotata-di-fuoco', si presta dunque alla seguente presentazione analitica: 'la natura di qualificando (la 'qualificandità') risiedente nella montagna è una qualificandità limitata dalla 'montagnità', definita dal fuoco; e la qualificatività risiedente nel fuoco è una qualificatività limitata dalla igneità e definita dalla montagna'. Nella precedente analisi della proposizione 'questo è un vaso' l'intervento del concetto di limitatore-limitato consente una chiarificazione aggiuntiva: 'è quella conoscenza che possiede un elemento qualificando risiedente nel 'questo', limitato dalla 'questità', definito da una aggettività risiedente in un vaso, limitato dalla vaseità, definito da una relazionalità risiedente nell'identità'. Il vaso, infatti, può figurare nella cognizione/proposizione secondo uno dei molteplici aspetti ‒ come sostanza cui ineriscono delle qualità, come generico oggetto materiale, come oggetto fatto di argilla, come strumento per compiere determinate azioni, come mera presenza di qualcosa contrapposta all'assenza di alcunché, ecc.; dire 'vaso limitato dalla vaseità', significa restringere in questo caso il riferimento alla generale conformazione dell'oggetto e dunque alla sua specifica e complessiva identità.
Tornando all'espressione 'nella montagna c'è del fuoco'/'la montagna è dotata-di-fuoco', l'analisi del Navyanyāya mette in evidenza almeno tre possibili strutture: nella prima c'è un qualificando modificato da una qualificazione, nella seconda un soggetto cui è attribuito un predicato, nella terza un substrato su cui risiede un'entità. La proprietà (dharma) che identifica la montagna ‒ la 'montagnità' ‒ vi figura dunque, rispettivamente come 'limitatrice della sostantività', 'limitatrice della soggettità', 'limitatrice della sostratità'; da parte sua, la proprietà del fuoco (o dell'essere-dotato-di-fuoco) ‒ la 'igneità' ‒ può figurare come 'limitatrice della aggettività', come 'limitatrice della predicatività', come 'limitatrice del fatto di risiedere su di un sostrato'. La relazione tra il sostrato e ciò che vi risiede può a sua volta essere parziale o totale, a seconda cioè che il sostrato ne sia pervaso (o occupato) in parte (avyāpyavṛtti) o in tutto (vyāpyavṛtti). La stessa espressione è usata anche per un altro tipo di pervasione, menzionata sopra, quella tra termine medio e termine maggiore (hetu e sādhya) nell'inferenza. In un'opera appartenente alla letteratura recente del Navyanyāya si può vedere la proposizione 'il vaso è blu' analizzata in qualcosa come novantasei elementi costitutivi.
Il Vaiśeṣika è tra i sistemi filosofici indiani quello che più si presta a rappresentare una sorta di filosofia della Natura, mossa dall'intento di costruire un'immagine attendibile del mondo esterno, intesa prima di tutto come una sua completa catalogazione. Se questo atteggiamento di fondo, come si vedrà, è presente in vario modo anche in altre scuole, come il Sāṃkhya, il jainismo, il buddhismo, la Mīmāṃsā, i Materialisti, è nel Vaiśeṣika che esso sembra assumere la forma più pura e meno condizionata da altri fattori, quale l'istanza soteriologica che finisce per condizionare per contrasto anche coloro che si dispongono a negarla (come Mīmāṃsā e Materialisti). Il Vaiśeṣika antico, almeno secondo la ricostruzione datane da Frauwallner (1956), sarebbe ad essa totalmente sordo, e si proporrebbe anche di sbarazzarsi di ogni apparato mitologico o scritturale per affidarsi al solo freddo sguardo della ragione ‒ che era parso così pedestre e scorante a Max Müller (almeno quanto di contro esaltato, e forse a sua volta mitizzato, da Frauwallner) ‒ per orizzontarsi nell'esistente.
Mentre nei sistemi finora considerati ‒ e particolarmente nel Vedānta, nel Sāṃkhya e nello Yoga ‒ corre una forte vena religiosa e persino poetica, passiamo ora a due sistemi ‒ il Nyāya e il Vaiśeṣika ‒ che sono invece del tutto aridi e privi di immaginazione, molto più simili a quelli che chiamiamo sistemi filosofici scolastici, esposizioni ragionieristiche [business-like] di quanto può essere conosciuto sia del mondo che ci circonda che di quello dentro di noi, cioè delle nostre facoltà o poteri di percezione e di ragionamento, da una parte, e degli oggetti che essi ci presentano, dall'altra. (Müller, in: Faddegon 1918, p. 6)
Un altro elemento che caratterizza il Vaiśeṣika è il suo privilegiare decisamente ‒ e questo vale ancora di più per il Vaiśeṣika classico ‒ una descrizione sincronica, o orizzontale (Halbfass 1992), del reale, ritraendosi da tematiche cosmogoniche, probabilmente sentite come intrinsecamente connesse col mito. Questo finisce per essere un aspetto di un più vasto atteggiamento di emarginazione del tempo ‒ per non parlare della storia ‒ e con esso di ogni divenire, tanto più inatteso in una cosiddetta filosofia della Natura. In effetti, a ben guardare, la Natura del Vaiśeṣika è fatta solamente di 'cose' e non di processi, all'estremo opposto dunque di filosofie, come per esempio il buddhismo nella sua gran parte, per le quali il grande nemico è in generale proprio la reificazione. Questo atteggiamento può servire a spiegare perché il Vaiśeṣika non abbia mai compiuto un'apertura verso la scienza vera e propria, restando invece sempre più avviluppato nelle panie di una sorta di 'scolastica scientifica'. La visione del mondo del Vaiśeṣika poggia su alcuni assiomi, ognuno dei quali è responsabile di conseguenze importanti, anche se talvolta di non immediata individuazione, nell'economia del sistema: (a) è possibile una enumerazione completa dell'esistente; (b) il tutto è un'entità diversa e indipendente rispetto alle parti che lo compongono; (c) c'è una corrispondenza diretta tra le parole e le cose; (d) l'estensione spaziale (nonché quella temporale) è riducibile a dimensioni atomiche.
Alla base del sistema Vaiśeṣika sta il Vaiśeṣikasūtra (Aforismi sul Vaiśeṣika), che si ritiene abbia assunto la forma attuale tra il I e il II sec. d.C. Suo autore, e mitico fondatore del sistema, è il saggio Kaṇāda ('Mangiatore di grani', o secondo altri 'Mangiatore di atomi', con allusione al suo propugnare una teoria atomistica), che la tradizione presenta come personaggio misterioso e umbratile (un altro suo nome è Ulūka, 'civetta'). Il Vaiśeṣikasūtra si compone di circa quattrocento brevi e spesso enigmatici aforismi, divisi in dieci adhyāya, 'letture', di cui i primi sette sono a loro volta divisi in due āhnika, 'giornate'. Si tratta di un corpus che è ben lungi dal possedere una sua forma univoca e presenta variazioni considerevoli dall'uno all'altro dei commenti che ci sono pervenuti. La stessa letteratura di commento non si presenta con la compattezza che contraddistingue il suo sistema gemello, il Nyāya, e appare anzi parimenti problematica. Nei tempi moderni, fino alla metà del XX sec., il Vaiśeṣikasūtra era letto alla luce di un unico commento, il tardo Vaiśeṣikasūtra-upaskāra (Ornamento del Vaiśeṣikasūtra) di Śaṅkara Miśra, composto nel XV secolo. A questo poi si affiancheranno, editi nel volgere di pochi anni, prima una Vyākhyā (Spiegazione) di autore anonimo ‒ ma di certo più antico di Śaṅkaramiśra di parecchi secoli ‒ e poi una importante Vṛtti (Commento breve) a opera di Candrānanda, collocabile tra il IX e il X sec.; infine, un'epitome del Vārttika (Glossa) di Bhaṭṭa Vādīndra, composta intorno al XIII secolo. Di altri più antichi commenti è rimasta traccia solamente nelle citazioni; tra questi spicca la Kaṭandī, ascritta a Rāvaṇa, anteriore al V sec. (data del Nayacakra, Ruota delle posizioni filosofiche, del jaina Mallavādin, che la menziona), che potrebbe coincidere con il Bhāṣya (Commento elaborato) che stava ad illustrare il commento più antico in assoluto, il Vākya (Frasi), che accompagnava i sūtra (si è però anche ipotizzato che la Kaṭandī comprendesse sia Vākya che Bhāṣya). Il sūtra, il Vākya e il Bhāṣya furono poi a loro volta oggetto di un commento analitico (ṭīkā) di Praśastamati, anch'esso perduto. A determinare l'eclissi della pur ampia letteratura di commento preesistente deve aver fortemente contribuito l'apparizione di un'opera brillante e ben congegnata, vale a dire il Padārthadharmasaṃgraha (Sintesi delle proprietà delle categorie) di Praśastapāda (VI sec.), che finisce ben presto per occupare il centro di gravità del sistema, primeggiando perfino sul sūtra-radice. Pur facendo costante riferimento al Vaiśeṣikasūtra, il Padārthadharmasaṃgraha si presenta come un'opera indipendente ‒ e spesso anche decisamente innovativa. Allo stesso genere appartiene il Daśapadārthaśāstra di Candramati, che risale approssimativamente allo stesso periodo, come prova la traduzione cinese nella quale ci è pervenuto, unica testimonianza di quest'opera probabilmente marginale, e comunque totalmente negletta nell'ambito indiano, sia quanto a citazioni che a tradizione manoscritta. Una riprova dell'importanza assunta dal Padārthadharmasaṃgraha sta nell'avere innescato a sua volta una ragguardevole letteratura di commento, nella quale spiccano la Vyomavatī (probabilmente: [L'esplicazione] che spazia), gioco di parole sul nome del suo autore Vyomaśiva (inizio del IX sec.), la Nyāyakandalī (Albero kandalī [dai profumati fiori bianchi] del Nyāya) di Śrīdhara (X sec.) e la Kiraṇāvalī (Fascio di raggi luminosi) di Udayana (X-XI sec.).
I primi aforismi del Vaiśeṣikasūtra (che sono qui citati secondo Candrānanda) si aprono immediatamente sull'insegnamento centrale di questo sistema; tuttavia, come si vedrà, il primo di essi fornisce anche l'occasione per alcune valutazioni sulla sua natura originaria.
"Ora passeremo ad illustrare il dharma (athāto dharmaṃ vyākhyāsyāmaḥ)" (I.1.1). "Ciò grazie al quale si realizza il benessere mondano e il sommo bene, quello è il dharma" (I.1.2). "L'autorevolezza della tradizione [donde viene la precedente asserzione] deriva dal fatto di essere stata enunciata da Lui [il Signore]" (I.1.3). (Il sūtra seguente viene introdotto dal commentatore Candrānanda con queste parole: "È stata dunque enunciata la forma propria del dharma come anche la sua definizione: ora passeremo ad esporre quelli che sono i mezzi per la sua realizzazione, vale a dire la sostanza, le qualità e le azioni. Tra queste…") "La terra, l'acqua, il fuoco, il vento, l'etere, il tempo, lo spazio e il sé: ecco le sostanze" (I.1.4). "La forma, il sapore, l'odore, il tatto, il numero, la misura, la separatezza, la congiunzione e la disgiunzione, la distanza e la prossimità, le nozioni, il piacere e il dolore, il desiderio e l'avversione, lo sforzo: queste le qualità" (I.1.5). "Il sollevamento, l'abbassamento, la contrazione, l'espansione e l'andare sono le azioni" (I.1.6).
È stato notato (Frauwallner 1956) che in due dei commenti al Padārthadharmasaṃgraha sopra menzionati, ricorre, con qualche variante, la citazione di una frase che ricorda molto da vicino la formulazione del primo sūtra, discostandosene però in un punto fondamentale: "Tutto quanto possiede il carattere dell'essere, tutto questo io enuncerò" (per es., Vyomaśiva: yad bhāvarūpaṃ tat sarvam abhidhāsyāmi). Ciò ha portato a ipotizzare che ogni preoccupazione soteriologica, o in senso lato religiosa, fosse in origine estranea a questo sistema, che sarebbe nato con intenti di pura indagine scientifica sulla natura del mondo fisico e avrebbe ricevuto solamente in tempi più recenti una 'ridipintura' filosofico-religiosa, probabilmente per poter meglio competere con altre tradizioni prestigiose, come quelle buddhista e jaina, che da quelle istanze di forte impatto erano fin dall'origine intimamente caratterizzate. D'altra parte non erano mancati tra i critici del Vaiśeṣika coloro che avevano segnalato questa strana discrepanza tra gli intenti dichiarati in apertura del Vaiśeṣikasūtra e il suo effettivo contenuto. Che la storia testuale del Vaiśeṣikasūtra sia stata particolarmente tormentata è fuori di dubbio, come già sopra accennato, ma va tenuto conto del fatto che se delle modificazioni negli orientamenti di questo sistema ci sono state, esse vanno date per avvenute in tempi non recenti, se già Bhartṛhari nel V sec. mostrava di conoscere il sūtra iniziale appunto nella forma in cui i commenti, relativamente tardi, che ci sono pervenuti lo hanno tramandato. La quasi totale mancanza di dati certi, nonché di basi testuali, rende la ricostruzione delle fasi antiche del Vaiśeṣika puramente congetturale.
Certo è che l'atteggiamento di fondo e gli interessi di questo sistema lo collocano in un versante 'minoritario' del pensiero brahmanico. Un passo della Kaṭhopaniṣad (Upaniṣad di Kaṭha) si presta egregiamente al tentativo di tracciare una linea di demarcazione tra due diversi modi di pensiero e di esperienza: "L'Esistente-di-per-sé praticò delle aperture [i sensi] volte verso l'esterno: per questo l'uomo guarda al di fuori e non dentro sé stesso. Ma un saggio rivolse l'occhio verso l'interno e vide dentro di sé l'ātman" (I.1.1). Mentre un filone, destinato ad assumere il ruolo preminente nella tradizione filosofica indiana, si orienta in tal modo verso l'introspezione e verso la ricerca di un principio assoluto unitario davanti al quale il mondo della manifestazione inevitabilmente si sbiadisce, non mancano tuttavia testimonianze della rivendicazione di un atteggiamento esattamente contrario, caratterizzato da un occhio indagatore portato sul mondo esterno, interessato a mettere a fuoco ogni sua specificità, la concreta fattualità piuttosto che il recondito principio spirituale che esso sottende. Una delle spiegazioni del termine 'vaiśeṣika' che vengono date dai commentatori fa appunto riferimento a questo orientamento verso la differenziazione e il particolare (viśeṣa).
A questo versante 'naturalistico' appartiene, per esempio, il famoso dialogo tra Bharadvāja e Bhṛgu nel Mahābhārata (Grande poema dei Bhārata) (Frauwallner 1956). Alle domande di Bharadvāja su quali siano l'origine e la natura dell'Universo, Bhṛgu risponde tracciando un quadro analitico che parte da una situazione primordiale in cui esiste solamente l'etere, da cui poi nascono l'acqua, l'aria, il fuoco e infine la terra. Sono questi cinque elementi a costituire il tutto; ad ognuno di essi appartengono due serie di qualità specifiche, rispettivamente il fornire spazio, il movimento, il calore, la fluidità e la solidità, da una parte, il suono, la tangibilità, la visibilità, il sapore e l'odore, dall'altra. Ognuna delle qualità poi possiede svariate modalità, oggetto di lunghe elencazioni. Da appropriate combinazioni di questi elementi primari (bhūta) sono formati anche gli esseri viventi, sia animali che vegetali. Anche i principî vitali e le facoltà sensoriali non sono altro che combinazioni di elementi, in particolare di fuoco e aria.
Da questa e da altre speculazioni consimili si sviluppa la filosofia del Vaiśeṣika, che sembra però differenziarsi per un disinteresse ‒ che diventerà sempre più marcato, fino alla formulazione classica del sistema ‒ nei confronti del taglio evoluzionistico che solitamente caratterizza questo genere di concezioni e in definitiva lo mantiene in comunicazione con la sfera religiosa e le cosmogonie mitiche, abbozzate già nei Veda. Non diversamente, per esempio, dalle scuole buddhiste dell'Abhidharma e dei Sarvāstivādin e dal jainismo ‒ ma apparentemente scevro delle loro motivazioni, che sono in ultima analisi di ordine soteriologico ‒ il Vaiśeṣika si dedicherà in maniera sistematica a una sorta di catalogazione di tutto quanto rientri o partecipi dell''essere' o della 'realtà' (bhāva, sattā) ‒ termini e concetti complessi e, come si vedrà, inevitabilmente ambigui ‒ poco curandosi di questioni creazionistiche o teleologiche. Questo fece sì che il sistema fosse visto con un certo sospetto dall''ortodossia' brahmanica, almeno nella sua componente vedāntica, che, se non arriva a condannarlo, comunque lo relega nelle sue classificazioni dossografiche in posizioni per solito poco lusinghiere.
Lo sforzo classificatorio del Vaiśeṣika non si ferma all'enumerazione dei singoli enti, ma culmina nell'identificazione di un limitato numero di principî o rubriche generali, chiamati padārtha, comunemente tradotto con 'categorie' (lett. 'significato di parola'). Il significato letterale del vocabolo non deve far pensare a una presa di posizione in termini di nominalismo, che sarebbe oltretutto assai poco congruente con la marcata opzione realistica del Vaiśeṣika, uno dei cui taciti assiomi è proprio la fiducia nella capacità della conoscenza e del linguaggio di rispecchiare ed esprimere le cose per quelle che sono. Più probabilmente il vocabolo è da intendere nella sua accezione meno pregnante, invalsa nell'uso comune, di 'entità' o 'cosa', designata nei termini più generici e astratti e intorno alla quale è possibile un 'discorso'. Il numero delle categorie, nella forma classica del Vaiśeṣika ‒ vale a dire quella corrispondente alla sistemazione operata dal Padārthadharmasaṃgraha ‒ è fissato in sei: sostanza, qualità, moto, universale, particolarità, inerenza. Esse sono elencate in un verso del Vaiśeṣikasūtra, che però ha tutta l'aria di un'aggiunta a posteriori, visto che né il testo commentato da Candrānanda, né quello commentato da Vādīndra lo riportano (è presente solamente nel testo commentato da Śaṅkaramiśra nel XV sec.). Inoltre, i sūtra iniziali del Vaiśeṣikasūtra, riportati sopra, si limitano a menzionare e descrivere soltanto le prime tre. Questa considerazione, unita al fatto che le due triadi appaiono fortemente eterogenee, quanto invece omogenee al loro interno, fa pensare che le ultime tre ‒ universale, particolarità, inerenza ‒ appartengano ad una fase ulteriore del sistema. Se è vero, come è detto nel Padārthadharmasaṃgraha che tutte e sei le categorie possiedono 'realtà' (astitva), 'conoscibilità' (jñeyatva) e 'denotabilità linguistica' (abhidheyatva), sono invece soltanto le prime tre ad avere 'relazione con la [fattuale] esistenza' (sattāsambandha). L'opposizione tra sattāsambandha e astitva, termine quest'ultimo che Praśastapāda menziona una sola volta e senza spiegarlo ‒ cosa che tenteranno di fare, nei modi più disparati, commentatori e autori successivi (Halbfass 1992) ‒, sembra accostabile a quella tra concretezza e astrattezza dell'essere, l'uno proprio del mondo dell'oggetto, l'altro, di più vasta applicazione, comprendente la sfera della cognizione e l'universo linguistico. Per esempio, è soltanto astitva che pertiene all'effetto prima della sua effettiva produzione, la quale si configura per l'appunto come l'ottenimento di sattāsambandha.
Ammettendo con Frauwallner che il numero originario delle categorie fosse ristretto a tre, nella sistemazione classica data al Vaiśeṣika dal Padārthadharmasaṃgraha esse sono saldamente stabilite in sei per diventare sette, con l'aggiunta di abhāva 'non-essere, assenza', nell'opera di Udayana, il primo a presentare esplicitamente il Vaiśeṣika in unione col Nyāya. Il numero delle categorie però resta sempre aperto alla critica ‒ sia dentro che fuori il Nyāya-Vaiśeṣika ‒ e non mancarono coloro che sottolinearono l'intrinseca arbitrarietà di ogni enumerazione delle componenti di base della realtà che voglia porsi come esaustiva. Non va dimenticato come un'altra opera vaiśeṣika, più o meno contemporanea al Padārthadharmasaṃgraha, ne stabilisse il numero in dieci, come recitava il suo stesso titolo Daśapadārthaśāstra (Trattato sulle dieci categorie), aggiungendo 'efficienza causale' (śakti), 'mancanza di efficienza causale' (aśakti), 'universale specifico' (sāmānyaviśeṣa) e 'assenza' (abhāva). Infine, nel Padārthatattvanirūpaṇa (Disamina della vera realtà delle categorie) Raghunātha Śiromaṇi sottopone a una critica radicale l'intero sistema delle categorie, eliminando, per esempio, lo spazio, il tempo o la stessa 'esistenza' (sattā), e aggiungendone invece altre come causalità e numero.
Secondo il Padārthadharmasaṃgraha, le prime tre categorie ‒ sostanza, qualità, moto ‒ possiedono in comune, oltre alla relazione con l'esistenza (sattāsambandha), anche altre caratteristiche: possono avere sia degli universali che delle particolarità ultime, possono essere chiamate tecnicamente 'cose' (artha) e sono in grado di produrre merito e demerito. Le altre tre categorie ‒ universale, particolarità e inerenza ‒ hanno invece un'esistenza intrinseca, non dipendente cioè da relazione (inclusa quella con sattā), sono rivelate unicamente dalla facoltà intellettuale, non possono essere né cause né effetti, non hanno né universali né particolari, sono eterne e non possono essere indicate con la parola 'cosa'.
Sostanza (dravya)
Secondo il Vaiśeṣikasūtra (I.1.4), le nove sostanze ‒ terra, acqua, fuoco, vento, etere, tempo, spazio, senso interno, anima ‒ hanno tre caratteristiche in comune: possono essere dotate di movimento, di qualità ed essere cause inerenti (il Vaiśeṣika distingue infatti tra cause inerenti o materiali, cause non-inerenti e cause efficienti, rappresentate ‒ nel caso del prodotto vaso ‒ rispettivamente dall'argilla e dagli atomi di terra che la costituiscono, dalle qualità proprie della causa inerente e che determinano analoghe qualità nell'effetto, e dalla ruota e dalle mani del vasaio). Quest'ultima caratteristica è riformulata nel sūtra (I.1.8): "Le sostanze creano altre sostanze". La sostanza prodotta è un insieme di parti (avayavin), un tutto, considerato come totalmente altro dalle parti o fattori che lo hanno prodotto, dottrina questa che attirerà al Nyāya-Vaiśeṣika una interminabile serie di critiche, in primis da parte dei buddhisti, sostenitori al contrario della natura totalmente fittizia di ogni insieme. Tutte le sostanze, tranne quelle composte di parti, hanno poi la caratteristica di non essere dipendenti e di essere eterne.
Il concetto vaiśeṣika di sostanza non è univoco, ma presenta almeno tre diverse accezioni. Nella prima accezione sostanza equivale a sede di qualità e di movimento, ed è quella a cui faceva riferimento il sūtra (I.1.7); la seconda è quella di sostrato che permane attraverso ogni accidentale cambiamento; la terza, infine, è quella di entità capace di esistenza indipendente. Alla domanda se una tale entità, spogliata di ogni qualità o altro attributo, potesse continuare ad avere una sua 'concreta' realtà e come tale essere oggetto autonomo di percezione, i pensatori vaiśeṣika risposero in termini positivi, pur con varie sfumature e non senza esitazioni, derivanti tra l'altro da una non chiara distinzione tra il livello ontologico di sostrato (āśraya), di qualità, ecc. e quello logico/linguistico di soggetto cui vengono riferiti predicati (Halbfass 1992).
Secondo quanto troviamo nella sezione del Padārthadharmasaṃgraha dedicata alle analogie e alle differenze tra le categorie, alla quale si è già fatto più volte riferimento, le sostanze spazio e tempo sono accomunate dal fatto di possedere le stesse cinque qualità ‒ numero, dimensione, separatezza, congiunzione e disgiunzione (v. oltre) ‒ e di essere le cause strumentali di tutto quanto ha un'origine. Esse non sono intese come elementi dinamici, ma come le statiche e reificate coordinate in cui si dispone l'Universo. Spazio e tempo condividono poi con l'etere l'onnipervadenza, le dimensioni infinite e il costituire il comune ricettacolo di tutte le cose materiali dotate di parti.
Ogni elemento (bhūta) possiede un aspetto permanente nella forma di atomi e uno impermanente nella forma di aggregato; oltre alle sette qualità che sono comuni a tutti gli elementi (il numero, la misura, la separatezza, la congiunzione e la disgiunzione, la distanza e la prossimità) essi ne possiedono, in misura progressivamente decrescente, altre facenti parte di un gruppo di quattro (sapore, odore, forma e tangibilità; la terra le possiede tutte e quattro, mentre l'aria ha solamente l'ultima). L'elemento terra (pṛthivī) in quanto aggregato entra nella composizione dei corpi delle creature, degli organi di senso e degli oggetti. Mentre i corpi di poche creature privilegiate (per es., gli dèi o i veggenti) nascono direttamente dagli atomi di terra, di norma gli altri corpi nascono da un ventre materno o da un uovo, a seguito della commistione tra seme maschile e sangue mestruale femminile. L'organo formato da esso è quello del tatto. Quanto agli oggetti, sia il minerale che il vegetale sono costituiti dall'elemento terra. L'elemento acqua (āpaḥ), in quanto aggregato, è la componente essenziale di una classe speciale di corpi, che vivono nel mondo di Varuṇa, e forma l'organo del gusto; in quanto oggetto, forma mari, fiumi e laghi. Il fuoco (tejas), in quanto aggregato, forma, misto a terra, i corpi che si trovano nel mondo del Sole; forma l'organo della vista. Nel mondo degli oggetti la sua presenza è quadruplice. È il comune fuoco terrestre, che si alimenta dei comuni combustibili; come fuoco celeste, avente per combustibile l'acqua, forma il Sole e le stelle; come fuoco addominale, è responsabile della digestione e della trasformazione degli alimenti in fluido vitale; come fuoco sotterraneo, prende la forma dell'oro e di altri metalli. L'aria (vāyu) forma, come detto sopra, i corpi che vivono nel mondo del vento; forma l'organo del tatto. Come oggetto non è direttamente percepibile ma piuttosto inferibile dagli effetti che provoca, come spostamenti delle nuvole, fruscii, suoni, ecc. Nel corpo si presenta come soffio, distinto in molteplici varietà, e assolve a funzioni essenziali quali, per esempio, la circolazione dei fluidi essenziali (dhātu).
L'etere (ākāśa) ha in realtà poco in comune con i quattro elementi materiali con i quali viene associato. La sua esistenza è inferita da quella del suono, che altrimenti rimarrebbe una qualità priva di sostrato; si arriva all'etere per esclusione, dopo aver progressivamente esaminato e scartato tutte le altre sostanze. Anche il suono, da parte sua, presenta marcate peculiarità rispetto alle altre qualità, che pure sono oggetto di percezione. L'etere è concepito come infinitamente grande, in quanto il suono può essere percepito dovunque. Non possiede una pluralità di forme di manifestazione, essendo infinito, unitario e non costituito di atomi. La sua funzione di organo che percepisce il suono si presenta dunque assai problematica: il Vaiśeṣika costruisce al proposito una teoria alquanto astrusa, affermando che organo di percezione è l'etere, o almeno quella porzione di etere circoscritta dal canale uditivo, la quale deve lo svilupparsi di questa altrimenti inspiegabile facoltà percettiva all'intervento, ancora una volta, dell'invisibile potere (adṛṣṭa). La sordità non potrà dunque essere imputata a un difetto dell'etere, per definizione infinito e inalterabile, ma per l'appunto a una defezione dell'adṛṣṭa (Frauwallner 1956).
I quattro elementi sono a loro volta costituiti di atomi (paramāṇu, 'estremamente piccolo'), non ulteriormente divisibili e capaci di combinarsi in aggregati via via più numerosi ‒ bi-atomici (dvyāṇuka), tri-atomici (tryāṇuka) e così via ‒ diventando così accessibili alla percezione in qualità di molecole, ecc. Infatti la qualità tecnicamente chiamata piccolezza (aṇutva) è propria soltanto degli atomi presi da soli oppure in coppia, con la differenza che tale piccolezza è permanente nei primi e impermanente nei secondi; la grandezza (mahāttvam), o macroscopicità, comincia solamente a partire dagli aggregati ternari. Gli atomi sono eterni e inalterabili; identici nella forma ('rotonda', parimaṇḍala), si differenziano per le qualità che sono specifiche di ciascun elemento. Anche le qualità sono concepite come permanenti. Non vi è dunque nessuna vera e propria nascita o distruzione dell'Universo nel quadro composito che viene delineato dal Padārthadharmasaṃgraha. Quando la fase di stasi che segue ad una periodica dissoluzione degli aggregati di atomi che formano il mondo materiale raggiunge la fine dei cento 'anni di Brahmā', il potere invisibile (adṛṣṭa) che aderisce alle anime rientra in funzione, determinando prima di tutto un movimento negli atomi di aria, che si aggregano in una grande massa di aria. Questa, rombando invade e riempie lo spazio. Nello stesso modo, a partire dagli atomi d'acqua si viene a formare un immenso oceano, nel quale a poco a poco si raccoglie la terra; dall'oceano si sviluppa poi una grande massa di calore, il fuoco. Fuoco e terra sono gli elementi con cui il supremo Signore forma l'Universo, il cosiddetto 'uovo di Brahmā' (brahmāṇḍa), che progressivamente si riempie di creature. Allo scadere di altri cento 'anni di Brahmā', il supremo Signore, ormai arrivato alla fine del suo mandato, si risolve a distruggere l'Universo e a tal fine sospende il potere dell'adṛṣṭa, che era la fonte ultima del dinamismo del Creato. Sorge dunque a questo punto un movimento negli atomi che porta alla progressiva disgregazione (vibhāga) dei corpi negli elementi che li compongono, fino a che gli stessi elementi si disgregano e il mondo intero si risolve in atomi isolati.
Ottava nell'enumerazione delle sostanze è l'anima o sé (ātman). Il loro numero è infinito, sono inaccessibili alla percezione a causa della natura sottile e onnipervadente, e oggetto di sola inferenza a partire per esempio dalla impossibilità di concepire un altro possibile sostrato per qualità come la conoscenza (buddhi), in primo luogo, e poi per il piacere, il dolore, l'attaccamento, l'avversione e lo sforzo. Ultima sostanza è il senso interno (manas), che coordina le attività dei vari sensi ed è l'unico abilitato a percepire qualità come il piacere o il dolore. Di dimensioni atomiche, possiede una velocità illimitata ma non può entrare in aggregazione con altri atomi.
Qualità (guṇa)
La categoria qualità (guṇa) comprende, secondo il Vaiśeṣikasūtra (I.1.5), diciassette elementi: forma, sapore, odore, tatto, numero, misura, separatezza, congiunzione, disgiunzione, lontananza, prossimità, nozione, piacere, dolore, desiderio, avversione e sforzo. A queste il Padārthadharmasaṃgraha ne aggiunge altre sette: peso, fluidità, umidità, disposizione (saṃskāra, che si differenzia a sua volta in velocità, elasticità e nell'impronta lasciata da esperienze e cognizioni precedenti), merito, demerito e suono. Le qualità dipendono sempre da un sostrato al quale inerire (le sostanze), mentre non possono inerire ad altre qualità (dunque non si potrebbe a rigore nemmeno parlare di 'numero' delle qualità, essendo il numero stesso una qualità) o a movimenti. Tali qualità possono essere connesse a un unico sostrato ‒ sia occupandolo interamente, come è di solito, sia occupandolo soltanto parzialmente (è il caso del suono e delle qualità dell'anima) ‒ o a più sostrati (è il caso della congiunzione e della disgiunzione) che risultano pertanto, grazie ad esse, uniti o separati.
Gli autori vaiśeṣika si soffermano a lungo, come qui non è possibile fare, sulla natura delle qualità e delle loro varie suddivisioni, nonché sul loro ruolo, di assai complessa e controversa formulazione, nel rapporto di causalità. Degno di nota, per esempio, è il concetto di apekṣābuddhi, 'nozione-in-dipendenza', da cui dipendono qualità che presuppongono intrinsecamente un osservatore come punto di riferimento, quali la lontananza e la prossimità, il numero e la separatezza. Queste qualità fanno parte ‒ insieme con l'estensione, la congiunzione e la separazione ‒ delle cosiddette qualità 'comuni' (sāmānya), opposte alle restanti, denominate 'specifiche' (vaiśeṣika) per il loro essere riservate, come si è visto, solamente a determinate sostanze. Tra le comuni è opportuno chiarire la netta distinzione di significato tra separatezza (pṛthaktva) e disgiunzione (vibhāga): mentre la prima è la qualità che garantisce l'identità e l'individualità di una cosa, per cui può essere distinta da tutte le altre, la seconda è invece la condizione, destinata a durare un istante, immediatamente successiva alla cessazione di una precedente congiunzione. Benché nell'uso comune i due termini sanscriti guṇa e dharma siano sostanzialmente usati come sinonimi, il guṇa dei Vaiśeṣika ha un'accezione molto più ristretta e riservata ad un piccolo gruppo di qualità oggettive, mentre dharma abbraccia ogni possibile attributo di cui un soggetto possa essere predicato, senza che si renda necessario un qualsiasi riscontro nella realtà.
Particolarmente interessante è quanto il Vaiśeṣika, e in special modo il Padārthadharmasaṃgraha e i suoi commentatori, ha da dire sulla qualità suono. Ogni suono, incluso quello proprio del linguaggio umano, ha tre origini possibili: può nascere da una congiunzione, da una disgiunzione o da un altro suono. Nel caso del linguaggio abbiamo una corrente di soffio che dai polmoni sale verso l'alto e nel cavo orale entra in contatto con i luoghi e organi di articolazione, a loro volta congiunti o disgiunti tra loro, e connessi con l'etere. La qualità suono che nasce nell'etere è di durata istantanea e ha luogo a una distanza più o meno grande dall'orecchio che la percepisce; poiché, secondo il Vaiśeṣika, la percezione avviene proprio a causa di un contatto tra l'organo e il suo oggetto, non rimane che ipotizzare che il suono arrivi fisicamente all'orecchio attraverso una catena. Ogni suono, in sé istantaneo, deve pertanto avere il potere di generare un suono identico, il quale non appena sorto distrugge il suono precedente, e così via fino a raggiungere l'orecchio: per dar conto del fatto che ogni suono finisce prima o poi per svanire, bisogna aggiungere che il penultimo suono ha la proprietà non soltanto di distruggere la sua causa ma anche il suo effetto.
Movimento (karman)
Analogamente alle qualità, qualsiasi movimento deve essere in relazione con un determinato sostrato (una sostanza) e non può dunque essere un sostrato di altri movimenti né di qualità. Questa e altre analogie indussero Bhāsarvajña a considerarlo non una categoria separata ma una sottospecie della qualità. Il movimento può essere prodotto dalla pesantezza, dalla fluidità, dallo sforzo o dalla congiunzione, e può a sua volta produrre congiunzione e disgiunzione. I movimenti di cui non è identificabile una causa definita sono ascritti al potere invisibile (adṛṣṭa). I movimenti, ai quali viene generalmente riconosciuta una durata istantanea, sono classificati in cinque varietà: sollevamento, abbassamento, contrazione, distensione, ai quali si aggiunge l''andare' (gamana) per i casi in cui non sia prevista una precisa direzione nello spazio (tale è, per es., il movimento proprio degli atomi). L'imprescindibilità di una qualsiasi direzione nello spazio esclude dal movimento le sostanze considerate onnipervadenti, quali l'etere, l'anima, il tempo e naturalmente lo stesso spazio.
Universale (sāmānya)
Sebbene il termine sāmānya ricorra svariate volte nei Vaiśeṣikasūtra, di esso non viene data una definizione. Gioverà quindi ancora una volta rivolgersi al Padārthadharmasaṃgraha, che assegna all'universale le seguenti caratteristiche: è presente in una molteplicità di individui conservando la propria intrinseca unità, determina la nozione della continuità della propria presenza in un numero di individui indefinitamente grande, può essere assoluto o relativo (ovvero, abbracciare un contenuto di maggiore o minore estensione). Secondo un'altra definizione, accettata dalla generalità del Nyāya-Vaiśeṣika, esso è un'entità unitaria, eterna e presente in molti individui in base ad uno speciale tipo di relazione con essi, chiamato inerenza (samavāya; v. oltre).
Il problema degli universali, che attraversa tutto il pensiero indiano ‒ né più né meno di quanto segni l'intera filosofia occidentale, da Platone in poi ‒, richiede una preliminare chiarificazione terminologica. Infatti, a complicare il già abbastanza complesso panorama delle posizioni e delle dispute tra le varie scuole, interviene il sovrapporsi di tre termini dai confini ambigui, spesso fortemente diversificati tra una scuola e l'altra: sāmānya (lett. 'comunanza, generalità'), jāti (lett. 'nascita, genere') e ākṛti (lett. 'conformazione, configurazione'). Nel contesto nyāya-vaiśeṣika sāmānya e jāti coprono sostanzialmente la stessa area semantica, con la differenza che i testi specificamente nyāya mostrano di preferire il primo e quelli specificamente vaiśeṣika il secondo. Pakṣilasvāmin, da parte sua, nel commento al Nyāyasūtra (pp. 113-114) intende jāti come una forma di sāmānya, ma con un'estensione più ristretta (ciò probabilmente in ragione del sottofondo più tendente al concreto di jāti, che come si è visto ha come significato di partenza per l'appunto 'nascita'), vale a dire lo specifico universale dei Vaiśeṣika; sāmānya è definito come 'ciò che causa la continuità/continuazione di una nozione'. Il termine ākṛti sembra invece riferirsi solitamente a un livello decisamente più concreto di quello di sāmānya e jāti, ovvero al modo in cui gli elementi comuni che permettono di definire due o più oggetti come simili o appartenenti alla stessa classe si traducono anche esternamente in un'analogia di struttura o conformazione. Una tale differenziazione nelle accezioni dei tre termini in questione risulta valida solamente nel contesto di alcune scuole, come il Nyāya o i Grammatici, mentre in altre, come per esempio la Mīmāṃsā, essi tendono a confondersi (Halbfass 1992). Il Vaiśeṣika per primo introduce una gerarchia negli universali: l'universale 'vacca' che lega tra loro molti specifici individui, nessuno identico all'altro, sarà subordinato ‒ ovvero di minore ampiezza ‒ rispetto all'universale 'quadrupede', a sua volta meno ampio di 'animale' e così via fino ad arrivare all'universale che non può essere incluso da nessun altro, sattā 'il fatto di essere esistente, esistenza', formazione astratta (-tā) a partire da sat 'esistente'. È questo per l'appunto l'universale assoluto (para sāmānya) di cui parla il Padārthadharmasaṃgraha. La concezione vaiśeṣika dell'universale presenta alcuni inevitabili paradossi: l'universale è eterno e indiviso, dunque è contenuto integralmente in ogni individuo particolare e anzi il suo unico locus è proprio nel particolare. Questo però non vuol dire che se tutti i particolari periscono perisca anche il relativo universale, che invece è per definizione eterno. Esso continuerà ad avere una sua sorta di indefinibile, latente esistenza. Benché il Vaiśeṣikasūtra lo abbia assunto come buddhilakṣaṇa, 'avente come mezzo di caratterizzazione/definizione la facoltà intellettuale', i testi successivi sono concordi nel considerarlo come oggetto di diretta percezione, intendendo con ciò implicitamente che l'universale non è un fantasma dell'intelletto, frutto di un suo autonomo e disancorato potere di astrazione, ma che al contrario ogni concetto astratto di somiglianza, ecc., trova in esso il suo ubi consistam, un fondamento obiettivo che sarà anche la garanzia ultima della validità della equazione oggetto-conoscenza-linguaggio, assioma su cui tacitamente poggia tutto l'edificio del Vaiśeṣika. Questi caratteri dell'universale secondo il Vaiśeṣika rimandano, ma soprattutto per contrasto, a quelli dell'universale platonico. Anche per il platonismo gli universali ‒ vale a dire le idee ‒ hanno una loro reale esistenza, indipendente dagli oggetti particolari, ma non negli oggetti particolari hanno essi stanza bensì in un mondo iperuranico; gli oggetti ne sono una copia imperfetta, e se nonostante tale imperfezione gli uomini riescono comunque ad avere delle idee/universali una qualche nozione è solamente perché le loro anime, prima di essere coinvolte nell'avventura terrena, hanno avuto modo di contemplare gli originali.
Particolarità ultima (antyaviśeṣa)
La quinta categoria è quella che più ha dato luogo a interpretazioni diversificate, prima di tutto a causa di una diffusa ambiguità presente nei testi stessi. Il Vaiśeṣikasūtra pur menzionandola non ne dà una definizione. Dopo aver distinto (I.23) l'universale (sāmānya) dal particolare (viśeṣa), considerandoli però entrambi funzione di un determinato atteggiamento del conoscere (buddhyapekṣa) ‒ che il commentatore Candrānanda (p. 8) definirà rispettivamente 'inclusivo' (anuvṛttibuddhi) ed 'esclusivo' (vyāvṛttibuddhi) ‒, e aver detto che universali come quello di sostanza, qualità e moto (ma non 'esistenza') possono essere visti anche come particolari, afferma (I.2.6) che invece non può essere in alcun modo attribuito il carattere di universale ai 'particolari ultimi' (antya-viśeṣa). Viśeṣa, spiega Candrānanda (p. 8), deve il suo nome alla funzione di diversificare (viśeṣakatvāt); essendo presente con una relazione di inerenza nelle sostanze permanenti ‒ quali gli atomi, l'etere, ecc. ‒ esso determina, nei riguardi di oggetti con conformazioni e qualità simili, la nozione in termini di esclusione: questo è una cosa, quello un'altra. La particolarità ultima, come chiarisce ulteriormente il Padārthadharmasaṃgraha, è il fattore estremo di individuazione, presente solamente negli atomi dei quattro elementi, nell'etere, nel tempo, nello spazio, nell'anima e nel senso interno, e percepibile da parte degli yogin. Essi soltanto infatti possono discernere le differenze tra entità elementari e virtualmente identiche come per esempio i singoli atomi dei vari elementi oppure le anime liberate, e addirittura essere in grado di riconoscere un determinato atomo visto in un altro tempo e luogo. Gli atomi, avendo tutti la stessa natura, non potrebbero essere di per sé i responsabili di tali distinte cognizioni; lo possono diventare grazie all'associazione con tali ultime particolarità, così come, aggiunge il Padārthadharmasaṃgraha, sostanze impure, quali la carne di vacca o di cavallo, rendono impure altre sostanze, che di per sé non lo sarebbero, in virtù del solo contatto con esse.
Il Daśapadārthaśāstra sembra invece riservare questo fattore di individuazione, tra le sostanze permanenti, solamente a quelle che sono anche unitarie, come etere, spazio e tempo. Il concetto di ultima particolarità viene talvolta confuso con la separatezza (pṛthaktva; v. sopra), di assai più larga applicazione; pure l'ultima particolarità, per esempio, è qualificata dalla separatezza.
Inerenza (samavāya)
Con l'inerenza si chiude la lista delle categorie secondo il Vaiśeṣika classico e con la disamina dell'inerenza si chiude anche il Padārthadharmasaṃgraha. L'inerenza è un tipo speciale di connessione tra due elementi, una connessione eterna e necessaria ‒ diversamente da quella occasionale e provvisoria che ha nome saṃyoga. Esempio di saṃyoga è la connessione di un vaso con il latte, mentre rientra nell'inerenza la connessione dell'universale col particolare o della parte col tutto. Secondo la formulazione del Padārthadharmasaṃgraha, l'inerenza differisce dalla congiunzione per quattro motivi: perché in tale relazione i due membri sono connessi inseparabilmente; perché non è causata dall'azione dei suoi membri; perché non cessa con la separazione dei suoi membri; perché la relazione in cui i suoi membri sono posti può essere soltanto quella di contenente-contenuto (ādhārya-ādhāra). L'inerenza non può essere oggetto di percezione ed è unica, differenziandosi anche in questo dalla congiunzione. È grazie a essa che l'universale 'sostanza' risiede nelle varie sostanze, l'universale 'qualità' nelle varie qualità, l'universale 'moto' nei vari movimenti; è ancora l'inerenza quella che lega la particolarità ultima alle sostanze permanenti. Nonostante questo apparente carattere di estrema astrazione, l'inerenza procede dall'idea stessa di 'qui'. Come ha notato Halbfass (1992), essa serve a dar conto del mescolarsi dei diversi e ontologicamente eterogenei componenti nella concretezza del mondo empirico: se l'analisi in termini di categorie ha dissolto l'unità della cosa, l'inerenza stabilisce la ratio per la sua ricostituzione. Di converso, dal momento che tra le categorie nessuna si presenta isolata, è solamente partendo dalla nozione di inerenza che possiamo analizzare le diverse componenti, le quali nell'esperienza appaiono inestricabilmente connesse (Bronkhorst 1992).
A un giovane studente americano che lo aveva appena informato di essere venuto a Benares per studiare una filosofia indiana, il Sāṃkhya, uno dei grandi sapienti dell'India tradizionale nel XX sec., Gopinath Kaviraj, ribatteva, alquanto spazientito, che il Sāṃkhya non è 'una' filosofia indiana ma 'la' filosofia indiana (Larson 1987). Il giovane studente, sia detto per inciso, era Gerald Larson, che sarebbe poi diventato uno dei più noti studiosi di questo darśana. L'affermazione di Kaviraj, che potrebbe sembrare fin troppo recisa e semplificante, è tutt'altro che priva di giustificazioni. Non solo il Sāṃkhya è il più antico dei darśana, ma costituisce anche il primo tentativo di dare una forma di qualche coerenza alle speculazioni che si esprimono prima di tutto nelle Upaniṣad e di tramandarle innestandole nel tessuto stesso della civiltà indiana. L'India finirà per far proprie, in maniera quasi subliminale, le più caratteristiche tra le idee guida del Sāṃkhya e ‒ cosa che appare ancora più significativa ‒ lo farà perdendo largamente il sentimento della loro originaria provenienza (macroscopico è, per es., il caso del tantrismo; Torella 1999). L'intero edificio del Sāṃkhya poggia su pochi motivi ma molto 'forti' e caratterizzati, con decisi tratti di arcaismo. L'Universo è riducibile alla tensione tra due principî antitetici: da una parte, una materia unitaria senza inizio, dinamica (femminile), che si evolve incessantemente in una infinità di forme in virtù dello squilibrio tra le sue tre componenti fondamentali ‒ le qualità sattva ('luce, distensione'), rajas ('dinamismo, passione') e tamas ('oscurità, pesantezza') ‒, e dall'altra, un principio spirituale, statico (maschile), frantumato in una pluralità di anime, consistenti nella sola luce coscienziale e prive di azione. Il dramma e il dolore del mondo nascono in sostanza da un equivoco: l'anima appare invischiata nel gioco doloroso della psiche e del corpo, ma solamente per scoprire, una volta raggiunta la liberazione attraverso una 'visione isolante' che la separa definitivamente dalla materia, che un reale coinvolgimento non c'era mai stato e che essa non aveva mai smesso di essere libera e inattingibile. Il filosofo sāṃkhya arriva a questa concezione del mondo non appoggiandosi a una rivelazione ma in seguito a un'autonoma riflessione che gli permette di enucleare i principî ultimi del reale (25 nella versione classica del sistema), di 'contarli'. 'Numero, enumerazione' è il significato corrente della parola saṃkhyā, di cui il nome stesso della scuola, Sāṃkhya, è un derivativo ‒'connesso con, basato su, l'enumerazione' ‒, anche se da un esame delle occorrenze antiche di questa radice sembra ora più probabile l'accezione di 'indagine intellettuale, raziocinante'. I due significati in realtà non si escludono essendo appunto l'enumerazione un mezzo primario per dare una ratio alla confusa molteplicità del reale; è noto del resto che la stessa ratio, con cui Cicerone traduce regolarmente il greco lógos, contiene in quello che era il suo nucleo originario l'idea di computazione (Houben 1999). È stato probabilmente questo aspetto, unito all'esclusione ‒ almeno nella maggior parte delle sue correnti ‒ della figura di un divino creatore e all'atteggiamento spesso molto critico verso il Veda, che ha fatto vedere nel Sāṃkhya l'incarnazione del razionalismo indiano (è il sottotitolo del pionieristico saggio che R. Garbe nel 1917 dedicò a questo sistema), facendo passare in sottordine la potente istanza soteriologica da cui il Sāṃkhya prende le mosse e il suo non celato radicamento sapienziale. Se proprio si deve dare a qualcuno questa etichetta, sarebbe il Vaiśeṣika piuttosto che il Sāṃkhya a essere il candidato ideale.
Fin dalle prime attestazioni nel Mahābhārata (testimonianze di una terminologia sāṃkhya si trovano però già nella Kaṭhopaniṣad e se ne fa menzione nell'Arthaśāstra), concentrate in particolare nel Mokṣaparvan (Sezione sulla liberazione), il Sāṃkhya figura associato allo Yoga, o per essere più precisi, ad essere associati sono i termini sāṃkhya e yoga, di cui non è facile individuare con esattezza i contorni. Più che di due distinti sistemi, sembra trattarsi di due diverse metodologie spirituali, la prima basata sul potere salvifico della pura conoscenza, la seconda su quello di uno speciale tipo di azione. Questa prima schematica opposizione si arricchisce di una serie, non sempre coerente, di ulteriori connotazioni, quale, per esempio, la messa a confronto di conoscenza intellettuale ‒ o addirittura libresca ‒, ragionamento, accento sulle facoltà intellettuali, da una parte, e diretta esperienza, estasi, realizzazione spirituale, potere, sfruttamento delle risorse del corpo e della psiche, dall'altra. Se assai di frequente Sāṃkhya e Yoga sono posti in opposizione o considerati addirittura alternativi, non mancano solenni affermazioni riguardo alla loro fondamentale unità, come quella che ricorre in un celebre passo, che per la sua esemplarità vale la pena di citare per esteso:
La conoscenza sāṃkhya è stata da me esposta. Ora poni mente alla conoscenza yoga così come l'ho vista e sentita, o ottimo tra i re, secondo verità. Non c'è conoscenza pari a quella sāṃkhya, non c'è potere pari a quello yoga. Tutti e due formano un'unica strada, entrambe sono dette essere prive di fine. Mentre gli uomini di meschino intelletto li vedono come due cose separate, per certo, o re, noi li vediamo come una cosa sola. Quella stessa cosa che gli Yoga vedono, quella vedono i Sāṃkhya. Colui che vede il Sāṃkhya e lo Yoga come un'unità, quello conosce secondo verità. (Mahābhārata, XII.304.1-4)
La menzione di Sāṃkhya al plurale (come del resto è posto al plurale anche lo Yoga) sembra far riferimento a una molteplicità di scuole all'interno di un alveo unitario, che forse non è altro che un determinato atteggiamento spirituale e intellettuale. Questo proliferare di scuole e dottrine diverse accompagnerà il Sāṃkhya in tutta la sua lunga storia. Ancora nel VII sec. d.C. il pellegrino buddhista Guiji registra l'esistenza di ben 18 scuole Sāṃkhya ‒ Sāṃkhya che, giova ricordarlo, era una delle materie di studio nell'Università buddhista di Nālandā. Secondo il grande poeta buddhista Aśvaghoṣa (II sec. d.C.), che ne dà una dettagliata descrizione nel Buddhacarita (Gesta del Buddha), il Sāṃkhya sarebbe stato oggetto di prolungato studio da parte del Buddha stesso. Per motivi di spazio la trattazione che segue sarà incentrata sul Sāṃkhya, tralasciando i testi yoga, soprattutto commentari allo Yogasūtra, filosoficamente dipendente (seppure con qualche significativo sviluppo proprio) dalle dottrine sāṃkhya.
Un tentativo di ricostruzione della preistoria del Sāṃkhya, ovvero del Sāṃkhya precedente alla sua relativamente tardiva sistemazione in un darśana definito, è stato tentato da E. Frauwallner, con esiti tanto brillanti quanto intrinsecamente ipotetici. Secondo Frauwallner, il primo stadio è rappresentato dall'Adhyātmakathana (Racconto spirituale), incluso nel Mokṣaparvan, in cui ancora non compare una teoria evolutiva e il punto di partenza sono considerati i cinque elementi grossi, i quali, creati dal sé individuale (bhūtātman), producono a loro volta le facoltà sensoriali, i loro oggetti e gli organi d'azione; ai cinque elementi si aggiungono altri tre principî, il manas ('senso interno'), la buddhi, ('intelletto', ma con caratteristiche che fanno pensare piuttosto alla prakṛti), e infine lo kṣetrajña (lett. 'conoscitore del campo', ovvero il principio cosciente e spirituale, chiamato anche sākṣin, 'testimone').
La seconda fase, legata all'insegnamento di Pañcaśikha ‒ con Kapila e āsuri uno dei mitici padri fondatori del Sāṃkhya ‒, come riportato in vari capitoli ancora del Mokṣaparvan, vede l'affermarsi della concezione ‒ che si ritroverà poi nella forma classica del sistema ‒ di una prakṛti unitaria, formata dall'equilibrio di tre componenti (guṇa), e di 25 principî che (principio spirituale a parte) tutti si evolvono da essa. Gli insegnamenti che il Mahābhārata attribuisce a Pañcaśikha, caratterizzati da un ricorrente accento sul 'disgusto del mondo' (nirveda) considerato come punto di partenza dell'indagine filosofica, ma molto diversificati e anche contraddittori (Motegi 1999), sembrano però recalcitrare ad un tale tentativo di strutturazione.
La terza fase sarebbe quella caratterizzata dai cosiddetti 'sessanta temi dottrinali' (ṣaṣṭitantra), che sembra anche essere il titolo di una definita opera, attribuita a Vārṣagaṇya, non pervenuta ma della quale esistono varie citazioni in opere di scuole avversarie, a testimonianza di quella che dovette essere la sua importanza e rappresentatività. I 'sessanta temi dottrinali' sono formati dai dieci temi basilari (mūlika) della dottrina sāṃkhya: esistenza, unità, finalità, servire il fine di un altro, alterità, inattività, congiunzione, disgiunzione, pluralità delle anime e permanere del corpo in esistenza (dopo la liberazione). A questi si aggiungono le cinquanta 'idee, nozioni' (pratyaya), ovvero le componenti fondamentali della vita intellettuale e psicologica dell'individuo.
Lo Ṣaṣṭitantra, composto verosimilmente agli inizi del IV sec. e corredato poi da Vindhyavāsin di un importante commento, deve al suo alto prestigio se riuscì, almeno per alcuni secoli, a non essere offuscato dalla comparsa di quella che sarebbe diventata l'opera standard del sistema, la Sāṃkhyakārikā (Stanze del Sāṃkhya). Questo può essere dovuto anche al fatto che temi di epistemologia e di logica che nelle succinte stanze della Sāṃkhyakārikā trovavano solamente una fuggevole menzione erano invece trattati per esteso nello Ṣaṣṭitantra e continuarono per lungo tempo a essere considerati come parte integrante della dottrina del sistema.
Il Sāṃkhya classico
La Sāṃkhyakārikā assunta a testo di riferimento per il darśana Sāṃkhya si distingue dai testi-radice degli altri darśana per vari aspetti, primo tra i quali quello di non essere un testo autoreferenziale, visto che nel suo ultimo verso riconosce la propria dipendenza dallo Ṣaṣṭitantra, di cui si è proposto di enucleare i contenuti, lasciando da parte le digressioni narrative e le contese con le dottrine avversarie. La Sāṃkhyakārikā è un'operetta in versi (non gli śloka, molto più usati per questo genere di opere, ma i versi āryā, più ricercati ed eleganti), opera di un Īśvarakṛṣṇa, del quale non si sa praticamente nulla. Il numero dei versi, dato in settanta dalla Sāṃkhyakārikā stessa (ma non è infrequente che esso venga dato per arrotondamento), è in realtà di settandue o settantré nei suoi commenti. Per la sua datazione abbiamo un terminus ante quem, rappresentato dal 557-569, periodo in cui svolse la sua attività letteraria Paramārtha, che la tradusse in cinese; si tende a situarla tra il IV e il V secolo. Il commento standard è stato considerato il Bhāṣya di Gauḍapāda (VIII-IX sec.?), chiaro e conciso, che tuttora spesso accompagna le edizioni del testo della Kārikā. Più antica è molto probabilmente la Māṭharavṛtti (Commento breve di Māṭhara), che ha vari punti in comune con il commento che Paramārtha tradusse in cinese insieme con la Sāṃkhyakārikā. A questa, il grande poligrafo Vācaspati Miśra (X sec.) dedicò un commento, la Sāṃkhyatattvakaumudī (Luce lunare [che illumina] la vera essenza del Sāṃkhya), testo che fu molto letto e a sua volta ripetutamente commentato nel corso dei secoli, anche se la sua capacità di scavo e la padronanza della scolastica sāṃkhya risultano tutto sommato piuttosto modeste; l'impressione che se ne ricava è che più che di illustrarne le dottrine a Vācaspati prema di pilotare nel suo insieme l'antico e prestigioso sistema verso un'armonizzazione-integrazione col Vedānta. Di ben diversa levatura e di fondamentale importanza per la comprensione della Sāṃkhyakārikā e più in generale per la conoscenza del Sāṃkhya, anche nella sua storia più antica (ma, nonostante i suoi meriti, molto meno fortunata della Kaumudī di Vācaspati), è la Yuktidīpikā (Illustrazione del ragionamento), di autore ignoto, composta intorno al 680-720 d.C. e la cui edizione critica è di appena qualche anno fa (1998). Un interessante fenomeno di reviviscenza di una dottrina che sembrava entrata in un progressivo declino, e che conferma la perdurante presenza dei filosofemi del Sāṃkhya, è la comparsa in epoca tarda di due opere ascrivibili al genere sūtra, il Tattvasamāsa (Sintesi dei principî; XIV sec. ca.), breve e oscuro, e il molto più esteso Sāṃkhyasūtra (Aforismi del Sāṃkhya; XV sec. ca.), entrambe compilazioni recenti ma incorporanti anche materiali sicuramente antichi. È interessante la constatazione che non è sulla Sāṃkhyakārikā ma per l'appunto sul Sāṃkhyasūtra che Vijñānabhikṣu (XVI sec.) si appoggia nel suo tentativo di attrarre definivamente il Sāṃkhya nell'orbita vedāntica, sfruttando il suo impianto più orientato sulla cosmologia e integrandolo in una visione compatibile col Vedānta teistico. Egli compie questa operazione anche attraverso l'espediente di moltiplicare nel suo commento le citazioni tratte da testi epici e purāṇici, creando così un alveo 'ortodosso' in cui lasciar stemperare molta della durezza e riottosità del Sāṃkhya originario. La comparsa di un dio creatore, che pure questo testo non sembra autorizzare, non è comunque una novità nella lunga storia del Sāṃkhya, essendo evidente, per esempio, in alcune delle sue versioni più antiche. L'equazione, che diventerà corrente a partire dal Sarvadarśanasaṃgraha (Compendio di tutti i darśana; XIV sec.), Nirīśvarasāṃkhya (Sāṃkhya ateo) = Sāṃkhya e Seśvarasāṃkhya (Sāṃkhya teista)=Yoga non vale per il periodo classico e preclassico in cui sono attestate delle correnti sāṃkhya vere e proprie di entrambe le tendenze (Hattori 1999).
Dottrine del Sāṃkhya classico
La Sāṃkhyakārikā si apre proclamando l'inutilità, al fine della cessazione del dolore, sia delle varie conoscenze e pratiche mondane sia di quelle ingiunte dalla rivelazione vedica e rivendicando l'efficacia unica di una conoscenza discriminativa 'del manifesto, dell'immanifesto e del soggetto conoscente', termini che rimandano rispettivamente ai principî che vanno dall'intelletto alla terra, alla 'natura' primordiale (prakṛti) e all'anima. La natura-radicale (mūlaprakṛti), increata e immanifesta, costituisce la matrice ultima non soltanto di tutto il mondo materiale ma anche della dimensione psichica e intellettuale della persona. Pur non cadendo sotto i sensi, ne è stabilita l'esistenza attraverso i suoi effetti, cioè l'intelletto, ecc. Il principio di causalità che qui viene invocato si basa su cinque criteri: ciò che non esiste non può essere prodotto, è necessaria una causa materiale adeguata all'effetto, non è possibile che tutto si produca da tutto, una cosa può essere prodotta solamente da chi ne ha la capacità e, infine, l'effetto deve essere coessenziale alla causa. A mettere in moto l'intero processo di evoluzione è, con apparente paradosso, proprio la presenza dell'anima che, sebbene inattiva e intrinsecamente aliena da ogni reale coinvolgimento col divenire, funge nondimeno da indispensabile catalizzatore. Con un motivo che verrà ripreso nella sua essenza dalla scuola tantrica dello Śaivasiddhānta, l'Universo viene ad esistere, in ultima analisi, perché l'anima possa riconoscersene estranea e isolarsi nella sua auto-identità. Anche questo riconoscimento è reso possibile dall'azione della prakṛti stessa che trova dunque nella propria negazione la sua ultima ragione di esistenza. Īśvarakṛṣṇa ne dà conto con una elegante e articolata similitudine:
Come una danzatrice si ritira dalla scena una volta che ha presentato il suo spettacolo al pubblico, così la prakṛti si ritira dopo che ha manifestato sé stessa all'anima. Ella, prodiga di aiuto in varie forme e dotata di qualità (guṇa-vatī), opera senza badare al proprio interesse per l'interesse dell'anima, che da parte sua è priva di qualità (a-guṇa) e non si occupa di nulla e di nessuno. Non c'è nulla di più delicato della prakṛti, io penso, che una volta che sa di essere stata vista non si espone più allo sguardo dell'anima. (59-61ab)
Il testo gioca sul doppio senso di guṇa: 'qualità, talenti artistici' in riferimento alla danzatrice, e i tre 'componenti' ‒ sattva, rajas e tamas ‒ in riferimento alla prakṛti. Questi ultimi sono nello stesso tempo degli stati psichici e delle forze cosmiche (ambiguità irrisolta nel Sāṃkhya classico, che si fa erede, unificandole, di dottrine antiche molto differenziate), presenti in vari dosaggi in tutti gli aspetti del mondo manifestato. Il sattva è caratterizzato da gioia e luce, è lieve e illuminante; il rajas è caratterizzato da assenza di gioia e da dinamismo, è instabile e stimolante; il tamas è caratterizzato da inerzia e restrizione, è pesante e ostruente. Ugualmente oscillante tra un livello microcosmico (per molti versi, infatti, la creazione sembra quella dell'individualità umana) e uno macrocosmico è il processo evolutivo che segue, sintetizzato in unico verso (22): "Dalla prakṛti sorge il Grande, da questo il Senso dell'Io, da questo il gruppo dei sedici. Inoltre, da cinque dei sedici sorgono i cinque elementi grossi". Il primo principio, il Grande ovvero l'intelletto (buddhi), risulta particolarmente importante in quanto funge da terra di confine tra l'anima senziente e l'insieme del mondo insenziente; è nella buddhi infatti che si creano i presupposti di un incontro e di una coalescenza, per quanto ultimamente irreale, tra spirito e materia, che altrimenti rimarrebbero del tutto incomunicabili disinnescando così lo sviluppo dell'Universo stesso. Nell'intelletto il processo della cognizione raggiunge il suo momento più alto con la 'decisione' (adhyavasāya; 'questo è un vaso'), cui manca per realizzarsi solamente la luce della coscienza, che rimane di esclusiva pertinenza dell'anima. L'intelletto è anche la sede delle otto 'disposizioni' (bhāva). Secondo principio è il senso dell'Io, ovvero il riferimento degli eventi psichici e cognitivi a una individualità personale (ahaṃkāra, il quale, piuttosto che 'Io fittizio o empirico' come viene spesso tradotto, è più probabilmente 'dire: io'). Dal senso dell'Io si sviluppano a loro volta due distinte serie di principî: la prima formata da undici elementi (il senso interno, i cinque sensi di conoscenza e i cinque sensi di azione), la seconda formata dai cinque 'elementi sottili', dai quali si evolveranno infine i cinque 'elementi grossi'. La natura sattvica della prima serie e quella tamasica della seconda serie poggiano su un fondo comune, energetico, rappresentato dal rajas, che caratterizza il senso dell'Io nel suo complesso. Il senso interno (manas) ha la funzione di coordinatore (saṃkalpaka) dei sensi di conoscenza (occhio, orecchio, naso, lingua e pelle) e di azione (parola, mano, piede, organi escretori e organi sessuali), e dei dati da essi trasmessi, che così coordinati e organizzati esso trasmette a sua volta alle due facoltà superiori, il senso dell'Io e l'intelletto. Gli elementi sottili (tanmātra) che nascono dal senso dell'Io impregnato dalla componente tamas sono delle entità di piuttosto sfuggente identificazione: sono elencati come suono, tattilità, forma/colore, sapore e odore. Da ognuno di questi si evolverà poi l'elemento grosso corrispondente (etere, aria, fuoco, acqua e terra), che si trova ad avere per qualità principale (caratterizzante) quella del tanmātra che lo ha generato. La frequente confusione tra tanmātra e qualità non è dunque senza giustificazione. La Sāṃkhyakārikā tuttavia è abbastanza chiara nel suo contrapporre la generalità dei tanmātra alla specificità degli elementi grossi. Il tanmātra sapore, per esempio, consiste in una sorta di qualità quintessenziale e indifferenziata (il significato letterale di tanmātra è per l'appunto 'soltanto quello' o anche 'quello nella sua generalità'), matrice dell'elemento terra, che nella sua concretezza sarà qualificato in primo luogo proprio dal sapore, questa volta però in tutte le sue svariate possibili modulazioni. Secondo la teoria classica dell''accumulazione delle qualità', gli elementi grossi possiedono le singole qualità in numero via via ascendente, a partire dall'etere, che ha soltanto il suono, fino alla terra, che le possiede tutte e cinque.
I tredici principî dall'intelletto ai sensi di azione, con un supporto rappresentato dei cinque tanmātra, formano il liṅgaśarīra, vale a dire una sorta di corpo sottile che riassume l'architettura psichica e cognitiva della persona ed è l'entità destinata a trasmigrare di corpo in corpo.
Nel dar conto del processo cognitivo il Sāṃkhya non può evitare di mettersi in situazioni problematiche, data la radicale eterogeneità dei protagonisti di tale processo ‒ sensi esterni, senso interno, senso dell'Io e intelletto, da una parte, e anima dall'altra ‒ ognuno dei quali manca di una caratteristica essenziale che solamente l'altro possiede, senza che sia possibile mutuarla a causa del solco ontologico che li separa. Senza la luce della coscienza il meccanico rispecchiamento dell'oggetto nei sensi esterni (ālocanamātra), anche se progressivamente raffinato e dinamizzato dal senso interno, dal senso dell'Io e dall'intelletto, non potrebbe mai diventare 'conoscenza', e viceversa l'immobilità translucida della coscienza non potrebbe mai procurarsi il dato su cui esercitare la sua funzione cognitiva. Ancora una volta la Sāṃkhyakārikā, nel tentativo di spiegare l'inspiegabile, deve ricorrere a un'immagine: è la collaborazione di un cieco (gli elementi che appartengono alla prakṛti) con uno zoppo (l'anima). Un cieco e uno zoppo, spiega Gauḍapāda nel suo commento, si ritrovano soli in una foresta, dopo che i briganti hanno attaccato la loro carovana e messo in fuga gli altri compagni di viaggio; lo zoppo sale sulle spalle del cieco e gli indica la via da percorrere, finché, giunti alla fine della foresta (il saṃsāra) i due si separano e ognuno se ne va per la sua strada. Se questa similitudine è introdotta per chiarire in generale i termini della connessione tra prakṛti e anima che è causa della creazione, essa è estensibile al caso particolare del fenomeno conoscitivo. In esso, dice la Sāṃkhyakārikā, gli organi della conoscenza diventano 'per così dire' senzienti in virtù dell'unione con l'anima, e l'anima, da parte sua, pur essendo per sua natura inattiva, diventa 'per così dire' attiva, contagiata dai tre componenti della prakṛti con cui si viene a trovare in contatto. È quello che si può vedere nell'esperienza comune, spiega ancora Gauḍapāda, quando un vaso si fa caldo o freddo a contatto col fuoco o col ghiaccio o quando uno che ladro non è viene preso per ladro se si accompagna a dei ladri. Non tutti, esponenti o avversari del Sāṃkhya, si ritennero soddisfatti da questa risposta metaforica, e molte altre soluzioni vennero proposte per questo problema cruciale. Vyāsa, per esempio, nel suo commento allo Yogasūtra, parla dell'intelletto come di uno specchio a due facce: l'una accoglie il riflesso dell'oggetto, l'altra il riflesso dell'anima; l'anima può così rendere possibile l'inverarsi dell'atto cognitivo senza che il suo immacolato isolamento ne abbia a soffrire, né più né meno di come la Luna può continuare a splendere nell'alto del cielo notturno pur rispecchiandosi nello stagno.
Epistemologia
Una delle peculiarità del Sāṃkhya è il divario esistente tra l'importanza e l'estensione che devono aver avuto le sue dottrine nel campo dell'epistemologia e della logica ‒ stando alle testimonianze degli avversari stessi ‒ e quanto poco invece esse figurino nelle opere che ci sono pervenute. La Sāṃkhyakārikā dedica soltanto tre versi (4-6) alla elencazione e definizione dei mezzi di conoscenza, che stabilisce nel numero di tre: percezione, inferenza e testimonianza attendibile. La percezione (5a) consiste nella determinazione (adhyavasāya) dei rispettivi oggetti dei sensi. L'inferenza, che si distingue in tre tipi, presuppone un segno caratteristico e un'entità da esso caratterizzata. La testimonianza attendibile è la rivelazione ad opera di chi è degno di fede. Quanto ai rispettivi ambiti e funzioni, la Sāṃkhyakārikā è parimenti laconica. Quanto eccede il raggio d'azione dei sensi può essere conosciuto attraverso l'inferenza basata sulla generale osservazione; ciò che è sovrasensibile e sfugge anche all'inferenza può essere stabilito grazie alla rivelazione degna di fede. Stando così le cose, il ricorso alle integrazioni fornite dai commenti si impone, salvo rendersi conto subito che gli stessi commentatori non sembrano avere a disposizione una dottrina unitaria alla quale far riferimento ma soltanto posizioni tra loro notevolmente differenziate, cosa che non stupisce più di tanto se si tiene presente la caratteristica multiformità, già menzionata, di questo sistema. Sulla natura del primo mezzo di conoscenza, la percezione, disponiamo di una definizione più specifica, tramandata da molte citazioni sia di seguaci (per es., la Yuktidīpikā) sia di avversari (per es., Jinendrabuddhi nella Pramāṇasamuccayaṭīkā): "la percezione consiste nel funzionamento dell'orecchio, ecc." (śrotrādivṛttiś ca pratyakṣam). Le fonti sono concordi nell'assegnare questa definizione a Vārṣagaṇya, ritenuto l'autore dello Ṣaṣṭitantra. Si tratta del funzionamento, aggiunge Jinendrabuddhi (Steinkellner 1999), dell'orecchio, della pelle, dell'occhio, della lingua e del naso volti a cogliere rispettivamente il suono, la sensazione tattile, la forma/colore, il sapore e il profumo; tale funzione è presieduta dal senso interno, il quale opera una determinazione susseguente (anu-vyavasāya) sulla determinazione originaria (vyavasāya) dovuta al singolo senso, fatto in sé meccanico e destinato a diventare un 'conoscere' solamente dopo essere stato sottoposto a raffinamenti progressivi, culminanti ‒ come risulta per esempio dalla Sāṃkhyakārikā ‒ nell'attività determinativa della buddhi, illuminata dalla senzienza dell'anima. Molto più intricata è la situazione riguardo all'inferenza; sul fatto che gli altri due tipi, che la Sāṃkhyakārikā non nomina, siano pūrvavat e śeṣavat, tutti i commentatori sembrano d'accordo, ma assai diverse sono poi le interpretazioni fornite dei tre termini (v. sopra). Secondo Gauḍapāda, pūrvavat sta per l'inferenza basata su una precedente percezione (inferire che pioverà dopo aver visto delle nuvole), śeṣavat sta per un'inferenza basata su un risultato finale (se questa parte d'acqua di mare è salata vuol dire che tutto il mare è salato), sāmānyatodṛṣṭa per un'inferenza basata su un'osservazione di carattere generale (se troviamo la luna e le stelle ora in una parte del cielo ora nell'altra vuol dire che sono dotate di movimento). Secondo la Yuktidīpikā, invece, il primo tipo si riferisce all'inferenza dell'effetto dalla causa, il secondo della causa dall'effetto, il terzo si basa sull'osservazione della invariabile concomitanza tra due oggetti, che permette in seguito di risalire all'uno dei due quando si è in presenza dell'altro. Quest'ultima modalità però, nota opportunamente la Yuktidīpikā, dovrebbe valere per qualsiasi inferenza; se è menzionata come un tipo a parte è soltanto perché viene considerata come l'unico tipo di inferenza applicabile a ciò che è intrinsecamente inaccessibile alla diretta percezione. Non può comunque essere applicato indiscriminatamente: per esempio, non vale ad accertare l'esistenza della coscienza, in quanto la coscienza è un unicum e come tale non può essere mentalmente associato ad alcunché. La tradizione sāṃkhya conosce anche una classificazione delle possibili inferenze in due rubriche ‒ vīta e avīta (classificazione sicuramente antica e corrente anche in altre scuole, sebbene comunemente associata al Sāṃkhya), variamente tradotte come 'inferenza diretta e inferenza per esclusione' o 'positiva e negativa'; il significato di tali termini rimane incerto, così come rimane incerta la forma stessa del secondo, oscillante nei testi tra avīta e āvīta (Franco 1999).
Se la Sāṃkhyakārikā è molto succinta sulla definizione dell'inferenza e dei suoi tipi, tace addirittura del tutto sui modi della sua formalizzazione. La Yuktidīpikā propugna la forma a dieci membri (v. sopra) ribattendo a chi vuole che i primi cinque debbano essere dati per scontati che nulla vieta di usarli se possono contribuire a rendere chiaro il meccanismo dell'inferenza anche ai meno adusi a questo tipo di ragionamento.
Uno dei pilastri su cui poggia l'intero sistema è una concezione della causalità nota come sātkaryavāda 'dottrina della [pre-]esistenza dell'effetto', strettamente connessa con un'altra dottrina ugualmente centrale, quella del pariṇāmavāda, secondo cui l'evoluzione dei vari principî dalla prakṛti primordiale va vista in termini non di creazione di ciò che prima non era, ma di cambiamento, reale trasformazione di qualcosa che non cessa però di esistere nella sua sostanziale identità pur entro diverse strutturazioni. L'effetto deve in qualche modo già esistere nella causa perché se fosse totalmente inesistente mancherebbe anche di quei caratteri distintivi che possano correlarlo ad una determinata causa, e così tutto potrebbe nascere da tutto. Il cambiamento, d'altra parte, va inteso come una semplice assunzione di qualità diverse da parte di una sostanza che come tale, cioè come centro di afferenza di qualità, continua ad esistere. Chi, come i filosofi del Nyāya-Vaiśeṣika, vorrebbe a tutti i costi sostituire a questa concezione quella di una 'creazione' o 'produzione', continua la Yuktidīpikā, lo fa perché prende troppo sul serio qualcosa che non è altro che un uso linguistico, chiamare cioè con tali parole ciò che ad una visione più accorta risulta essere solamente un venire alla manifestazione di ciò che era già potenzialmente presente, o addirittura ciò che non è altro che una nuova disposizione di parti preesistenti. Ma, ribattono gli avversari del Sāṃkhya, si tratterà pur sempre del prodursi di qualcosa che prima non era, sia nel caso del venire a manifestazione di quanto era potenziale, sia nel caso dell'assunzione di 'nuove' qualità. Soltanto un autore sāṃkhya, Mādhava (V sec. ca.), mostra dei cedimenti verso questa posizione, come risulta dalla testimonianza di Bhāsarvajña (Halbfass 1992). Questo non fu l'unico dei suoi incauti ripiegamenti di fronte all'incalzare delle critiche: stando a Jinendrabuddhi nel commento al Pramāṇasamuccaya di Dignāga, Mādhava, per reagire ai buddhisti che gli obiettano che una qualificazione della prakṛti solamente a opera dei tre guṇa non riesce a spiegare la molteplicità delle cognizioni sensoriali, finisce per ammettere in essa la presenza di cinque qualificazioni (sonora, tattile, olfattiva, ecc.). A seguito di ciò Mādhava, nonostante le buone intenzioni, si guadagnerà il poco lusinghiero appellativo di 'distruttore del Sāṃkhya', e tutto sommato a ragione. Il semplice e potente edificio del Sāṃkhya non si presta a restauri: la sostituzione anche di una sola delle sue arcaiche pietre può significare il suo disfacimento totale.
Anche la Mīmāṃsā ha già alle spalle una lunga storia prima di costituirsi come darśana indipendente. Il termine Mīmāṃsā (lett. 'intensa applicazione alla riflessione') ricorre di frequente nelle antiche liste dei saperi tradizionali; il suo oggetto è l'esegesi dei Veda, in particolare delle prescrizioni rituali contenute nella letteratura vedica intesa nell'accezione più ampia, non tanto per estrarne le significazioni riposte quanto per determinare i principî che portino alla loro corretta esecuzione. In realtà l'interpretazione del contenuto simbolico e noetico rientra anch'essa nel campo d'azione della Mīmāṃsā, ma tenderà ben presto a specializzarsi in una scuola-disciplina distinta, quella che darà luogo a sua volta al darśana chiamato Vedānta, altrimenti noto come Uttarā-Mīmāṃsā (Mīmāṃsā ulteriore, recente) contrapposto, spesso anche duramente, alla Mīmāṃsā più propriamente detta, denominata Pūrva Mīmāṃsā (Mīmāṃsā precedente, antica). Per quanto strano possa sembrare, questo suo dominio di applicazione non la farà mai pervenire allo status di Vedāṅga (scienza ausiliare dei Veda), probabilmente perché non ci si sentirà di attribuirle il rango di disciplina 'ancillare', subordinata (implicito nel significato complessivo di aṅga). Questa scienza, al contrario, è sentita come talmente a ridosso dei Veda da farla considerare più una loro appendice che uno strumento sussidiario (Nyayamañjarī, p. 8). L'area della scienza sacrificale è sì rappresentata tra i Vedāṅga, ma dal Kalpa, con cui la Mīmāṃsā è in stretto contatto, pur senza mai confluirvi.
Chi si aspettasse da queste premesse una disciplina sapienziale e 'mistica' resterebbe profondamente sorpreso, se non deluso. Si ha qui un realismo per certi versi ancora più pronunciato di quello del Nyāya-Vaiśeṣika, che lo avvicina molto alle atmosfere vaiśeṣika. Del Vaiśeṣika manca alla Mīmāṃsā la peculiare ossessione classificatoria, che finisce per confondere sotto l'unica e ambigua rubrica del 'reale' dati concreti e proiezioni intellettuali. Se è vero che i pensatori della Mīmāṃsā classica faranno propria, con qualche modifica, la dottrina vaiśeṣika delle categorie ‒ a riprova dell'affinità di fondo tra i due sistemi ‒ la Mīmāṃsā però non rinuncerà mai alla sua affezione al concreto, all'individuale, salvaguardato con una forte dose di elementare buon senso, che poi non manca di stupirci una volta che lo vediamo applicato non a un banale quotidiano, ma in genere alle più astruse e complicate elucubrazioni liturgiche.
La Mīmāṃsā è costruita con una ferrea consequenzialità su pochi principî, di cui cerca anche di fornire una dimostrazione, ma che hanno tutta l'aria di assiomi ai quali non le è possibile in nessun caso rinunciare senza veder svanire la sua stessa ragion d'essere. La Mīmāṃsā si occupa in primo luogo di teoria e prassi del sacrificio, il quale genera e sostiene il dharma universale e assicura al soggetto sacrificante la felicità nell'aldilà e infine la totale liberazione dal ciclo delle rinascite. Perché questo scenario 'funzioni' tutto deve essere assolutamente fermo e nitido, in modo da estromettere il nemico principale: il dubbio. Paradossalmente, un solo elemento viene lasciato nel vago: il dio o gli dèi a cui è rivolto il sacrificio. Essi sono alla fine non più che un espediente o una convenzione, un mero nome al dativo, atto unicamente a ultimare la confezione dell'atto liturgico, il quale contiene in sé stesso il proprio potere e lo dispensa solamente in ragione della correttezza della sua esecuzione. Fonte unica per la conoscenza del dharma è la rivelazione vedica. Per affermarne la validità e metterla al riparo da ogni possibile dubbio, la Mīmāṃsā non segue la strada fatta propria dal Nyāya (il Veda è autorevole perché promulgato dal Signore stesso) né tantomeno quella che i buddhisti e i jaina adottano per le rispettive scritture (il canone buddhista o jaina sono autorevoli perché i loro autori, umani ‒ il Buddha e Mahāvīra ‒, sono onniscienti). A questi ultimi i pensatori mīmāṃsaka, primo tra tutti Kumārila, riservano parole sferzanti, volte a ridimensionare ogni pretesa dell'essere umano all'onniscienza, richiamandolo a una realistica e amara consapevolezza dei suoi limiti. Quanto al Signore creatore del tutto e anche dei Veda, la Mīmāṃsā non è disposta ad ammetterne l'esistenza. Se si vuole sostenere che un dio abbia creato l'Universo, argomenta Kumārila nello Ślokavārttika (Glossa in versi), bisogna ammettere che abbia con ciò inteso realizzare un qualche suo scopo, e quindi che prima fosse intrinsecamente imperfetto, anche se questo scopo consisteva nel suo semplice diletto; se lo ha fatto soltanto perché così gli dettava la natura sua propria (svabhāva), si deve allora concepire un contesto di totale autonomia, che poco si confà alla parallela ipotesi che il karman dovesse andare a compimento; se ha creato il mondo per permettere alle creature di emanciparsi alla fine dal dolore del saṃsāra, non poteva invece crearle già felici? E via dicendo.
Inoltre la Mīmāṃsā sa bene quanto piena di insidie possa essere la dimostrazione dell'assoluta attendibilità di un soggetto da cui derivare una conoscenza verbale, sia pure esso un soggetto divino. La posizione della Mīmāṃsā è dunque la seguente: i Veda sono autorevoli perché non hanno un autore umano (apauruṣeya), anzi perché non hanno un autore affatto, essendo senza principio e senza fine (sono nitya 'eterni'). Questo primo assioma costringe la Mīmāṃsā a pronunciarne un secondo: ogni conoscenza, dunque anche quella dei Veda, è da considerarsi valida di per sé, almeno fino a quando non se ne possa dimostrare l'erroneità, vuoi a causa di intrinseci difetti nella sua formazione vuoi a causa di incongruenze con altre conoscenze considerate valide (quanto al dharma, tuttavia, nessun'altra fonte di conoscenza è ammessa). Ma se i Veda, che sono dei testi, sono da considerarsi fonte di conoscenza, vuol dire, più in generale, assumere che il linguaggio abbia il potere di veicolare la verità, ovvero, per togliere ogni sospetto di una sua natura abbandonata all'arbitrio di una umana o divina convenzione, che il rapporto tra ogni parola e il suo significato sia eterno e immutabile. Infine, se ogni rito deve portare immancabilmente al suo frutto, il mondo in generale deve essere stabilmente inscritto in confini precisi, tali da garantire il suo corretto e prevedibile funzionamento; e ancora, l'anima, se deve godere dei frutti del rito che maturano anche a grande distanza dalla sua esecuzione, deve essere immortale. Fin qui nulla sembrerebbe giustificare la trattazione della Mīmāṃsā in un contesto come quello della presente opera, più congrua apparendo invece la sua inclusione in un ambito esclusivamente storico-religioso. In realtà, quali che siano state le motivazioni che hanno determinato l'assunzione degli assiomi suddetti, l'interesse filosofico del sistema Mīmāṃsā risiede nel modo in cui li ha elaborati e giustificati razionalmente, confrontandosi, in secolari dibattiti, con tutte le più prestigiose correnti filosofiche dell'India. Anche la fase pre-sistematica della Mīmāṃsā ‒ quando era ancora solamente una scuola specializzata nell'esegesi delle liturgie vediche ‒ è tutt'altro che priva di rilevanza filosofico-culturale o addirittura filosofico-scientifica: l'elaborazione di un corpus di metaregole da applicare al fine della corretta comprensione delle regole sacrificali appare omologa a quella delle metaregole relative al campo della grammatica, della quale è peraltro accertato il valore paradigmatico che ha finito per assumere in relazione a ogni branca del sapere. Anzi non sembra improbabile che le procedure di analisi e di formalizzazione utilizzate nelle scienze del linguaggio abbiano avuto proprio nelle scienze del sacrificio la loro matrice originaria (Renou 1941-42).
I testi
Il testo-radice della Mīmāṃsā, il Mīmāṃsāsūtra (Aforismi della Mīmāṃsā) attribuito al mitico saggio Jaimini, risale con buona probabilità al II sec. a.C. Si tratta di una compilazione comprendente materiali compositi e con frequenti riferimenti ad autori precedenti, di cui riporta le posizioni e con cui talvolta polemizza. Di estensione notevole, soprattutto se paragonata ai sūtra-radice degli altri sistemi, consta di circa 2700 sūtra, se si comprende anche una sezione supplementare, il Saṃkarṣaṇakāṇḍa (Sezione di Saṃkarṣaṇa), apparentemente più recente. L'opera è divisa in dodici 'lezioni' (adhyāya), a loro volta per lo più suddivise in quattro sezioni o 'piedi' (pada), in cui vengono trattati singoli soggetti di discussione (adhikaraṇa), che alla fine ammontano a circa mille. Tra i temi trattati nel Mīmāṃsāsūtra figurano: la relazione tra la parola e il significato, la relazione tra le parti normative (vidhi, 'ingiunzioni') e quelle digressive (arthavāda, 'discorsi illustrativi') dei Veda, il conflitto tra rivelazione (śruti) e tradizione (smṛti), l'analisi dell'essenza dell'azione verbale con particolare riguardo all'ingiunzione, la distinzione tra elementi principali e complementari nel sacrificio, l'ordine in cui le varie parti delle liturgie devono aver luogo, il modo in cui applicare lo schema del sacrificio considerato esemplare alle sue forme derivate, il modo in cui trasferire un ingrediente di un determinato sacrificio al contesto di un altro, e così via. Il Mīmāṃsāsūtra fu, come è lecito attendersi, ripetutamente commentato. Il commento più antico tra quelli che ci sono pervenuti è il Bhāṣya di Śabara (VI sec. d.C. ca.), anche se si ha notizia di commentatori precedenti, tra cui tenuto in particolare considerazione è Upavarṣa, forse coincidente con il vṛttikāra, 'l'Autore del commento breve', ripetutamente citato anche dallo stesso Śabara. Con il suo Bhāṣya Śabara pone le basi del futuro sviluppo del sistema Mīmāṃsā (e a lui è probabilmente anche dovuta la finale redazione dei sūtra con la loro divisione in adhikaraṇa), anche se saranno i suoi commentatori Prabhākara e Kumārila (entrambi attivi nel VII sec.) a portare la Mīmāṃsā su un piano di alta elaborazione filosofica. Il primo è noto con l'epiteto di guru, nel quale si è voluto vedere oltre all'ovvio riferimento al suo magistero intellettuale anche un'allusione all'eccesso di complicazione delle sue teorie (guru vale infatti tanto 'maestro' quanto 'pesante, prolisso'). L'opera principale di Prabhākara è il lungo e complesso commento Bṛhatī (Grande [esplicazione]), dove è evidente l'influsso buddhista. Kumārila si muove su linee spesso divergenti dal suo ‒ secondo alcune tradizioni ‒ discepolo Prabhākara, non soltanto perché a differenza di quest'ultimo non si sottrae dal criticare Śabara ogni qual volta lo ritenga necessario, ma anche per la sua serrata e implacabile critica del buddhismo. Kumārila Bhaṭṭa (spesso chiamato semplicemente Bhaṭṭa), che va senza dubbio annoverato tra i maggiori pensatori dell'India, assume su di sé con grande determinazione il ruolo di difensore della tradizione vedica e della superiorità della casta brahmanica come centro di gravità dell'intera civiltà indiana. La sua opera di maggior rilievo filosofico è il [Mīmāṃsā]Ślokavārttika (Glossa in versi [alla Mīmāṃsā]), dedicato al primo pāda del primo adhyāya del Mīmāṃsāsūtra; seguono il Tantravārttika (Glossa al Trattato), che commenta estesamente gli altri tre pāda del primo adhyāya, come anche gli adhyāya secondo e terzo, e la Tupṭīkā, breve commento ai restanti nove adhyāya. La Bṛhatī di Prabhākara fu a sua volta commentata dalla Ṛjuvimalā (Retta e pura [esplicazione]) di Śālikanātha (metà dell'VIII sec.), che è anche autore in proprio di un compendio delle dottrine della scuola di Prabhākara (Prakaraṇapañcikā, Commento analitico del trattato). Lo Ślokavārttika fu oggetto del lucido commento Nyāyaratnākara (Miniera delle gemme del ragionamento) di Pārthasārathi Miśra (X sec. ?), autore, tra l'altro, anche di un commento indipendente al Mīmāṃsāsūtra. Terzo grande autore mīmāṃsaka è Maṇḍana Miśra, che compose, prima della sua presunta conversione al Vedānta, il Vidhiviveka (Discriminazione dell'ingiunzione) e il Bhāvanāviveka (Discriminazione della forza causante), quest'ultimo oggetto di un esteso commento da parte di Vācaspati Miśra. Una terza scuola della Mīmāṃsā è quella legata al nome di Murāri Miśra (XI-XII sec.); cedendo all'ormai imperante teismo, una parte dei pensatori mīmāṃsaka è indotta a far posto a un dio personale, che se non arriva ad essere considerato l'autore dei Veda è però colui che li 'ricorda', e che in tal modo, visto che viene per la prima volta accettato anche l'altro grande dogma delle religioni brahmaniche ‒ la periodica dissoluzione cosmica ‒, assicura la continuità della loro presenza nell'Universo.
L'altra denominazione con cui è noto il Vedānta ‒ Uttara-Mimāṃsā, Esegesi ulteriore ‒ non è da intendersi in senso strettamente cronologico. Sembra accertato, infatti, che in origine il Mīmāṃsāsūtra (Aforismi della Mīmāṃsā) e il sūtra-radice del Vedānta (Vedāntasūtra o Brahmasūtra) costituissero un unico testo; in gran parte gli autori antichi che vi sono citati (Kārśājini, ātreya, ecc.) sono gli stessi e tra i commenti antichi non pervenuti spicca quello di Upavarṣa, che sembra aver avuto per oggetto entrambi i testi. La stessa motivazione che sta dietro alla costituzione di una scuola di analisi della parte rituale della rivelazione vedica vale anche per la parte spirituale e speculativa, caratterizzata da una consimile disorganicità, oscurità, e non di rado palesemente contraddittoria. Nonostante l'appartenenza a un alveo comune e l'incarnare entrambi una sorta di 'ortodossia' del mondo brahmanico ‒ nei limiti in cui tale nozione può essere applicata al contesto indiano ‒, i contrasti tra le due scuole furono nondimeno acuti, così come del resto lo furono anche all'interno delle varie correnti del Vedānta stesso, nel corso della sua lunga storia, che continua ancora ai giorni nostri. Il sūtra-radice, noto anche come Śārīrakamīmāṃsā (Esegesi dell'anima incarnata), attribuito al saggio Bādarāyaṇa, nella forma attuale non sembra databile a prima del IV sec. d.C. Si compone di 555 aforismi, divisi in quattro adhyāya, 'letture', a loro volta divisi in quattro pāda, 'quarti', che in termini spesso assai oscuri e allusivi polemizzano con le principali filosofie coeve (in particolare Sāṃkhya, buddhismo, Nyāya), senza peraltro mai nominarle. I temi principali sono la natura del principio spirituale universale (Brahman) e di quello individuale (ātman) e lo status del mondo fenomenico, trattati invocando l'autorità delle Upaniṣad ‒ soprattutto quelle antiche, Chāndogya (Dei cantori) e Bṛhadāraṇyaka (Del grande testo della foresta) (così come i 'cugini' mīmāṃsaka si rifacevano in primo luogo ai Brāhmaṇa) ‒ e rivendicandone la corretta esegesi di contro ad altre scuole, quali il Sāṃkhya, che pure a esse attingono. Dell'esistenza di una o più scuole vedāntiche precedenti alla prima opera integralmente pervenuta, la Māṇḍūkyakārikā (Stanze dei Māṇḍūka) di Gauḍapāda, ci sono varie attestatazioni, tra cui particolarmente significativa quella del Madhyamakahṛdaya di Bhavya, opera dossografica buddhista composta verso la metà del VI sec. d.C. La Māṇḍūkyakārikā o Āgamaśāstra (Trattato sulla tradizione sacra) si compone di quattro capitoli, in cui si mescolano prosa (dodici brani, concentrati nel primo capitolo) e versi (215 śloka). I primi tre capitoli contengono dirette citazioni o parafrasi integrate da glosse, tratte principalmente da testi upaniṣadici, mentre il quarto capitolo mostra una forte coloritura buddhista. La dottrina che vi si insegna è quella della sostanziale irrealtà del mondo fenomenico, simile a quella dei sogni, di contro all'assoluta realtà del Brahman. La storia del pensiero vedānta è in gran parte quella tracciata dal susseguirsi dei commenti al Brahmasūtra, ognuno dei quali polarizza una delle possibili angolazioni di lettura di questo monumento all'ambiguità, ponendosi a fondamento di dottrine e visioni del mondo ciascuna fortemente caratterizzata e tra loro antagoniste. Uno dei primi commenti importanti è stato quello di Bhartṛprapañca (V-VI sec. d.C.), seguito via via da quelli di Maṇḍana Miśra, Śaṅkara, Bhāskara, Rāmānuja, Madhva, Nimbarka, Vallabha. Delle molte opere ascritte a Śaṅkara (prima metà dell'VIII sec. d.C.), l'autore più influente nella storia del pensiero vedānta, soltanto poche sono concordemente (o quasi) riconosciute come autografe, oltre al Brahmasūtrabhāṣya (Commento al Brahmasūtra), a cui dedicò un influente commento il grande poligrafo Vācaspati Miśra: i grandi commenti alle Upaniṣad Bṛhadāraṇyaka, Chāndogya e Taittirīya (Della scuola dei Taittirīya) e il trattato indipendente Upadeśasāhasrī (I mille versi sull'insegnamento). Ai due principali discepoli di Śaṅkara, Padmapāda e Sureśvara si devono rispettivamente la Pañcapādikā (Cinque sezioni), commento al Brahmasūtrabhāṣya, che si interrompe improvvisamente dopo il quarto sūtra, e una nutrita serie di opere tra cui spiccano la Naiṣkarmyasiddhi (Dimostrazione della non-azione) e degli imponenti subcommenti ad opere esegetiche del suo maestro (di grande estensione e impegno intellettuale è il suo Vārttika, 'Glossa', al Bṛhadāraṇyakabhāṣya). Discepolo di Sureśvara si proclama Sarvajñātmamuni, autore del Saṃkṣepaśārīraka (Il Brahmasūtra in sintesi). Un nuovo periodo nella storia del Vedānta fu aperto dal vigore dialettico di Śrīharṣa (seconda metà del XII sec.), che dedica il suo capolavoro filosofico, di ben ardua lettura, il Khaṇḍanakhaṇḍakhādya (Bocconi prelibati di confutazione) alla critica del realismo del Nyāya. La stagione creativa del Vedānta non duale si chiude con l'Advaitasiddhi (Dimostrazione della non-dualità) di Madhusūdana Sarasvatī (XVI sec.).
Circa la questione dello status del mondo manifestato è la Māṇḍūkyakārikā a fornire la soluzione più estrema, nel segno di un assoluto monismo. L'unica entità assolutamente reale è il sé, a cui si approda attraverso la dimostrazione dell'irrealtà del mondo differenziato, basata sia sull'autorità dei testi rivelati (in primo luogo, le Upaniṣad) sia sul ragionamento. Il mondo, in quanto ci si presenta come un fluire di oggetti che sorgono e scompaiono, è totalmente irreale, perché di ciò che è reale non si dà né un venire in essere né uno scomparire; l'analisi del rapporto di causalità porta a concludere che sia la causa sia l'effetto sono irreali. L'Universo dunque è semplicemente non-nato (ajāta; donde la designazione di ajātivāda, 'dottrina della non-nascita'). La tensione tra l'Uno e il molteplice che caratterizza tante delle riflessioni sulla natura della realtà perde così uno dei suoi termini: non c'è più da spiegare come dall'Uno possa procedere il molteplice, perché il molteplice semplicemente non esiste. Quel molteplice che appare nell'esperienza quotidiana ha lo stesso grado di irrealtà dei sogni, è il risultato di una costruzione mentale basata su una radicale nescienza.
La posizione di Śaṅkara è meno estrema di quella di Gauḍapāda. Il mondo della dualità non è un puro nulla, ma il frutto di un'erronea sovrapposizione concettuale (adhyāsa) che attribuisce all'unica realtà assoluta, il Brahman, dei caratteri che non gli sono propri. Applicando questa visione all'esempio della corda che è scambiata per serpente, la corda è il Brahman e il serpente il mondo della molteplicità nel quale si svolge la nostra esperienza ordinaria. I motivi per cui da sempre si incorre in questo errore, dal quale si esce solamente grazie alla conoscenza salvifica (jñāna) dell'identità ātman/Brahman, rimangono in ultima analisi inesplicabili (anirvacanīya). Il Brahman a sua volta può essere visto in una prospettiva di conoscenza (vidyā) e in una di nescienza (avidyā). Il primo è il Brahman assoluto, definibile oltre che in termini puramente negativi anche come 'essere', 'coscienza' e 'beatitudine'. Il secondo è il Brahman come specifica entità divina, causa efficiente e materiale del mondo. La māyā, 'potere meraviglioso', e la nescienza assumono così una dimensione transindividuale e cosmogonica, anche se gli autori vedāntin sono restii a porle a diretto contatto col Brahman inferiore, che pure soltanto per loro effetto mette in moto la creazione del mondo. La soluzione proposta da Sureśvara, per esempio, è che la nescienza appartenga proprio al Brahman, ma che essendo ultimamente irreale non lo macchi. Il rapporto tra l'uno e il molteplice, l'ultimamente reale e il provvisoriamente reale (o totalmente illusorio) diventa il punto nodale del pensiero vedānta. L'intrinseca difficoltà di una soluzione che appaia davvero accettabile si riflette nel ricorso continuo a similitudini e metafore: la corda e il serpente, il fuoco e le scintille, il Sole e il suo riflesso nell'acqua, l'oceano e le onde, l'acqua e la schiuma. Ciò tuttavia aiuta a porre i termini del problema piuttosto che a risolverlo. Da tali presupposti il rapporto di causalità trae una peculiare formulazione: l'effetto è da considerarsi preesistente sì nella causa, ma manca a esso quella realtà che il Sāṃkhya invece non esitava ad accordargli. Si parlerà dunque di satkāraṇa ('persistente esistenza della causa') piuttosto che di satkārya, di modificazione illusoria (vivarta) piuttosto che di reale trasformazione (pariṇāma), fermo restando che da un punto di vista assoluto tanto la causa quanto l'effetto rimangono essenzialmente irreali.
Il tentativo di definizione dello status del mondo che appare all'esperienza ordinaria finisce per assorbire gran parte dello sforzo speculativo dei pensatori vedāntin. La generale accettazione di due livelli di realtà e verità ‒ assoluto (pāramārthika) e relativo (vyāvahārika) (come è il caso di Śaṅkara) o anche di tre con Gauḍapāda ‒ comporta una differenziazione di metodi e di obiettivi. L'argomentazione razionale è ritenuta incapace di portare al Brahman assoluto, a cui soltanto una intima esperienza totalmente priva di rappresentazioni discorsive può permettere l'accesso. Essa dovrà essere guidata e innescata dalla rivelazione, con la conseguenza che le parti affermative della dottrina vedāntica presentano quasi esclusivamente esegesi di passaggi scritturali, mentre l'uso dell'argomentazione è riservato alla polemica con le altre scuole. Tenendosi dunque la contesa entro il piano della realtà empirica, il Vedānta classico finisce, per esempio, per fare il difensore della consistenza della realtà oggettiva contro il buddhismo yogācāra, che predica la sola realtà della coscienza, o il difensore della continuità e della sostanza contro i sostenitori, sempre buddhisti, dell'istantaneità e dell'impermanenza. Le tradizionali discussioni circa il numero e la natura dei mezzi di conoscenza, pur non centrali, sono tuttavia presenti, ma segnate in partenza dalla consapevolezza del loro esercitarsi su oggetti non ultimamente reali. Sono dunque di solito accettati, senza troppe discussioni, i pramāṇa ('mezzi di conoscenza validi') ammessi dalla Mīmāṃsā: percezione, inferenza, comparazione, implicazione, negazione e testimonianza verbale. Perfino quest'ultima, benché l'unica ad aver spazio nell'ambito del Brahman, non può non contenere una certa dose di irrealtà, se non altro per motivi strumentali o per poter perseguire i suoi fini didattici; comunque la sua funzione, nota Maṇḍana Miśra, rimane essenzialmente di ordine negativo, ovvero quella di far superare l'errore piuttosto che di affermare la verità. In ogni caso, nessun altro mezzo di conoscenza può scalzare l'autorità delle scritture, nemmeno la percezione stessa, che presuppone la dualità ‒ diversamente da quello speciale caso di diretta intuizione introspettiva (anubhava) che invece non dipende dall'intermediazione di organi o strumenti.
Un contributo fortemente originale alla filosofia vedāntica verrà dalla complessa figura di Śrīharṣa, il raffinato autore del poema Naiṣadhacarita (Le gesta di Nala). Secondo la tradizione, il padre di Śrīharṣa, Śrīhira, dopo essere stato sconfitto in un pubblico dibattito dal grande filosofo nyāya Udayana, aveva chiesto alla dea Durgā di avere un figlio che potesse per questo vendicarlo. L'intero Khaṇḍanakhaṇḍakhādya di Śrīharṣa è mirato a demolire i principî fondamentali del Nyāya, attraverso l'uso estremamente sofisticato di una dialettica negativa che rivela a prima vista la sua derivazione dal buddhismo madhyamaka. Tutte le nozioni su cui si regge il mondo oggettivo presentato dal sistema Nyāya sono sottoposte a una critica radicale così da poterne mettere in luce le intrinseche contraddizioni. Dopo che più nulla è rimasto in piedi ‒ la credenza in un oggetto esterno, il principio di corrispondenza tra conoscenza e oggetto, la realtà degli universali, e infine il concetto stesso di differenza (bheda) ‒ non rimane, se non altro per eliminazione, che accettare la prospettiva dell'assoluta realtà non-duale (abheda) del Brahman.
I Lokāyata
Sotto la generica designazione di 'Materialisti' si suole far riferimento a coloro che sostennero le posizioni più radicalmente critiche nei confronti del pensiero e più in generale dell'ordinamento sociale e religioso brahmanico, non risparmiando nemmeno gli stessi buddhisti e jaina, con cui peraltro condividevano agli occhi dell'ortodossia brahmanica l'epiteto di nāstika 'quelli che dicono: non è'. Le formulazioni e tendenze che si sono susseguite nel corso dei secoli, a partire dall'epoca del Buddha e di Mahāvīra ‒ probabilmente senza mai dar luogo alla costituzione di vere e proprie scuole ‒ presentano il vario miscelarsi di edonismo, scetticismo e senso comune, che riceve però la sua peculiare caratterizzazione da una caustica e aggressiva insofferenza nei confronti dell'élite brahmanica e più in generale di ogni ossequio alla tradizione.
I Materialisti sono noti con tre denominazioni principali: Lokāyata (probabilmente 'seguaci della mondanità'), Cārvāka ('dall'eloquio carezzevole') e Bārhaspatya ('seguaci di Bṛhaspati'). Alla figura di Bṛhaspati è attribuito il testo-radice di queste scuole, il Bṛhaspatisūtra (Aforismi di Bṛhaspati), del quale sono pervenuti soltanto pochi frammenti. A questo divino personaggio è anche associato il testo fondamentale dell'ars politica indiana, l'Arthaśāstra (Trattato sull'utile), a sottolineare il legame che unisce nella prospettiva dell'India classica queste due sfere, caratterizzate dallo stesso disincantato pragmatismo. L'Arthaśāstra, inoltre, quando elenca le scuole in cui si pratica l'ānvīkṣikī, 'scienza indagatrice' (v. sopra), affianca a Sāṃkhya e Yoga proprio il Lokāyata.
L'unanime riprovazione che i Lokāyata hanno riscosso presso tutti i sistemi filosofici indiani si riflette nella perdita di tutte le loro opere, con l'unica eccezione del Tattvopaplavasiṃha (Leone che sconvolge i principî; v. oltre). Destino delle dottrine dei Materialisti è stato dunque quello di essere tramandate attraverso il resoconto sommario e quasi sempre malevolo di scuole avversarie, che le confinavano nel ruolo di pūrvapakṣa 'tesi avversaria da confutare', non diversamente da quanto avvenne in Occidente per gli Gnostici, regolarmente maltrattati dai Padri della Chiesa. Questa scarsa fortuna presso le scuole filosofiche dominanti rende poco spiegabile la perdurante presenza dei Lokāyata nell'asse portante della filosofia indiana, al punto da far nascere il sospetto che la loro sempre riproposta liquidazione faccia parte di una sorta di rituale canovaccio piuttosto che essere la testimonianza di un genuino conflitto. Altra possibile interpretazione è invece quella che fa riferimento alla natura in fondo unilaterale della tradizione filosofica indiana, le cui opere provengono quasi tutte da una cerchia sociale ristretta: le scuole materialistiche sarebbero allora solamente la punta emergente di una tendenza molto più ampia e vitale, che trovava poco accoglimento nei circoli filosofici ma di cui quelli non potevano fare a meno di avvertire la pressione. Una riprova di ciò potrebbe essere il fatto che il jaina Haribhadra (VIII sec. d.C.) dopo aver accolto nella sua nota opera dossografica Ṣaḍdarśanasamuccaya (Summa dei sei darśana) soltanto sei sistemi (buddhismo, Nyāya, Sāṃkhya, jainismo, Vaiśeṣika e Mīmāṃsā) sente, prima di concludere, il bisogno di dare un breve resoconto 'fuori campo' anche delle dottrine lokāyata. Dalle quattro stanze del Ṣaḍdarśanasamuccaya si ricava un quadro molto significativo:
I Lokāyata dicono che non esiste né dio, né liberazione, che non c'è né azione consona né contraria al Dharma e dunque nessuna conseguenza dei meriti o dei peccati. Il mondo non va oltre quello che entra nel raggio dei sensi. Quel che tutti questi grandi sapienti ci vanno dicendo è simile, o buona Signora, a quella storiella in cui si diceva: 'Attenta, ecco le tracce del lupo!'. Mangia e bevi, o Graziosa: ciò che è passato [oppure 'al di là'], o Signora dalle belle membra, non ti appartiene; quello che è andato, o Timida, più non ritorna. Questo corpo non è che un aggregato. Inoltre: i quattro elementi Terra Acqua Fuoco e Aria sono la base della coscienza. L'unico mezzo di conoscenza è quello che nasce dai sensi. In virtù della combinazione di Terra ecc. sorgono le varie entità, quali per es. il corpo. Come il potere inebriante si sprigiona dagli ingredienti in fermentazione delle bevande alcoliche, così accade per il principio cosciente della soggettività [che si sviluppa dai quattro elementi]. Per questo i Cārvāka hanno insegnato che è da sciocchi inseguire l'invisibile avendo abbandonato il visibile. Per loro, quella gioia che sorge nell'uomo dal compiere le azioni raccomandate e dal rifuggire da quelle vituperate è futile; essa non è differente dall'etere. La retta condotta (dharma) infatti non è da anteporsi al soddisfacimento del desiderio (kāma). (vv. 80-87)
A tale rifiuto di ogni trascendenza e insieme di ogni restrizione etica si accompagna una drastica riduzione delle ambizioni conoscitive dell'uomo. Se l'unica fonte di conoscenza è la diretta percezione, cade ogni progettualità umana e insieme ogni pretesa di controllo di quanto eccede il mero presente. Non è ammesso, per esempio, alcun rapporto di causalità e dunque escluso ogni agire basato sulla prevedibilità degli effetti. Anche se due eventi appaiono prodursi con una sequenza regolare, non è possibile determinare la necessità assoluta della loro connessione tale che sia estendibile al passato e al futuro, fuori entrambi dal raggio della percezione. Ciò non vuol dire che il mondo sia retto dal caso, ma solamente che nessun ordine può essere ricostruito dalle limitate possibilità dell'umano conoscere. Gli effetti si producono, le varie entità nascono e scompaiono in base a un dinamismo che è proprio della loro intrinseca natura (svabhāva), donde il nome di svabhāvavādin attribuito ad alcune correnti di materialisti. Questo stesso ordine di considerazioni conduce a una conseguenza di ancora più vasta portata: nessun tipo di inferenza può essere ammesso perché per essere sicuri dell'invariabile concomitanza (vyāpti) tra probans e probandum sarebbe necessario tener conto di un numero infinito di casi. Inoltre, anche ammettendo in linea di principio la possibilità dell'inferenza, nel caso specifico per esempio dell'inferenza del fuoco a partire dalla visione del fumo, non sarà certo l'universale 'fuoco' a essere inferito, perché già noto, e tantomeno sarà possibile inferire un particolare fuoco attraverso una sua concomitanza con l'universale 'fumo' (Franco 1994). Dunque solamente la diretta percezione è da considerarsi valido mezzo di conoscenza. A questa affermazione tutti i loro avversari (brahmanici e non) hanno buon gioco a ribattere che senza un uso del ragionamento non si potrebbe pervenire a una tale conclusione: la percezione da sola non basta a fondare la propria unica validità. Jayarāśi raccoglie la sfida e ne accetta le conseguenze estreme: ebbene, nemmeno la percezione può dirsi un mezzo di conoscenza valida, e prive di fondamento sono anche tutte le posizioni ontologiche ed etiche, comprese quelle stesse che vengono ascritte ai Lokāyata. In realtà, si legge all'inizio del capolavoro di Jayarāśi, il sūtra-radice dei Lokāyata non presentava delle tesi assunte come proprie ma soltanto tesi provvisorie con l'intento ultimo di dimostrarne l'intrinseca incongruenza. Questo compito, già tentato dall'autore del Bṛhaspatisūtra, è portato a compimento diversi secoli dopo proprio dal Tattvopaplavasiṃha, sotto la sua mannaia dialettica cadono tutte le concezioni filosofiche del tempo, delle quali ogni possibile interpretazione viene esaminata e infine lasciata cadere. Il risultato finale è ben diverso da quello perseguito da altri illustri esempi di radicalismo critico, primi fra tutti la Madhyamakakārikā (Stanze del cammino di mezzo) del buddhista Nāgārjuna e il Khaṇḍanakhaṇḍakhādya del vedāntin Śrīharṣa: non il salto nell'indicibile assoluto bensì lo scetticismo totale. È interessante notare che di questo testo, pur a suo tempo noto e citato, è pervenuto un unico manoscritto e che a salvarlo dall'oblio al quale era verosimilmente destinato, insieme a tutti gli altri testi di queste scuole, è stata una biblioteca jaina, quella famosa di Patan. Pur rigettandone i contenuti finali, i logici jaina devono averne apprezzato l'efficacia dialettica e affilato su di esso i loro già acuminati strumenti critici, con cui hanno costruito la filosofia del non-assolutismo (anekāntavāda) e della molteplicità dei punti di vista (nayavāda).
Il jainismo
Le due grandi sfide all'egemonia brahmanica, propugnatrice di un sistema socio-religioso dominato dal sacrificio vedico, da cui veniva fatto dipendere l'equilibrio dell'Universo stesso e che di conseguenza innalzava la casta sacerdotale sopra tutte le altre, nascono entrambe nel Nord-est dell'India e approssimativamente nello stesso periodo (VI-V sec. a.C.), in corrispondenza con radicali mutamenti sociali ed economici che portano a un'ascesa della casta militare. Verosimilmente innescato da questo momento critico è il diffondersi sempre più ampio del fenomeno dell'abbandono della vita sociale e della formazione di vere e proprie schiere di 'rinuncianti', di asceti alla ricerca di vie diverse da quelle rigidamente predeterminate dei professionisti del sacrificio. Asceta itinerante e kṣatriya (ossia membro della classe guerriera) di nascita è il fondatore storico del jainismo, Mahāvīra, l'ultimo di una catena di ventiquattro 'creatori di guado' (tīrthaṃkara), esseri onniscienti ma umani (agli dèi la completa illuminazione è preclusa) che si avvicendano nelle varie ere allo scopo di proclamare i Tre Gioielli della eterna dottrina jaina: retta fede, retta conoscenza e retta azione.
Lo scenario temporale è rappresentato come una ruota a dodici raggi che gira su sé stessa alternando una direzione discendente a una ascendente, ciascuna con sei distinte tappe. Alla quinta della direzione discendente, nella quale attualmente ci troviamo (corrispondente al Kaliyuga), seguirà, nella sesta, la completa estinzione della dottrina, cui seguirà a sua volta una progressiva rinascita. L'appartenenza dei fondatori del jainismo (e del buddhismo) alla casta dei guerrieri trapela anche da una certa terminologia 'militare' sia nell'organizzazione sociale sia nella presentazione del loro insegnamento (Dundas 1992).
Il corpus di scritture si distingue sulla base della divisione del jainismo in due comunità: i Digambara (Vestiti di spazio) e gli Śvetāmbara (Vestiti di bianco). I primi esigono la completa nudità (ma non per le monache), accettano le elemosine nel cavo della mano (invece che nella ciotola), non prevedono liberazione per le donne e negano che il liberato abbia bisogno di cibo. Oltre a queste che sono le differenze fondamentali, ce ne sono molte altre, concernenti però quasi tutte la sfera religiosa e che dunque possiamo in questa sede tralasciare. Va notato, incidentalmente, che è dai Digambara che verrà la maggior parte dei contributi di ordine teoretico e logico-epistemologico. Il canone scritturale ammesso dagli Śvetāmbara, in lingua ardhamāgadhī, comprende 45 testi, contenenti l'insegnamento dei tīrthaṃkara, divisi in 12 'membri' (aṅga), 12 'sotto-membri' (upāṅga), 7 Chedasūtra, 4 Mūlasūtra, 10 testi miscellanei (prakīrṇaka), 2 testi di esegesi scritturale. A tale canone i Digambara oppongono la radicale affermazione che i testi originali sono da considerarsi definitivamente perduti; di essi sopravvive un pallido ricordo in due sole opere, lo Ṣaṭkāṇḍa ([Trattato] in sei parti) e il Kaṣāya (Trattato delle passioni). Sulla scomparsa di questo gruppo di antichi testi (pūrva), attribuiti a Mahāvīra in persona, anche gli Śvetāmbara concordano, sostenendo però che essi costituissero soltanto la terza sezione del dodicesimo 'membro' del loro canone, il Dṛṣṭivāda (Discussione dei sistemi filosofici), ora anch'esso interamente perduto.
Le scritture jaina si diffondono sui più disparati argomenti, dalla metafisica alla psicologia alle scienze naturali e traggono la loro autorità direttamente dall'onniscienza dei loro autori, i tīrthaṃkara, e in particolare Mahāvīra, senza tema di essere smentite dal momento che l'ultimo illuminato ‒ divenuto quindi onnisciente ‒ è stato il discepolo di Mahāvīra Jambu e nel prossimo futuro, stante la condizione epocale di progressiva decadenza della dottrina, ogni prospettiva di altre perfette illuminazioni è preclusa. Ad assicurare una sostanziale unitarietà e assenza di traumatici cambiamenti nella dottrina, ha inoltre contribuito molto il prestigio di un'opera che, pur non rientrando nelle scritture, ne ha rappresentato un'autorevole sintesi, tanto più necessaria in ragione della vastità e diluizione degli insegnamenti in esse contenuti, il Tattvārthādhigamasūtra (Trattato sul conseguimento del significato della vera realtà) di Umāsvāti (IV-V sec. d.C.); il fatto che l'autore sia uno Śvetāmbara mentre tutti i principali commenti (tra cui spicca quello di Akalaṅka; VIII sec.) siano di Digambara testimonia della sua natura di opera super partes.
La visione del mondo proposta dalla filosofia jaina è improntata a un deciso realismo e si colloca a metà strada fra le scuole brahmaniche, che tendono in vario modo a sottolineare la permanenza della sostanza, e il buddhismo, in cui domina la visione del continuo cambiamento. Con la sua caratteristica tendenza alla mediazione e al rifiuto delle posizioni unilaterali, il jainismo sostiene la compresenza nel reale di un elemento costante (dravya) e di variabili modi di presentazione (paryāya) e qualità (guṇa) (Dixit 1971). Nell'Universo vengono distinte due fondamentali categorie: il 'vivente' o 'anima' (jīva) e il 'non-vivente' (ajīva), entrambe sussunte sotto la più ampia rubrica di 'masse d'essere' (astikāya). La categoria del jīva rimane, soprattutto nei testi più antichi, in bilico tra lo spirituale e il biologico; il numero dei jīva è infinito, sono costituiti di pura coscienza, sono dotati di onniscienza, energia e beatitudine, non hanno un'estensione propria, ma sono nel contempo onnipervadenti; assumono la dimensione del corpo al quale sono connessi. Una volta connessi con un corpo possono essere sia mobili (dèi, animali, uomini) che immobili (vegetali). I jīva allora vengono classificati in base agli organi che possiedono: 'a un senso' (il tatto; esseri elementari connessi con ciascuno dei cinque elementi), 'a due sensi' (il tatto e il gusto; vermi, molluschi da conchiglia), 'a tre sensi' (il tatto, il gusto e l'odorato; formiche, moscerini), 'a quattro sensi' (il tatto, il gusto, l'odorato e la vista; farfalle, mosche, scorpioni), 'a cinque sensi', infine, sono gli esseri infernali, gli animali, gli uomini e i semidei. La categoria degli ajīva comprende il movimento (dharma), la stasi (adharma) ‒ o meglio ciò che determina movimento o stasi ‒, la materia (pudgala) e lo spazio (ākāśa); la materia si presenta in diversi livelli di aggregazione a partire da atomi (paramāṇu), i quali, diversamente dagli atomi del Vaiśeṣika, sono tra loro identici. Tra gli ajīva i Digambara inseriscono il tempo, che essendo privo di estensione spaziale è l'unico a essere an-astikāya ('privo di massa d'essere'). Il jīva, il gruppo dei quattro ajīva, uniti con il fuire del karman (āsrava), il merito e il demerito (puṇya e pāpa), il legame del karman (bandha), l'impedimento di ulteriore karman (saṃvara), la distruzione del karman bloccato (nirjara) e la liberazione (mokṣa), formano ‒ mescolando insieme in maniera assolutamente inestricabile motivi di ordine naturalistico, metafisici ed etici ‒ i nove principî fondamentali del jainismo. Il karman, che è riguardato da ben sei tra i nove principî, è concepito come una sorta di sostanza materiale, generata dalle azioni, che ostruisce i poteri dell'anima e ne determina il peregrinare di corpo in corpo, fino alla liberazione finale. L'anima, per la sua natura spirituale, risulterebbe inattingibile al karman ‒ materiale ‒ se non fosse per la presenza delle passioni che fungono per così dire da collante. Le speculazioni sulla natura del karman e le sue infinite classificazioni impegnano estesamente gli autori jaina e sono una delle peculiarità di questa grande tradizione. Di un ordine completamente diverso ‒ logico-epistemologico ‒, ma altrettanto caratterizzante per il jainismo, è un'altra dottrina sulla quale invece sarà qui opportuno soffermarsi. Si tratta della dottrina del non-assolutismo (anekāntavāda) e di quella, strettamente connessa, dei punti di vista parziali (naya; Matilal 1961; Shah 2000). Il jainismo parte dalla constatazione che ogni oggetto possiede infiniti aspetti, per di più riconducibili a due ordini tra loro radicalmente diversi (secondo la formulazione di Akalaṅka: 'L'oggetto è fatto di sostanza e di modi di manifestazione'). Una conoscenza sintetica e completa richiederebbe nel soggetto un potere intellettuale adeguato alla infinitezza del suo oggetto ‒ potere che è ormai inattuale. Le conseguenze che il jainismo deriva da una tale premessa non lo portano verso lo scetticismo ma a una serena e realistica accettazione dei limiti e a un sistematico rifiuto di ogni assolutismo sia conoscitivo sia etico, che non risparmia nemmeno le stesse posizioni jaina. Questa opzione è perfettamente in linea con il principio di radicale non-violenza (ahiṃsā) che caratterizza la morale jaina, e ne è anzi la traduzione in termini di epistemologia. Nessuna asserzione può pretendere di costituire la verità, ma tutt'al più un parziale aspetto di essa. Oltre che come 'non-assolutismo' questa dottrina è nota anche come syāt-vāda (lett. 'dottrina del potrebbe essere'); syāt, che è la forma ottativa di as- 'essere', può infatti esprimere, all'interno di un campo semantico molto ampio, varie sfumature di possibilità fino alla totale irrealtà. Ogni asserzione è frantumata in sette possibili alternative, né vere né false se prese isolatamente ma in grado di fornire una conoscenza comprensiva dell'oggetto una volta composte insieme. Ognuna delle alternative viene introdotta da un 'forse' o un 'potrebbe', come si è detto uno dei sensi possibili di syāt, al quale però i jaina, preoccupati delle possibili valenze scettiche, preferiscono di gran lunga quello di 'per un certo verso'. Questo 'sistema dei sette modi' (saptabhaṅgīnaya) consiste nella serie seguente: (1) [una cosa, o una proprietà, per un certo verso] è, (2) non è, (3) è e non è, (4) è inesprimibile, (5) è ed è inesprimibile, (6) non è ed è inesprimibile, (7) è, non è ed è inesprimibile. Questa dottrina, che è già contenuta in nuce in una delle scritture jaina più antiche, la Vyākhyāprajñapti (Elucidazione delle spiegazioni), verrà portata ad alti livelli di sofisticazione dai filosofi della grande tradizione logico-epistemologica del jainismo, a cominciare da Mallavādin e Siddhasena Divākara (V sec. d.C.), continuando con Samantabhadra (VI-VII sec.), Akalaṅka e Haribhadra (VIII sec.), fino a Yaśovijaya (XVII sec.). Un verso famoso del Nyāyāvatāra (Avviamento alla logica) di Siddhasena Divākara è la migliore introduzione alla complementare dottrina dei naya: "L'entità reale, consistente di una molteplicità di aspetti, è il campo d'azione di tutte le cognizioni; l'oggetto caratterizzato da uno solo di questi aspetti è il campo d'azione del naya". Il termine sanscrito naya 'condotta, principio, metodo, dottrina' viene qui assunto nel significato tecnico di 'dottrina [o giudizio] parziale, unidimensionale'. Secondo un'immagine che ricorre di frequente nei testi, il rapporto tra il normale soggetto conoscente e uno qualsiasi dei suoi oggetti è lo stesso che vige tra un elefante e alcuni ciechi che lo attorniano curiosi: ciascuno crede di essersi fatto un'idea precisa di ciò che ha davanti e lo identifica chi con la proboscide, chi con una zanna, chi con un orecchio. Ogni naya mantiene una sua validità, ma a patto che se ne ammetta la parzialità e il bisogno di accostarlo a infiniti altri per arrivare a una sintesi onnicomprensiva. Il nayavāda trova il suo ideale compimento come criterio per la valutazione delle varie visioni filosofico-religiose. Il principio della non-violenza, realizzato dal jainismo anche nella sfera intellettuale (esemplare al riguardo è l'occhio acuto e neutrale con cui il filosofo jaina scruta le dottrine degli avversari riportandole con fedeltà e senza mai indulgere in facili deformazioni), fa sì che, per esempio, il Sāṃkhya sia parzialmente accettato così come lo è il buddhismo, purché dell'uno si metta a nudo il pregiudiziale orientamento sulla sostanza e dell'altro quello sul divenire. Ben diverso sarà l'ecumenismo, simile soltanto in superficie, del Vedānta, che in cambio di un posticino accordato nel gran teatro dei sistemi filosofici esige dai sistemi rivali l'accettazione di una rigidissima scala gerarchica, della quale si pone come vertice indiscusso. Anche i naya vengono classificati in sette tipi principali, a loro volta divisi in due gruppi, concernenti il primo l'aspetto 'sostanza' (dravya-naya) e il secondo l'aspetto 'modi di manifestazione' (paryāya-naya): naigama (guardare alle cose come appaiono a prima vista, ora nel loro aspetto generale ora in quello specifico, come fa il Nyāya-Vaiśeṣika), saṃgraha (guardare al loro sostrato comune, come fa il Vedānta), vyavāhara (guardare alla loro individualità), ṛjusūtra (guardare soltanto al loro presente), śabda (fare riferimento a varie parole come sinonimi), samabhirūḍha (distinguere un significato specifico per ogni parola), evambhūta (applicare una certa parola soltanto quando l'oggetto svolge effettivamente in quel momento l'attività espressa da essa). La consapevolezza del carattere comunque limitato e provvisorio dell'umano conoscere rimane nello sfondo delle riflessioni dei filosofi jaina sul numero e la natura dei mezzi di retta conoscenza (pramāṇa). La divisione tra conoscenza diretta (pratyakṣa) e indiretta (parokṣa), presente già nelle scritture e sviluppata dagli autori più antichi, in primo luogo Umāsvāti, non corrisponde a quella generalmente intesa dal pensiero indiano, partendo invece dal presupposto che si dà autentico conoscere soltanto quando l'anima fronteggia direttamente l'oggetto, senza cioè l'intermediazione dei sensi o dell'intelletto. Ciò confina tutta quanta l'esperienza dell'uomo ordinario, percezione inclusa, nella zona grigia dell'indiretto, riservando la conoscenza diretta al solo liberato. Oltre a quest'ultima, chiamata kevala, sono accolte nella rubrica 'conoscenza diretta' altre due forme, accessibili anche a livelli intermedi di elevazione spirituale: la conoscenza delle menti, o meglio delle modificazioni delle menti altrui (manaḥparyāya) e la diretta intuizione di entità normalmente inaccessibili alla percezione (avadhi). Conoscenze indirette sono invece mati ('conoscenza intellettuale') e śruta ('conoscenza uditiva'). La prima comprende dunque la stessa percezione sensoriale oltre all'inferenza, all'analogia, alla memoria, ecc.; la seconda coincide con la conoscenza verbale, incluse le scritture, essendo sempre preceduta da una conoscenza di tipo mati (per es., una percezione uditiva) a cui si aggiunge la comprensione del significato, tanto che qualcuno concepisce la seconda come un caso particolare della prima. Nella percezione sensoriale vengono poi individuati quattro stadi successivi: acquisizione del dato da parte dei sensi (avagraha), sua determinazione (īhā), accertamento delle sue caratteristiche specifiche (avāya) e infine definitivo trattenimento nella memoria (dhāraṇā). Nei suoi sviluppi successivi la filosofia jaina finirà però per accettare l'opposizione diretta/indiretta nel senso più comunemente inteso. Lo stesso accadrà per la sua concezione dell'inferenza, di cui farà propria la divisione in inferenza per sé stessi/inferenza per gli altri (v. sopra) nonché l'articolazione in cinque membri. Essa si sostituisce a un'antica divisione in dieci membri, proposta da Bhadrabāhu nella Daśavaikālikanirukti (Interpretazione del Daśavaikālika) e applicata nella fattispecie a provare l'eccellenza della virtù della non-violenza (Vidyabhusana 1920): (1) pratijñā, 'promessa, tesi da dimostrare': 'la non-violenza è la virtù più grande'; (2) pratijñāvibhakti, 'specificazione della tesi': 'è la virtù più grande secondo le scritture jaina'; (3) hetu, 'ragione logica': 'perché i suoi praticanti sono amati dagli dèi e fonte di merito per chi li onora'; (4) hetuvibhakti, 'specificazione della ragione logica': 'perché i suoi praticanti sono i soli a poter vivere nelle più alte sfere della virtù'; (5) vipakṣa, 'esempio contrario': 'ma anche chi commette violenze può vivere bene e anche chi disprezza le scritture jaina può accumulare meriti, come è il caso per esempio dei brahmani'; (6) vipakṣapratiṣedha, 'confutazione dell'esempio contrario': 'no, perché è impossibile che chi disprezzi le scritture jaina sia amato dagli dèi e meriti onore'; (7) dṛṣṭānta, 'esempio [positivo]': 'gli asceti prendono il cibo dai padroni di casa perché non possono cucinare per timore di uccidere insetti'; (8) āśaṅkā, 'obiezione': 'ma i peccati dei padroni di casa dovrebbero ripercuotersi sugli asceti, dal momento che è per loro che essi cucinano'; (9) āśaṅkāpratiṣedha, 'confutazione dell'obiezione': 'no, perché gli asceti visitano le case senza preavviso e quindi non è appositamente per loro che si è cucinato'; (10) naigamana, 'conclusione': 'quindi la non-violenza è la virtù più grande'.
Nel mare sterminato delle dottrine buddhiste, elaborate a partire dagli insegnamenti del Buddha storico nel corso dei circa diciassette secoli di permanenza del buddhismo sul suolo indiano, una consolidata tradizione dossografica ha enucleato come maggiormente caratteristiche e rappresentative quelle facenti capo a quattro scuole: Sarvāstivādin (Vaibhāṣika), Sautrāntika, Mādhyamika e Yogācāra. La trattazione, necessariamente succinta, che è qui data fa propria la selezione operata dal Sarvadarśanasaṃgraha (Compendio di tutti i darśana) di Mādhava, ripresa dal Sarvasiddhāntasasaṃgraha (Compendio di tutte le esposizioni conclusive), erroneamente ascritto a Śaṅkara, e anche dall'ampio e informato commento che Guṇaratna dedicò al capostipite del genere dossografico, il Ṣaḍdarśanasamuccaya (Summa dei sei darśana) del jaina Haribhadra. Oltre ad avere il conforto di questi illustri precedenti, la presentazione di queste sole quattro scuole risulta giustificata dalla particolare rilevanza che le loro dottrine rivestono in una prospettiva ontologico-logico-epistemologica, qual è quella del presente lavoro. Si darà infine conto dell'opera, difficilmente classificabile, di Dignāga e Dharmakīrti, figure cardinali della cosiddetta scuola logica del buddhismo, che tanta parte hanno avuto nei nuovi sviluppi dell'intero pensiero indiano.
Alla base di tutte le varie diramazioni del buddhismo è un compatto insieme di dottrine la cui elaborazione è fatta risalire al suo stesso fondatore. Come viene ripetuto più volte nei discorsi del Buddha (per una descrizione della triplice suddivisione delle scritture canoniche si veda sopra), obiettivo del suo insegnamento è l'individuazione di un cammino di mezzo tra il nichilismo di chi riduce il soggetto alla breve vicenda del corpo fisico (ucchedavādin, 'sostenitori della distruzione') e l'eternalismo di chi lo concepisce come una sostanza autonoma e permanente (śāśvatavādin, 'sostenitori dell'eternità'). Tutto quanto si dà nell'esperienza sia dalla parte dell'oggetto sia del soggetto condivide tre generali caratteristiche (lakṣaṇa): frustrazione (duḥkha), impermanenza (anitya) e assenza di un sé (anātman). Quest'ultima non si riferisce alla sola inesistenza di una sostanza 'io' che funga da sostrato e da possessore rispetto al flusso degli stati mentali e cognitivi, ma riguarda, nel senso più lato di insostanzialità e inconsistenza, anche i fluidi oggetti di tali stati, che l'esperire ordinario segnato da un'angosciosa 'sete' (tṛṣṇā) immobilizza in 'cose'. Il Buddha insegna a districare questi nodi e, prima di tutto, a scomporre il ridondante edificio dell'io personale in cinque aggregazioni elementari (skandha): forma-materia (rūpa), sentimenti (vedanā), percezioni (saṃjñā), impulsi (saṃskāra) e coscienza (vijñāna). A causare questi stati sono i dodici campi dei sensi (āyatana): occhi, oggetti visivi, orecchie, suoni, naso, odori, lingua, sapori, corpo, oggetti tangibili, mente e oggetti mentali. Si possono dunque classificare diciotto elementi (dhātu): i sei organi di senso, i sei oggetti di senso e le sei coscienze sensoriali. Le 'quattro nobili verità' asseriscono di conseguenza che esiste uno stato di frustrazione, che la sete ne è la causa, che è possibile porvi fine ottenendo il nirvāṇa e che per condurre a esso esiste, tracciato dal Buddha, un sentiero ottuplice. Il primo di questi otto gradini è costituito dal raggiungere una 'retta visione' attraverso appunto l'indagine sullo stato delle cose. Immediatamente prima del 'risveglio' il Buddha sarebbe pervenuto a una visione globale in cui i singoli elementi individuati dalla sua analisi dell'esperienza si componevano in una sorta di ruota a dodici raggi, in cui il precedente si collegava al susseguente in un rapporto di diretta causalità. La ruota della 'causazione dipendente' o 'co-produzione condizionata' (pratītyasamutpāda), descritta infinite volte nei testi ‒ fonte per eccellenza è lo śĀlistambhasūtra (Sūtra della piantina di riso), a cavallo tra Hīnayāna (Piccolo veicolo) e Mahāyāna (Grande veicolo) ‒ e protagonista anche dell'iconografia buddhista, comincia con la nescienza e finisce con la vecchiaia e la morte, includendo al suo interno in una catena rigorosa tutte le fasi del mondo dell'esperienza. Anche se probabilmente nata per dar conto della traiettoria dell'umana esperienza per fini meditativi, essa assurge ben presto a modello di interpretazione di tutto il reale, di cui afferma, col mostrare la reciproca dipendenza di tutti i suoi elementi, la natura insostanziale e, infine, illusoria, dal momento che il conoscere stesso non vi risulta mai svincolato dal sottile inquinamento della brama e della nescienza.
Le scuole dell'Abhidharma. I Sarvāstivādin.
Delle tre 'ceste' (piṭaka) che raggruppavano i testi del canone buddhista, quella dell'Abhidharma era la più direttamente connessa con la riflessione filosofica. Mentre il Sūtrapiṭaka comprendeva i discorsi ascritti al Buddha stesso e il Vinayapiṭaka prescriveva le norme per gli ordini monastici, l'Abhidharma nasce come primo tentativo di ricavare dai testi dialogici e narrativi dei sūtra, spesso poco definiti anche per un deliberato rifiuto di elaborazione di tesi 'filosofiche' da parte del Buddha stesso, un contenuto omogeneo, se non altro per fini didattici. Il termine abhidharma, secondo una delle interpretazioni date dagli autori buddhisti, starebbe per 'avvicinamento, guida al Dharma (la Dottrina)', o addirittura, stando a un altro dei significati possibili del preverbio abhi-, 'super-dharma', intendendo che la dottrina organizzata e chiarificata dell'Abhidharma diventava superiore agli stessi pronunciamenti del Buddha. Questa pretesa o, comunque, l'eccessivo proliferare e l'estrema valorizzazione di questa letteratura provocarono la reazione della scuola dei Sautrāntika che, come dice la loro denominazione, predicarono un ritorno ai sūtra, unici a conservare la parola del Maestro. Sebbene le scuole buddhiste non concordassero sullo status da attribuire all'Abhidharmapiṭaka, un'antica tradizione lo faceva risalire perlomeno a un diretto discepolo del Buddha, Śāriputra, invitato alla sua compilazione dal Maestro stesso. Alla base dei testi abhidharmici sono le cosiddette mātṛkā, 'matrici', elenchi tradizionali di argomenti di discussione o di promemoria per la pratica, sorta di catechismi estremamente succinti, di cui sono state proposte varie ipotetiche ricostruzioni. Oltre a fornire elaborazioni sulla base delle varie mātṛkā, l'Abhidharma si interroga anche sui criteri da seguire nell'interpretazione, enunciando il primo germe di quella dottrina della doppia verità che troverà grande seguito nelle scuole del buddhismo mahāyāna, secondo cui le contraddizioni rinvenibili tra l'uno o l'altro testo originale dipendevano dai differenti obiettivi, se cioè presentare la verità assoluta o vari livelli di verità provvisorie, sulla base di esigenze didattiche e della tipologia degli ascoltatori. Degli Abhidharmapiṭaka accettati dalle varie scuole (la divisione in seno alla comunità buddhista, poi articolatasi tradizionalmente in diciotto scuole, cominciò subito dopo la morte del Buddha) sono stati tramandati nella loro integralità soltanto quelli dei Theravādin e dei Sarvāstivādin. I primi, redatti in lingua pāli verso gli inizi dell'era cristiana, si compongono di sette libri canonici tra cui spiccano per importanza il Dhammasaṅgani (Enumerazione dei fattori) e il Kathavātthu (Soggetti di dibattito), intorno ai quali si forma nel corso dei secoli una grande mole di letteratura esegetica. Mentre questa letteratura rimane confinata nell'isola di Sri Lanka, da cui poi si diffonderà nell'Asia sud-orientale, l'Abhidharma dei Sarvāstivādin, in sanscrito, si imporrà in tutto il buddhismo indiano, costituendo la base dottrinale o comunque il punto di riferimento per le scuole del Piccolo Veicolo e, almeno in parte, anche per quelle del Grande Veicolo.
La scuola dei Sarvāstivādin si dirama, già al tempo di Aśoka, dal corpo centrale della comunità buddhista, rappresentato dagli Sthavira. Dopo il terzo Concilio la scuola si spostò da Pāṭaliputra a Mathurā (II sec. a.C.), per poi prendere stanza definitivamente in Kashmir, dove prosperò per parecchi secoli, estendendosi con una sua branca in Gandhāra e Battriana. Il suo canone Abhidharma presenta un forte parallelismo con quello dei Theravāda, essendo costituito anch'esso di sette testi: un testo centrale, lo Jñānaprasthāna (Sistemazione della conoscenza), e sei testi satelliti, definiti i suoi piedi (pāda). Lo Jñānaprasthāna, composto verso la fine del I sec. a.C. da Kātyāyanīputra, e dunque il più recente tra i sette, fu oggetto di un monumentale commento, la Mahāvibhāṣā (Grande commento). Questo enciclopedico testo, pervenuto come la quasi totalità dell'Abhidharma dei Sarvāstivādin in versioni cinesi, assunse ben presto un'importanza così centrale per questa scuola che i suoi aderenti furono denominati Vaibhāṣika, 'seguaci della [Mahā-]vibhāṣā'. Stando a un'accreditata tradizione, la sua redazione sarebbe avvenuta nella prima metà del II sec. d.C., su impulso del famoso re Kaniṣka, a opera di anonimi compilatori che ne attribuirono l'originaria composizione al Buddha stesso. L'enorme ed eterogeneo materiale contenuto nella Mahāvibhāṣā fu ripreso, elaborato e coordinato in quella che divenne la più prestigiosa sintesi della scuola Sarvāstivādin, l'Abhidharmakośa (Tesoro dell'Abhidharma) di Vasubandhu (V sec. d.C.?). In realtà la sintesi di Vasubandhu non fu esente da innovazioni e da critiche, che si accentuano nel Bhāṣya, il commento da lui stesso composto, in cui il punto di vista assunto è decisamente quello dei Sautrāntika; questo gli attirò le critiche di Saṅghabhadra nel Nyāyānusāraśāstra (Trattato della conformità alla logica), pervenuto solamente in traduzione cinese, che riafferma con forza le posizioni Sarvāstivādin. L'opera di Vasubandhu fu a sua volta oggetto di importanti commenti, tra i quali quelli di Guṇamati, Sthiramati e Yaśomitra (solamente quest'ultimo pervenuto nell'originale sanscrito).
La letteratura dell'Abhidharma è tutta incentrata sulla individuazione e classificazione delle componenti ultime del reale, chiamate dharma. L'intento di procedere a una catalogazione completa dell'esistente accomuna le scuole buddhiste dell'Abhidharma a due antichi sistemi brahmanici: Vaiśeṣika e Sāṃkhya. Gli esiti, e in parte anche i moventi, di questi ultimi sono tuttavia fortemente diversificati. Il Vaiśeṣika opera un tipo di catalogazione 'orizzontale', fotografando ‒ grazie a un impiego, non esplicitato, di parametri mutuati dal linguaggio ‒ un mondo spazializzato e oggettivato, svuotato di ogni dinamismo e tensione temporale. Il Sāṃkhya, da parte sua, guarda al mondo esistente come alla fase di un processo in continua evoluzione, in cui il materiale, lo psichico e l'intellettuale, si sviluppano dallo stesso ceppo. Mentre Vaiśeṣika e Sāṃkhya in sostanza procedono alla catalogazione di oggetti, l'Abhidharma buddhista concentra la sua attenzione piuttosto sull'interazione tra oggetti e stati mentali, vale a dire sul mondo dell'esperienza piuttosto che sul mondo tout court. Un mondo fatto di cose che fronteggiano un soggetto conoscente e agente appare all'occhio buddhista l'esito di un tacito quanto fallimentare tentativo di porre un argine a quello che a un esame più ravvicinato non si rivela altro che un incessante fluire. L'applicazione all'analisi è spinta da una molla soteriologica, perché solo una volta che sia stata incrinata l'apparente consistenza degli oggetti diventa possibile il percorso verso l'emancipazione. Parallela alla frantumazione dell'oggetto è la de-sostanzializzazione e spersonalizzazione del soggetto, ridotto al fluire di stati mentali momentanei. Nella sistemazione dell'Abhidharmakośa, il numero di questi principî o fattori elementari, non concepiti come isolati l'uno dall'altro ma al contrario tutti ‒ tranne tre ‒ strettamente interdipendenti, viene stabilito in 75 divisi in cinque gruppi (i Theravādin ne avevano elencati 82, gli Yogācāra arriveranno a 100). Il primo gruppo (rūpa, 'materia', 'forma') comprende i 5 organi di senso, i 5 oggetti di senso e la materia non concettualizzata (avijñapti); il secondo gruppo comprende la sola mente; il terzo gruppo comprende le 46 funzioni mentali; il quarto le 14 forze non connesse con la mente; il quinto i 3 dharma non condizionati. Rinunciando ad addentrarsi nelle intricatissime questioni trattate dalla scolastica buddhista (il numero stesso dei dharma può variare significativamente da scuola a scuola e anche da testo a testo della stessa scuola), va almeno notata la sproporzione esistente tra quanto rientra nel dominio della materia (undici dharma) e quanto è, in un modo o nell'altro, correlato alla mente. Ciò mostra con chiarezza come tutto questo genere di classificazioni avesse la sua genesi in un contesto meditativo, e si proponesse come primo obiettivo quello di alimentare e indirizzare la pratica. La stessa catena delle dodici causazioni (v. sopra) riguarda un iter essenzialmente morale e religioso.
Il rapporto di causalità costituisce, date queste premesse, un oggetto privilegiato di discussione per tutte le scuole dell'Abhidharma. Ancora una volta la sistemazione classica diventerà quella fornita dall'Abhidharmakośa, nota come dottrina delle sei cause e delle quattro condizioni (nonché dei cinque effetti); mentre le quattro condizioni appaiono già all'interno di una lista di ventiquattro data nell'Abhidharma dei Theravāda, le sei cause sembrano essere una concezione propriamente sarvāstivādin. I quattro tipi di condizioni sono: l'oggetto (ālambana-pratyaya; per es., l'oggetto nell'atto della percezione); l'immediatamente precedente (samanantara-pratyaya; lo stato mentale che viene immediatamente prima di quello della cognizione); la condizione predominante (adhipati-pratyaya; ciò che è più direttamente determinante per la natura dell'effetto, come, per es., l'organo della vista per la sensazione visiva); la condizione causale (hetu-pratyaya; ogni contributo alla realizzazione dell'effetto, come, per es., la luce nel caso in questione). La prima delle sei cause è la causa 'generica' (kāraṇa-hetu; ogni dharma dell'Universo è in qualche modo coinvolto, seppure alla lontana, in ogni rapporto di causalità, per es., col non ostacolarlo); la causa coesistente (sahabhū-hetu; il condizionamento dovuto ai dharma che si producono nello stesso istante di quelli direttamente coinvolti nel processo di causazione); la causa omogenea (sabhāga-hetu; responsabile della produzione di un effetto dello stesso tipo o qualità); la causa associata (samprayukta-hetu; si riferisce alla concomitanza dei soli stati mentali, per es., il piacere connesso a una determinata sensazione); la causa onnipervadente (sarvatraga-hetu; l'influenza negativa esercitata dalle varie contaminazioni della mente); la causa di maturazione karmica (vipāka-hetu; la possibilità di produrre effetti connotati da un coefficiente karmico positivo o negativo).
L'attenzione che i Sarvāstivādin rivolgono al rapporto di causalità li porta a formulare una dottrina dalla quale trarranno la loro stessa denominazione (sarvāsti 'tutto [ovvero, tutte e tre le dimensioni temporali] esiste'). Tutte le scuole buddhiste concordano nel presentare la causalità come una concomitanza temporale di eventi, senza che si possa dire, contrariamente all'opinione comune, che qualcosa 'generi' qualcos'altro (la formulazione buddhista è invece: tasmin sati idam bhavati 'essendoci quello, questo viene in essere'). I Sarvāstivādin notano da parte loro che per dar conto della causalità bisogna riformulare in termini adeguati la teoria della realtà come impermanente e in continuo flusso, che alcune scuole, come per esempio i Sautrāntika (v. oltre), intendono in termini di 'istantaneità' dei dharma. Per i Sarvāstivādin è necessario che un dharma estenda in qualche modo la sua esistenza su tutti e tre i tempi (passato, presente e futuro), anche se soltanto la sua esistenza presente è da considerarsi ultimamente reale: se così non fosse, cause ed effetti, presenti come sono in momenti diversi, dovrebbero il loro proprio status rispettivamente a qualcosa che non c'è ancora o che non c'è più. Quanto alla dottrina dell'istantaneità, essa va analogamente riformulata: il dharma non perisce nell'istante in cui nasce ma passa attraverso quattro distinte fasi, cioè nascita, durazione, decadimento e distruzione. Questi quattro momenti sono considerati dei dharma essi stessi e figurano nel gruppo delle 14 'forze non connesse con la mente', secondo la sistemazione dell'Abhidharmakośa. Al primo posto di quella lista, così eterogenea, figura un'entità assai problematica, prāpti, a cui i Sarvāstivādin si appigliano nel tentativo di evitare il rischioso naufragio totale dell'unità del soggetto travolta nel continuo e istantaneo sorgere e perire dei dharma: prāpti configura una sorta di impalpabile 'appartenenza' dei dharma a un continuum (santāna), che se non è una 'persona' permette almeno di dare un senso alla nozione di responsabilità morale e retribuzione karmica. La soluzione non piacque ai 'cugini' Sautrāntika, che preferirono invece intendere il continuum come un vero e proprio sostrato (āśraya) contenente dei 'semi' (bīja), corrispondenti al complesso psico-fisico in continua evoluzione, e delle predisposizioni o impregnazioni (vāsanā) depositate dalle precedenti esperienze.
I Sautrāntika
La scuola dei Sautrāntika, 'Coloro che si appellano ai sūtra come autorità ultima', nasce intorno al IV sec. d.C., probabilmente in Gandhāra, all'interno dei Sarvāstivādin, sotto la spinta di un rifiuto della piega eccessivamente scolastica e 'realistica' che stava assumendo la tradizione dell'Abhidharma. Le differenze dottrinali, seppure non radicali, sono tuttavia considerevoli e apriranno la strada alle più estreme posizioni degli Yogācāra. L'unica opera esplicitamente (o con forti componenti) sautrāntika che ci sia pervenuta è il commento (Bhāṣya) di Vasubandhu al suo proprio Abhidharmakośa; per il resto dobbiamo far riferimento alle frequenti discussioni sulle loro dottrine in altre opere, di autori sia buddhisti sia brahmanici o jaina, che li considerano interlocutori importanti. Maestri sautrāntika, quale per esempio Bhadanta Śubhagupta, sono menzionati e le loro dottrine criticate da Śāntarakṣita e Kamalaśīla nel Tattvasaṃgraha (Compendio della vera realtà) e nella relativa Pañjikā (Commentario), e riconoscibili come Sautrāntika sono le concezioni che Dignāga e in particolare Dharmakīrti accolgono almeno limitatamente alla sfera della realtà empirica. Sul versante ontologico, i Sautrāntika condividono con i Sarvāstivādin la credenza nella realtà dell'oggetto esterno, ma non concepiscono la sua istantaneità allo stesso modo. Ogni dharma dura un solo istante e perisce non appena venuto in essere, senza che per questo debba intervenire una causa ma solamente perché tale è la sua intrinseca natura. Possiamo seguire l'elaborata giustificazione logica che i Sautrāntika danno di tale concezione nella forma in cui la presenta un fortunato manuale di epistemologia e logica buddhista, la Bauddhatarkabhāṣā (Manuale di logica secondo i buddhisti), composto da Mokṣākaragupta nell'XI-XII secolo. L'esperienza ci mostra che le cose, quale per esempio una brocca, sono distrutte dal contatto col martello. Se questa distruzione avviene perché così è nella natura delle cose, allora esse devono distruggersi fin dal momento della loro nascita, dato che la loro natura propria era, in quanto tale, esistente fin dall'inizio. Infatti, se la natura propria della brocca non fosse tale, allora neanche un martello potrebbe distruggerla.
Se una cosa fosse determinata dalla sua natura a durare non per uno ma per due istanti, al secondo istante essa dovrebbe durare per un altro, cioè un terzo, e via dicendo. Se qualcuno obiettasse che una cosa per sua natura sarebbe destinata a durare, ma che è costretta a perire da un'altra cosa che con essa è incompatibile, come un martello, a quello si risponderebbe che, se la cosa perisce, non si può più dire che per sua natura fosse permanente. Dunque una cosa dovrà essere prodotta dalla sua causa già come peribile, poiché una cosa imperitura mai potrebbe essere connessa col perire. Se, in conclusione, essa è peribile per natura, allora non potrà che perire nel primo istante in cui viene a essere.
Questa revisione del concetto di transitorietà dei dharma comporta di necessità un ripensamento dei modi della loro conoscenza, dato che nell'istante in cui l'oggetto ha posto con la sua presenza le condizioni dell'atto conoscitivo esso non esiste già più. Questa e altre considerazioni inducono i Sautrāntika a dissociarsi dai Sarvāstivādin quando affermano che gli agglomerati di atomi costitutivi degli oggetti entrano direttamente nel campo della percezione: non l'oggetto esterno è presente nel nostro conoscere ma l'immagine mentale (ākāra) che, prima di scomparire, esso vi ha depositato. Il vedāntin Mādhava ‒ quando due-tre secoli più tardi, influenzato probabilmente proprio dalla presentazione fornita dalla Bauddhatarkabhāṣā, restringerà, come si è detto, la rosa delle posizioni buddhiste da riportare nella sua opera dossografica ai Vaibhāṣika, Sautrāntika, Mādhyamika e Yogācāra ‒ userà per i Sautrāntika la definizione, già corrente, di bahyārthānumeyatvavāda 'dottrina della [sola] inferibilità dell'oggetto esterno'. Mentre nella normale inferenza, infatti, il fuoco inferito a partire dal fumo viene a trovarsi soltanto occasionalmente al di fuori del raggio della percezione (ma era stato percepito in passato e tornerà a esserlo in futuro), il Sautrāntika considererà l'immagine mentale un indice sufficiente per stabilire l'esistenza di un oggetto esterno come sua unica possibile causa; tale oggetto è tuttavia destinato a permanere inaccessibile alla percezione e a essere perpetuamente soltanto inferibile (nityānumeya). Come recita un passo anonimo citato nella Bauddhatarkabhāṣā, si può anche continuare a parlare di 'percezione' dell'oggetto esterno, ma soltanto in senso metaforico (bhāktam syād arthavedanam).
Altre concezioni di impronta Sautrāntika saranno trattate più avanti, in quanto integrate nel pensiero logico-epistemologico di Dignāga e Dharmakīrti.
I Mādhyamika
Il concetto di vacuità, presente fin dalle più antiche opere canoniche in riferimento all'assenza di un io, viene assunto dai Mādhyamika (Seguaci del cammino di mezzo) nel significato più estremo di assenza di 'natura propria' (svabhāva), e non limitato alle fittizie entità (le 'cose') della realtà convenzionale ma agli stessi dharma in cui le scuole dell'Abhidharma le scomponevano e che consideravano come ultimamente reali. Fondatore della scuola Mādhyamika è Nāgārjuna (150-200 d.C. ca.), il quale attinge a sua volta all'insegnamento dei testi della Prajñāparamitā (Perfezione di Sapienza), incentrati sulla figura del bodhisattva, che pur consapevole dell'universale vacuità si dedica al soccorso delle creature. L'opera principale di Nāgārjuna è la Mūlamadhyamakakārikā o Madhyamakakārikā (Strofe fondamentali sul cammino di mezzo), in ventisette capitoli per complessive 448 strofe, dedicata principalmente alla dimostrazione delle interne contraddizioni contenute nelle dottrine dell'Abhidharma. Su quest'opera furono composti otto commenti, tra cui quelli di Buddhapālita (470-540 ca.), di Bhāvaviveka o Bhavya (500-570 ca.) e di Candrakīrti (600-650 ca.), unico di cui abbiamo l'originale sanscrito. Altra opera importante di Nāgārjuna è la Vigrahavyāvartanī (Sterminatrice dei dissensi), pervenuta in sanscrito insieme con un breve autocommento, in cui Nāgārjuna affronta una questione centrale, se cioè la sua critica di ogni posizione filosofica sia da considerarsi essa stessa una posizione (Bhattacharya 1978). Tra le molte altre opere che gli sono attribuite, sono più probabilmente autografe la Yuktiṣaṣṭikā (Le sessanta strofe sul ragionamento), la śūnyatāsaptati (Le settanta strofe sulla vacuità) e il Vaidalyaprakaraṇa (Trattato della polverizzazione [delle dottrine avversarie]; Lindtner 1982).
Diretto discepolo di Nāgārjuna, e strettamente legato al suo pensiero, fu āryadeva (170-270 ca.), autore del Catuḥśataka (Le quattro centurie) e dello śataśāstra (I cento insegnamenti). Qualche secolo dopo Nāgārjuna i Mādhyamika si divisero in due scuole, che in Tibet ricevettero la denominazione di Prāsaṅgika (capeggiata da Buddhapālita e Candrakīrti) e Svātantrika (con Bhāvaviveka); vedi oltre. L'ultimo periodo vide il formarsi di scuole sincretiche, che fondevano l'insegnamento di Nāgārjuna con quello degli Yogācāra e dei logici buddhisti, in cui i nomi più illustri furono quelli di śĀntarakṣita (725 ca.-784) e del suo discepolo Kamalaśīla. Tra le opere indipendenti più importanti vanno menzionati il Madhyamakāvatāra (Introduzione al cammino di mezzo) con l'autocommento di Candrakīrti e il Madhyamakahṛdaya (Il cuore del cammino di mezzo) di Bhāvaviveka con l'autocommento Tarkajvālā (Fiamma del ragionamento), prezioso per i suoi riferimenti dossografici.
L'affermazione centrale della dottrina Mādhyamika è che tutte le cose sono prive di natura propria per il fatto di prodursi in dipendenza l'una dall'altra. Il reciproco condizionamento a cui tutte sono sottoposte fa sì che di nessuna si possa affermare una natura definita e immutabile, dunque che nessuna in ultima analisi 'sia'. Il senso molto restrittivo in cui Nāgārjuna intende il concetto di svabhāva è spiegato nel XV capitolo della Madhyamakakārikā. Come nota Candrakīrti nel suo commento, nel buddhismo il termine svabhāva si incontra in tre diverse accezioni: come proprietà essenziale di una cosa (il calore per il fuoco), come carattere essenziale di un singolo dharma (assoluta particolarità, svalakṣaṇa), come il sussistere indipendentemente da altro. Inteso dunque in quest'ultimo senso, lo svabhāva di Nāgārjuna ‒ è ancora Candrakīrti a parlare ‒ vuol dire: natura non soggetta a mutamento nel passato, presente e futuro, innata, non prodotta, della quale non si può dire che venga in essere dopo non essendo esistita prima, o che sia dipendente da cause e condizioni. Misurata su questo metro nessuna realtà resiste alla critica e ognuna risulta ugualmente 'vuota'. "Quello che è la co-produzione condizionata, questo appunto è per noi la vacuità. Il termine 'vacuità' è da intendersi in senso metaforico: il Cammino di Mezzo non è altro che questo" (XXIV.18). Il pensatore mādhyamika non ignora che affermare una dottrina della vacuità lo esporrebbe a facili critiche. "La vacuità, hanno detto i Vittoriosi, è eliminazione di tutte le dottrine; coloro per cui la vacuità è una dottrina, quelli sono stati chiamati inguaribili" (XIII.8). Come chiarisce Nāgārjuna stesso nella Vigrahavyāvartanī, egli non intende sostituire alle dottrine di cui mostra l'interna contraddizione una differente dottrina, la propria. Ogni tesi (pratijñā) che miri a stabilire l'esistenza di un qualche tipo di entità o dharma con una sua specifica natura ‒ sia essa positiva o negativa ‒ si vota a una sorta di implosione. La posizione mādhyamika è per l'appunto quella di negare la sostenibilità di ogni 'asserzione' incondizionata, attribuendo indistintamente a tutto il reale uno status di verità relativa, includente al suo interno anche il piano di dravyasat 'esistente in modo sostanziale, esistente per davvero' (i dharma), che i Sarvāstivadin avevano creduto di poter opporre al piano di prajñaptisat 'esistente per convenzione'. Tale 'convenzione' era soprattutto convenzione linguistica, e anche il Mādhyamika è fortemente consapevole del ruolo centrale del linguaggio e del suo alter ego ‒ il pensiero discorsivo ‒ nel costruire la 'realtà di copertura' (saṃvṛtisatya), contrapposta alla 'realtà assoluta'. Tuttavia questa divisione non apre la strada a una visione nichilistica (ucchedavāda); come recita la Madhyamakakārikā, "La realtà assoluta non può essere insegnata se non ci si è prima appoggiati sull'ordine pratico delle cose" (la realtà pratica è il mezzo, quella assoluta il fine, commenterà Candrakīrti). Una volta poi raggiunto questo piano, ogni divisione cessa: ci si accorge che il saṃsāra già coincideva col nirvaṇa.
La Madhyamakakārikā mostra l'incongruenza di ogni genere di dottrina o concetto conducendo le loro premesse a conseguenze inaccettabili (prasaṅga 'reductio ad absurdum'), ovvero prendendoli in considerazione in termini di dilemma (è, non è) o di tetralemma (è, non è, è e non è, né è né non è), già presente nei discorsi del Buddha. Buddhapālita, per il quale il Mādhyamika non presenta mai tesi proprie, trasforma tutti i dilemmi e tetralemmi in prasaṅga, in cui le tesi dell'avversario si distruggono da sole; lo svātantrika Bhāvaviveka, invece, li traduce tutti in normali inferenze assertive. Sarà Tson kha pa (Seyfort Ruegg 1986) a tentare una composizione tra queste visioni, che corrispondono ai due modi possibili di intendere il pensiero di Nāgārjuna: per comprendere l'assenza di natura propria, o non-sostanzialità, e la vacuità è necessario che sorgano simultaneamente nello stesso continuum del pensiero tanto una determinazione positiva (della negazione) quanto una determinazione negativa (della natura propria), essendo caratteristica propria del pensiero appunto quella di definire escludendo (pariccheda-vyavaccheda). Appare chiaro che tra Tson kha pa e Nāgārjuna è frapposta la grande stagione della scuola logico-epistemologica del buddhismo.
Yogācāra
Se il Vasubandhu di cui si è parlato in precedenza e il Vasubandhu esponente della scuola Yogācāra ('in cui è la pratica dello yoga', o citta-mātra 'sola coscienza' o vijñaptimātra 'sola rappresentazione') sono effettivamente la stessa persona, allora siamo davanti all'incarnazione stessa di un percorso unitario che va dal realismo dei Sarvāstivādin (con l'Abhidharmakośa) al fenomenalismo dei Sautrantika (con l'Abhidharmakośa-bhāṣya) fino al completo rifluire dell'oggetto nella coscienza. Vista da questa prospettiva, la fase mādhyamika appare come una sorta di vicolo cieco ‒ un vertice insuperabile, ma dal quale non si può che tornare indietro sulla strada maestra. Quest'ultima è rappresentata dal contesto meditativo in cui si sviluppa la filosofia buddhista, fondata sulla centralità della mente rispetto all'oggetto, mente e oggetto che Nāgārjuna aveva parimenti 'sospeso' in una comune assenza di natura propria. La nascita dello Yogācāra avviene, oltre che in un contesto meditativo, entro il generale tono irrealistico o anti-realistico che caratterizza le scritture mahāyāna più antiche, con la loro sfrenata moltiplicazione di spazi e tempi fino a un quasi totale svuotamento fantastico del mondo ordinario. Il primo sūtra che presenta in maniera sistematica dottrine yogācāra‒ ma il termine cittamātra già compare in testi più antichi, quali il Daśabhūmikasūtra (Sūtra dei dieci stadi) e il Bhadrapālasūtra (Sūtra di Bhadrapāla, tradotto in cinese nel 179 d.C.) ‒, il Saṃdhinirmocana (Lo scioglimento dei nodi [nel senso di 'completa esplicitazione dei significati reconditi']; III-IV sec. d.C. ca.) si riferisce per l'appunto a questa linea di sviluppo quando parla di tre successivi movimenti della ruota del Dharma, l'ultimo e definitivo dei quali (nitārtha) è per l'appunto la dottrina della sola-rappresentazione.
La scuola assume la sua forma compiuta tra il IV e V sec. con le opere di Asaṅga (tra cui il Mahāyānasaṃgraha, La sintesi del Mahāyāna) e di Vasubandhu (tra cui la Vimśatikā, Ventina, la Triṃsikā, Trentina e il Trisvabhāvanirdeśa, L'insegnamento delle tre nature), basate su un gruppo di scritture più recenti, da loro anche commentate, attribuite al bodhisattva Maitreya. Secondo una tradizione tibetana, ad Asaṅga che, ormai scorato dall'infruttuosità delle sue meditazioni, si ferma sul ciglio di una strada a soccorrere un cane ferito si manifesta finalmente Maitreya, che gli trasmette cinque sue opere, tre delle quali sono tra i capisaldi dello Yogācāra: il Mahāyānasūtrālaṃkara (L'ornamento dei sūtra mahāyāna), il Madhyāntavibhaṅga (La discriminazione tra il medio e gli estremi) e il Dharmadharmatāvibhaṅga (La discriminazione tra i dharma e la loro essenza). Due dottrine, ricche di implicazioni e di sviluppi sui quali non sarà possibile soffermarsi, stanno al centro dello Yogācāra classico: le tre nature e le otto coscienze. L'intero mondo dell'esperienza è costituito dall'evoluzione della coscienza (vijñānapariṇāma) in otto forme; le prime sei corrispondono ai cinque tipi di cognizioni sensoriali più quella mentale, già individuate nella fase antica del buddhismo, mentre la settima è quella che fa emergere l'aspetto di soggettività. L'ottava, introdotta dallo Yogācāra, è la coscienza deposito (ālayavijñāna), che fa da sostrato latente e inconscio alle altre fornendo loro un apparente contenuto oggettuale attraverso la maturazione di 'semi' deposti nelle esistenze precedenti. La coordinazione e interdipendenza degli infiniti semi karmici depositati in essa produce l'illusione di una realtà esterna condivisa dalle varie menti; tale coscienza deposito rischierebbe di assomigliare fin troppo alla prakṛti del Sāṃkhya, se non fosse per il suo essere, come tutte le altre coscienze, anch'essa istantanea (gli istanti, generando ognuno il successivo, creano l'illusione della continuità). Questa coscienza che continuamente sorge e si dissolve costituisce, fra le tre nature sopra menzionate, quella di mezzo (la natura 'dipendente', paratantra). Il mondo di oggetti esterni che il pensiero discorsivo e il linguaggio proiettano forma la natura 'costruita mentalmente' (parikalpita). Una volta messi a nudo questi ingannevoli meccanismi proiettivi, la coscienza deposito, progressivamente liberata dalle impurità che l'inquinano, a cominciare dalla divisione tra soggetto e oggetto, raggiunge lo stadio di natura 'perfettamente compiuta' (pariniṣpanna).
La posizione degli Yogācāra circa la realtà dell'oggetto esterno non appare univoca, e comunque non è chiaro se, o fino a che punto, all'affermazione che il conoscere si eserciti solo su immagini già interne alla coscienza corrisponda anche la negazione ontologica di ogni realtà esterna. Uno dei testi più citati sulla questione, idoneo a dare un quadro delle possibili ambiguità, è una breve operetta di Dignāga, l'ālambanaparīkṣā (Disamina del supporto [della cognizione]), il cui v. 6 recita in maniera apparentemente inequivocabile: "Quella realtà conoscibile interna che appare come esterna, quella è l'oggetto […]". Dignāga arriva a questa conclusione dopo essersi chiesto a quali condizioni debba soddisfare l'oggetto di una cognizione: deve poterla causare (e dunque essere una cosa 'reale') e avere la stessa forma che apparirà nella cognizione (dunque essere esteso e non di natura sottile). Nessuno degli oggetti proposti dalle scuole realiste (il singolo atomo, il loro aggregato o la loro agglomerazione) è in grado di rispondere a questi requisiti. La conclusione obbligata alla quale si arriva stabilisce quale debba essere la natura dell'oggetto che figura nella conoscenza, ma non dice nulla circa il suo avere o meno un'esistenza 'anche' all'esterno. A una simile interpretazione si presta il principio formulato da Dharmakīrti in un famoso passo del Pramāṇaviniścaya (I.55ab): "In forza della invariabilità del loro essere percepiti sempre in associazione è stabilita la non-differenza tra il colore azzurro e la sua cognizione", al quale fa da pendant un verso di Prajñākaragupta: "Se l'azzurro viene percepito, come è possibile allora dirlo esterno? Se invece non viene percepito, come si potrà [a maggior ragione] dire che è esterno?". (Altri aspetti dell'epistemologia yogācāra sono trattati più avanti).
La scuola logico-epistemologica
La cosiddetta scuola logico-epistemologica del buddhismo è stata a lungo vista come un corpo estraneo penetrato nell'organismo di una grande tradizione spirituale, che avrebbe subito il condizionamento esercitato dalla coeva filosofia brahmanica e imitato passivamente il suo sempre più pronunciato orientarsi verso questo tipo di tematiche. Soltanto recentemente, è stato invece rivendicato (Steinkellner 1982; Franco 1997) il radicamento di questi motivi nella tradizione buddhista stessa ed esplicitata la loro valenza soteriologica. Inoltre va detto che se questi temi trovarono favore anche presso il buddhismo, ciò non deve destare alcuna meraviglia, appartenendo il buddhismo sotto ogni aspetto al filone centrale della filosofia indiana. Dall'incontro-scontro con le nuove dottrine buddhiste, alle quali, anche quando avversate, fu sempre riconosciuto un grande prestigio culturale, la logica e l'epistemologia brahmaniche uscirono profondamente rinnovate.
In apertura della grande stagione della scuola logico-epistemologica del buddhismo troviamo ancora una volta il nome di Vasubandhu, già incontrato come autore di opere sarvāstivādin-sautrāntika e yogācāra. La prima ragionata presa di distanze dalla tradizione di epistemologia e logica espressa dalla cultura brahmanica, e in primo luogo dal Nyāya, avviene con due opere, la Vādavidhi e il Vādavidhāna (entrambi i titoli traducibili come 'Norme della disputa filosofica'), pervenute integralmente soltanto in traduzione tibetana. Alla trattazione dei modi della validazione e confutazione di argomenti, oggetto di entrambe le opere, la Vādavidhi aggiunge quella di temi inerenti alla natura dei mezzi di conoscenza (van Bijlert 1989). Vasubandhu ne ammette soltanto due: percezione e inferenza. La prima viene definita come un conoscere che deriva unicamente dall'oggetto, includendo tanto la percezione attraverso i sensi di oggetti esterni quanto la conoscenza introspettiva di sentimenti ed emozioni. Come l'autore stesso chiarisce, questa definizione mira a escludere la conoscenza sensoriale erronea (per difetti dei sensi, ecc.), la conoscenza concettuale (quella che è frutto di elaborazioni mentali che si sovrappongono al puro dato) e la conoscenza inferenziale. La definizione dell'inferenza è altrettanto rigorosa e in parte innovativa, soprattutto nel suo non accontentarsi, come aveva fatto il Nyāya, della nozione generica di 'relazione' tra probans e probandum: "Inferenza è la percezione di un oggetto inseparabilmente connesso [con un altro oggetto] da parte di chi conosce questa [inseparabile connessione]". Vasubandhu si allontana dalla tradizione brahmanica anche nella formalizzazione dell'inferenza, dove i cinque membri del Nyāya sono ridotti a tre: tesi (pratijñā), esposizione della ragione logica (hetu) ed esempio (dṛṣṭānta). Oggetto dell'inferenza (anumeya) è una specifica proprietà del locus (il fuoco rispetto alla montagna), mentre elemento da dimostrare (sādhya) è la connessione tra i due. La ragione logica consiste nel segnalare la presenza nel locus di un elemento legato con l'oggetto dell'inferenza da un rapporto di invariabile concomitanza, la quale è a sua volta definita come il fatto che un elemento A sia presente in presenza di B e assente quando B è assente. L'esempio presenta situazioni ben note all'esperienza di ognuno in cui tali presenza-presenza e assenza-assenza si verificano.
Dignāga
Se Vasubandhu può essere considerato il precursore della scuola logica del buddhismo, chi ne è l'indiscusso fondatore è Dignāga (480-550 ca.; Frauwallner 1959), che una tradizione vuole discepolo di Vasubandhu. Delle molte opere che gli sono ascritte ‒ tra cui si possono menzionare l'Ālambanaparīkṣā, la Traikālyaparīkṣā (Disamina dei tre tempi), il Nyāyamukha (Introduzione alla logica), la Prajñāpāramitāsaṃgrahakārikā (Stanze di riassunto della Perfezione della Sapienza), il Hetucakraḍamaru (Il tamburo della ruota delle ragioni logiche) e la Vādavidhānaṭīkā (Commento alle Norme della disputa filosofica) ‒ ben poco ci è pervenuto degli originali sanscriti, che si è tentato in più occasioni e con varia fortuna di ricostruire dalle traduzioni tibetane (in qualche caso si dispone solamente della traduzione cinese).
Ultima tra le sue opere è il celebre Pramāṇasamuccaya (Summa dei mezzi di retta conoscenza), sintesi delle concezioni di Dignāga nel campo della logica e dell'epistemologia, che l'autore corredò anche di un breve commento (vṛtti). Per entrambe disponiamo di traduzioni tibetane complete, mentre dell'originale sanscrito sono pervenuti solamente frammenti dovuti ai molti autori che nel corso dei secoli le hanno citate (Hattori 1968). Di grande rilievo è il recentissimo rinvenimento in Cina di un manoscritto sanscrito dell'importante commento di Jinendrabuddhi al Pramāṇasamuccaya, che ne ingloba il testo; ne è attualmente in corso l'edizione e traduzione sotto la direzione di Ernst Steinkellner. Punto di partenza del Pramāṇasamuccaya è l'affermazione che soltanto due mezzi di conoscenza sono ammissibili, percezione e inferenza, e che ciascuno ha un suo esclusivo campo di applicazione, rispettivamente il particolare e l'universale. Già questo costituisce una rottura con la tradizione, in particolare quella nyāya, che sosteneva invece l'applicabilità di diversi mezzi di conoscenza al medesimo oggetto (pramāṇasamplava). Ciò che è stato reso con 'particolare' (svalakṣaṇa) significa alla lettera 'carattere proprio [cioè, diverso da ogni altro]'. Stando a quanto ne dirà Dharmakīrti (da Dignāga il termine non è definito), lo svalakṣaṇa è capace di efficienza causale (arthakriyā; v. oltre), è differente da ogni altro oggetto, non è esprimibile con parole e non è conosciuto in presenza di segni che sono diversi da esso (Pramāṇavārttika, Glosse ai mezzi di retta conoscenza, III.1-2); inoltre, esso è ciò che, in base alla sua vicinanza o lontananza, determina una differenza nella forma che appare nella cognizione (Nyāyabindu, Gocce di logica, I.13). Come chiarisce ulteriormente Mokṣākaragupta, lo svalakṣaṇa è reale, unico, determinato da uno spazio, tempo e forma che sono soltanto suoi; a mo' di esempio, egli menziona una specifica brocca, in grado di contenere acqua, caratterizzata da un tempo, spazio e forma definiti, non diversificata nelle sue molteplici proprietà, differente da quanto appartiene alla sua o a una diversa classe. Lo svalakṣaṇa in senso stretto è una realtà assolutamente indivisa, un istante (kṣaṇa). La percezione è definita come un atto conoscitivo esente da elaborazioni concettuali (kalpanā); nello stesso verso del Pramāṇasamuccaya (I.3) kalpanā è poi a sua volta definita come 'applicazione di un nome proprio, di un nome indicante una classe, e così via.' Quest'ultima definizione, che si presta in realtà a varie interpretazioni (e traduzioni), fa comunque riferimento al requisito dell'assenza nella percezione di ogni elemento appartenente alla sfera della concettualizzazione/verbalizzazione. Dharmakīrti, nel riprendere la definizione di Dignāga, specifica che la percezione deve essere 'non-erronea' (abhrānta) ‒ cioè non condizionata da disfunzioni dei sensi ‒ e rende più sfumata e comprensiva la caratterizzazione di kalpanā, assumendola come 'una cognizione associata a un'espressione linguistica' (Pramāṇaviniścaya) o, ancora più sottilmente, 'una cognizione nella quale ciò che si manifesta è suscettibile di associarsi a un'espressione linguistica' (Nyāyabindu). Nella percezione sono incluse, oltre alle percezioni sensoriali, anche la consapevolezza mentale delle percezioni e delle emozioni e la percezione sovranormale dello yogin.
L'universale, oggetto dell'altro mezzo di conoscenza (l'inferenza), viene concepito in termini solamente negativi: di contro alla sostanzializzazione e reificazione dell'universale operata dai sistemi brahmanici realisti, il suo contenuto è per Dignāga unicamente 'esclusione di quanto è altro' (anya-apoha). La prima formulazione della teoria dell'apoha si trova nel Pramāṇasamuccaya e nel Nyāyamukha, anche se apparentemente la sua applicazione è ancora limitata all'ambito del processo inferenziale e della denotazione delle parole. "La parola esprime cose in quanto qualificate dalla negazione degli altri significati" e "La parola esprime il suo significato attraverso l'esclusione degli altri", si legge in due frammenti di Dignāga sopravvissuti in citazioni. Sarà poi Dharmakīrti a estendere l'applicazione di questa concezione a tutti i campi in cui operano gli universali, cioè in senso lato ai contenuti del pensiero discorsivo (Pramāṇavārttika, I.134). Dunque, linguaggio e pensiero discorsivo non esprimono universali presenti in maniera indivisa nelle singole cose particolari, come affermano i Realisti, ma solamente una differenza (bheda) attraverso l'esclusione di ciò che è altro, ovvero di tutte quelle cose che sono accomunate dal fatto di avere differenti effetti rispetto alla cosa in questione. La natura intrinseca della cosa costituisce la sua differenza, l'esclusione di ciò che è altro costituisce la sua dimensione (potenzialmente) 'comune' (l'esclusione dell'altro dimostra così, tutto sommato, di condividere tutti i caratteri essenziali dell'universale: unità, permanenza e presenza completa in ciascuno dei particolari). Pertanto la parola si applica a quella differenza nella quale l'esclusione dell'altro ha fatto apparire una struttura 'comune'. Come chiariscono Dharmakīrti e poi Jinendrabuddhi, non si tratta di due distinte operazioni, dal momento che la denotazione del significato proprio di una parola comporta di per sé l'esclusione degli altri significati, proprio in quanto il suo proprio significato è la differenza. Tuttavia, aggiunge Dharmakīrti, la differenza non va presa come un'entità reale (vastu) ‒ come non lo è l'esclusione ‒, ma soltanto come un termine relativo. Qualcosa di effettivamente reale sarebbe la 'forma' (rūpa), ma l'oggetto della parola non è la forma ma la differenza. Quasi tutte le discussioni tra i successivi pensatori buddhisti, che cercheranno di riformulare la teoria dell'apoha alla luce delle critiche del Nyāya e della Mīmāṃsā, verteranno su questi punti e si polarizzerano su tre distinte (ma non antitetiche) posizioni: 'la parola esprime soltanto negazione' (Dignāga e Dharmakīrti), 'la parola esprime in primo luogo un'entità positiva e soltanto secondariamente, per implicazione, l'esclusione dell'altro' (Śāntarakṣita e Kamalaśīla), 'la parola esprime un'entità positiva qualificata dall'esclusione dell'altro' (Jñānaśrīmitra e Ratnakīrti). Il potere della parola come fonte e trasmissione della conoscenza risulta dunque limitato in maniera drastica. La cosa, afferma Dignāga (Pramāṇasamuccaya, V.12), a causa dei suoi molti aspetti, non potrà mai essere espressa pienamente da una parola. Funzione di quest'ultima, secondo Dharmakīrti (Pramāṇavārttikasvavṛtti, ed. Gnoli, pp. 62, 64), è soltanto denotare una certa porzione della cosa per il tramite dell'esclusione di ciò che è altro da quella; questo però non vuol dire che la cosa abbia 'parti' ma solamente che appare come associata con svariate cause d'errore circa la sua natura. Compito di una parola è soltanto quello di rimuovere una di queste cause.
A operare con gli universali così concepiti è il secondo dei due mezzi di conoscenza, l'inferenza, la cui definizione è data in Pramāṇasamuccaya II.1: "L'inferenza è di due tipi [l'inferenza per sé stessi e quella per gli altri, v. sopra]. L'inferenza per sé stessi conosce un oggetto tramite un segno che è triplice". Il segno (liṅga) è una proprietà A presente nel locus che serve a far risalire a un'altra proprietà B dello stesso locus. Perché questo possa avvenire devono però essere soddisfatte tre condizioni: A deve essere presente in B, deve essere presente nei casi in cui B è presente, deve essere assente nei casi in cui B è assente (Pramāṇasamuccaya, II.5cd). Il concetto di invariabile concomitanza si coniuga con la nozione di pervasione: l'estensione della classe di B deve essere maggiore (o perlomeno uguale) di quella di A. La conoscenza che ne risulta avrà dunque un carattere generale, senza poter fornire di B alcun carattere specifico. Ciò non significa, notano in seguito altri esponenti della logica buddhista come Dharmottara e Arcaṭa, che l'inferenza si esaurisca in un gioco di astrazioni; al contrario, chi ne fa uso nella realtà ordinaria mira per lo più al particolare. La sua utilità consiste nel permettere, attraverso un'argomentazione in cui figurano solamente astrazioni concettuali, di stabilire l'esistenza, per esempio, di un 'particolare' fuoco che in quel momento non può essere percepito e agire di conseguenza.
L'inferenza per gli altri serve a presentare all'esterno i contenuti di questo interno processo inferenziale (svadṛṣṭārthaprakāśana), in primo luogo formalizzando in maniera convincente il 'triplice segno' (trirūpaliṅgākhyāna), che si articolerà nella 'triplice ragione logica' (hetu). Il primo passo consiste nell'enunciazione di quanto ci si propone di dimostrare (sādhyanirdeśa), nozione questa che può comprendere la proprietà da inferire, il locus di tale proprietà e la connessione tra i due, tenendo comunque presente, come riconosce lo stesso Dignāga in un passo tramandato in molte citazioni, che la differenziazione tra proprietà e possessore di proprietà è soltanto una finzione concettuale senza basi nella realtà, assunta a fini strumentali. Il momento centrale è rappresentato dall'enunciazione della ragione logica, che presuppone una rosa di nove possibili combinazioni tra la proprietà da dimostrare, la proprietà attualmente visibile a essa connessa e che serve a stabilirne l'esistenza, e le relative esemplificazioni positive e negative. Si tratta della cosiddetta 'ruota delle nove ragioni logiche' (hetucakra), che insieme alla teoria del 'triplice segno' costituirà il marchio inconfondibile della dottrina di Dignāga, anche se almeno quest'ultima di certo gli preesisteva.
Resta ora da valutare quali siano i presupposti ontologici di questa sofistica teoria della conoscenza, compito non facile, che diventa se possibile ancora più delicato per l'opera del successore di Dignāga, il grande Dharmakīrti, nel quale una consapevole ambiguità di fondo risulta ulteriormente accentuata. Spunti importanti per una soluzione si desumono dal modo in cui entrambi i pensatori definiscono il rapporto tra il processo del conoscere, in cui agiscono i soli due pramāṇa ritenuti validi, e la conoscenza acquisita. La posizione ultima di Dignāga (Pramāṇasamuccaya, I.8cd-10) e Dharmakīrti (Pramāṇavarttika, III.366-367) è che tra i due momenti ‒ pramāṇa-pramā ‒ non vi è alcuna reale differenziazione. L'apparire alla coscienza dell'oggetto di conoscenza (prameya) non è altro che il presentarsi della coscienza stessa in forma di oggetto (viṣayābhāsa), il pramāṇa è la conoscenza in forma di soggetto (svābhāsa) ovvero la disposizione potenziale della conoscenza a conoscere sé stessa; infine, la conoscenza acquisita è il momento dell'autoconsapevolezza (svasaṃvitti) della conoscenza. La distinzione corrente tra pramāṇa e pramā è il risultato della considerazione analitica di una realtà che è in sé stessa unitaria, l'ipostatizzazione di quanto risulta piuttosto essere una differenziazione di ruoli entro la stessa unica realtà. Anche il tentativo, da un altro punto di vista, di attribuire delle distinte funzioni (vyāpāra) agli elementi che figurano nel processo della cognizione, non può che essere respinto, alla luce della considerazione di fondo che tutti i dharma sono istantanei.
Figura singolare, quella di Dharmakīrti (600-660 ca.), e del tutto atipica nel panorama indiano, dove il singolo autore tende a restare nell'ombra. Un verso a lui attribuito ce ne dà un'immagine altera e sprezzante, piena della consapevolezza della sua superiorità intellettuale come pure della sua 'inattualità': non compone le sue opere per insegnare (tanto nessuno arriverà mai a capirle) ma soltanto per diletto, per passare il tempo, consapevole che alla sua morte i cani le strascineranno in giro e ne faranno scempio. In questo Dharmakīrti si sbagliava, visto che esse avrebbero invece goduto di un immenso prestigio, fra seguaci e avversari, per secoli, rimanendo, dopo la scomparsa del buddhismo dall'India, oggetto di venerazione e di studio in Tibet fino ai giorni nostri. Di certo la loro lettura è assai ardua, sia per l'intrinseca complessità sia per l'inconfondibile concentrazione dello stile, tant'è che nonostante la loro importanza nessuno ancora ha tentato di darne una traduzione integrale. Delle sette opere che gli sono ascritte ‒ i cosiddetti 'sette gioielli', tutti pervenuti in traduzioni tibetane ‒ solamente della principale, il Pramāṇavārttika, abbiamo attualmente l'originale sanscrito, originale che è disponibile quasi integralmente, attraverso citazioni, anche per l'operetta Sambandhaparīkṣā (Disamina della relazione); manoscritti sanscriti anche delle altre opere ‒ per esempio il Pramāṇaviniścaya (Accertamento dei mezzi di conoscenza), il già citato Nyāyabindu, il Hetubindu (Gocce di ragione logica), la Santānāntarasiddhi (Dimostrazione degli altri continua mentali) e il Vadanyāya (Metodo della disputa filosofica) ‒ sono stati recentemente localizzati in Cina, ma non ancora resi accessibili. Sul primo capitolo del Pramāṇavārttika, dedicato all'inferenza per sé stessi (svārthānumāna), Dharmakīrti compose anche un importantissimo commento (vṛtti), che sembra essere stato incluso soltanto successivamente nel suo magnum opus, dedicato all'esame critico delle dottrine di Dignāga.
L'ambiguità di fondo, alla quale prima si accennava, ha reso problematico il tentativo, dopo tutto abbastanza futile, di definire a tutti i costi un'affiliazione a una singola scuola. Dharmakīrti sembra in realtà muoversi tra due registri: un realismo di tipo fenomenalistico, affine a quello dei Sautrāntika, e un assolutismo 'idealistico' di marca yogācāra. Il primo corrisponde al livello della verità relativa, il secondo a quello della realtà assoluta. Le sue opere principali si distribuirebbero su questi due registri, appartenendo prevalentemente il Pramāṇaviniścaya e il Nyāyabindu, tra loro strettamente legati, al primo e il Pramāṇavārttika (in particolare il terzo capitolo, dedicato alla percezione) al secondo. Quando Dharmakīrti nel Nyāyabindu (I.14) afferma che la realtà assoluta corrisponde al 'particolare' (svalakṣaṇa), starebbe dunque restringendo la sua affermazione al piano della realtà ordinaria (nel passo parallelo del Pramāṇaviniścaya aggiunge infatti atra, 'qui'). D'altra parte appare inevitabile che chi si prefigga di indagare sulla natura dei mezzi di conoscenza accetti di rifarsi, se non altro in via provvisoria, alla prospettiva nella quale essi sono autorizzati a operare. Gli oggetti che sono veri in senso assoluto (pāramārthika; rispetto alla sostanziale irrealtà degli universali), vale a dire gli svalakṣaṇa, si legge nel Pramāṇavārttika (I.87), non si uniscono a formare una classe né sono divisibili in sostanze e qualità; se questo avviene, è dovuto esclusivamente all'intervento del pensiero discorsivo. Se dunque l'unico mezzo di conoscenza attendibile è la percezione, nella quale il particolare si riflette nella sua unicità integralmente e senza frammentazioni, il suo contenuto sarebbe però destinato a rimanere inattingibile e incomunicabile, e pertanto incapace di entrare nel circuito dell'umana esperienza, se non fosse per la 'traduzione' operata dal pensiero discorsivo (anumāna, 'inferenza' nel senso più ampio), il quale sebbene da ultimo 'falso' serve però a rendere il contenuto della percezione in qualche modo usabile e a rimuovere cause di errore. D'altra parte, se pure c'è un'assoluta alterità tra la cosa e la sua immagine mentale (sāmānya, 'universale'), nondimeno esiste tra le due un'innegabile coordinazione: l'una è causa dell'altra. Inoltre, da quanto Dharmakīrti dice nel Nyāyabindu, risulta chiaro che i due oggetti di conoscenza (prameya), di cui parlava anche Dignāga, non sono due entità distinte ma solo due modi diversi in cui l'unico esistente (il particolare) è recepito da due diversi mezzi di conoscenza. Ma che cos'è che fa la validità di un mezzo di conoscenza? La definizione di Dharmakīrti (Pramāṇavārttika, II.1) introduce un criterio che è apparentemente assente in Dignāga: il non deludere le aspettative (pragmatiche) del soggetto conoscente (avisaṃvādana), ovvero il permettergli un'azione efficace (arthakriyā). A questo criterio se ne aggiunge forse un secondo (Pramāṇavārttika, II.5c), del resto ben noto anche alle scuole brahmaniche: manifestare un oggetto che non sia stato già conosciuto in precedenza (ajñātārthaprakāśa).
Dharmakīrti fornisce un contributo fondamentale anche alla dottrina dell'inferenza, soffermandosi ad analizzare quale sia il fondamento ultimo della ragione logica (Steinkellner 1971). Due sole relazioni possono aspirare alla qualifica di 'connessione essenziale' (svabhāvapratibandha) tra due cose, o piuttosto ‒ trattandosi di inferenza ‒ tra due concetti: causalità (tadutpatti) e identità (tādātmya). Le sole inferenze da considerarsi valide saranno dunque quelle basate su una proprietà essenziale (svabhāva) ‒ 'questo è un albero perché è una quercia', in cui i due concetti sono coestensivi in quanto il primo abbraccia implicitamente il secondo ed entrambi si riferiscono alla stessa 'cosa' ‒, e sull'effetto (kārya) ‒ 'qui c'è del fuoco perché c'è del fumo' (l'inferenza, invece, che parte dalla causa ‒ hetusāmagrī, 'totalità delle cause' ‒ per arrivare all'effetto, viene fatta rientrare nel primo tipo, l'efficienza causale costituendo la natura stessa della cosa). La sussistenza del rapporto di causa-effetto deve essere stabilita preliminarmente attraverso la concatenazione di un certo numero di percezioni e di non-percezioni delle due entità in questione (Dharmakīrti sembra richiederne complessivamente cinque, contro le tre di pensatori successivi). Dharmakīrti ammette infine un terzo tipo di ragione logica, la non-percezione, anche se poi finisce per considerarla un caso particolare dell'identità: 'Qui non c'è il vaso, perché non se ne ha la percezione'. La percezione dell'assenza del vaso, dice Dharmottara nel suo commento al Nyāyabindu, benché sia in sé distinta da quella della superficie vuota, ha tuttavia una 'connessione essenziale' con essa, così come la conoscenza determinata è legata alla percezione diretta e ne rappresenta lo stadio successivo: lo stesso atto conoscitivo le abbraccia entrambe. Dharmakīrti ritorna più volte in diverse sue opere su questa importante aggiunta rispetto a Dignāga e l'arricchisce di considerazioni e di nuove classificazioni (quattro tipi figurano nel Pramāṇavārttika, otto nel suo autocommento al capitolo sull'inferenza, dieci nel Pramāṇaviniścaya e undici nel Nyāyabindu). Perché dalla positiva percezione di qualcosa (qui lo spazio vuoto) si possa legittimamente passare alla conoscenza dell'assenza della cosa che ci si aspettava di vedere devono essere soddisfatti almeno due requisiti: (1) tutt'e due le cose devono possedere un'uguale capacità di suscitare una certa cognizione così da dover presumibilmente essere associate in uno stesso atto conoscitivo; (2) devono verificarsi tutte le condizioni che rendano un'eventuale visione possibile sia da parte dell'oggetto che del soggetto (la cosa non deve essere invisibile per sua natura, le facoltà sensoriali devono essere integre, ecc.). Come viene poi specificato nelle varie classificazioni, oltre alla forma primaria, 'diretta', di determinazione dell'assenza, ne esistono varie altre, indirette, quali, per esempio, la percezione di qualcosa che sia contraria alla cosa intesa, oppure la percezione dell'effetto di ciò che è a essa contrario, e via dicendo.
La scelta di Dharmakīrti di dare un contenuto positivo ‒ e ancorato prima di tutto alla realtà delle cose e non, com'è nella concezione di Dignāga, soltanto di ordine formale ‒ alla relazione tra probans e probandum, individuandone gli unici tre modi possibili in identità, causalità e non percezione, non è senza conseguenze. Essa comporta un sostanziale incremento sia in termini di rigore sia di semplificazione, rendendo ultimamente superfluo il ricorso alla concordanza negativa (vyatireka) tra probans e probandum, e limitando l'uso delle esemplificazioni (dṛṣṭānta) ai soli casi in cui il probandum non risulti noto all'interlocutore.
Va infine notato che sia Dignāga sia Dharmakīrti non rifiutano l'inclusione, tra i mezzi di conoscenza validi, della testimonianza autorevole, prima tra tutte quella del Buddha, ma la considerano soltanto di pertinenza dell'ambito più generale dell'inferenza. Anzi, non sarebbe impossibile leggere tutta la prestigiosa stagione della logica buddhista come un'interminabile glossa all'epiteto pramāṇabhūta 'che è/è diventato un mezzo di conoscenza' (ma molte diverse traduzioni sarebbero possibili), con cui Dignāga saluta il Buddha nel verso iniziale del Pramāṇasamuccaya.
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