Scienza indiana: periodo classico. Astronomia
Astronomia
L'origine dell'astronomia indiana risale all'epoca vedica (1500-1000 a.C. ca.). Il termine jyotiṣa nella letteratura vedica indica sia la luce sia l'astronomia, ed è usato anche per l'astrologia. Le nozioni astronomiche erano di primaria importanza, poiché i riti sacrificali ‒ il fulcro della cultura vedica ‒ dipendevano da esse. Il più antico testo di astronomia e uno dei testi ausiliari (Vedāṅga) dei Veda è noto come Jyotiṣavedāṅga (Membro ausiliario del Veda sull'astronomia); in esso si legge: "I Veda sono stati rivelati per effettuare correttamente i sacrifici; ma questi sacrifici devono avvenire [devono essere fatti] in accordo con lo scorrere del tempo. Quindi, soltanto colui che conosce l'astronomia, la scienza del tempo, capisce i sacrifici" (Jyotiṣavedāṅga, ed. Kupanna Sastry, 36). Un astronomo era chiamato anche 'calcolatore' o 'esperto di calcolo' (gaṇaka); come fu poi delineato da Varāhamihira nella sua Bṛhatsaṃhitā (Grande raccolta), doveva essere pratico delle varie divisioni del tempo (yuga), quali l'anno, i solstizi, le stagioni, il mese, la quindicina, gli intervalli del giorno e della notte, il muhūrta ('48 minuti') e altre suddivisioni minori, essere capace di individuare i movimenti dei pianeti e le occorrenze delle eclissi, e conoscere profondamente i fenomeni collegati con la rotazione della Terra intorno al suo asse, come pure le differenti costellazioni e i vari metodi per eseguire calcoli (ibidem, 2.1-12).
Il Jyotiṣavedāṅga afferma: "Chi conosce i Veda e chi altresì conosce le leggi dei moti della Luna, del Sole e delle stelle sarà lieto di vivere in un mondo nel quale si muovono la Luna, il Sole e le stelle, e avrà anche sulla Terra una linea di discendenza senza fine" (ibidem, 43). In ogni caso, l'astronomia calendaristica, della quale i sacerdoti vedici erano custodi, era necessaria per fissare le date di festività, matrimoni, e attività agricole quali le semine e così via: una tradizione che è ancora viva tuttora pur fra tante modernità.
Lo scopo di celebrare sacrifici nei momenti vaticinati, che erano determinati in accordo con il calendario vedico, era quello di stabilire una relazione tra il macrocosmo celeste e il microcosmo alla scala terrestre. Esistevano rituali mensili, quali i darśapūrṇamāsa ('riti sacrificali del novilunio e del plenilunio'), e riti stagionali, quali i cāturmāsya ('sacrifici celebrati all'inizio di una delle tre stagioni di quattro mesi'); c'era anche una cerimonia, chiamata gavāmayana (lett. 'l'andare delle vacche'), che era in relazione con l'osservazione diurna dei movimenti del Sole e della progressiva scomparsa della Luna.
Nell'astronomia vedica l'Universo era concepito come diviso in tre parti: il Cielo, l'atmosfera e la Terra. I movimenti del Sole e della Luna erano accuratamente osservati su uno sfondo di 27 o 28 costellazioni, dette nakṣatra. La Luna era indicata come māsakṛt, termine che letteralmente significa 'creatore del mese'. Lo Zodiaco lunare, vale a dire la serie di costellazioni lungo la quale si sposta la Luna durante l'anno, era meticolosamente registrato e i nomi (in sanscrito) di ogni mese lunare (propriamente, mese lunare sinodico, o lunazione, cioè il periodo di tempo, di circa 29,5 giorni, che intercorre tra una Luna piena e la successiva) erano assegnati in base al nakṣatra in cui si aveva la Luna piena. Un anno comprendeva dodici mesi lunari, raggruppati in sei stagioni ognuna delle quali aveva una durata di due mesi; erano presi in considerazione anche mesi solari, calcolati dividendo l'anno in 12 parti, e si ricorreva all'opportuna intercalazione di un appropriato numero di giorni per ottenere un calendario lunisolare. Il Jyotiṣavedāṅga considerava un 'ciclo di cinque anni' (yuga) con un'intercalazione ottenuta aggiungendo dodici giorni a ogni anno di 12 mesi lunari alternativamente di 29 e di 30 giorni, per un totale di 365 giorni, oppure un tredicesimo mese di 30 giorni ogni 30 mesi (due anni e mezzo), sia in un caso sia nell'altro si otteneva un anno medio di poco più di 365 giorni nel quinquennio. Occorre qui parlare di 'anno medio' in quanto nel calendario vedico un anno poteva avere cinque durate differenti, avendosi: (1) un 'anno siderale-lunare' di 12 mesi lunari siderali, ognuno di 27 giorni (il periodo della rotazione della Luna su sé stessa), per un totale di 324 giorni; (2) un anno di 351 giorni, ottenuto aggiungendo al precedente un tredicesimo mese lunare siderale, di 27 giorni; (3) un 'anno sinodico' di 354 giorni, costituito da sei mesi di 29 giorni e sei di 30 giorni, cioè da dodici mesi con durata media di 29,5 giorni, simile all'anno greco attico; (4) un 'anno civile' (sāvana) di 12 mesi di 30 giorni, per un totale di 360 giorni; (5) infine, un 'anno pseudosolstiziale', di 378 giorni.
La conoscenza dei solstizi era discretamente accurata, dal momento che la serie dei sacrifici a cadenza annuale doveva cominciare nel giorno successivo al solstizio d'inverno e il punto di mezzo dell'anno era identificato con il solstizio d'estate; così, i due solstizi dividevano l'anno in due metà, di sei mesi ciascuna. Riguardo al Sole, era stato osservato che esso si spostava tra le stelle della volta celeste per sei mesi a sud dell'equatore e per i sei mesi seguenti a nord.
Il ciclo quinquennale lunisolare (yuga) del Jyotiṣavedāṅga comprendeva, a parte 5 rivoluzioni del Sole (5 anni), 67 mesi siderali lunari (rotazioni lunari), 62 mesi lunari sinodici (lunazioni), 1830 giorni civili (di 24 ore di tempo civile, da una mezzanotte alla successiva), 1835 giorni siderali (il periodo di tempo tra due passaggi successivi di una medesima stella al meridiano di un luogo, circa 4 minuti più breve del precedente, come dire 1835 rotazioni terrestri), 1800 giorni solari (tra due successivi passaggi del Sole al meridiano locale, di durata leggermente variabile durante l'anno), 1860 'giorni lunari' (tithi: tra due successivi passaggi del Sole al meridiano locale di un punto della Luna, circa 24 ore e 50 minuti); una caratteristica della cronologia indiana è che tutte queste ripartizioni del tempo hanno sempre avuto ‒ e hanno tuttora ‒ una grande importanza nei rituali, nelle festività e nei matrimoni hindu.
Nakṣatra
I nakṣatra sono gli asterismi, ossia le costellazioni o anche le singole stelle che servono da sistema di riferimento sulla volta celeste per seguire i movimenti del Sole, della Luna, dei cinque pianeti allora conosciuti (Mercurio, Venere, Marte, Giove e Saturno) e, genericamente, degli astri. è vero che i Babilonesi, i Cinesi e, successivamente, gli Arabi hanno sviluppato sistemi stellari di riferimento simili a quelli indiani con i nakṣatra, ma la lista dei 27 nakṣatra che si trova nella Taittirīyasaṃhitā (Raccolta propria della scuola Taittirīya) che risale al 1000 a.C. ca. ed è tuttora in uso, sembra essere decisamente anteriore alle liste analoghe elaborate in altre culture.
Influenze ellenistiche
L'astronomia vedica fondata su osservazioni a occhio nudo subì alcune trasformazioni nei due o tre secoli prima e dopo l'era cristiana, adottando metodi matematici in conseguenza della forte influenza subita da parte dell'astronomia babilonese e di quella greco-ellenistica. In effetti, nel corso dei secoli l'astronomia calendaristica vedica fu riconosciuta come imprecisa e bisognosa di correzioni derivanti da un più accurato studio dei movimenti del Sole e della Luna, come pure di quelli dei pianeti, con l'applicazione degli appropriati principî della matematica; apparve necessario anche effettuare calcoli più attendibili dei periodi di rivoluzione di questi astri per predire accuratamente l'occorrenza e la durata delle loro eclissi. Cominciò così a essere riconosciuta la speciale importanza della trigonometria sferica e delle equazioni algebriche; i testi di astronomia che furono prodotti durante e dopo questo periodo includevano alcuni rilevanti trattazioni matematiche. In realtà, da allora gli astronomi indiani diventarono anche abili matematici.
Questa nuova specie di letteratura astronomica fu chiamata dei siddhānta (lett., 'esposizione conclusiva', e quindi, estensivamente, 'trattato'), in quanto presentava in forma succinta le soluzioni di molti problemi astronomici, senza entrare nei dettagli dei metodi adottati per giungere a quelle soluzioni. Secondo la tradizione, sarebbero stati composti 18 siddhānta; molti sono andati perduti, ma le parti principali di cinque di essi ‒ Saura, Paitāmaha, Vasiṣṭha, Pauliśa e Romaka ‒ furono accolte da Varāhamihira (inizio del VI sec. d.C.) nel suo compendio intitolato Pañcasiddhāntikā ([Esposizione] dei cinque siddhānta). Varāhamihira considerò come il migliore e il più accurato testo tra questi il Saura che, in una forma modificata intitolata Sūryasiddhānta (Siddhānta di Sūrya), è usato ancora oggi dai compilatori indiani di almanacchi. Quanto agli altri quattro siddhānta, gli elementi astronomici del Paitāmaha siddhānta (Siddhānta di Brahmā) sono più o meno simili a quelli del Jyotiṣavedāṅga. Nel Vasiṣṭhasiddhānta (Siddhānta di Vasiṣṭha) il sistema tradizionale dei nakṣatra fu ampliato con le 12 divisioni in gradi e minuti dei segni zodiacali, di origine greca; questo testo si occupa dei movimenti veri dei cinque pianeti e dei loro periodi di rivoluzione sinodica (ossia l'intervallo di tempo trascorso il quale i pianeti ritornano in congiunzione con il Sole e con la Terra), e, inoltre, fornisce le equivalenze tra rivoluzione sinodica e rivoluzione siderale (congiunzione con determinate stelle), dalle quali si sarebbe potuta dedurre la lunghezza dell'anno solare (circa 365,36 giorni) ‒ sebbene però ci si riferisse all'anno siderale (assunto in 365,25 giorni) ‒, facendo capo anche a vari elementi astrologici greci.
Il Pauliśasiddhānta (Siddhānta di Pauliśa) e il Romakasiddhānta (Siddhānta dei Romani), come indicano i loro nomi, sono probabilmente testi di origine greca. Secondo quanto afferma al-Bīrūnī, lo studioso islamico che ebbe un ruolo di notevole importanza nella trasmissione dell'astronomia indiana agli Arabi durante l'XI sec., Pauliśa sarebbe il nome di un Greco della città di Saintria (Alessandria). Il Pauliśasiddhānta include il calcolo del numero di giorni civili trascorsi da una certa epoca a una certa data, un metodo basato sugli epicicli per trovare la longitudine media dei pianeti, nozioni di trigonometria sferica e sulle eclissi. Il Romakasiddhānta, invece, illustra un ciclo lunisolare di 2850 anni con 1050 mesi intercalari e 16.547 giorni lunari omessi; ciò costituisce una valida indicazione del fatto che il ciclo lunisolare di 19 anni dell'astronomo greco Metone (V sec. a.C.) fosse conosciuto dagli studiosi indiani di quell'epoca; questo testo si occupa in maniera significativa anche del centro del Sole e della Luna, nonché di latitudini e di parallassi.
Sūryasiddhānta
Nell'astronomia indiana il Sūryasiddhānta occupa una posizione singolare. è piuttosto difficile accertare esattamente la paternità dell'opera (sebbene sia attribuita a un certo Lagadha), in quanto essa ha subito varie revisioni periodiche; comunque, essa è stata un testo di riferimento nel corso dei secoli e lo è tuttora. Il Sūryasiddhānta del tempo di Varāhamihira (inizio del VI sec. d.C.) considerava un periodo ciclico di 180.000 anni, mentre nella versione moderna (Brāhmapakṣa) è presente il grande ciclo di 4,32 milioni di anni (mahāyuga) ‒ di cui si parlerà subito dopo ‒ diviso in quattro età (yuga): Kṛtayuga (dell'Oro), Tretāyuga (dell'Argento), Dvāparayuga (del Bronzo) e Kaliyuga (del Ferro); le lunghezze di queste età sono nella proporzione discendente 4:3:2:1, l'ultima comprende, quindi, 432.000 anni (e ha anche un significato mitologico).
Il vecchio Sūryasiddhānta, come del resto anche quello attuale, usa un modello a epicicli per calcolare i movimenti effettivi dei pianeti, con la differenza che in quello vecchio si assume che le dimensioni degli epicicli siano costanti nei quadranti sia pari che dispari, mentre in quello moderno si assume che esse varino; presumibilmente, ciò corrisponde ai metodi adottati dal decano degli astronomi indiani, ossia Āryabhaṭa I, e da pochi altri.
Esiste un gran numero di commentari del Sūryasiddhānta. Questo testo comprende 500 versi in sanscrito ripartiti in 14 capitoli, e si occupa di varie questioni astronomiche: posizioni effettive dei pianeti, congiunzioni di pianeti e asterismi, eclissi di Sole e di Luna, computo cronologico, cosmogonia, strumenti astronomici. Essenzialmente, esso fornisce una serie di regole e di formule di facile memorizzazione.
Letteratura
La letteratura astronomica indiana, prevalentemente in sanscrito (v. il successivo par. 4) si può grosso modo classificare in siddhānta, karaṇa ('manuale di calcolo') e koṣṭhakha ('raccolta di tavole'); di essa inoltre fanno parte anche alcune opere che parlano soltanto di strumenti. I siddhānta sono testi compositi, i cui calcoli cominciano generalmente con l'inizio di un mahāyuga (v. oltre). I karaṇa, che trattano parecchie regole pratiche di calcolo, considerano come punto di partenza per i calcoli l'epoca contemporanea, anziché il mahāyuga; in essi le longitudini dei nodi e degli apogei, a eccezione di quelle della Luna, sono considerate fisse. I koṣṭhakha sono invece raccolte di tavole calcolate generalmente per le posizioni e per pochi altri aspetti dei pianeti.
Dal V fino al XIX sec. d.C., in India, molti astronomi erano anche matematici. Tra essi, una menzione speciale meritano: Āryabhaṭa I (V sec. d.C.); Varāhamihira, Bhāskara I e Brahmagupta (VI-VII sec.); Lalla, Govindasvāmin e Vijayānanda (X sec.); Someśvara e śatānanda (XI sec.); Bhāskara II, Mallikārjuna e Sūryaveda Vaivan (XII sec.); Āmarāja (XIII sec.); Makkhibhaṭṭa, Mādhava e Madanapāla (XIV sec.); Parameśvara, Yallaya, Cakradhara e Nīlakaṇṭha Somayājin (XV-XVI sec.); Jyeṣṭhadeva, śaṅkara Vāriyar, Ganeśa Daivajña e Acyuta Piṣāraṭi (XVI sec.), Viśvanātha, Caṇḍīdāsa, e Rāma (XVII sec.); Putumana Somayāji, Mahārāja Sawai Jayasiṃha e Jagannātha Paṇḍita (XVIII sec.); infine, Śaṅkaravarman (XIX sec.). Un ruolo particolarmente importante ricoprono anche le scuole-famiglie di astronomi-matematici che operarono durante questo periodo in diverse parti dell'India, specialmente Kerala, Maharashtra, Gujarat e Rajasthan. La letteratura astronomica hindu, compresi i commentari sulle maggiori opere, è vasta e generalmente in forma di versi metrici in sanscrito; gli autori introdussero un'innovazione per denotare i numeri dei calcoli astronomici, usando sia numerali sia il cosiddetto 'sistema Kaṭapayādi', basato sulle consonanti, in modo da conformarsi alla metrica dei versi.
Mahāyuga
La concezione di un mahāyuga ‒ chiamato anche caturyuga (lett. '[periodo di] quattro età') dal momento che include le quattro età prima citate ‒ si riferisce al grande periodo di 4.320.000 anni all'inizio del quale si pensava che tutti i pianeti (il Sole, la Luna, Mercurio, Venere, Marte, Giove e Saturno) fossero in congiunzione e che, dopo avere compiuto un numero intero di rivoluzioni intorno alla Terra durante detto periodo di tempo, alla fine di questo si sarebbero trovati di nuovo in congiunzione. A un intervallo di tempo mille volte più lungo, ossia di 4,32 miliardi di anni (nel Brāhmapakṣa), si dette il nome di kalpa. All'interno di questo periodo le varie scuole operarono diverse suddivisioni, dette manvantara ('età di Manu'). Secondo il sistema Ārdharātrika di Āryabhaṭa I (Ārdharātrikapakṣa), un kalpa (4.354,56 milioni di anni) consisterebbe di 14 manvantara di 311,04 milioni di anni oppure di 1008 mahāyuga di 4,32 milioni di anni; dal momento che i quattro yuga sono di uguale durata (1.080.000 anni), a differenza delle altre scuole come Brāhma e Saura, anche le quattro età prima citate sarebbero di uguale durata. Sembrerebbe chiaro che questo enorme periodo ciclico sia stato concepito allo scopo di evitare frazioni decimali nei valori che riguardano le rivoluzioni dei pianeti, i mesi intercalari dell'anno lunisolare, i giorni lunari mancanti, i giorni civili e simili. Un concetto ciclico tanto grande non è rintracciabile in nessun'altra area culturale.
Geocentrismo
L'astronomia indiana era essenzialmente geocentrica, in quanto considerava la Terra come una sfera immobile al centro del Sistema solare. In generale, si pensava che il Sole, la Luna e i pianeti avessero movimenti propri da ovest a est, mentre il movimento degli asterismi sulla sfera celeste era immaginato da est verso ovest. Questa concezione geostazionaria fu modificata da Āryabhaṭa I, il quale, pur mantenendo il geocentrismo, postulò che la Terra ruotasse intorno al suo asse e diede anche una precisa indicazione sul periodo di questa rotazione. Questo schema di Āryabhaṭa I non trovò tuttavia favore presso gli astronomi successivi, a eccezione di Varāhamihira.
Gli astronomi indiani erano attenti osservatori del cielo e riconobbero tutti i dettagli geometrici della sfera celeste rispetto all'osservatore e a un particolare astro, quali l'orizzonte, lo zenit e il nadir, il primo verticale, il circolo orario, il meridiano, l'equatore celeste, l'eclittica, i poli celesti e così via; in base a loro propri calcoli, determinarono il valore dell'obliquità dell'eclittica sull'equatore celeste in 24° (differente per soltanto poco più del 2 % dal valore attualmente accettato di 23°27′). Per influenza dell'astronomia greca, la sfera celeste fu anche divisa in 12 'segni' (rāśi: Meśa, Vṛṣabha, … Mīna) che sono praticamente identici ai simboli dell'animistica astrale e di altre forme dell'astronomia ellenistica; fu fatto un tentativo per mettere in relazione i 27 'asterismi' indiani (nakṣatra) con questi 12 segni, postulando che ogni nakṣatra abbia 4 quadranti e che due nakṣatra e un quarto costituiscano un segno, e questa relazione fu adottata anche per l'astrologia. Si potrebbe osservare che l'astrologia (predittiva) praticata in India avesse parecchi elementi greci. Varāhamihira, come è stato detto, compendiò cinque siddhāntha (Pañcasiddhāntikā), due dei quali erano d'impronta ellenistica; scrisse inoltre un compendio di astrologia noto come Bṛhajjātaka (Grande jātaka), nel quale elogiava gli astronomi e astrologi greci e considerava gli studiosi (ṛsi) indiani meritevoli di un'uguale alta considerazione. Al III sec. d.C. risale un testo astrologico intitolato Yavanajātaka (dove yavana designava in primo luogo i Greci della Ionia, e in generale gli Occidentali) di Sphujidhvaja, probabilmente l'antesignano del Bṛhajjātaka di Varāhamihira. Sembrerebbe, tuttavia, che i siddhāntha Romaka e Pauliśa siano i più antichi testi in sanscrito che abbiano incorporato, insieme con parecchie idee astrologiche, alcuni aspetti delle conoscenze astronomiche greche. Va peraltro osservato che Āryabhaṭa I e altri compilarono tavole trigonometriche soddisfacentemente accurate e apportarono alcune modifiche alle procedure di calcolo ellenistiche, per esempio sostituendo le 'corde' greche con le 'semicorde' o 'funzioni seno', come tali intendendo quantità del tipo Rsenθ, chiamate in sanscrito jyā o jīva. Quando i testi astronomici indiani erano tradotti in arabo, jyā o jīva erano resi con jaib o jeb; quest'ultimo termine fu tradotto in latino con sinus, in quanto l'arabo jeb significa 'tasca' o 'cavità', e poi il latino sinus divenne 'seno' in italiano, sine in inglese, e via dicendo; analoga sorte capitò al sanscrito kojyā, che divenne il latino cosinus, e poi l'italiano 'coseno', l'inglese cosine, e via dicendo; in questo modo furono adottati termini della trigonometria tuttora in uso.
Eclissi
Le eclissi furono attentamente osservate in India sino dai tempi vedici. La causa di un'eclisse di Sole era attribuita a un demone, di nome Svarbhānu. Nel corso dei tempi e in ambiente mitologico fu sviluppato il cosiddetto 'postulato' dei due demoni Rāhu e Ketu per dare conto delle eclissi di Sole e di Luna. è interessante notare che questo 'postulato' indiano pervenne in Cina forse durante il VII-VIII sec., come risulta da un testo astronomico cinese intitolato Jiuzhi li (Calendario Jiuzhi, o dei nove pianeti). In India, i demoni Rāhu e Ketu furono aggiunti sulla volta celeste a Sole, Luna, Mercurio, Venere, Marte, Giove e Saturno in modo tale da formare uno schema di nove pianeti (navagraha) che aveva un significato molto più astrologico che astronomico. L'adorazione di questi nove pianeti è una tradizione ancora praticata in India al fine di ottenere i cosiddetti 'effetti benefici' dei pianeti.
Āryabhaṭa I (V sec. d.C.) diede una spiegazione scientifica delle eclissi dicendo che in un'eclisse solare il Sole era oscurato dalla Luna e in un'eclisse lunare l'ombra della Terra oscurava la Luna. Varāhamihira, nella Bṛhatsaṃhitā, affermò chiaramente che "un'eclisse lunare sarebbe causata dall'ostruzione del disco solare da parte della Luna, e il fatto scientifico è che [il demone] Rāhu non è assolutamente la causa delle eclissi" (5.8-17). Gli astronomi indiani, tuttavia, mantennero queste due entità demoniache; del resto, nella società indiana le eclissi erano aborrite e, quando si verificavano, si compivano riti propiziatori e particolari cerimonie; anche gli attuali almanacchi tradizionali parlano di Rāhu e Ketu nel contesto delle eclissi e raccomandano determinate pratiche di culto per prevenire i possibili effetti deleteri. Esistono molte iscrizioni commemorative di eclissi che citano riti religiosi comprendenti doni elargiti da regnanti e governanti in queste occasioni. Inoltre, Parameśvara, un astronomo del XV sec. del Kerala (India del Sud), ha lasciato una documentazione delle eclissi solari e lunari da lui osservate in modo molto accurato nel corso di circa 50 anni.
Precessione degli equinozi
Quanto alla conoscenza del fenomeno della precessione degli equinozi, il Sūryasiddhānta parla di oscillazione o librazione degli equinozi intorno al punto fisso costituito da Aśvinī (la nostra β Arietis); esso afferma che in un mahāyuga di 4.320.000 anni ci sarebbero 600 oscillazioni in avanti e all'indietro, essendo il periodo di ogni oscillazione di 7200 anni, e che la deviazione massima verso est oppure verso ovest sarebbe di 27°, il che porterebbe a un tasso annuale di precessione di 54″ (il tasso attuale è 50,25″ all'anno). Astronomi come Āryabhaṭa I, Brahmagupta e Lalla non fanno alcun riferimento alla precessione degli equinozi. Sembra invece che Varāhamihira la conoscesse, ma non aveva idea della sua entità. Più tardi, Vaṭeṣvara e Āryabhaṭa II ne parlarono in termini di punti solstiziali. Muñjāla (X sec.) riconobbe il movimento di precessione in base al movimento dei punti solstiziali e calcolò in 199.669 il numero delle rivoluzioni in un kalpa (4,32 miliardi di anni), che darebbe un tasso annuale di precessione di 59,9″; un altro astronomo, Pṛthūdakasvāmin, calcolò un tasso annuale di 56,82″. In ogni caso, la precessione degli equinozi, così essenziale per calcolare accuratamente gli almanacchi, era nota agli astronomi indiani, ma i loro calcoli del suo tasso annuale erano ben lontani dall'essere sufficientemente accurati.
Strumenti
Gli astronomi indiani utilizzavano parecchi tipi di strumenti astronomici. Il Jyotiṣavedāṅga riferisce sull'uso dell'orologio ad acqua di un tipo semplice; il Sūryasiddhānta illustra in dettaglio una clessidra a galleggiamento. Lo gnomone era molto usato, in particolar modo per determinare i punti cardinali. Sono stati descritti strumenti di tipo circolare, semicircolare e ad arco; forse la sfera armillare (golayantra) era il più importante fra questi. Lalla nel suo Śiṣyadhīvṛddhidatantra (Opera per l'accrescimento delle conoscenze degli studenti) afferma: "Proprio come chi conduce un dibattito senza conoscere la grammatica, come chi compie un sacrificio senza conoscere i Veda o come un medico senza esperienza, così un astronomo è totalmente fallito se non conosce la sfera armillare" (14.3). Parecchi testi, come il Sūryasiddhānta e il Siddhāntaśiroṃani (Diadema del siddhānta) di Bhāskarācārya II, contengono dettagliate descrizioni della sfera armillare come prezioso aiuto per comprendere l'astronomia sferica.
Nel periodo medievale cominciò a essere utilizzato un nuovo strumento, l'astrolabio. Esistevano famiglie di costruttori di astrolabi che producevano strumenti metallici abbastanza accurati, di tipo sia sferico sia piano. All'inizio del XVIII sec. un astronomo, il sovrano di Jaipur Sawai Jayasiṃha, diresse la costruzione di osservatori in cinque località, e precisamente Benares, Mathura, Ujjain, Delhi e Jaipur, dotati di strumenti da parete e astrolabi. In questo sforzo, il Mahārāja sembrò aver tratto ispirazione da precedenti osservatori costruiti da Ulugh Beg a Samarcanda. Gli strumenti astronomici nell'osservatorio di Jaipur, la capitale di Jayasiṃha, e in quello di Delhi si sono conservati fino a oggi; essi comprendono enormi meridiane, quadranti azimutali, cerchi meridiani, strumenti cilindrici con un pilastro centrale, quadranti zodiacali, astrolabi e simili.
Jayasiṃha ha lasciato, sotto il titolo Zīg-i Muḥammad Šāhī (sia in persiano sia in sanscrito), un elenco di tavole astronomiche dedicate al re mughal, Muḥammad Šāh, del quale era vassallo. Ora si sa che il Mahārāja conosceva il modo di costruire e di usare il telescopio e anche le nuove tendenze dell'astronomia europea, come, in primo luogo, la teoria eliocentrica del sistema solare; tuttavia, egli aderì alla tradizionale concezione geocentrica. In ogni caso, sotto il suo patrocinio l'astronomo di corte Jagannātha Paṇḍita tradusse in sancrito la versione araba dell'Almagesto di Tolomeo e gli Elementi di Euclide, con i titoli, rispettivamente, Samrāṭsiddhānta (Siddhānta del sovrano universale) e Rekhāgaṇita (Matematica delle rette), e scrisse anche un compendio, intitolato Siddhāntakaustubha (La gemma kaustubha del siddhānta), che riassume le ricerche astronomiche durante il periodo di Jayasiṃha. Costui non era soltanto un illuminato patrono dell'astronomia indiana, ma anche un convinto ammiratore degli astronomi e dell'astronomia sia dell'Islam sia dell'Europa; egli stesso costruì uno strumento per le osservazioni astronomiche, chiamato Jai prakāś yantra (lett. 'strumento della luce di Jai [=Jaya]').
Trasmissioni
L'astronomia indiana fu considerevolmente influenzata, come già accennato, dall'astronomia greca. I primi governatori islamici dell'Asia occidentale erano interessati alla compilazione di calendari accurati e affidabili, soprattutto per scopi religiosi. Prescindendo dalla differenza di religione, i califfi di Baghdad invitarono alcuni astronomi indiani creando così un'interazione tra studiosi islamici e astronomi indiani. Alla fine dell'VIII e nel IX sec., sotto il patronato del califfo al-Manṣūr, il Brāhmasphuṭasiddhānta di Brahmagupta fu tradotto in arabo da Ibn al-Fazārī, con l'assistenza di studiosi indiani, col titolo Sindhind, mentre il suo Khaṇḍakhādyaka formò la base per lo Zīǧ al-Arkand in arabo. Anche l'Āryabhaṭīya di Āryabhaṭa I fu tradotto in arabo da al-Ahwāzī, nella prima parte dell'XI sec., col titolo Zīǧ al-Arǧabhar. In Iran, le tavole astronomiche pahlavī conosciute come Zīg-i Satro-ayār erano basate su metodi indiani di calcolo, secondo al-Bīrūnī; il loro testo fu tradotto in arabo da al-Tamīmī. Del resto, parecchie altre tavole astronomiche arabe erano basate su siddhānta indiani. Lo stesso al-Bīrūnī giocò un ruolo chiave nella trasmissione dell'astronomia indiana mediante le sue opere Kitāb al-Hind e al-Qānūn al-Mas῾ūdī; egli soggiornò per parecchi anni dell'XI sec. nel Nord-ovest dell'India, imparando il sanscrito e interagendo con studiosi indiani, anche se questi ultimi, in verità, erano piuttosto ostili a condividere con lui le proprie conoscenze. Comunque, al-Bīrūnī ebbe modo di esaminare criticamente l'astronomia indiana del tempo, e le sue opere sono una vera e propria miniera d'informazioni su di essa; inoltre, tradusse in arabo un'opera astronomica di Vijayānanda, con il titolo ġurratal-zīǧāt.
Gli elementi dell'astronomia indiana furono conosciuti nell'Europa latina medievale attraverso la traduzione in latino di trattati in arabo di diretta oppure indiretta origine indiana. Verso la metà del XII sec. Abelardo di Bath tradusse in latino la tavole astronomiche di al-ḫwārāzmī; anche nei secoli successivi furono eseguite alcune traduzioni in latino di lavori arabi che contenevano elementi astronomici indiani. Nello stesso periodo ‒ e con procedimento analogo, sia pure in verso opposto ‒ la più avanzata astronomia tolemaica giunse in India in versione araba.
Nell'ambito dell'astronomia indiana occupa un posto a parte la cosiddetta 'astronomia jaina'. L'opera principale è considerata la Sūryaprajñapti (Esposizione del Sole), suddivisa in 20 libri, la stesura della quale è attribuita a Mahāvīra (VI sec. a.C. ca.), il fondatore del jainismo. Intorno al III sec. a.C. un capo spirituale jaina e astronomo di nome Bhadrabāhu, scrisse un commentario alla Sūryaprajñapti; inoltre un riferimento alla cosmografia jaina si trova nell'opera intitolata Jambudvīpaprajñapti (Esposizione del Jambudvīpa).
L'astronomia jaina è piuttosto particolare, poiché considera l'esistenza di due Soli, due Lune e due gruppi di 27 asterismi (costellazioni e stelle notevoli) nel contesto di una altrettanto particolare cosmografia. A fini calendaristici, la Sūryaprajñapti seguiva il Jyotiṣavedāṅga e usava un ciclo di cinque anni, ognuno dei quali consisteva di 366 giorni ed era diviso in due parti di 183 giorni; il calendario jaina considerava anche un anno lunare di circa 354 giorni e un anno di asterismi (nakṣatra) di circa 327 giorni. L'eclittica cominciava col nakṣatra Abhijit (la nostra η Lyrae). L'astronomia jaina seguì quella hindu per le questioni religiose, e non sembra che il buddhismo abbia riconosciuto una posizione particolare all'astronomia; sembrerebbe anzi che lo stesso Buddha ritenesse l'astronomia e l'astrologia forme inferiori di arte e abbia scoraggiato i monaci dallo studiarle, anche se, più tardi, alcuni di loro se ne interessarono.
Nel corso dei millenni è l'astronomia tradizionale, più di ogni altra cosa, che in India ‒ come, del resto, in moltissime altre regioni ‒ ha alimentato la vita religioso-culturale sia dell'élite sia della gente comune. è significativo notare che i governi, sia centrale sia degli stati, dichiarino vacanza per festeggiamenti in giorni indicati negli almanacchi tradizionali e non nel calendario gregoriano; ancora oggi ci sono molte famiglie legate alla produzione di almanacchi tradizionali, indicati col termine Pañcāṅga. Tutti i riti e le cerimonie, compresi i matrimoni, continuano a dipendere da questi almanacchi. L'astrologia, pratica dominante in tutta l'India, deve la sua presunta credibilità alle posizioni degli astri mobili (Sole, Luna e pianeti) calcolate con i metodi tradizionali e alla possibile influenza delle stelle raggruppate nei nakṣatra. L'ethos indiano e l'astronomia tradizionale continuano quindi a essere inseparabili.
di David Pingree
Nell'arco degli ultimi duemila anni tutte le regioni dell'India hanno visto fiorire gli studi di astronomia. Le opere degli studiosi ricordati in precedenza e menzionati nel seguito rappresentano il più vasto patrimonio di materiale astronomico esistente al mondo per quanto riguarda il periodo in esame, anche se quelle menzionate sono soltanto una parte delle opere realmente esistenti. Ci si è basati, infatti, su resoconti riguardanti circa la metà dei tre milioni stimati di manoscritti nelle varie lingue indiane che vertono sulle scienze esatte. Non è soltanto la mancanza di spazio che ha impedito di parlare più diffusamente delle opere di questi studiosi, ma anche la scarsità di studi moderni dedicati a quest'enorme quantità di testi.
Come è stato accennato nel paragrafo precedente, l'astronomia indiana ha svolto un ruolo importante nella storia mondiale dell'astronomia, preservando vestigia di quella greco-ellenistica che sarebbero altrimenti andate perdute, influenzando fortemente la scienza islamica dalla quale si è evoluta la scienza occidentale europea, e formulando numerose soluzioni matematiche a problemi astronomici che meritano di essere conosciute più approfonditamente. Lo studio e l'esposizione dell'astronomia indiana sono una delle necessità più urgenti per la storia della scienza, giacché i milioni di manoscritti che ne testimoniano il cammino non possono sopravvivere a lungo nell'attuale stato di abbandono.
Sia nel Jyotiṣavedāṅga (Membro ausiliario del Veda sull'astronomia) sia nelle raccolte di presagi (saṃhitā) è ben riconoscibile l'influenza mesopotamica nel V e IV sec. a.C. (v. cap. XII). Nell'ambito del Jyotiṣavedāṅga, Lagadha si servì delle funzioni lineari a zig-zag dei Babilonesi per spiegare certi fenomeni periodici (v. Il Vicino Oriente antico, cap. XII, par. 3), il rapporto babilonese fra il giorno più lungo dell'anno e quello più corto e la suddivisione del corso del Sole e della Luna in 27 nakṣatra uguali a imitazione dei 12 segni zodiacali dell'astronomia babilonese; nelle raccolte s'incontrano, oltre ai presagi celesti, atmosferici e terrestri di origine mesopotamica, diverse teorie planetarie basate sui fenomeni fondamentali dell'astronomia planetaria babilonese detti 'fenomeni caratteristici' o 'fenomeni delle lettere greche' (levata e 'setting' eliaci e punti stazionari). Come nelle tavolette cuneiformi coeve, tali fenomeni erano predetti in funzione del tempo (misurato in India in tithi, 'giorni lunari') e della posizione lungo la traiettoria delle stelle e dei pianeti (misurata in India in base ai nakṣatra).
Nella letteratura indiana anteriore alle raccolte di presagi non esiste alcuna testimonianza di osservazioni sistematiche del moto dei pianeti o registrazioni dei risultati di tali osservazioni. Inoltre, il contesto in cui sono presentate tali teorie è quello dei presagi di derivazione mesopotamica e sia i fenomeni sia la metodologia sono attestati come base per la predizione dei fenomeni planetari in testi cuneiformi di epoca anteriore. Ciò mostra come queste teorie siano d'ispirazione mesopotamica anche se non vi è corrispondenza nei singoli particolari.
I parametri del ciclo lunisolare (yuga; v. cap. IX), furono esposti da Lagadha e successivamente ripresi nel I sec. d.C. nel Paitāmahasiddhānta (Siddhānta di Brahmā), il cui inizio è l'11 gennaio 80; è questa però l'ultima volta che tale sistema compare in un testo che non commenta il Jyotiṣavedāṅga, né è a esso direttamente collegato.
Fra il II e il IV sec. d.C. furono composte diverse opere che in varia misura mescolavano elementi del Jyotiṣavedāṅga (quali i tithi, i nakṣatra e il concetto di yuga) con elementi dell'astronomia ellenistica, comprendenti, fra l'altro, metodi babilonesi trasmessi attraverso la traduzione in sanscrito di opere greche. I testi conosciuti risalenti al periodo greco-babilonese includono lo Yavanajātaka (Astrologia genetliaca dei Greci) di Sphujidhvaja, che è un rifacimento in versi datato 269-270 della traduzione in prosa di un testo astrologico greco del 149-150, il cui autore era noto con il titolo di Yavaneśvara; un Pauliśasiddhānta (Siddhānta di Pauliśa), un Romakasiddhānta (Siddhānta dei Romani) e un Vasiṣṭhasiddhānta (Siddhānta di Vasiṣṭha); tutti questi testi furono riassunti intorno alla metà del VI sec. da Varāhamihira nella Pañcasiddhāntikā ([Esposizione dei]cinque siddhānta). Parte di questo materiale compare in cinese nel Jiuzhi li, composto alla corte dei Tang nel 718. Fra gli adattamenti greci di elementi babilonesi presenti in questi testi figurano: l'uso di cicli per determinare le longitudini lunari (per es., 248 giorni equivalenti a 9 mesi anomalistici), procedure di tipo TCA (Testi Cuneiformi Astronomici) per determinare le posizioni dei pianeti; la somma dei valori di una funzione a zig-zag della velocità lunare; il ciclo d'intercalazione di 19 anni dell'astronomo ateniese Metone; il sistema A per i tempi ascensionali dei segni zodiacali. Alla tradizione d'Ipparco risalgono invece la lunghezza di un anno tropico e di un anno giuliano, le teorie della precessione e della trepidazione, il calcolo geometrico delle equazioni solari e lunari, una tavola di seni derivata da una tavola di corde greca, l'uso degli analemmi, le longitudini e le latitudini polari, e molti elementi del calcolo delle eclissi. L'introduzione di queste nozioni astronomiche portò all'elaborazione di un accurato calendario già nel terzo quarto del II sec., come dimostrano le formule di datazione delle iscrizioni indiane (v. La scienza greco-romana, cap. XXI).
di David Pingree
Il più antico adattamento indiano esistente dell'astronomia sferica greca, con i relativi modelli geometrici, è il Paitāmahasiddhānta (Siddhānta di Brahmā, conservatosi come parte del Viṣṇudharmottarapurāṇa (Purāṇa ulteriore del Viṣṇudharma). Il catalogo in esso contenuto delle longitudini e latitudini polari delle stelle principali (yogatārā) dei vari nakṣatra indica che questo testo fu probabilmente redatto intorno al 425 d.C. Diversi elementi fanno pensare che tale data sia corretta; uno dei parametri considerati, la longitudine dell'apogeo solare, fu usato in un testo pahlavico intorno al 450, e Āryabhaṭa, nell'Āryabhaṭīya (Trattato di Āryabhaṭa) da lui composto a Kusumapura, l'odierna Patna, poco dopo il 499, si rifà chiaramente al Paitāmahasiddhānta. L'autore del Paitāmahasiddhānta riesce a riunire in un'unica concezione il sistema sferico greco, che usava modelli geometrici per descrivere il moto del Sole, della Luna e dei pianeti, con la cronologia dell'epica e dei Purāṇa e con il calendario indiano, oltre ad adattare alcuni aspetti della geografia purāṇica in modo tale da armonizzarli con la nuova nozione della forma sferica della Terra. Il sistema è noto come Brāhmapakṣa; il suo ciclo di base conta 4.320.000.000 di anni; nelle tabb. 2 e 3 sono riportati rispettivamente il numero di rivoluzioni dei pianeti in un kalpa o un mahāyuga e le latitudini celesti massime dei pianeti nel Brāhmapakṣa e negli altri sistemi tradizionali Āryapakṣa, Ārdharātrikapakṣa e Saurapakṣa.
Scegliendo di esprimere il moto medio dei pianeti in termini di rivoluzioni intere all'interno di un kalpa di 4.320.000.000 di anni (v. tab. 2), l'autore del Paitāmahasiddhānta diede ai suoi successori la possibilità di alterare il moto medio di un pianeta modificandone il numero delle rivoluzioni, di adeguare la durata di un anno (tradizionalmente gli Indiani adoperano l'anno siderale) cambiando il numero di giorni civili nel kalpa e di modificare la lunghezza di un mese sinodico mutando il numero di giorni civili oppure il numero di rivoluzioni della Luna. Inoltre, supponendo che nel corso di un kalpa ogni pianeta percorra la stessa distanza lineare, che le distanze dei pianeti dal centro della Terra siano inversamente proporzionali alla loro velocità e che un minuto dell'arco dell'orbita lunare sia misurato da un dato numero di yojana (unità di misura lineare equivalente a 11,2 km ca.), era possibile calcolare le dimensioni dell'Universo.
Poco dopo il 499, come detto, Āryabhaṭa scrisse l'Āryabhaṭīya, in cui espose il nuovo sistema di astronomia da lui ideato, l'Āryapakṣa. Allo scopo di semplificare i calcoli del Brāhmapakṣa per la determinazione delle longitudini medie, Āryabhaṭa accorciò lo yuga fondamentale, durante il quale ciascun pianeta orbita un numero intero di volte, riducendolo a un quarto di mahāyuga, ossia a 1.080.000 anni, e dal momento che i pianeti orbitano un numero intero di volte anche in un mahāyuga, il rispettivo numero di rivoluzioni nell'arco di 432.000.000 di anni deve essere un multiplo di quattro; in questo modo, tuttavia, non c'è tempo sufficiente perché gli apogei e i nodi possano orbitare in un mahāyuga e, rimanendo alle longitudini 'corrette' nell'attuale yuga, queste longitudini sono fissate da Āryabhaṭa in modo piuttosto arbitrario e fantasioso.
Il numero di rivoluzioni di ciascun pianeta in un mahāyuga è determinato supponendo una congiunzione media di tutti i pianeti in Ariete (longitudine di 0°) all'alba del 18 febbraio dell'anno ‒3101 a Laṅkā, 3600 anni prima del mezzogiorno del 21 marzo 499. Āryabhaṭa modifica il numero di giorni civili in un mahāyuga in modo che l'intervallo fra le due date contenga esattamente 3600 (in notazione sessagesimale: 1,0,0) volte la lunghezza di un anno espressa in giorni. Allo stesso modo, adegua il numero di rivoluzioni della Luna in un mahāyuga secondo il Brāhmapakṣa, in modo tale che in questo sistema e nell'Āryapakṣa la lunghezza di un mese sinodico medio sia quasi esattamente la stessa. A volte fa riferimento alle rivoluzioni dei nakṣatra, altre volte alle rivoluzioni della Terra, ma mai alla teoria eliocentrica, come si è talvolta sostenuto.
Nel correggere le longitudini medie dei pianeti, Āryabhaṭa fa ricorso ai doppi epicicli del Paitāmahasiddhānta, pur conoscendo la possibilità di considerare il deferente insieme all'epiciclo. Tutti i suoi epicicli planetari sono soggetti a pulsazione, ma in maniera tale da produrre in generale differenze trascurabili nel computo finale delle longitudini reali. La loro origine e giustificazione rimangono un mistero; le altre concezioni astronomiche di Āryabhaṭa, invece, sono per lo più simili a quelle del Paitāmahasiddhānta, anche se meno esaurienti; se ne differenziano comunque nel calcolo della parallasse. L'Āryabhaṭīya fu tradotto in arabo da al-Ahwāzī col titolo Zīj al-Arjabhar (Tavole astronomiche di Āryabhaṭa) intorno all'800.
Nell'Āryabhaṭasiddhānta (Siddhānta di Āryabhaṭa, opera perduta a eccezione di qualche attestazione e di alcuni frammenti, comprendenti fra l'altro una descrizione di strumenti astronomici), Āryabhaṭa ideò un nuovo sistema, l'Ārdharātrikapakṣa, che adotta come epoca la mezzanotte, mentre sia nel Brāhmapakṣa, sia nell'Āryapakṣa, l'epoca (inizio) del giorno è, come si è visto, il sorgere del Sole. La scelta della mezzanotte fa venir meno la necessità di calcolare ogni volta la differenza fra le sei del mattino e l'ora locale del sorgere del Sole. Ciò significa che il corretto inizio del kaliyuga era spostato dalle ore sei del mattino del 18 febbraio ‒3101 a Laṅkā alla mezzanotte del 17-18 febbraio ‒3101 di Laṅkā, quando si supponeva che avesse avuto luogo una congiunzione media di tutti i pianeti in Ariete 0°. Poiché Āryabhaṭa aveva mantenuto le stesse longitudini medie dei pianeti relative al mezzogiorno del 21 marzo 499, fu necessario aumentare il numero di giorni civili, nell'arco di 3600 anni, di 0;15 (=1/4) giorni e, analogamente, aumentare di 300 il numero di giorni civili in un mahāyuga di 432.000.000 di anni. Per il nuovo sistema Āryabhaṭa mantenne lo stesso schema degli yuga che aveva usato nell'Āryapakṣa, modificò il numero di rivoluzioni di Giove (−4) e di Mercurio (−20) in un mahāyuga, arrotondò le longitudini degli apogei e i nodi in maniera tale che diventassero tutti multipli di dieci, e stabilì parametri fissi per gli epicicli.
Lāṭadeva, allievo di Āryabhaṭa, revisionò le versioni più antiche del Romakasiddhānta (Siddhānta dei Romani), del Pauliśasiddhānta e probabilmente del Sūryasiddhānta (Siddhānta di Sūrya); di tali versioni rielaborate Varāhamihira presentò una sintesi nella Pañcasiddhāntikā; tutti e tre i trattati risalgono al 505. Il Sūryasiddhānta rivisto da Lāṭadeva seguiva il nuovo Ārdharātrikapakṣa, ma i moti medi erano modificati mediante l'applicazione di bīja ('correzioni') annuali. L'opera nota dopo il 550 nell'Iran sasanide con il titolo di Zīg-ī Arkand (Tavole astronomiche dell'Arkand; forse dal sanscrito ahargaṇa, 'numero dei giorni trascorsi dall'epoca') era forse una versione in pahlavico del Sūryasiddhānta di Lāṭadeva. Su di essa si fondava il testo di Khusrō Anoširwān intitolato Zīg-ī Šahriyārān (Tavole astronomiche di Šahriyārān).
Si è già menzionato più volte Varāhamihira, un brahmano Maga attivo sotto la dinastia Aulikara, intorno alla metà del VI secolo, nella regione di Avantī (odierna Ujjain); fu autore di numerose opere di grande risonanza sui vari metodi astrologici e sui presagi, oltre che della Pañcasiddhāntikā.
di David Pingree
Nell'ambito dei siddhānta, un'opera che esercitò un'enorme influenza fu il Brāhmasphuṭasiddhānta (Siddhānta corretto di Brahmā), completato nel 628 dall'astronomo Brahmagupta (nato nel 598) a Bhillamāla (l'odierna Bhinmal, nel Rajasthan meridionale), durante il regno di Vyāghramukha della dinastia Cāpa. Nei primi dieci capitoli Brahmagupta riassume e integra considerevolmente il primo testo rappresentativo del Brāhmapakṣa, il Paitāmahasiddhānta; ulteriori integrazioni s'incontrano nei capp. 13-17, mentre il cap. 11 esamina criticamente le dottrine dei predecessori, in particolare Āryabhaṭa; il cap. 19 è dedicato alla gnomonica, il cap. 21 alla cosmologia e il cap. 22 agli strumenti astronomici. Le integrazioni comprendono nuovi metodi per calcolare l'ahargaṇa, ossia il numero di giorni trascorsi dall'epoca, metodi semplificati per trovare le longitudini medie, epicicli a pulsazione del manda ('apice') per il Sole e la Luna ed epicicli a pulsazione del manda e dello śīghra ('congiunzione') per Venere, parametri modificati per gli epicicli, numerose elaborazioni degli analemmi del Paitāmahasiddhānta, le formule corrette per l'ayanadṛkkarman e l'akṣadṛkkarman, e regole complesse per calcolare le congiunzioni tra due pianeti e fra un pianeta e una stella fissa (per quest'ultimo scopo Brahmagupta corregge alcune delle longitudini e latitudini polari delle stelle principali dei nakṣatra indicati nel Paitāmahasiddhānta). I primi dieci capitoli del Brāhmasphuṭasiddhānta (e forse anche altri) furono tradotti in arabo a Baghdad poco dopo il 770 e costituiscono il fondamento della tradizione Sindhind, che influenzò fortemente l'astronomia latina dell'Europa occidentale a partire dal XII secolo. Il Brāhmasphuṭasiddhānta con i commenti di Balabhadra e Pṛthūdakasvāmin fu letto da al-Bīrūnī fra il secondo e il terzo decennio dell'XI secolo. L'ultimo capitolo, il 25, tecnicamente è un karaṇa, ossia un trattato astronomico meno teorico e completo di un siddhānta, con il quale si calcolano le longitudini medie dei pianeti a partire da un'epoca recente anziché dall'inizio del kalpa (ciclo di 4.320.000.000 di anni), dell'attuale mahāyuga o dell'attuale kaliyuga. La sua epoca è il 21 marzo 628.
Il Brāhmasphuṭasiddhānta apparteneva al Brāhmapakṣa, ma Brahmagupta scrisse un secondo trattato, il Khaṇḍakhādyaka (Bocconcini), la cui epoca è il 23 marzo 665; i primi nove capitoli si rifanno all'Ārdharātripakṣa, mentre gli ultimi sei, noti collettivamente come Uttarakhaṇḍakhādyaka (Supplemento al Khaṇḍakhādyaka), adattano i precedenti parametri a quelli del Brāhmapakṣa. Nel 735, sulla base del Khaṇḍakhādyaka, fu composta nel Sind un'opera in lingua araba intitolata Zīǧ al-Arkand.
Contemporaneo di Brahmagupta era Bhāskara, che nel 629 compose un commento all'Āryabhaṭīya a Valabhī (l'odierna Vāḷā in Saurashtra). Scrisse anche due siddhānta che seguivano l'Āryapakṣa, il Mahābhāskarīya (Trattato esteso di Bhāskara), anteriore al Brāhmasphuṭasiddhānta, e il Laghubhāskarīya (Trattato conciso di Bhāskara), successivo; inoltre nel cap. 7 del Mahābhāskarīya Bhāskara espose i parametri dell'Ārdharātrikapakṣa.
Nel corso del VII sec. (secondo la tradizione, nel 683), nell'India meridionale, forse nel Kerala, Haridatta scrisse un'opera in versi che è all'origine del sistema Parahita, il Grahacāranibandhana (Compilazione sul corso dei pianeti), basata sull'Āryapakṣa. Haridatta presenta i moti medi giornalieri dei pianeti e le relative equazioni a intervalli di 3°45′; l'epoca è il 20 marzo 355. In un'altra opera, forse il perduto Mahāmārganibandhana (Compilazione sul grande corso), Haridatta fornì le correzioni di bīja ai moti medi annui dei pianeti, da applicarsi agli anni successivi al 522.
Il primo autore che si servì di tali bīja fu Devācārya, il quale scrisse il Karaṇaratna (Gemma dei karaṇa), probabilmente in Kerala, nel 689. Benché questo trattato appartenga all'Āryapakṣa, Devācārya appare fortemente influenzato dal Khaṇḍakhādyaka di Brahmagupta e cita alcuni versi tratti dal Laghubhāskarīya di Bhāskara.
Un Pauliśasiddhānta (Siddhānta di Pauliśa), composto a Sthāneśvara (l'odierna Thanesar in Punjab) nell'VIII sec., mescola anch'esso elementi ripresi da entrambi i sistemi di Āryabhaṭa, ossia i parametri planetari dell'Ārdharātrikapakṣa e il kalpa dell'Āryapakṣa, con i mahāyuga tradizionali del Brāhmapakṣa. Per far funzionare il sistema, l'autore pospose l'inizio del moto scelto fino al momento in cui fossero trascorsi 648.000 anni dell'attuale mahāyuga; restavano dunque 3.240.000 anni (tre yuga dell'Āryapakṣa) prima del principio dell'attuale kaliyuga, destinato a durare, secondo la tradizione, 432.000 anni. Questo Pauliśasiddhānta fu studiato da al-Bīrūnī. Un'altra opera nota ad al-Bīrūnī era il commento, purtroppo perduto, di Balabhadra al Brāhmasphuṭasiddhānta; probabilmente l'autore fu attivo a Kānyakubja (l'odierna Kanauj nell'Uttar Pradesh) durante il regno di Yaśovarman, che si protrasse dal 725 ca. al 750.
Un importante trattato composto apparentemente intorno alla metà dell'VIII sec. è lo Śiṣyadhīvṛddhidatantra (Opera per l'accrescimento delle conoscenze degli studenti) di Lalla, che probabilmente visse nel Lāṭadeśa (la zona costiera del Gujarat) e menziona Daśapura (l'attuale Mandasor nel Madhya Pradesh). Lalla adotta i parametri relativi ai moti medi dell'Āryapakṣa, ma conserva la struttura tradizionale del mahāyuga del Brāhmapakṣa, facendo dunque a meno di una congiunzione media in Ariete 0° all'inizio del kaliyuga in corso. Per gli anni successivi al 498 aggiunge correzioni annuali per un periodo di 250 anni, ossia fino al 748, la data approssimativa di composizione dello Śiṣyadhīvṛddhidatantra. Una delle caratteristiche più interessanti dell'opera di Lalla è la presentazione, nei capp. 19 e 20, di argomenti di carattere fisico e geometrico contro alcune delle teorie cosmologiche dei Purāṇa e l'adattamento di altre alla teoria della sfericità della Terra. Le sue argomentazioni furono spesso riprese nei trattati teorici posteriori.
Intorno all'800 fu composto, forse nel Sud dell'India, un Sūryasiddhānta in cui i parametri e lo schema cronologico dell'Ārdharātrikapakṣa sono alterati per adattarli al kalpa del Brāhmapakṣa. Il termine post quem è fornito dal fatto che la soluzione del Sūryasiddhānta al problema del carattere non tradizionale del mahāyuga di Āryabhaṭa è superiore a quella fornita in precedenza dall'autore del Pauliśasiddhānta o da Lalla. Il Sūryasiddhānta pone un periodo di quiescenza di 17.064.000 anni all'inizio del kalpa tradizionale; rimangono perciò 1.955.880.000 anni, o 1811 yuga di Āryabhaṭa di 1.080.000 anni ciascuno, fino al presente kaliyuga, di modo che i moti medi in un mahāyuga possono essere tutti multipli di quattro, calcolando che una congiunzione media di tutti i pianeti in Ariete 0° abbia avuto luogo a mezzanotte del 17-18 febbraio ‒3101. Il termine ante quem è dato invece da una citazione dal Sūryasiddhānta che s'incontra in un'opera di Govindasvāmin composta fra l'800 e l'850. Gli epicicli del Sūryasiddhānta sono ancora soggetti a pulsazione, ma in misura assai ridotta. La maggior parte degli altri contenuti di questo testo si trova già nei siddhānta composti prima dell'800; il suo sistema è chiamato Saurapakṣa.
Il Govindasvāmin che nella prima metà del IX sec. citava il Sūryasiddhānta e numerosi altri trattati astronomici nel proprio testo di astrologia Prakaṭārthadīpikā (Luce sul significato evidente), fu anche l'autore del primo commento (bhāṣya) al Mahābhāskarīya di Bhāskara. Viveva in Kerala, come dimostra, tra l'altro, il fatto che fu il maestro di Śaṅkaranārāyaṇa, un astronomo attivo alla corte di Ravivarma (n. 844) di Mahodayapura in Kerala e autore nell'869 di un commento al Laghubhāskarīya di Bhāskara, in cui riferisce di aver osservato l'ombra equinoziale a Kollapurī (oggi Quilon, nel Kerala). Śaṅkaranārāyaṇa menziona anche Sumati, forse l'autore del Sumatitantra (Trattato di Sumati), che segue il Saurapakṣa; questa identificazione è però incerta, dato che il Sumatitantra fa riferimento all'anno Śaka 802, corrispondente all'880 d.C., l'epoca dell'era nepalese. Anche se non è dimostrato che questa è un'interpolazione, il Sumati noto a Śaṅkaranārāyaṇa non può essere l'autore del Sumatitantra composto in Nepal, ossia al capo opposto del subcontinente indiano rispetto al Kerala.
Particolarmente utili sono i commenti di Pṛthūdakasvāmin a testi astronomici sanscriti. Questo autore, che fu attivo a Kānyakubja e a Sthāneśvara, interpretò le due grandi opere di Brahmagupta, componendo un commento al Brāhmasphuṭasiddhānta in cui riporta molte preziose citazioni da testi anteriori che sono andati perduti, e una glossa al Khaṇḍakhādyaka, in cui fornisce alcuni esempi datati all'anno 864.
L'epoca del Karaṇasāra (Essenza dei karaṇa) di Vaṭeśvara è l'899. Sebbene quest'opera non sia sopravvissuta, a quanto risulta, in sanscrito, è menzionata parecchie volte da al-Bīrūnī. Nel 904 Vaṭeśvara compose ad Ānandapura (Vadnagar, nel Gujarat) l'importante Vaṭeśvarasiddhānta (Siddhānta di Vaṭeśvara), che mostra l'influenza dell'Āryapakṣa (compreso Lalla), del Saurapakṣa (per es., a proposito delle rivoluzioni dei pianeti in un mahāyuga) e del Brāhmasphuṭasiddhānta (di cui imita l'impostazione critica confutando lo stesso Brahmagupta). Il Vaṭeśvarasiddhānta fu in seguito integrato e parzialmente sottoposto a revisione da Govinda (forse di Dauraṇḍa).
Uno degli astronomi più originali del X sec. fu Muñjāla di Prakāśa (oggi Prakash, in Maharashtra), la cui opera perduta Bṛhanmānasa (Potere dell'intelletto in versione estesa) aveva come epoca il 932. Dello stesso autore si è conservato però il Laghumānasa (Potere dell'intelletto in versione abbreviata), posteriore al primo; entrambi i testi sono citati da al-Bīrūnī. Gli elementi del Laghumānasa sono in parte derivati dall'Āryapakṣa o dall'Ārdharātrikapakṣa, in parte frutto di un'elaborazione autonoma; molti sono affini a quelli del Saurapakṣa; ma il contributo più straordinario di Muñjāla è una formula per l'evezione della Luna, derivata forse da una versione islamica della teoria lunare di Tolomeo. Il Laghumānasa fu commentato da Praśastadhara nel 958 in Kashmir, ma la maggioranza dei manoscritti proviene dall'India del Sud. Al-Bīrūnī menziona anche un altro karaṇa la cui epoca è il 932, composto da Durlabha di Multan.
Non più tardi della prima metà del X sec. fu redatto un Pārāśarya (Trattato di Parāśara), conosciuto soltanto dai riferimenti che Āryabhaṭa II fa nel Mahāsiddhānta (Grande siddhānta), dove si accetta lo schema del kalpa del Brāhmapakṣa, ma il numero di rivoluzioni, gli apogei e i nodi di ciascun pianeta in un kalpa sono piuttosto particolari. Anche Āryabhaṭa nel Mahāsiddhānta accetta lo schema del kalpa del Brāhmapakṣa, ma fa cominciare i moti dei pianeti 3.024.000 anni dopo l'inizio del kalpa secondo l'esempio del Pauliśasiddhānta e del Sūryasiddhānta, anche se per ragioni diverse. Le rivoluzioni dei pianeti, gli apogei e i nodi sono infatti scelti in maniera tale che le loro longitudini all'inizio dell'attuale kaliyuga (1.969.920.000 anni dopo l'inizio del loro moto) siano 'corrette'. Āryabhaṭa deve aver scritto la sua opera prima del 1100, dal momento che Bhāskara fa riferimento alla tavola delle ascensioni rette dei dṛkāṇa ('decani').
Il Karaṇatilaka (Ornamento dei karaṇa) composto da Vijayananda a Kāśī (l'odierna Benares) nel 966 ci è noto soltanto attraverso la traduzione araba, ġurrat al-zīǧāt, fatta da al-Bīrūnī nel 1026. Il fatto che segua il Saurapakṣa dimostra che a Kāśī, intorno alla metà del X sec., il Sūryasiddhānta si era ormai affermato come testo autorevole.
Uno dei grandi commentatori di testi astrologici, in particolare quelli di Varāhamihira, fu Bhaṭṭotpala, attivo in Kashmir negli anni fra il 960 e il 975. Il suo commento alla Bṛhatsaṃhitā (Grande saṃhitā) di Varāhamihira fu la fonte da cui al-Bīrūnī attinse la maggior parte delle proprie conoscenze sull'antica astronomia indiana. Non è sicuro che Bhaṭṭotpala abbia composto un commento al Sūryasiddhānta, ma si conserva la sua preziosa glossa al Khaṇḍakhādyaka di Brahmagupta, ricca di aggiunte che migliorano il testo originale.
Un altro continuatore dell'opera di Brahmagupta fu Trivikrama di Pratiṣṭhāna (oggi Paithan, nel Maharashtra), il cui Siddhāntatattva (Essenza dei siddhānta) ha come epoca il 978. In questo testo Trivikrama afferma esplicitamente di seguire il Brāhmasphuṭasiddhānta .
Śrīpati, attivo fra il 1030 e il 1060 ca. a Rohiṇīkhaṇḍa (forse l'odierna Rohiṇakheḍa, in Maharashtra), fu un altro astronomo seguace del Brāhmapakṣa; il suo maggior contributo all'astronomia fu il Siddhāntaśekhara (Corona dei siddhānta) che, come l'opera di Trivikrama, è fortemente influenzato dal Brāhmasphuṭasiddhānta di Brahmagupta, anche se introduce la seconda componente (l'udayāntara) nell'equazione del tempo e una versione leggermente modificata della formula di Muñjāla per l'evezione della Luna. Come il contemporaneo re Bhoja, anche Śrīpati adottò una correzione che alterava i moti medi annui dei pianeti secondo il Brāhmapakṣa avvicinandoli a quelli del Saurapakṣa. Tali correzioni sono presumibilmente tratte da una fonte comune, forse del X o degli inizi dell'XI secolo. L'altra opera astronomica di Śrīpati è un trattato sul calcolo delle eclissi lunari e solari composto nel 1039.
Il testo attribuito al re Bhoja in cui sono descritte queste correzioni è il Rājamṛgāṅka (Luna del re), che fissa come epoca il 1042 e fu composto nella capitale del suo regno, Dhārā (l'odierna Dhar, nel Madhya Pradesh). Esistono discrepanze abissali fra i numerosi manoscritti esistenti del Rājamṛgāṅka e lo stato attuale degli studi non permette d'identificare con certezza i contenuti originali dell'opera. Per il momento si può soltanto classificarla fra quelle che seguono il Brāhmapakṣa modificato. Nella maggior parte dei casi i suoi manoscritti appartengono al genere dei koṣṭhaka o sāraṇī, ossia raccolte di tavole astronomiche accompagnate dalle istruzioni per usarle, ma alcuni presentano un testo completo, come se si trattasse di un vero e proprio karaṇa.
Uno dei sudditi di Bhoja, Daśabala, che sembra fosse buddhista e appartenesse a una famiglia originaria di Valabhī (l'attuale Vaḷā, nel Gujarat), redasse il Cintāmaṇi (La gemma del pensiero), che consiste in una tavola astronomica per il calcolo dei tithi, nakṣatra e yoga; la sua epoca è il 1055 e segue l'Ārdharātrikapakṣa, così come il trattato composto da Daśabala nel 1058, il Karaṇakamalamārtaṇḍa (Sole sui loti dei karaṇa), che prende in prestito varie strofe dal Rājamṛgāṅka.
Di poco anteriore a Daśabala, Varuṇa di Cārayyāṭa nell'Uruṣādeśa (l'odierna Hazara a ovest di Srinagar, oggi appartenente al Pakistan) è l'autore di una glossa al Khaṇḍakhādyaka di Brahmagupta, in cui fornisce esempi databili agli anni fra il 1036 e il 1044.
Al capo opposto dell'India, nel Kerala, Udayadivākara scrisse nel 1073 la Sundarī (La bella), un commento al Laghubhāskarīya di Bhāskara. La grande importanza di quest'opera sta nel fatto che in essa Udayadivākara cita i versi in cui Jayadeva annuncia la soluzione al problema delle equazioni indeterminate di secondo grado.
Due trattati del genere karaṇa estremamente popolari furono compilati verso la fine dell'XI secolo. Brahmadeva di Mathura (nell'Uttar Pradesh) compose il Karaṇaprakāśa (Luce dei karaṇa), che assume come epoca il 1092, e poiché segue l'Āryapakṣa fu più diffuso nell'India meridionale che in quella occidentale. Śatānanda di Puruṣottama (l'odierna Puri in Orissa) scrisse la Bhāsvatī (La luminosa), che assume come epoca il 1099 e, seguendo l'Ārdharātrikapakṣa, fu popolare nel Nord e nell'Est dell'India.
Il secolo successivo fu dominato dal grande Bhāskara di Vijjaḍaviḍa (l'attuale Beed o Bhir, in Maharashtra), che nacque nel 1114 in una famiglia di noti astronomi; egli nella sua ultima opera databile assunse come epoca il 1183. Il più importante contributo di Bhāskara agli studi astronomici indiani rimane il Siddhāntaśiromaṇi (Diadema dei siddhānta), terminato nel 1150, con il relativo commento da lui stesso composto. Il Siddhāntaśiromaṇi fu l'ultimo trattato a godere di ampio credito in tutta l'India; pur appartenendo al Brāhmapakṣa, contiene comunque numerosi miglioramenti, quali, per esempio, una tavola di seni più accurata e formule per trovare il seno della somma di due angoli; e ancora, la correzione dell'arcus visionis dei pianeti e delle latitudini di alcune fra le stelle principali dei nakṣatra. Bhāskara escogita inoltre diverse brillanti soluzioni matematiche a vari problemi astronomici; per questo appare ugualmente ingegnoso nel Karaṇakutūhala (Meraviglia dei karaṇa), la cui epoca è il 1183. Gli si attribuisce anche un commento, conservatosi però soltanto parzialmente, allo Śiṣyadhīvṛddhidatantra di Lalla.
Il nipote di Bhāskara, Caṅgadeva, astrologo di corte di Siṅghaṇa, re della dinastia Yādava di Devagiri (l'attuale Daulatabad, nel Maharashtra), fondò nel 1207 una scuola brahmanica per lo studio delle opere di Bhāskara. Frutto delle ricerche condotte in questa scuola sono forse alcune raccolte di tavole astronomiche che seguono il Brāhmapakṣa: la Laghukhecarasiddhi (Computazione breve dei pianeti) sui pianeti, scritta da Śrīdhara, che adotta come epoca il 1227; e la Śīghrasiddhi (Calcolo immediato; l'epoca è il 1278) su tithi, nakṣatra e yoga, redatta da Lakṣmīdhara, poi rivista fra il 1618 e il 1628 da Janārdana nella Brahmāryopakaraṇasiddhi (Calcolo supplementare del Brāhmapakṣa e dell'Āryapakṣa), composta a Saṅgamanera (oggi Sangamner, nel Maharashtra). Lakṣmīdhara e Janārdana mettono a confronto il Brāhmapakṣa con l'Āryapakṣa; in questo furono seguiti nel XVII sec. da Vidyādhara.
Nell'ambiente della suddetta scuola brahmanica ebbe forse origine anche un commento al Karaṇakutūhala di Bhāskara, presumibilmente scritto verso il 1275.
di David Pingree
Il Gujarat vide una considerevole fioritura degli studi di astronomia sotto le dinastie Caulukya e Vāghela (940 ca.-1300 ca.). In una data non meglio precisata tra la fine del X sec. e il XII sec. Someśvara scrisse un commento all'Āryabhaṭīya di Āryabhaṭa, che si rivela un riassunto di quello di Bhāskara. Secondo quanto afferma Āmarāja, Someśvara avrebbe commentato anche il Khaṇḍakhādyaka (Bocconcini) di Brahmagupta.
Āśādhara compilò un insieme di tavole per il calcolo delle longitudini dei pianeti, il Grahajñāna, che adotta come epoca il 1132 e appartiene al Brāhmapakṣa; si basa infatti sul Rājamṛgāṅka (Luna del re) di re Bhoja. Nel XV sec., o agli inizi del XVI, ne fu redatta una versione ampliata, che fu la fonte principale a cui attinse il Gaṇitacūḍāmaṇi composto da Harihara, membro del Girinārāyaṇajñāti, intorno al 1580. Il padre di Āśādhara, Rihlaka o Rihluka, potrebbe forse essere l'astronomo Rīhlīya citato da Āmarāja, perché corresse uno dei bīja di Durga.
Il prolifico scoliaste jaina Malayagiri scrisse commenti ai testi canonici jaina di astronomia, la Candraprajñapti (Esposizione della Luna) e la Sūryaprajñapti (Esposizione del Sole), nel terzo quarto del XII secolo.
Nello stesso periodo Trivikrama, il maestro di Āmarāja, scrisse un supplemento al Khaṇḍakhādyaka, il Khaṇḍakhādyakottara (Supplemento al Khaṇḍakhādyaka), spesso citato dai suoi discepoli, in cui fornisce due serie di bīja per convertire i moti medi dei pianeti dell'Ārdharātrikapakṣa in quelli del Brāhmapakṣa adattato; la seconda serie è invece relativa ai bīja per il 1180.
Lo stesso Āmarāja (o Āmaśarman) verso il 1200 scrisse l'importante Vāsanābhāṣya al Khaṇḍakhādyaka. La rilevanza di questo commento sta sia in ciò che rivela sul modo con il quale l'astronomia era insegnata in India, sia nelle sue numerose citazioni da testi che sono andati perduti.
Uno studioso del Gujarat, appartenente all'Audīcyajñāti, Keśavārka, compose sulle rive del fiume Tāptī, nel punto in cui sfocia nell'oceano (vale a dire a Surat o nei suoi dintorni) il Karaṇakanthīrava, aderente al Brāhmapakṣa e la cui epoca è fissata al 1248.
Mahādeva, nipote di Āmarāja, nel 1259 scrisse un commento al Cintāmaṇi di Daśabala; anch'egli, come lo zio, cita dall'Ādityapratāpasiddhānta (Siddhānta di Ādityapratāpa).
di David Pingree
Nell'India meridionale, escludendo il Kerala, furono attivi fra il XII e il XIX sec. numerosi astronomi, per la maggior parte commentatori piuttosto che autori di trattati o di tavole astronomiche.
Il più antico di questi commentatori è Mallikārjuna di Veṅgīdeśa (l'odierna Pedda-Vegi, nell'Andhra Pradesh), che scrisse un commento in lingua telugu al Sūryasiddhānta e, successivamente, un commento (vyākhyā) in versione sanscrita dello stesso testo, dove fa riferimento all'anno 1178. Quest'ultimo è già citato nel 1185 da un autore di Mithilā, Caṇḍeśvara, nel suo commento (bhāṣya) al Sūryasiddhānta. Mallikārjuna menziona il 1178 anche nel commento allo Śiṣyadhīvṛddhidatantra (Opera per l'accrescimento delle conoscenze degli studenti) di Lalla; inoltre, è l'autore di un Tithicakra basato su un ciclo di 60 anni, la cui epoca era probabilmente il 1147.
L'astronomo successivo di cui si ha notizia è Sūryadeva, che nacque lunedì 3 febbraio 1192 e visse a Gaṅgapura (l'odierna Gaṅgī-koṇḍ-Colapuram, in Tamil Nadu); fu autore di vari subcommenti: uno al Mahābhāskarīya di Govindasvāmin; un altro, il Bhaṭaprakāśa (Luce sul trattato di Āryabhaṭa) all'Āryabhaṭīya di Āryabhaṭa; un terzo al Laghumānasa di Muñjāla; in quest'ultimo commento menziona l'anno 1248. Poco prima del 1370 Viddaṇa scrisse, presumibilmente in Karnataka, un Vārṣikatantra. L'epoca prescelta è l'inizio del kaliyuga, quando le longitudini medie di tutti i pianeti si trovavano in Ariete 0°. Makkibhaṭṭa, di cui s'ignora il luogo esatto di origine nell'India meridionale, scrisse un dotto Gaṇitabhūṣaṇa (Ornamento della matematica) al Siddhāntaśekhara di Śrīpati, nel quale si fornisce un esempio datato 1377 e si fa riferimento a numerosi altri testi.
Un commento al Sūryasiddhānta intitolato Subodhinī ([Commento] che illumina pienamente) fu scritto nel 1472 da Rāmakṛṣṇa Ārādhya in una località ignota dell'India meridionale. Tutto quello che per il momento si conosce di quest'opera è l'importante citazione in essa contenuta di versi che descrivono strumenti astronomici, tratti dal perduto Āryabhaṭasiddhānta (Siddhānta di Āryabhaṭa) di Āryabhaṭa.
Alcuni anni più tardi un astronomo di nome Yallaya fu attivo a Skandasomeśvara (presso Śrīśaila, nell'Andhra Pradesh). Nel 1480 scrisse una glossa integrativa al Bhaṭaprakāśa di Sūryadeva, nel 1482 la Kalpalatā, un commento al Laghumānasa di Muñjāla e, in data imprecisata, la Kalpavallī al Sūryasiddhānta.
Più di un secolo dopo, nel 1597, Raghunātha di Ahobila nell'Andhra Pradesh compose una glossa all'Āryabhaṭīya di Āryabhaṭa. Nel 1599 Tammayajvān scrisse la Kāmadogdhrī al Sūryasiddhānta a Paragīpurī (l'attuale Pargi, nell'Andhra Pradesh), nonché un testo intitolato Grahagaṇitabhāskara (Luce sui calcoli riguardanti i pianeti).
In una data imprecisata, in Tamil Nadu, Cola Vipaścit compose un commento al Sūryasiddhānta, mentre Bhūtiviṣṇu di Hastikṣmābhṛt (Kanchipuram, in Tamil Nadu) scrisse il Bhaṭapradīpa, un commento all'Āryabhaṭīya di Āryabhaṭa e uno al Sūryasiddhānta, il Gurukaṭākṣa, dove è citato il Siddhāntaśekhara di Śrīpati.
Kerala
La tradizione più innovativa in campo sia matematico sia astronomico fu quella che fiorì in Kerala tra la fine del XIV sec. e gli inizi del XIX; essa, nonostante i numerosi secoli di attività, rimase isolata dal resto dell'India, che perciò non poté beneficiare dei suoi risultati. Abbiamo già parlato di alcuni dei più eminenti astronomi del Kerala, cioè Haridatta, Govindasvāmin e Śaṅkaranārāyaṇa. Sembra che sul sistema Parahita di Haridatta, facente parte dell'Āryapakṣa, siano fondati i vākya lunari spesso attribuiti a Vararuci. Tali vākya si servono di tre periodi: uno di 449 mesi anomalistici (= 12.372 giorni), un altro di 110 mesi anomalistici (= 3031 giorni) e il terzo di 9 mesi anomalistici (= 248 giorni). Di questi, gli ultimi due compaiono nel Vasiṣṭhasiddhānta riassunto da Varāhamihira nella Pañcasiddhāntikā e, ancor prima, nei papiri greci, mentre il terzo è attestato nelle tavolette cuneiformi del periodo seleucide. Intorno al 1300, per analogia con questi vākya lunari, fu inventato (forse a Kanchipuram, nel Tamil Nadu) un sistema di vākya per i pianeti basato su multipli di periodi sinodici contenuti in un numero intero di giorni. Il Vākyakaraṇa, l'autorità principale in materia di vākya, adotta come epoca il 22 maggio 1282; fu commentato agli inizi del XVI sec. da Sundararāja di Viprasadgrāma (Andaṇa-nal-lur, presso Tiruchirapalli, nel Sud del Tamil Nadu).
I membri della scuola del Kerala amavano particolarmente i vākya; infatti il fondatore della scuola, il brillante matematico Mādhava di Saṅgamagrāma (Iriñjalakkuḍa presso Cochin, nel Kerala) si occupò dei vākya lunari nella Sphuṭacandrāpti, nel Veṇvāroha (che fa riferimento al 1403) e nei Viliptādivākyāni, e dei vākya planetari nell'Agaṇitagrahacāra (che si riferisce agli anni fra il 1236 e il 1418).
Un discepolo di Mādhava, Parameśvara, residente ad Aśvattagrāma (Ālattūr, in Kerala), osservò una serie di eclissi fra il 1393 e il 1432, e sulle eclissi compose un trattato, il Grahaṇamaṇḍana, la cui epoca è il 1411, nonché la Grahaṇanyāyadīpikā e il Grahaṇāṣṭaka; scrisse un'opera sui vākya e commentò alcuni testi di riferimento: il Mahābhāskarīya e il Laghubhāskarīya di Bhāskara, nel quale menziona l'anno 1408; il commento al Mahābhāskarīya di Govindasvāmin, in cui riporta in dettaglio le sue osservazioni delle eclissi; il Laghumānasa di Muñjāla, in cui menziona l'anno 1409; l'Āryabhaṭīya di Āryabhaṭa; il Sūryasiddhānta, dove fornisce la precessione per il 1432. Scrisse anche due opere sull'astronomia delle sfere intitolate Goladīpikā; la prima, accompagnata da un proprio commento, è del 1443; inoltre compose un Candracchāyāgaṇita sulla teoria lunare. Il suo trattato teorico più importante, comunque, fu il Dṛggaṇita composto nel 1431, in cui dichiara che il suo intento è di correggere il sistema Parahita; i moti medi dei pianeti sono essenzialmente quelli del Saurapakṣa, mentre le longitudini degli apogei, a eccezione di quello di Saturno, sono riprese dal Laghumānasa di Muñjāla. Parameśvara non accetta la congiunzione media dei pianeti all'inizio dell'attuale kaliyuga e il suo principio fondamentale è invece che i criteri basilari per la scelta dei modelli e dei parametri astronomici debbano fondarsi sui dati dell'osservazione.
In questo fu seguito da un brillante allievo di suo figlio Dāmodara, Nīlakaṇṭha Somayājin, nato nel 1444 a Kuṇḍapura (Tṛkkaṇṭiyūr, nel Kerala), che sostenne con vigore questo punto di vista nella Jyotirmīmāṃsā scritta nel 1504. Le sue innovative teorie astronomiche sono presentate in tre trattati: il Golasāra, il Siddhāntadarpaṇa (corredato da un autocommento) e l'importantissimo Tantrasaṅgraha del 1501, che esercitò un'enorme influenza. Benché riprenda elementi dall'Āryapakṣa, dal Saurapakṣa e dal Dṛggaṇita, Nīlakaṇṭha mostra di avere una piena padronanza dell'approccio inaugurato da Parameśvara nel tentativo di riformare l'astronomia indiana, affinché i calcoli concordassero con le osservazioni. Nīlakaṇṭha, sull'esempio di Parameśvara, scrisse un altro Candracchāyāgaṇita, con il relativo commento, e un Grahaṇanirṇaya, che è andato perduto, ma forse il suo contributo più straordinario è il ricco commento (bhāṣya) all'Āryabhaṭīya di Āryabhaṭa, composto poco dopo il 1501. Era in corrispondenza con Sundararāja, l'astronomo del Tamil Nadu autore di un commento breve al Vākyakaraṇa.
Un altro allievo di Dāmodara fu Jyeṣṭhadeva, anch'egli di Aśvattagrāma, autore di una Yuktibhāṣā in lingua malayalam, dedicata alle nozioni di matematica e di astronomia necessarie per leggere il Tantrasaṅgraha di Nīlakaṇṭha, e forse anche della versione sanscrita della stessa opera, nota come Gaṇitayuktibhāṣā.
Nīlakaṇṭha ebbe un allievo chiamato Citrabhānu, originario di Śivapura (Covaram, presso Trichur in Kerala), che scrisse un Karaṇāmṛta nel 1530, benché adotti come epoca il 1507. Un altro discepolo di Nīlakaṇṭha fu Śaṅkara Vāriyar di Śrīhutāśa (Tṛkkuṭaveli, presso Ottappālam in Kerala), autore di due preziosi commenti al Tantrasaṅgraha del suo maestro, la Yuktidīpikā, che è in larga parte la resa in versi della Yuktibhāṣā di Jyeṣṭhadeva, e la Laghuvṛtti. La prima opera fu scritta prima del 1534, la data del Kriyākramakarī di Śaṅkara alla Līlāvatī di Bhāskara, commento in cui Śaṅkara cita numerosi versi dalla Yuktidīpikā. Śaṅkara compose anche una Pañcabodhavyākhyā nel 1529 e un Karaṇasāra la cui epoca è il 1554.
Un altro astronomo coevo, anch'egli chiamato Śaṅkara, nacque nel 1494 nella famiglia Mahiṣamaṅgala di Perumanam, presso Trichur. Fu autore di numerose opere sull'astronomia in lingua malayalam, che attendono di essere studiate, fra cui un Gaṇitasāra, un Candragaṇitakrama, un Ayanacalanādigaṇita, oltre ad alcuni commenti al Laghubhāskarīya di Bhāskara e a diversi Pañcabodha.
Allievo sia di Citrabhānu sia dello Śaṅkara della famiglia Mahiṣamaṅgala fu Nārāyaṇa, membro della stessa famiglia, che completò il Kriyākramakarī di Śaṅkara Vāriyar e scrisse l'Uparāgakriyākrama sul calcolo delle eclissi lunari e solari.
Acyuta Piṣāraṭi di Kuṇḍapura (Tṛkkaṇṭiyūr) fu allievo di Jyeṣṭhadeva; fra le sue opere astronomiche ci sono il Karaṇottama, scritto prima del 1596 e corredato da un autocommento; l'Uparāgakriyākrama, del 1593; lo Sphuṭanirṇaya, scritto durante il regno di Ravivarma, sovrano di Prakāśa (Veṭṭattunād in Kerala), fra il 1593 e il 1607; il Chāyāṣṭaka; probabilmente l'Uparāgaviṃśati; il Rāśigolasphuṭānidhi, sulla riduzione all'eclittica della longitudine della Luna calcolata sulla sua orbita, e una glossa in malayalam sul Veṇvāroha di Mādhava. Acyuta morì nel 1621 e con lui s'interruppe la guruparamparā della scuola del Kerala, ossia la trasmissione ininterrotta della tradizione da maestro ad allievo, tuttavia gli studi astronomici continuarono ancora per qualche secolo.
Un anonimo brahmano Nampūtiri della famiglia Iṭakramañceri di Perumānūr, nel Kerala, nel 1665 scrisse un Bhadrādīpagaṇita in sanscrito misto a malayalam e forse fu anche l'autore di un'opera in malayalam, il Bhūgolanāya, sulla sfericità della Terra e del Cosmo. Un Puruṣottama, del quale non sappiamo altro, scrisse un Pañcabodhaśataka di cui si è conservata la sezione dedicata alle eclissi; la sua epoca è il 1699. Somayājin, membro della famiglia Putumana di Śivapura (Covaram, presso Trichur) compose una Karaṇapaddhati, a quanto sembra verso il 1733. Egli è forse anche l'autore del Gaṇitagrantha, del Grahaṇagaṇita, del Grahaṇāṣṭaka, del Nyāyaratna, del Pañcabodha, del Veṇvārohāṣṭaka e di una glossa al Laghumānasa di Muñjāla. Un membro anonimo della famiglia Āzhvāñceri Tamprākkal compose il Jyotiśśāstrasaṅgraha, diviso in due sezioni, la prima delle quali menziona l'anno 1756. Nel tardo XVIII sec. un brahmano del gotra ('lignaggio') Bhāradvāja scrisse il Karaṇadarpaṇa e le Gaṇitayukti, dedicate ai fondamenti logici dei calcoli astronomici. Kṛṣṇadāsa, residente del distretto di Tiruvalla, in Kerala, vissuto fra il 1756 e il 1812, fu autore di un trattato in versi, il Pañcabodhagaṇita, e di un commento alla sezione Daśagītikā dell'Āryabhaṭīya di Āryabhaṭa, entrambi in lingua malayalam. Ghaṭīgopa scrisse intorno al 1800 una glossa in malayalam, in due versioni, e un commento in sanscrito all'Āryabhaṭīya. Goda Varman (morto nel 1851), che apparteneva alla famiglia reale di Koṭungallūr, presso Cochin, scrisse una glossa in sanscrito al Siddhāntaśiromaṇi (Diadema dei siddhānta) di Bhāskara. Śaṅkara Varman, membro della famiglia reale di Kaṭattanāt, nel Kerala settentrionale, nel 1823 compose un'opera sulla tradizione matematica e astronomica della scuola del Kerala, la Sadratnamālā. Subrahmanya Śāstrin (1829-1888) di Nalleppalli, presso Cochin, scrisse l'Agaṇita, che presenta il sistema dei vākya ('calcoli dei processi lunari o planetari'). Infine, Rāma Varman (1853-1910) di Chirakkal, nel Kerala settentrionale, fu autore di un'introduzione all'astronomia della scuola del Kerala intitolata Jyotiśapradīpa.
di David Pingree
Per quanto ricca sia stata la produzione della scuola del Kerala, fra il XIV e il XVIII sec. l'India occidentale e centrale, con alcune opere provenienti dal Nord, fu la regione più feconda nella creazione di trattati astronomici, in particolare del genere karaṇa e koṣṭhaka (rispettivamente, trattati non esaustivi e tavole astronomiche con istruzioni per usarle). Innanzitutto vanno menzionati quattro brevi trattati, tutti appartenenti al Saurapakṣa, di cui s'ignorano la data e il luogo di composizione: il Somasiddhānta, con il commento Gūḍhārthadīpikā di Nṛsiṃha, attivo a Koṇḍavīḍu (l'odierna Kondavid, nell'Andhra Pradesh) sotto Pedda Komaṭi Vemendra, che governò fra il 1398 e il 1415; il Laghuvasiṣṭhasiddhānta, che fa riferimento all'antico Vasiṣṭhasiddhānta di Viṣṇucandra, citato da Brahmagupta nel Brāhmasphuṭasiddhānta; il Vṛddhavasiṣṭhasiddhānta; il Brahmasiddhānta della Śākalyasaṃhitā.
Ṭhakkura Pherū, un astronomo jaina appartenente al Kharataragaccha (un gruppo degli Śvetāmbara) di Kannāṇapura (l'attuale Kaliana, in Haryana), compose diversi trattati scientifici in pracrito, fra cui un Jyotiśasāra nel 1315. L'anno seguente, il 1316, è l'epoca usata da una raccolta di tavole astronomiche estremamente popolare, la Mahādevī, completata da Mahādeva, sulla base dell'opera di Cakreśvara, forse in una località sulle rive del fiume Godavari, in Maharashtra. Le sue tavole, che seguono il Brāhmapakṣa, sono le prime del tipo cosiddetto 'lineare vero', che prevede una tavola delle longitudini reali di ciascun pianeta a intervalli di 14 giorni (avadhi) per una serie di anni; in una tavola di questo tipo la longitudine iniziale media di ciascun pianeta aumenta a partire da 0° di una grandezza fissa annuale. Nella Mahādevī tale grandezza è di 6°, per cui vi sono 60 tavole per ciascun pianeta.
Nel 1357, a Tryambaka (l'odierna Trimbak, alle sorgenti del fiume Godavari), un altro Mahādeva compose la Tithikāmadhenu, una raccolta di tavole astronomiche per il calcolo dei tithi, nakṣatra e yoga secondo l'Āryapakṣa.
Negli anni Sessanta del XIV sec. Ekanātha insegnò astronomia a Mahāḍanagara (oggi Mahāḍ, in Maharashtra) e intorno al 1370 completò un'utilissima glossa al Karaṇakutūhala di Bhāskara, dove fa riferimento a diverse fonti, fra cui la Kheṭasiddhi di Padmanābha, il Karaṇābhīṣṭa di Bhānu e il Karaṇaśiromaṇi di Vaidyanātha.
All'incirca nello stesso periodo, un trattato in persiano sull'astrolabio fu adattato per redigere quella che è la prima descrizione di questo strumento in sanscrito, lo Yantrarājāgama, composto dal jaina Mahendra Sūri a Bhṛgupura (l'odierna Broach, in Gujarat) su richiesta del sultano Tughluk Fīrūz Šāh, che regnò dal 1351 al 1388; l'epoca del catalogo stellare di Mahendra è il 1370. Una glossa allo Yantrarājāgama fu composta da un allievo di Mahendra, Malayendu Sūri, verso il 1382. Un altro commento alla stessa opera, intitolato Vilāsavatī, fu scritto da Gopīrājan, o Gopīnātha, a Dadhigrāma sul fiume Payoṣṇī, in Maharashtra nel 1540.
Una raccolta di tavole, intitolata Nabhogasiddhi, per calcolare le posizioni dei pianeti secondo il Brāhmapakṣa fu composta da Nārmada, discendente di un'antica famiglia originaria di Puṣkara (l'odierna Pushkar, in Rajasthan) e residente presso un santuario sulle rive del fiume Narmada; l'epoca adottata è il 1378.
Il figlio di Nārmada, Padmanābha, scrisse un trattato sugli strumenti, la Yantraratnāvalī, e un commento al Karaṇakutūhala di Bhāskara, la Nārmadī, negli anni a cavallo del 1400. La prima opera comprende un capitolo, il Diksādhanayantra, su uno strumento che serviva a determinare le direzioni; il Dhruvabhramayantra, accompagnato da un commento dell'autore, su uno strumento che permetteva di determinare l'ora di notte; inoltre, lo Yantrarājādhikāra sull'astrolabio e il Golayantrādhyāya sulla sfera, che è conosciuto soltanto grazie a una citazione dello stesso Padmanābha nella Nārmadī. Dāmodara, figlio e discepolo di Padmanābha, scrisse due karaṇa, il Bhaṭatulya, che seguiva l'Āryapakṣa, e il Sūryatulya, basato sul Saurapakṣa; in entrambi l'epoca adottata è il 1417. Lo stesso autore scrisse un commento al Karaṇaprakāśa di Brahmadeva.
Alla fine del XIV sec. un re di nome Madanapāla, della famiglia Ṭāka, regnante a Kāṣṭhā lungo il fiume Yamuna, compose (o fece comporre a suo nome) il commento Vāsanārṇava, che nella forma conservata copre i capp. 12-14 del Sūryasiddhānta; in esso menziona altre due opere da lui composte, entrambe perdute: lo Yantraprakāśa sugli strumenti astronomici e il Siddhāntagarbha.
Si conoscono pochissimi astronomi attivi nel XV sec. nell'area in questione; fra questi c'è Gaṅgādhara di Sagara (oggi Sagar, nel Madhya Pradesh), autore del Candramāna, un karaṇa che si rifà al Saurapakṣa e ha come epoca il 1435; in seguito fu rivisto da un altro membro della sua famiglia di nome Viśvanātha in un luogo chiamato 'Vidyāpura' (Città della Sapienza). Un altro astronomo è il celebre Rāmacandra Vājapeyin, che scrisse numerose opere a Naimiṣa (l'odierna Nimsar, in Uttar Pradesh) nel secondo quarto del XV sec.; una di queste è uno Yantraprakāśa sugli strumenti astronomici, composto nel 1428.
Alla fine del secolo, uno studioso di nome Keśava, nativo di Nandigrāma, si dedicò a correggere i parametri sulla base delle osservazioni condotte ad Aparānta, sulle sponde dell'oceano occidentale sotto i monti Sahyādri. Il più importante trattato astronomico di Keśava fu un karaṇa, il Grahakautuka, la cui epoca è il 1496, accompagnato da una glossa dello stesso autore. Keśava fondò i nuovi parametri sull'osservazione delle eclissi lunari, del sorgere del Sole e del tramontare dei pianeti, e infine delle congiunzioni dei pianeti con le stelle fisse e tra loro; in sostanza, cercò di stabilire quale dei sistemi esistenti fornisse l'approssimazione migliore al moto medio della Luna o di ciascuno dei pianeti. Scrisse anche un altro breve trattato, la Sudhīrañjanī, ma dal figlio Gaṇeśa gliene sono attribuiti diversi altri, oggi perduti, fra cui una Grahasiddhi, una Tithisiddhi, un Grahacālana e una Siddhāntavāsanā.
Gaṇeśa, nato nel 1507, fu una figura importante nella storia dell'astronomia indiana; per il Grahalāghava, infatti, che completò nel 1520, revisionò i parametri planetari stabiliti dal padre sulla base di nuove osservazioni, istituendo così il popolare Gaṇeśapakṣa. Redasse anche due raccolte di tavole per il computo dei tithi, nakṣatra e yoga, il Tithicintāmaṇi, la cui epoca è il 1525, e il Bṛhattithicintāmaṇi, che ha per epoca il 1552. Compilò anche un'altra raccolta di tavole, la Pātasāraṇī, il cui scopo era di facilitare il calcolo dei pāta del Sole e della Luna in cui i due astri si configurano alle stesse declinazioni su ciascun lato di un equinozio o di un solstizio. Inoltre inventò tre strumenti astronomici che descrisse in altrettanti trattati: il Cābukayantra, il Pratodayantra e il Sudhīrañjanayantra.
La pratica di correggere i parametri in base alle osservazioni fu continuata da un altro Keśava, abitante ad Āsūdagrāma, sulla costa a nord di Dālbhyapura e a sud di Hariharīśvara (Dālbhya è forse l'odierna Dabhol, in Maharashtra lungo la costa a sud di Bombay), autore di un Karaṇapraḍīpa, che menziona l'anno 1706, e di un autocommento intitolato Śiṣubodhinī. Il suo intento principale era servirsi di nuove osservazioni per correggere lo scarto cumulativo dei parametri stabiliti da Keśava nel Grahakautuka e da Gaṇeśa nel Grahalāghava.
Fra i discendenti dell'autore del Grahakautuka che scrissero a loro volta trattati di astronomia figura il nipote Nṛsiṃha, nato nel 1548 a Nandigrāma, che fu discepolo dello zio Gaṇeśa e compilò alcune raccolte di tavole per il calcolo delle longitudini planetarie secondo il Gaṇeśapakṣa: la Kheṭamuktāvalī, che ha per epoca il 1566 e usa l'allineamento 'lineare vero' della Mahādevī, con intervalli delle longitudini medie iniziali di 12°; la Grahakaumudī, che ha due epoche, il 1588 e il 1603, e usa anch'essa lo stesso allineamento, ma con intervalli di 13°20´; una Grahadīpikā, che tuttavia potrebbe non essere una raccolta di tavole astronomiche. Nṛsiṃha scrisse anche un commento, la Harṣakaumudī, al Grahalāghava composto dallo zio. Agli inizi del XVII sec. un secondo Gaṇeśa, il pronipote dell'autore del Grahalāghava, redasse un commento, lo Śiromaṇiprakāśa, al Siddhāntaśiromaṇi di Bhāskara.
Il rampollo di un'antica famiglia di Pārthapura (oggi Pathri, in Maharashtra), chiamato Jñānarāja, ripristinò la tradizione di scrivere trattati del genere siddhānta componendo, nel 1503, il Siddhāntasundara, in cui segue il Saurapakṣa. Suo figlio Cintāmaṇi commentò il Siddhāntasundara nel Grahagaṇitacintāmaṇi.
Un altro figlio di Jñānarāja, il prolifico ed erudito Sūrya, nato come Gaṇeśa nel 1507, scrisse un trattato astronomico molto interessante e insolito, il Siddhāntasaṃhitāsārasamuccaya, in cui discute i cinque elementi, la forma e il moto dei pianeti, le eclissi, le opinioni degli astronomi stranieri (mleccha, termine con cui intende presumibilmente i musulmani), e il problema di come eliminare le contraddizioni tra l'astronomia dei siddhānta e quella purāṇica; Sūrya menziona anche il proprio commento, oggi perduto, al Siddhāntaśiromaṇi di Bhāskara.
Più tardi, nel XVI sec., a Pārthapura, visse anche un autore chiamato Madhusūdhana, che compose una Paitāmahī seguendo il Brāhmapakṣa; l'epoca adottata era il 1571; il figlio Gopīrājan vi scrisse un commento.
Nel 1525, a Kānyakubja (l'attuale Kannauj, in Uttar Pradesh), Mādhava compose la Mādhavī, una glossa alla Bhāsvatī di Śatānanda. Un commento al Sūryasiddhānta fu invece composto da Bhūdhara a Kāmpilya (oggi Kampil, in Uttar Pradesh) nel 1572. All'incirca nel 1560 Rāmacandra, che abitava a Unnatadurga (presumibilmente l'odierna Uparkot) o Jīrṇadurga (oggi Junagarh nel Saurāṣṭra, in Gujarat), compilò una raccolta di tavole per il calcolo dei tithi, nakṣatra e yoga, il Tithicūḍāmaṇi o Kāmadhenu; anche suo figlio Dinakara redasse una raccolta di tavole simile, intitolata Tithyādicintāmaṇi, la cui epoca è il 1586. Un altro Dinakara, abitante a Bārejya sul fiume Brahmamatī (la moderna Sābarmatī, in Gujarat), redasse in quegli stessi anni una serie di raccolte di tavole secondo il Brāhmapakṣa: la popolarissima Candrārkī, che si occupa del calcolo delle posizioni del Sole e della Luna e ha per epoca il 1578; la Kheṭasiddhi sui pianeti, che adotta la stessa epoca, e la Tithisāraṇī, per il calcolo di tithi, nakṣatra e yoga, che ha come epoca il 1583. Dinakara scrisse anche un autocommento alla Candrārkī e uno al Grahalāghava di Gaṇeśa. Le tavole della Candrārkī furono convertite nei parametri del Saurapakṣa da Acalajit, abitante a Muraripura, in Gujarat, la cui Candrārkī ha come epoca il 1655.
Nel 1586 Gaṅgādhara, figlio dell'astrologo Nārāyaṇa, che aveva composto nel 1571-1572 il Muhūrtamārtaṇḍa e la Mārtaṇḍavallabhā a Ṭāpara, a nord di Devagiri (oggi Daulatabad, nel Maharashtra), compose un commento al Grahalāghava di Gaṇeśa intitolato Manoramā. Probabilmente nel corso del XVI sec., in una località ignota, Cakradhara descrisse il quadrante nello Yantracintāmaṇi. Commenti a quest'opera furono scritti dallo stesso Cakradhara e da Rāma, la cui Yantradīpikā è datata 1625. Un altro trattato sugli strumenti astronomici, lo Yantraśiromaṇi, fu composto da Viśrāma a Jambūsara (l'attuale Jambusar, in Gujarat) nel 1615.
Un abitante di Maṅgalapura (situata presumibilmente in Gujarat) di nome Kalyāna, figlio di Nṛsiṃha, compilò una raccolta di tavole su tithi, nakṣatra e yoga, il Tithikalpadruma, la cui epoca è il 1605, e che segue il Brāhmapakṣa. Si ha notizia di altri Kalyāna, anch'essi seguaci del Brāhmapakṣa e originari della stessa località, che potrebbero essere identici al primo; un autore di nome Kalyāna, talvolta chiamato Śekhara, compose il Karaṇaśārdūla, la cui epoca è il 1615, mentre un altro compose una raccolta di tavole, la Khecaradīpikā, che ha per epoca il 1649 e adotta l'allineamento 'lineare vero' con intervallo di 30°; le tavole sono semplicemente quelle della Mahādevī, per longitudini iniziali medie di 0° in ciascuno dei dodici segni zodiacali.
Harikarṇa di Hisāranagara (oggi Hissar, in Panjab) compose nel 1610 un commento, il Bālabodhaka, al Makaranda di Makaranda. Nel 1616 Rāmacandra di Nagara (l'attuale Vadnagar nel Saurāṣṭra, in Gujarat) completò la Grahagaṇaprakāśikā e nella stessa città Rāmadāsa scrisse il Gaṇitamakaranda, una raccolta di tavole che ha per epoca il 1618, su cui esiste un commento di Yaśavanta, forse del 1620. Nel 1619 Sūrajit compose il Kheṭakutūhala nella capitale di un regno (forse Ahmedabad) sul fiume Kāśyapanandanī (presumibilmente la Kāśyapī Gaṅgā, oggi chiamata Sābarmatī).
In un luogo ignoto ‒ probabilmente in Maharashtra ‒ dove è conservata la maggior parte dei manoscritti, Nāgeśa compilò il Grahaprabodha, una raccolta di tavole per il calcolo delle posizioni dei pianeti secondo il Gaṇeśapakṣa, che ha come epoca il 1619; su questo fu scritto un commento da Yādava, allievo di Nāgeśa, in cui è riportato un esempio datato 1663. Nāgeśa compose anche nel 1628 un Parvaprabodha sulle congiunzioni della Luna con il Sole e la Terra, ossia sulle sizigie.
Intorno al 1600 a Kheṭa, sulla Godavari (oggi Gaṅgakheir, in Maharashtra), Ballāla scrisse un commento al Vārṣikatantra di Viddaṇa. Suo nipote Vīrasiṃha, nato nel 1613, scrisse diversi trattati astronomici a Kheṭa prima di diventare, poco dopo il 1670, il jyotiṣarāja ('astronomo di corte') di Anūpasiṃha, mahārāja di Bikaner in Rajasthan dal 1669 al 1698. Le sue opere comprendono il Kheṭaplava, del 1625; la Camatkārasiddhi per calcolare i giorni lunari, le costellazioni e gli yoga, la cui epoca è il 1627, e che sembra sia stata commissionata da un musulmano di nome Maḥmūd; l'Āryasiddhāntatulyakaraṇa, la cui epoca è il 1633; l'Anūpamahodadhi, composto fra il 1673 e il 1680, che tratta, fra l'altro, delle misure del tempo e del moto mitico dei Saptarśi (Ursa Maior); un Anūpakaraṇa; probabilmente un Pañcāṅgabhūṣaṇa e un Saurābharaṇa in cui si menziona un sultano 'Mahamada', forse identico al Maḥmūd nominato nella Camatkārasiddhi.
Nel Saurāṣṭra si possono rintracciare testimonianze dell'attività di una famiglia di astronomi appartenente al Girinārāyaṇajñāti a partire dal 1500 circa. Il primo membro della famiglia che scrisse di astronomia fu Harihara verso il 1580, il cui Gaṇitacūḍāmaṇi è già stato menzionato. Suo nipote Vidyādhara, abitante a Jīrṇagaḍha (oggi Junagarh nel Saurashtra, in Gujarat), compose per il re di Rājakoṭa (l'odierna Rajkot) un Grahavidyādhara per calcolare le posizioni dei pianeti nel 1638 e una Pañcāṅgavidyādharī su tithi, nakṣatra e yoga nel 1643. Vidyādhara fornisce i dati necessari ai calcoli sia in base al Brāhmapakṣa, sia in base all'Āryapakṣa.
Sotto il patrocinio del padre dell'indipendenza dei Maratti, Śivājī, un astronomo di nome Kṛṣṇa, residente a Taṭāka nella regione del Konkan, in Maharashtra, nel 1653 scrisse il Karaṇakaustubha, basato sul Gaṇeśapakṣa; suo nipote Vaidyanātha compose un commento a quest'opera nel 1699. Un altro seguace del Gaṇeśapakṣa fu Prema di Madhunagara (oggi Mathura), che completò la Grahalāghavasāriṇī nel 1656. Sempre in Maharashtra, a quanto sembra, Śambhunātha compilò un trattato, il Grahakauśala basato sul Saurapakṣa, la cui epoca è il 1659.
Nell'ultimo quarto del XVII sec. Nīlakaṇṭha Caturdhara, il celebre scoliaste del Mahābhārata, appartenente a una famiglia di Kūrpanagara sulla Godavari (l'odierna Kopargaon, in Maharashtra), compose un breve trattato intitolato Sūryapaurāṇikamatasamarthana al fine di riconciliare le concezioni del Sūryasiddhānta con quelle dell'astronomia purāṇica. In tal modo continuò la tradizione iniziata da Lalla e proseguita da Sūrya, anticipando i trattati composti nel secolo successivo da Kevalarāma e Nandarāma.
Uno studioso del Gujarat di nome Bhāskara scrisse una raccolta di tavole sul calcolo delle eclissi, la Karaṇakesarī, in una località chiamata Saudāmika, adottando come epoca il 1681. Un commento alla Bhāsvatī di Śatānanda fu completato nel 1685 da Gaṅgādhara, la cui famiglia viveva a Sanmānaka nel Kurukṣetra (nel moderno Haryana). Nel Maharashtra, a Janasthāna sulla Godavari, Āpadeva scrisse la Kheṭataraṅgiṇī, una raccolta di tavole la cui epoca è il 1702. Il Dhīkoṭida di Śrīpati fu commentato da Harikṛṣṇa verso il 1715; fa riferimento a un'eclissi lunare del 1714 e a un'eclissi solare del 1708, entrambe calcolate per Delhi. In Gujarat, Prajārāma redasse una raccolta di tavole intitolata Candrārkī, come quelle di Dinakara e di Acalajit, durante il regno di Maumīn Khān.
In una località ignota uno studioso di nome Śaṅkara compose un trattato che seguiva il Brāhmapakṣa, il Karaṇavaiṣṇava, la cui epoca è il 1766. Questo è uno degli ultimi trattati di stampo integralmente tradizionale scritto in India. Ancora più tarda è la Kheṭakṛti di Rāghava Āpājī Khāṇḍekara. L'epoca di quest'opera è il 1740; Rāghava nacque nel 1758 a Pāroḷa, a sud della Tāpī (l'odierna Parola, in Maharashtra), e completò il suo trattato, in cui segue il Gaṇeśapakṣa, nel 1810; nel 1817 scrisse il Pañcāṅgārka e l'anno seguente, a Puṇyastambha (l'attuale Punatambhe), la Candraprabhāpaddhati.
Rajasthan
L'astronomia cominciò a essere studiata seriamente in Rajasthan soltanto nel XVI sec. e già il secolo successivo vide la produzione di numerosi trattati, alcuni dei quali piuttosto originali. Fra i primi autori di cui si abbia notizia figura Caṇḍīḍāsa, che commentò i capp. 1-8 del Karaṇakutūhala di Bhāskara. In questo commento fornisce esempi datati fra il 1518 e il 1544 e menziona la città di Yodhapura (l'odierna Jodhpur, in Rajasthan). In molti manoscritti, il commento mancante ai capp. 9 e 10 è rimpiazzato da una copia di quello di Ekanātha; tale versione integrata fu rivista a Kūṇṭhāsthāna (forse l'attuale Kota, in Rajasthan) da Dayāratna Muni, che dà esempi datati dal 1553 al 1559.
Intorno al 1593 anche un altro astronomo di Yodhapura, Jayavanta, scrisse un commento al Karaṇakutūhala di Bhāskara, limitandosi, come sembra, ai primi due capitoli. Rāmacandra Bhaṭṭa, probabilmente nel 1599, compose un Karaṇakalpadruma sotto il patrocinio di Rāyasiṃha, mahārāja di Bikaner fra il 1573 e il 1610 ca., che lo integrò con propri contributi. Come si vedrà oltre, un successivo mahārāja di Bikaner, Anūpasiṃha, si fece promotore dell'astronomia con entusiasmo ancora maggiore.
Verso il 1610, probabilmente nel Rajasthan, Harideva produsse le prime cinque tavole planetarie di tipo ciclico mai apparse in India, usando i periodi babilonesi per i pronostici annuali: 79 anni per Marte, 46 per Mercurio, 83 per Giove, 8 anni (moltiplicati per 9) per Venere e 59 per Saturno. Stando a quanto afferma, si rifà alla Mahādevī di Mahādeva. Seguendo l'esempio di Harideva, anche Haridatta compilò nel 1638 una raccolta di tavole cicliche, il Jagadbhūṣaṇa, dedicato a Jagatsiṃha, mahārāja di Mewar fra il 1628 e il 1652, portando il periodo di Venere da 8 a 227 anni. In questo fu imitato da Trivikrama di Nalinapura (forse Nalapura, oggi Narwar, nel Madhya Pradesh), la cui Bhramaṇasāriṇī adotta come epoca il 1704; lo stesso autore compose poi una Śīghrasiddhi nel 1719 e una Tithisāriṇī; fu seguace del Brāhmapakṣa, come anche Harideva e Haridatta.
Un altro commento al Karaṇakutūhala di Bhāskara, intitolato Makaranda, fu scritto nel 1611 da Śrīpati, quasi certamente in Rajasthan dove si conservano tutti i manoscritti conosciuti. Un decennio più tardi un altro commento allo stesso testo, la Gaṇakakumudakaumudī, terminato nel 1621, fu composto da un monaco jaina chiamato Sumatiharṣa Gaṇi, che viveva in una città sui monti Vindhya (forse Vindhyāvalī, l'attuale Bijauliā, nel Mewar). Sumatiharṣa menziona la propria glossa alla Mahādevī di Mahādeva, che è andata perduta, mentre si conserva la Mahādevīdīpikā completata dal suo amico Dhanarāja a Padmāvatī (oggi Pushkar) nel 1635.
La più straordinaria fioritura di attività connesse all'astronomia nel Rajasthan del XVII sec. fu il frutto degli sforzi di Anūpasiṃha, mahārāja di Bikaner dal 1669 al 1698, anno della sua morte, il quale, oltre a patrocinare studiosi quale il suo jyotiṣarāja, Vīrasiṃha, di cui già si è detto, fu un instancabile collezionista di manoscritti astronomici provenienti sia dal Nord sia dal Sud dell'India, fatto questo che gli consentì di creare una ricchissima biblioteca, che fu presa a modello per la biblioteca creata da Jayasiṃha a Jaipur nel XVIII sec. e per quella costituita a Kota dai mahārāja della città nel corso del XIX secolo. Oggi le biblioteche del Rajasthan ospitano le più cospicue raccolte indiane di manoscritti astronomici e, fino alla creazione della collezione del Rajasthan Oriental Research Institute di Jodhpur, la biblioteca privata di Anūpasiṃha era comunque la più vasta.
di David Pingree
L'India orientale fu assai meno feconda in campo astronomico. Sono pochissimi gli astronomi attivi in Bengala, Bihar e Orissa fra il 1500 e il 1800 di cui si abbia notizia. Gaṇapati Bhaṭṭa compose nel Bengala, nel 1512, una Jyotiṣmatī e poi un commento alla Bhāsvatī di Śatānanda. Un altro commento alla Bhāsvatī fu scritto da Acyuta, probabilmente nel Bengala, nel 1535 ca., mentre una glossa fu composta verso il 1685 da Kuvera Miśra, quasi certamente un bengalese.
Una raccolta di tavole basata sul Saurapakṣa, la Ravisiddhāntamañjarī, che ha per epoca il 1609, fu compilata in Bengala da Mathurānātha. Oltre un secolo dopo, alla corte di Kṛṣṇacandra di Navadvīpa (l'attuale Nabadwip, nel Bengala) fu attivo Kevalarāma Pañcānana, anch'egli seguace del Saurapakṣa, che fu autore del Gaṇitarāja, la cui epoca è il 1728 (anno dell'ascesa al trono di Kṛṣṇacandra), del Grahacarita, la cui epoca è il 1739, e del Grahacāra, che ha per epoca il 1762.
Nepal e Mithilā
Si ha conoscenza di pochissimi astronomi che operarono fra il 1400 e il 1800 nel Nepal o nel territorio intorno a Mithilā (corrispondente grosso modo all'odierna Tirhut, in Bihar), sebbene entrambe le regioni, come il resto dell'Asia meridionale, coltivassero con passione l'astrologia.
Per quanto riguarda il Nepal, si possono menzionare Sumiśra, che compose un Daivajñavallabha per calcolare i tithi nel 1447; Balabhadra, che nel 1543 completò a Umānagara nel Jumilādeśa (oggi Jumla) un commento alla Bhāsvatī di Śatānanda; e Viṣṇusiṃha, autore di un Siddhāntasāra, che ha per epoca il 1624, di una glossa a quest'ultimo in lingua newari contenente un esempio datato 1641, e di un'opera sulle eclissi, il Grahaṇasambandhilekha, anche questa in newari.
A Mithilā furono scritti nel XVIII sec. due commenti alla Bhāsvatī di Śatānanda, uno da Yogīndra nel 1742, l'altro da Kamalanayana Miśra, intorno al 1748. Quest'ultimo era patrocinato da Narendrasiṃha, mahārāja di Tīrabhukti (l'attuale provincia di Tirhut) fra il 1743 e il 1770.
Kāśī (Benares)
Un vero e proprio studio dell'astronomia iniziò a Kāśī con la pubblicazione da parte di Makaranda di una popolare raccolta di tavole che seguiva il Saurapakṣa, intitolata, dal suo nome, Makaranda, la cui epoca è il 1478. Un commento alla Bhāsvatī di Śatānanda fu terminato a Kāśī da Aniruddha nel 1495.
Nel XVI sec. Somākara, un membro della famiglia Śeṣa di Kāśī, compose un commento al Jyotiṣavedāṅga, il cui manoscritto noto più antico fu copiato nel 1595. Raghunātha produsse una raccolta di tavole di grande interesse, il Maṇipradīpa, la cui epoca è il 1565.
Nel tardo XVI sec. tre astronomi del Maharashtra si stabilirono a Kāśī, fondandovi tre famiglie che dominarono l'astronomia della città durante il secolo successivo. Il primo fu Ballāla, pronipote di Cintāmaṇi, e nipote di un Gopīrājan che potrebbe essere identificato con l'autore della Vilāsavatī, commento allo Yantrarājāgama di Mahendra Sūri; la famiglia risiedeva a Dadhigrāma (non identificata), sulle rive del fiume Payoṣṇī, in Vidarbha. Uno dei cinque figli di Ballāla, Kṛṣṇa, studiò presso Viṣṇu, studente di Nṛsiṃha, nipote e allievo di Gaṇeśa di Nandigrāma; le sue opere principali riguardarono il campo matematico, con un commento al Bījagaṇita di Bhāskara, e quello oroscopico, con un commento alla Jātakapaddhati (Manuale del jātaka) di Śrīpati, in cui discute l'oroscopo del khān-i khānān di Akbar, 'Abd al-Raḥīm, nato il 16 novembre 1556; il collegamento di Kṛṣṇa con la corte mughal è anche evidente dal fatto che era protetto da ǧahāngīr. La sua unica opera sull'astronomia fu il Chādikanirṇaya sulle eclissi.
Un altro figlio di Ballāla, Raṅganātha, completò il suo commento al Sūryasiddhānta (Siddhānta di Sūrya), intitolato Gūḍhārthaprakāśikā, il 17 marzo 1603. Lo stesso giorno nacque suo figlio, Munīśvara Viśvarūpa, che fu allievo dell'allievo di suo zio Kṛṣṇa, Nārāyaṇa, un prolifico autore di testi astronomici. Munīśvara compose un commento al Siddhāntaśiromaṇi (Diadema dei siddhānta) di Bhāskara intorno al 1638 e il Siddhāntasārvabhauma, che completò nel 1646, con il relativo commento, terminato nel 1650.
Uno dei cugini di Munīśvara, Gadādhara, figlio di Mahādeva e nipote di Ballāla, fu autore di un Lohagolasamarthana, dove sosteneva la visione tradizionale secondo cui la sfera del cielo è metallica; l'opera fu scritta per Jagannātha Paṇḍita, il famoso poeta sanscrito della corte di Šāh Ǧahān. Un altro cugino, Nārāyaṇa, il figlio di Govinda, figlio di Ballāla, compose un commento al Grahalāghava di Gaṇeśa.
Una famiglia rivale, anch'essa connessa a Gaṇeśa, ebbe origine nel XV sec. con un Rāma che risiedeva a Golagrāma, un quartiere di Pārthapura, sulla Godavari. Il nipote di Rāma, Divākara, dopo aver studiato con Gaṇeśa a Nandigrāma, intorno alla metà del XVI sec. si trasferì a Kāśī, dove tre dei suoi cinque figli divennero rinomati astronomi. Il secondogenito, Viṣṇu, fu autore di un Sūryapakṣaśaraṇakaraṇa, la cui epoca è il 1608, e di un commento al Bṛhattithicintāmaṇi. Il terzo figlio, Mallāri, scrisse nel 1588 un Parvadvayasādhana sulle eclissi, e due commenti, uno al Grahalāghava di Gaṇeśa e uno al Grahakautuka di Keśava. Il fratello più giovane, Viśvanātha, fu un autore ancora più prolifico di trattati, fra i quali c'è il Mitāṅkagaṇita, che segue il Saurapakṣa e la cui epoca è il 1612, e commenti, fra cui quelli al Karaṇakutūhala di Bhāskara, al Grahakautuka di Keśava, a opere di Gaṇeśa, al Makaranda di Makaranda, al Rāmavinoda di Rāma, al Vārṣikatantra di Viddaṇa, al Sūryasiddhānta, e al Sūryapakṣaśaraṇakaraṇa del fratello Viṣṇu. Le date citate negli esempi forniti da queste opere sono comprese tutte nella prima metà del XVII secolo.
Nṛsiṃha, figlio del figlio maggiore di Divākara, Kṛṣṇa, nacque nel 1586; le sue opere comprendono un commento al Sūryasiddhānta, composto nel 1611, e un altro al Siddhāntaśiromaṇi di Bhāskara, composto nel 1621. Commentò anche il Tithicintāmaṇi di Gaṇeśa. Un altro figlio di Kṛṣṇa, Śiva, commentò il Sūryapakṣaśaraṇakaraṇa nel 1619, come pure Tryambaka, figlio di Viśvanātha, nel 1663.
Nṛsiṃha ebbe tre figli che divennero astronomi. Il maggiore, Divākara, nacque nel 1606 e studiò presso lo zio Śiva. Scrisse soprattutto trattati di astrologia, ma compose anche commenti al Makaranda di Makaranda nel 1620 e alla Pātasāraṇī di Gaṇeśa. Suo fratello Kamalākara scrisse un influente Siddhāntatattvaviveka nel 1658 e una Śeṣavāsanā che contiene materiale supplementare. In epoca imprecisata, dopo il 1558, commentò nella Sauravāsanā il Sūryasiddhānta. Il terzo fratello, Raṅganātha, compose un Siddhāntacūḍāmaṇi, che seguiva il Saurapakṣa, a quanto sembra nel 1640, un Palabhākhaṇḍana, un Bhaṅgīvibhangīkaraṇa, in cui attaccava Munīśvara Viśvarūpa, e un Lohagolakhaṇḍana, anch'esso diretto contro Munīśvara.
La terza famiglia del Maharashtra a trasferirsi a Kāśī nel XVI sec. proveniva da Dharmapura (non identificata), sulla Godavari. Il suo primo membro a scrivere di astronomia fu Ananta, autore di una glossa alla Kāmadhenu di Mahādeva verso il 1550. Entrambi i suoi figli furono attivi a Kāśī; il maggiore, Nīlakaṇṭha, scrisse la sezione su astronomia e astrologia dell'enciclopedia Ṭoḍarānanda, progettata e finanziata dal vazīr di Akbar, Ṭoḍaramalla, tra il 1572 e il 1582; fra i contributi di Nīlakaṇṭha c'è il Gaṇitasaukhya, sull'astronomia, composto nel 1572. Il secondo figlio di Ananta, Rāma, compose un Rāmavinoda in forma sia di karaṇa, sia di raccolta di tavole, per un mahārājādhirāja di nome Rāmadāsa; l'epoca dell'opera è il 1590, l'anno 35 dell'era istituita da Akbar. Il figlio di Nīlakaṇṭha, Govinda, e il nipote Cintāmaṇi, scrissero opere di contenuto astrologico più che astronomico.
Molti altri studiosi scrissero di astronomia a Kāśī nel XVII e XVIII secolo. Nel 1630 Gaṅgādhara compose una Grahasāriṇī e nel 1633 un Gaṇitāmṛta, che seguivano il Gaṇeśapakṣa. Devadatta fu l'autore, nel 1622, di un Grahaprakāśa che seguiva il Saurapakṣa adattato. Tre anni dopo il nipote Murāri scrisse un Laghutithidarpaṇa, basato sul Makaranda di Makaranda; in precedenza aveva composto un Tithidarpaṇa. Lo studioso Dāmodara Rāṇabha scrisse il Siddhāntahṛdaya prima del 1678; dopo il 1680 fu al servizio di Śrīnivāsamalla, re di Lalitapattana, in Nepal.
All'inizio del XVIII sec. Kṛṣṇa compose un Pañcāṅgatattva, la cui epoca è il 1707; successivamente, nel medesimo secolo, Viśrāmaśukla compose un Pattraprakāśa, la cui epoca è il 1777, e che seguiva il Saurapakṣa adattato. Kṛṣṇanātha Dvivedin fu l'autore di un'opera esemplificativa datata 1787 che illustrava il calcolo di un'eclissi secondo il Parvadvayanirṇaya di Mallāri. L'ultimo paṇḍita di Benares a scrivere un trattato astronomico tradizionale, sebbene non scevro dell'influenza d'idee europee, fu Bālakṛṣṇa Vedavṛkṣa, che completò il suo Siddhāntarāja nel 1820.
di David Pingree
Abbiamo già menzionato vari astronomi collegati alle corti musulmane, in particolare Malayendu Sūri, alla corte di Fīrūz Šāh, Rāma e Nīlakaṇṭha, alla corte di Akbar, e Vīrasiṃha, forse collegato alla corte del sulṭān Maḥmūd. È inoltre opportuno ricordare l'attività di Paramānanda Jyotiṣarāya, al quale fu commissionato da I῾tibār ḫĀn il Jahāṅgīravinodaratnākara per l'imperatore Ǧahāngīr; l'epoca dell'opera è il 1614. Va poi ricordato Jaṭādhara, che compose il Phatteśāhaprakāśa per il pāšāh Aurangzeb nel 1704. A questi nomi si possono aggiungere quelli di alcuni lessicografi che, per vari governanti mughal, scrissero dizionari di persiano-sanscrito nei quali era inclusa la terminologia astronomica. Si tratta di Kṛṣṇadāsa, che completò il suo Pārasīprakāśa per Akbar verso il 1575, e di Mālajit, che ottenne da Šāh Ǧahān il titolo di Vedāṅgarāya per aver composto un altro Pārasīprakāśa nel 1643.
D'importanza ancora maggiore per la diffusione dell'astronomia islamica in India, nel XVII e XVIII sec., furono i traduttori in sanscrito dei trattati persiani. Essi sono per lo più anonimi, ma un autore noto è Nityānanda di Indrapurī (Delhi), che fu ingaggiato da Āsaf ḫĀn, il vazīr dell'imperatore Šāh Ǧahān, per tradurre lo Zig-i Šāh Ǧahān dal persiano al sanscrito poco dopo il suo completamento, nell'ottobre del 1629; egli terminò la traduzione, che intitolò Siddhāntasindhu, intorno al 1635. Di quest'opera gigantesca e poco maneggevole si conoscono soltanto cinque copie complete, quattro delle quali appartennero a Jayasiṃha, mahārāja di Jaipur, che proseguì gli sforzi di Nityānanda per promuovere l'astronomia musulmana nella seconda e terza decade del XVIII secolo. Nel 1639 Nityānanda completò il Sarvasiddhāntarāja, dove si batte vigorosamente per l'accettazione da parte dei siddhāntin, gli studiosi tradizionali, di modelli, parametri e tecniche d'osservazione musulmani. Nella quarta decade del XVIII sec. pubblicò una raccolta di tavole astronomiche, intitolata Amṛtalaharī o Kheṭakṛti, in cui combinava elementi delle tradizioni cristiana, ebraica, musulmana e hindu. Uno studioso non identificato, vissuto probabilmente nel XVII sec., tradusse in sanscrito, col titolo di Hayatagrantha, un testo ῾ilm al-hay᾽a intitolato Risālah dar hay᾽at, composto da al-Qūshjī a Istanbul per il sulṭān Muḥammad ibn Murād tra il 1451 e il 1474. In un momento imprecisato dopo la seconda decade del XVIII sec. un altro studioso tradusse in sanscrito le tavole del persiano Zīǧ-i ǧadīd di Ulugh Beg; manoscritti di questa versione sono stati fino a ora identificati soltanto a Jaipur.
Nella seconda e terza decade del XVIII sec. Jayasiṃha, sovrano di Amber dal 1700 al 1743, anno della sua morte, e fondatore di Jayapura (Jaipur) nel 1727, radunò un certo numero di astronomi hindu, musulmani ed europei nello sforzo di produrre uno zīǧ persiano accurato per l'imperatore mughal Muḥammad Šāh. Si deve a Jayasiṃha la costruzione dei famosi osservatori di Delhi (1721-1724 ca.), Jaipur (1727), Mathura, Ujjain e Benares, sebbene il loro effettivo contributo alle sue teorie astronomiche fosse per lo più limitato a confermare o contraddire vari testi e tavole sanscrite, persiane o latine. A suo nome furono composti un Sūryasiddhāntasāravicāra, che commentava alcune sezioni del Sūryasiddhānta, una Yantrarājaracanāprakriyā sulla costruzione e l'uso dell'astrolabio, uno Yantraprakāra sugli strumenti d'arte muraria che furono usati nei suoi osservatori e, nel 1735, una Jayavinodasāriṇī, serie di tavole da usare nella preparazione dei pañcāṅga, 'calendari'.
Jayasiṃha finanziò un ampio numero di traduzioni dall'arabo e dal persiano in sanscrito. Nayanasukhopādhyāya, con l'assistenza di Muḥammad Ābidda, tradusse nel 1729 la versione araba degli Sferica di Teodosio, opera di Qusṭā ibn Lūqā, corretta da Ṯābit ibn Qurrā e commentata da Naṣīr al-Dīn al-Ṭūsī, sotto il titolo di Ukāra, e il cap. 11 del Libro II del Taḏkira di Naṣīr al-Dīn con lo šarḥ di Barjandī intitolato Śarahatajkara varjandī. Nayanasukhopādhyāya potrebbe anche essere il responsabile della traduzione di due testi persiani sugli strumenti: Risālah dar uṣturlāb di Naṣīr al-Dīn al-Ṭūsī, nella versione sanscrita intitolata Yantrarājavicāra, e un'opera sull'astrolabio universale di al-Zarqāllu, intitolata nella versione sanscrita Sarvadeśīyajarakālīyantra. Il maestro di Jayasiṃha, Jagannātha Paṇḍita, tradusse il Taḥrīr di Naṣīr al-Dīn sugli Elementi di Euclide con il titolo di Rekhāgaṇita nel 1727, o poco prima, e nel 1732 (a quanto sembra) il Taḥrīr del medesimo autore sull'Almagesto di Tolomeo, con il titolo di Samrāṭsiddhānta. Jagannātha compose inoltre un importante Siddhāntakaustubha sulle attività astronomiche alla corte di Jayasiṃha; la versione più antica risale al 1727 ca., una versione successiva al 1730, e quella finale al 1732 circa. Uno dei collaboratori di Jayasiṃha, rimasto anonimo, tradusse in sanscrito una sezione del persiano Zīg-i Khāqānī di Ǧamǧīd al-Kāǧī sui moti retrogradi planetari, con il titolo Vakramārgavicāra.
Kevalarāma, nominato jyotiṣarāja di Jayasiṃha nel 1725, scrisse per il sovrano un'opera assai peculiare, che cercava di riconciliare l'astronomia sferica siddhāntica con la cosmologia della Terra piatta caratteristica del Bhāgavatapurāṇa, il Bhāgavatajyotiṣayor bhūgolakhagolavirodhaparihāra. Intorno al 1732, nelle varie versioni della sua Dṛkpakṣasāriṇī, mise in versi gli sforzi iniziali degli astronomi di Jayasiṃha per comprendere il latino Tabulae astronomicae di Philippe de la Hire. In relazione a quest'opera sembra che Kevalarāma sia stato il responsabile delle trascrizioni in alfabeto nāgarī delle tavole europee di logaritmi di numeri interi e di logaritmi di seni e tangenti. Nel Brāhmapakṣanirāsa Kevalarāma, su basi assai discutibili, sostiene la supremazia del sistema del Sūryasiddhānta, d'ispirazione divina, sul Brāhmapakṣa, d'origine umana. Nel 1735 compose infine una Pañcāṅgasāriṇī, sul calcolo dei pañcāṅga, 'calendari'.
di David Pingree
Jayasiṃha ebbe una breve serie di successori, attivi in Rajasthan e nelle regioni confinanti nei decenni seguenti del XVIII secolo. Intorno al 1750 Śrīnātha Chāgāni compose una Yantraprabhā sulla base della Yantrarājaracanāprakriyā di Jayasiṃha. Candrāyaṇa Miśra di Mulatāna (Multan) scrisse una Sūryasiddhāntasāraṇīpaddhati nel 1748, un Tithikalpavṛkṣa e una Grahaspaṣṭasāraṇī. Ancora a Mulatāna, Budhasiṃha Śarman completò il suo Grahaṇādarśa sulla teoria delle eclissi nel 1764, e un autocommento, la Prabodhinī, nel 1766. Il più prolifico tra questi autori fu peraltro Nandarāma Miśra di Kāmyakavana, che scrisse nel 1763 una Grahaṇapaddhati sulle eclissi, uno Yantrasāra sugli strumenti astronomici nel 1771, un Laghucintāmaṇi con le tavole dei tithi, nakṣatra e yoga nel 1777 e, prima del 1767 (data della copia del più antico manoscritto conosciuto), un Goladarpaṇa, che è un ampliamento del Bhāgavatajyotiṣayor bhūgolakhagolavirodhaparihāra di Kevalarāma.
A Kāśī un brahmano Mālavīya di Pāṭaliputra, di nome Mathurānātha Śukla, compose nel 1782 uno Yantrarājakalpa sugli strumenti e un Jyotiḥsiddhāntasāra basato su un testo persiano ῾ilm al-hay᾽a non identificato. Mathurānātha fu praticamente l'ultimo studioso a esporre l'astronomia islamica in sanscrito.
In seguito, gli studi astronomici furono coltivati soprattutto nel Maharashtra. Cintāmaṇi Dīkṣita (1736-1811) di Cittapūrṇa (l'attuale Cipalūna) scrisse a Saptarṣi (l'odierna Satara) un Golānanda sulla sfera celeste. Veṅkaṭeśa Caṇḍika, noto anche come Bāpū, scrisse a Kāśī una glossa, il Cintāmaṇiṭippaṇa, al Tithicintāmaṇi di Gaṇeśa, in cui fornisce un esempio datato 1808. Dinakara di Golappa compose svariati testi astronomici e numerose tavole a Puṇyagrāma (l'attuale Pune): una Grahavijñānasāriṇī nel 1812; una Māsapraveśasāriṇī nel 1822; una Krāntisāriṇī nel 1831; un Candrodayāṅkajāla nel 1835; una Dṛkkarmasāriṇī nel 1836; un Grahaṇāṅkajāla nel 1839; un commento alla Pātasāriṇī di Gaṇeśa nel 1839; infine una glossa allo Yantracintāmaṇi di Cakradhara.
Yajñeśvara Roḍe, figlio della figlia di Cintāmaṇi Dīkṣita, scrisse nel 1815 un commento all'opera del nonno, il Golānanda; fu anche autore di un commento al Tithicintāmaṇi di Gaṇeśa e, nel 1842, allo Yantrarāja di Mahendra Sūri. Quando il protetto di Launcelot Wilkinson, Sabbāji Rāmacandra Śāstrin di Candrapura (l'attuale Chandur, vicino Amaravati, nel Maharashtra) scrisse in lingua marathi un Siddhāntaśiromaṇiprakāśa nel 1836, argomentando in favore della teoria copernicana, Yajñeśvara rispose, alla fine del 1836 o all'inizio dell'anno successivo, con un Avirodhaprakāśa sostenendo, in accordo con le tesi di Kevalarāma e Nandarāma, che non vi è contraddizione tra i Purāṇa e i siddhānta, ma che la teoria eliocentrica è errata. Sabbāji gli rispose l'anno seguente con l'Avirodhaprakāśaviveka, sul quale Rāmacandra scrisse un commento intitolato Mitabhāṣiṇī; Yajñeśvara rispose nello stesso anno con un Virodhamardana. Il Siddhāntaśiromaṇiprakāśa originale di Sabbāji fu tradotto da Oṅkāra Bhaṭṭa in hindi e inglese nel 1836 o 1837. Il centro dell'attività di Sabbāji e Oṅkāra Bhaṭṭa fu la sabhā di Wilkinson a Sehore, località a ovest di Bhopal, nel Madhya Pradesh.
Un altro allievo di Wilkinson alla sabhā fu Nṛsiṃhadeva, noto come Bāpūdeva Śāstrin, un brahmano Cittapāvana nato ad Ahmadnagar nel 1821, che entrò alla sabhā di Sehore nel 1838 e iniziò a insegnare matematica e astronomia al Sanskrit College di Benares nel 1842. Fu il più influente difensore delle scienze esatte occidentali in hindi e sanscrito alla metà del XIX secolo. L'esempio di Bāpūdeva fu degnamente seguito da Sudhākara Dvivedin, che nacque a Khajūrī, vicino Benares, nell'Uttar Pradesh, nel 1858. Bāpūdeva e Sudhākara, insieme ai loro discepoli, furono responsabili non soltanto della composizione di testi sanscriti originali su matematica e astronomia, ma anche di numerose edizioni di classici sanscriti dai quali dipendono molte delle attuali conoscenze sulla scienza indiana precedente.
L'ultima metà del XIX sec. e il primo terzo del XX videro proseguire una produzione originale in sanscrito in campo astronomico. Si possono citare vari esempi: Candraśekhara Siṃha dell'Orissa, nato nel 1835, il cui Siddhāntadarpaṇa fu pubblicato nel 1899; Premavallabha, nato a Mājhiḍa nel Kūrmādri, in Uttar Pradesh, nel 1846, che compose il Paramasiddhānta a Jaipur nel 1882 e un trattato di geografia, il Deśajñāna, nel 1893; Veṅkaṭeśa Ketakara, nato a Nṛgunda in Karnataka nel 1854, che divenne preside della Anglo-Vernacular School di Bāgalakoṭa (la moderna Bagalkot, a sud di Bījāpūr, in Karnataka). Veṅkaṭeśa scrisse opere eccezionali in sanscrito e marathi, migliorando la tradizionale astronomia siddhantica e discutendo nel contempo argomenti quali l'effetto delle comete sul moto solare e l'esistenza di un pianeta oltre Urano, molto prima della scoperta di Plutone.
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