Scienza indiana: periodo classico. La medicina ayurvedica
La medicina ayurvedica
Nel subcontinente indiano sono nati e si sono sviluppati molti sistemi terapeutici complessi; l'āyurveda è il più antico di cui si abbia notizia e l'unico che vanti un'imponente letteratura in lingua sanscrita. Il nome di Veda attribuito alla medicina mostra come essa si riallacci idealmente ai quattro testi sacri che portano questo nome e che sono alla base della civiltà indiana: il Ṛgveda, il Sāmaveda, lo Yajurveda e l'Atharvaveda. La Suśrutasaṃhitā (Raccolta di Suśruta) definisce l'āyurveda una sottosezione (upāṅga) dell'Atharvaveda; l'Aṣṭāṅgasaṃgraha (Compendio delle otto parti [della medicina]) lo chiama Veda secondario (upaveda) dell'Atharvaveda. Effettivamente, non è difficile constatare che fra l'Atharvaveda e la medicina ci sono molti elementi comuni, in particolare il lessico anatomico, l'uso di alcune piante officinali, vari dati di fisiologia e patologia (v. cap. VII), ma è soprattutto evidente che entrambi si presentano come saperi sacri, rivelati da divinità ed eternamente validi, anche se non creati dalle divinità stesse. Il Veda religioso fornisce la chiave ritualistica, gnostica e devozionale per comprendere e modificare la realtà, il Veda medico insegna alcuni principî fondamentali con cui si possono riportare alla salute gli esseri viventi ammalati.
La Carakasaṃhitā (Raccolta di Caraka), il più antico testo āyurvedico oggi esistente, narra con un mito significativo la storia della rivelazione da cui ebbe origine la medicina. Un tempo gli asceti migliori, riunitisi alle pendici dell'Himalaya, constatarono che le malattie erano diventate sempre più un ostacolo a qualsiasi pratica purificatoria e alla longevità; inviarono quindi uno di loro, Bharadvāja, dal dio Indra, affinché si facesse concedere un mezzo per curare le malattie. Indra rivelò a Bharadvāja l'āyurveda, che lui stesso aveva appreso dagli Aśvin, i Dioscuri indiani, i quali a loro volta l'avevano ricevuto da Prajāpati, il padre delle creature, e questi dal creatore Brahmā. Quest'ultimo padroneggiava il sapere medico anche senza averlo appreso da un maestro, perché conoscendo i quattro Veda e avendo raggiunto il massimo grado della sapienza in ogni campo, la sua conoscenza dell'āyurveda era di per sé completa. Quando Bharadvāja ricevette da Indra la trasmissione del sapere medico, costituito dall'eziologia, dalla sintomatologia e dalla terapeutica, ne fu molto felice e, applicando la scienza appena appresa, diventò assai longevo. Lo stesso accadde agli asceti divenuti suoi discepoli, i quali "videro con l'occhio della conoscenza intuitiva" le categorie filosofiche sulle quali si fondava l'āyurveda, vale a dire gli universali, i particolari, le qualità, le sostanze e le azioni (Carakasaṃhitā, Sūtrasthāna, I, 1-29 e commento di Cakrapāṇidatta).
Questo mito è di grande importanza per comprendere in quale misura il Veda della medicina si differenzi dai quattro Veda religiosi; il nome di Veda, infatti, qualifica la medicina come corpo di dottrine eterne, che sono state rivelate in un certo punto del tempo storico, in realtà, però, dopo un'adeguata iniziazione, essa può essere intuita in una forma molto sintetica, suscettibile poi di infiniti sviluppi generati sia dall'esperienza sia dal ragionamento. Caraka dice esplicitamente che il medico intelligente non ha bisogno di studiare una casistica completa per ciascun argomento; quando ne conosce i principî, li applica autonomamente a ogni caso particolare (ibidem, IV, 20 e commento di Cakrapāṇidatta).
Nei quattro Veda religiosi la forma del testo è sacra ed è necessario non modificarla assolutamente, memorizzando in modo accurato ogni parola in base al suono e alla posizione nel testo, perché le parole rivelate sono di per sé efficaci nel rituale per il modo stesso in cui sono enunciate; in medicina, invece, il testo può essere formulato in altri termini, con una forma più o meno sintetica, anche se poi è trasmesso oralmente e memorizzato con lo stesso metodo usato per i Veda. Le modifiche del testo āyurvedico sono suggerite dall'osservazione e dall'esperienza clinica, dall'inferenza, dall'insegnamento delle autorità in materia e dal dibattito logico con altri medici; dunque si potrebbe dire che la medicina è un insieme di dottrine dove tradizione e scienza coesistono in un rapporto dialettico passibile di infiniti sviluppi.
Realtà e definizione
I testi classici di medicina, in particolare la Carakasaṃhitā, allo scopo di rendere possibile il dibattito sui vari argomenti, definiscono un particolare argomento da trattare utilizzando ampiamente definizioni sistematiche, che sono corredate da commenti oppure illustrate in un'altra parte del testo. L'āyurveda non adotta, come i jaina, l'anekāntavāda, cioè l'idea che tutti i punti di vista siano egualmente validi. Ogni trattato āyurvedico tecnico-scientifico, o śāstra, orale o scritto che sia, assume invece una precisa posizione rispetto ai vari argomenti, ma uno stesso concetto può ricevere varie definizioni, leggermente diverse fra loro e mai incompatibili.
Gli studenti che apprendono testi di questo genere si abituano a una pluralità di visioni della realtà che non si escludono l'un l'altra. Il principio di non contraddizione aristotelico vale, anche se meno rigidamente, pure nella medicina indiana: poiché la realtà ha molti aspetti ed è impossibile dare conto contemporaneamente di ogni sua sfaccettatura, lo śāstra āyurvedico svela gradualmente i numerosi punti di vista da cui uno stesso oggetto può essere guardato. Per la medicina, quindi, la correttezza di una definizione della realtà non è tanto legata alla sua validità assoluta in ogni contesto, quanto al fatto di non contraddire i principî fondamentali della propria scuola e di avere origine da una completa e profonda comprensione del proprio śāstra.
Nell'āyurveda antico non esiste un concetto di 'scienza' che corrisponda a quello greco di epistémè, anche per quanto attiene al ruolo dell'esperienza. Nell'ambito medico indiano, come in quello religioso, si dà per scontato che la sfera sensoriale umana sia molto limitata; la verifica sensoriale può essere importante nella dimostrazione di una teoria, ma non può costituire l'unico criterio di validità di tutto il sistema; dunque si parlerà di 'validi mezzi di conoscenza' (pramāṇa), che nell'āyurveda sono quattro: testimonianza verbale di persone o testi degni di fiducia (āptopadeśa), esperienza o percezione diretta (pratyakṣa), inferenza (anumāna), ragionamento (yukti) (Carakasaṃhitā, Sūtrasthāna, XI, 17); Suśruta, invece, alla yukti sostituisce l'analogia, upamāna. Questo spiega perché nell'āyurveda godano di vasta credibilità teorie che non sono direttamente oggetto di esperienza ‒ valga per tutte l'esempio della teoria dei tre elementi patogeni ‒, e perché si faccia spesso uso dell'inferenza per dimostrare l'esistenza di una causa non percepibile da un effetto percepibile (questa procedura si trova anche in vari sistemi filosofici indiani, come per esempio il Sāṃkhya).
La garanzia di una visione corretta della materia è data quindi innanzi tutto dall'uso appropriato dei mezzi di conoscenza, e poi dalla memorizzazione e piena comprensione dell'insegnamento; infatti, qualsiasi visione parziale è di per sé errata, tanto che i classici condannano apertamente il medico ekadeśika, cioè colui che conosce soltanto una parte dell'āyurveda. Questo sembra dare luogo a una contraddizione; l'āyurveda è suscettibile di infiniti sviluppi dovuti al contatto con i casi particolari dell'esperienza, ma, d'altro canto, il medico deve avere una conoscenza completa dell'āyurveda; allora è evidente che l'espressione 'conoscenza completa' non indica altro che la comprensione dell'essenza dell'insegnamento, ossia quel certo numero di istruzioni necessarie allo studente per esercitare efficacemente la professione medica, istruzioni il cui dettaglio varia in rapporto al suo acume: minimo per l'intelligente, medio per il mediamente dotato, massimo per il poco intelligente. Se quest'ultimo non riesce a orientarsi bene in un sistema di definizioni plurime, occorre dargli una visione più semplificata della materia.
Per aiutare gli studenti di un'epoca di progressiva decadenza quale l'attuale, cioè il kaliyuga, o 'età del conflitto', a orientarsi nel mare magnum dei testi āyurvedici, da Vāgbhaṭa in poi, fra gli autori medici si affermò la tendenza ad adottare una forma espositiva più sistematica, a ordinare i contenuti per argomento, a limitare le digressioni e talvolta a scrivere manuali sintetici od opere specialistiche che si occupassero soltanto di settori limitati della medicina, in particolare la patologia e la terapeutica.
Le tantrayukti
Un corretto approccio metodologico ai testi più antichi deve tener conto di quegli strumenti che hanno avuto proprio la funzione di eliminare gli ostacoli all'apprendimento e al confronto dialettico dati da una forma apparentemente non sistematica e dal gran numero di definizioni variabili. Le tantrayukti, o 'regole di presentazione', sono la chiave per accedere al significato delle parole nella loro pienezza; la loro capacità di dischiudere i significati dell'āyurveda a chi le conosce è paragonata al potere che ha il Sole di far sbocciare i fiori di loto, o alla luce di una lampada che rischiara l'interno di una casa. Il medico che conosce molti trattati scientifici, ma non può penetrarne il significato perché ignora le tantrayukti, è paragonato a un uomo molto sfortunato che, per quanto si adoperi, non potrà mai diventare ricco (Carakasaṃhitā, Siddhisthāna, XII, 47cd-8).
L'applicazione delle tantrayukti è estesa anche agli altri tantra, ossia ai testi non letterari; per esempio, un elenco di yukti è contenuto nella parte finale dell'Arthaśāstra (Trattato sull'utile) di Kauṭilya; un altro elenco compare nel Viṣṇudharmottarapurāṇa (Purāṇa ulteriore del Viṣṇudharma); regole analoghe si trovano inoltre applicate nella Saptapadārthī ([Trattato] sulle sette categorie), nel Vedāntasāra (L'essenza del Vedānta), nel Kāvyālaṇkārasūtra (Aforismi sugli ornamenti poetici) e nei più importanti trattati di poetica. Il più antico elenco di tantrayukti āyurvediche è quello di Suśruta.
Di solito è compito dei commentatori mostrare come e dove siano applicate le tantrayukti nel testo di un'opera; i commentatori, non potendo però farlo per ogni particolare, intervengono soprattutto quando dal loro punto di vista il testo non è chiaro o esplicitamente collegato ad altre parti del trattato. Talvolta, però, le tantrayukti stesse sono date per scontate e se ne commentano soltanto le conseguenze; oppure il commentatore cerca di spiegare perché in un certo caso una yukti non venga osservata.
Un esempio particolarmente significativo di yukti è quello del vidhāna ('ordine'), che compare al ventunesimo posto in tutte le liste dei testi classici āyurvedici. Questa regola implica che gli elementi di una serie si dispongano in un ordine non casuale; il primo posto è in genere occupato dall'elemento che maggiormente possiede le caratteristiche positive o negative di cui si sta parlando; poi, in ordine di importanza decrescente, sono menzionati tutti gli altri elementi. In ottemperanza a questa regola, quando Caraka descrive gli elementi patogeni pone per primo il vento, più nocivo degli altri due perché provoca circa ottanta malattie; seguono la bile, che ne causa quaranta, e il flegma, che ne produce venti. Gli elementi che provocano alterazioni della mente sono soltanto due, il rajas ('agitazione') e il tamas ('ottundimento'); apparentemente il tamas può costituire un'alterazione più grave del rajas, ma è sempre menzionato per secondo perché non può attivarsi se non è accompagnato dal rajas stesso, che quindi è più importante del tamas (Carakasaṃhitā, Sūtrasthāna, I, 57 e commento di Cakrapāṇidatta; Vimānasthāna, VI, 9).
Dunque gli autori medici che usano la yukti del vidhāna conferiscono a ogni serie, ordinandola in un certo modo, un significato sottile che può aggiungersi al senso letterale delle parole. In un elenco di farmaci, per esempio, il più efficace sarà menzionato per primo e gli altri seguiranno in ordine di efficacia decrescente; enumerando una serie di patologie verrà per prima la più pericolosa, oppure quella che può avere più complicazioni, e così via. L'universo mentale del medico āyurvedico è ordinato secondo le gerarchie precise del vidhāna. Ovviamente ci sono eccezioni alla regola, e in questo caso i commentatori chiariscono il motivo per cui una certa disposizione tradizionale non sia stata rispettata, oppure non sia sempre la stessa in parti diverse del medesimo testo. Per esempio, come si vedrà, Caraka enumera in un ordine diverso da quello originale le categorie filosofiche del Vaiśeṣika, perché nell'āyurveda la loro importanza relativa è diversa da quella rivestita nell'ambito filosofico in cui sono state concepite. Il vidhāna, quindi, è anche un modo di dire qualcosa attraverso la disposizione delle voci di un elenco; talvolta il messaggio è espresso a chiare lettere, magari in un'altra parte del testo, come nel caso del rajas e del tamas; talaltra questo non accade ed è allora compito del guru o del commentatore darne conto allo studente.
Applicando la regola del vidhāna all'elenco delle stesse tantrayukti, si comprende come essa sia considerata meno importante di molte altre regole. Conviene allora esaminare la regola di presentazione più importante, quella che occupa il primo posto: l'adhikaraṇa, cioè l'argomento di un testo, regola che non è così ovvia come potrebbe sembrare a prima vista in base alle definizioni che ne sono date. Dice infatti Suśruta che l'adhikaraṇa è l'argomento che si sceglie prima di parlare (Suśrutasaṃhitā, Uttaratantra, LXV, 8); quindi un autore, prima di impartire un insegnamento orale o di comporre un trattato, sceglie precisamente l'ambito da trattare; così i grandi saggi, prima di esporre l'āyurveda, hanno deciso che il loro adhikaraṇa sarebbe stato costituito dalle malattie, roga (Cakrapāṇidatta ad Carakasaṃhitā, Siddhisthāna, XII, 41cd-5ab). La definizione di adhikaraṇa non si riferisce soltanto all'argomento di un libro intero ma anche a quello di sezioni, capitoli, paragrafi e proposizioni, cosa che rende tutto molto più complicato; l'alto livello di ambiguità della lingua sanscrita, dovuto alla grande quantità di significati che ogni parola può assumere, fa sì che per comprendere il testo sia essenziale conoscere l'adhikaraṇa di cui si sta parlando; se, per esempio, si espone la posologia di un farmaco, l'adhikaraṇa è costituito dall'affezione curata da quel farmaco. Nei testi moderni occidentali la funzione dell'adhikaraṇa è svolta dal titolo posto all'inizio dell'opera e di ogni capitolo, mentre nei libri āyurvedici, in particolare in quelli più antichi, non sempre è così e spesso il titolo non ha nulla a che vedere con l'argomento ma riguarda la forma o la funzione della sezione oppure è la prima parola del testo. Sūtrasthāna (Sezione sui principî fondamentali), per esempio, è il titolo della sezione contenente i principî fondamentali da memorizzare; Dīrghañjīvitīya (Relativo alla longevità) è il titolo del primo capitolo della Carakasaṃhitā che inizia con le parole dīrghaṃ jīvitam, 'lunga vita'. In molti casi l'adhikaraṇa è nascosto all'interno del testo ed è difficile riconoscerlo senza l'aiuto di un commento.
Conoscendo la tantrayukti dell'adhikaraṇa, molte apparenti contraddizioni cessano di essere tali; per esempio, a volte ci si stupisce che l'āyurveda sia definito come 'ciò che ha otto membra' (aṣṭāṅga), vale a dire l'insieme di medicina generale, pediatria, psichiatria, oftalmologia-otorinolaringologia, chirurgia, tossicologia, geriatria e andrologia, ma che poi i testi non siano affatto divisi in otto parti corrispondenti alle 'otto membra'. In realtà, dal momento che queste sono adhikaraṇa, come tali possono essere contenute in qualsiasi sezione dei testi āyurvedici.
Se poi si pensa che le tantrayukti sono più di trenta e che ciascuna di esse presenta una complessità pari a quella dei due esempi sopracitati, si può capire quale profondità di lettura sia consentita dal contemporaneo impiego di tutte le regole interpretative. Si tratta di un sistema altamente sofisticato di presentazione delle informazioni; affinché esse non siano utilizzate in modo scorretto, esso è applicato a tutto il testo, ma in maniera particolare alle definizioni, permettendo di chiarirne il vero significato.
Leggendo i trattati più antichi di medicina si noterà che non tutti gli argomenti d'indagine sono rigorosamente definiti e dimostrati ma molto è dato per scontato. Evidentemente si ritiene che non sia necessario argomentare a sostegno di concetti comuni o dimostrati da altre scuole non āyurvediche, come, per esempio, le teorie filosofiche; ciò che bisogna dimostrare è la teoria che contraddistingue una particolare scuola āyurvedica, magari in opposizione a scuole concorrenti. D'altra parte, la forma stessa dell'esposizione, specie nella Carakasaṃhitā (Raccolta di Caraka), non è esclusivamente sistematica; infatti, talvolta si narra un mito, talaltra si tratteggiano un simposio e le discussioni svoltesi fra i dotti, senza contare la cornice d'introduzione ai vari argomenti, che è costituita dal dialogo che si svolge fra il maestro e i discepoli. Nell'āyurveda la forma dialogica ha meno importanza di quella che riveste nelle opere di Platone, ma, come in questo autore, essa sta a indicare il maggior valore attribuito alla trasmissione orale rispetto a quella scritta.
Per vedere come operi l'arte definitoria degli autori medici si può prendere a esempio lo stesso termine āyurveda; nell'accezione più comune esso è 'la conoscenza, il sapere sacro' (veda) relativo alla 'vita' o 'longevità' (āyus). La parola āyus, che in questo composto si presenta nella forma āyur per motivi di eufonia, appartiene a una famiglia indoeuropea di nomi (gr. aiōn, lat. aeuus, aeternus, got. aiws) il cui significato è correlato, da una parte, al tempo e alla durata, dall'altra alla forza vitale. Considerando l'etimologia, quindi, āyus è sia la vita umana nella sua piena durata, che in questa era cosmica o kaliyuga è di circa cent'anni, sia la pienezza della vitalità e dell'energia. Questo è il significato più antico e comune di āyus, l'accezione che esso aveva già nei testi vedici, dove gli dèi erano frequentemente invocati affinché accrescessero all'uomo il soffio (prāṇa), la prole, il bestiame, la fama e soprattutto l'āyus stesso (per es., Atharvaveda, XIX, 63, 1).
Nella Carakasaṃhitā questa definizione corrente di āyus è data per assodata e si preferisce enunciarne di meno scontate e più tecniche, come la seguente: l'āyus è "l'unione di corpo, organi, mente (sattva) e sé (ātman)" (Carakasaṃhitā, Sūtrasthāna, I, 42a). Questa definizione, ripresa e illustrata in un passo successivo, ha tra le sue funzioni quella di sottolineare l'impostazione psicosomatica della medicina indiana; suo oggetto e campo di indagine non è soltanto il corpo, ma l'intero essere vivente, e quindi anche le funzioni dei sensi (vista, udito, odorato, gusto e tatto), la mente e il sé; inoltre essa rimanda, per esempio, ai passi dove si spiega come l'uso non corretto delle facoltà sensoriali e psicologiche sia un fattore scatenante di varie patologie. Ovviamente, l'āyurveda non contiene una psicologia in senso moderno, tuttavia si occupa anche delle origini organiche delle malattie mentali.
L'āyurveda è anche definito come ciò che parla dell'"āyus giovevole e nocivo, felice e infelice, di ciò che giova o nuoce all'āyus, della durata dell'āyus e dell'āyus stesso" (ibidem, I, 41). Tale definizione è degna di nota perché molto più ampia di quella che generalmente si applica alla medicina in un contesto moderno e occidentale; infatti è innanzi tutto evidente la volontà di includere nell'āyurveda, almeno idealmente, tutti i comportamenti salutari e non salutari che si possono adottare durante la vita, ossia non soltanto un regime moderato, ma anche una serie di azioni etiche che si ripercuotono positivamente sull'āyus di chi le compie. Per esempio, è 'giovevole' desiderare il bene degli esseri viventi, non provare alcuna cupidigia per le ricchezze degli altri, dire la verità, amare la pace (ibidem, XXX, 24). D'altra parte, la vita 'felice' non è soltanto quella vissuta da chi realizza gli obiettivi che si propone, ma anche quella in cui regna uno stato di buona salute, perché, come dice un verso molto citato della Carakasaṃhitā, l'assenza di malattie è la 'radice', la causa principale, degli obiettivi primari che si possono perseguire nella vita umana, cioè l'osservanza delle leggi (dharma), il profitto e la carriera (artha), il piacere (kāma) e la liberazione (mokṣa) (ibidem, I, 15b). Dunque la medicina è un sapere sacro che crea le condizioni favorevoli per l'esercizio di qualsiasi altra disciplina o scienza, sia essa la giurisprudenza, la politica, l'ars amandi o la religione, perché chi è gravemente malato stenta a praticare qualunque attività.
L'āyurveda, quindi, determina ciò che giova o nuoce alla vita, pertanto non è solamente cura, ma anche azione preventiva che consiste nell'evitare i cibi e i comportamenti nocivi alla propria costituzione psicofisica; un ulteriore compito del medico è determinare la misura dell'āyus, cioè quanto resta da vivere al paziente, perciò i testi classici contengono ampi repertori di segni che permettono di valutare la robustezza di una persona e prevedere la durata residua della sua vita (per es., l'Indriyasthāna della Carakasaṃhitā).
Āyurveda e Yoga
Al fine di chiarire ulteriormente qual è l'oggetto specifico dell'āyurveda occorre spiegare in quale senso esso adotti una prospettiva psicosomatica e questo risulta più facile se lo si confronta con lo Yoga. Infatti, la medicina rimanda ai testi di Yoga per la meditazione o la coltivazione di particolari stati mentali, come lo sviluppo della consapevolezza e l'estasi, anche se non si occupa esclusivamente del mondo fisico e della dimensione corporea, ma estende le sue prescrizioni pure alla sfera mentale. Emblematico, in questo senso, è un famoso passo di Cakrapāṇidatta che commenta le prime parole della Carakasaṃhitā: "Sia lode al Signore dei serpenti, che distrugge i difetti della mente, della parola e del corpo per mezzo dell'opera di Patañjali, del Mahābhāṣya e dell'opera ricomposta da Caraka". Qui il mitico Śeṣa, Signore dei serpenti e amico fidato di Viṣṇu, è ritenuto essere la fonte di tre provvidenziali incarnazioni: la prima è Patañjali, il maestro che sistematizzò le dottrine dello Yoga negli Yogasūtra (Aforismi sullo Yoga); la seconda, con lo stesso nome, è la figura di un celebre grammatico, autore del Mahābhāṣya (Grande commento), un commento all'opera di Pāṇini; infine, la terza è Caraka, che riorganizzò in un ponderoso volume gli insegnamenti medici del maestro Agniveśa. Ciascuno di questi tre personaggi diede agli esseri umani uno strumento affinché si potesse rimediare alle imperfezioni mentali, verbali oppure fisiche: lo Yoga per eliminare i problemi della mente, la grammatica per correggere gli errori della parola e la medicina per curare le malattie del corpo.
Questa invocazione mostra quindi come gli stessi autori medici riconoscano una certa divisione di campo fra lo Yoga e l'āyurveda. Nei trattati medici classici non si menzionano né gli āsana o 'posizioni' dello Yoga, né i cakra, o ruote energetiche, né la fisiologia mistica dei soffi, prāṇa, e dei canali, nāḍī; anzi, la medicina indiana, presentandosi come uno śāstra indipendente, cerca di conseguire il proprio fine di salute psicofisica persino in contrasto con i dettami religiosi e ascetici, e così, nei casi in cui sia utile per la salute del paziente, prescrive il consumo di carne dell'animale più sacro agli Indiani, la vacca, e di altri animali (per es., Carakasaṃhitā, Cikitsāsthāna, VIII, 158); più raramente invita a far uso di alcolici; in generale, comunque, raccomanda il soddisfacimento dei bisogni fisici (fame, sete, sonno, desiderio sessuale, impulso a sbadigliare, piangere, ridere, urinare, defecare, ecc.), e questo ovviamente è in contrasto con un'intensa pratica ascetica, che controlla e disciplina gli impulsi fisici per non turbare il lavoro sulla mente.
Yoga e āyurveda hanno tuttavia in comune l'esercizio dell'individuazione degli ariṣṭa, i segni premonitori di morte; lo yogin li applica a sé stesso per sapere quanto tempo gli resta per praticare e prepararsi al trapasso, e il medico li riconosce nel paziente per capire quale efficacia possano avere le cure ed evitare l'accanimento terapeutico (Yogasūtra, II, 22; Carakasaṃhitā, Indriyasthāna).
Il periodo oscuro
Non ci sono testi medici indiani che documentino la nascita e lo sviluppo dell'āyurveda nel corso del I millennio a.C., benché l'Atharvaveda (Veda degli Atharvan) attesti che già in epoca molto antica veniva utilizzata una consistente quantità di nozioni anatomiche e fisiologiche. Notizie indirette sono fornite da fonti religiose, come, per esempio, alcune Upaniṣad tarde (Maitryupaniṣad, o Upaniṣad della benevolenza; Praśnopaniṣad, o Upaniṣad delle domande; Garbhopaniṣad, o Upaniṣad dell'embrione), dallo Śatapathabrāhmaṇa (Brāhmaṇa dei cento sentieri), dal Canone buddhista e da vari altri tipi di fonti come il commento di Kātyāyana a Pāṇini (risalente alla fine del IV sec. a.C.), i Gṛhyasūtra (raccolte sui rituali domestici), i Dharmasūtra (raccolte sul dharma), l'epica e i Purāṇa (alcuni di questi testi potrebbero tuttavia essere posteriori ai classici della medicina).
Le Upaniṣad contengono soprattutto speculazioni sui cinque soffi (prāṇa) e nozioni di embriologia, mentre lo Śatapathabrāhmaṇa menziona il flegma come causa di patologie. Il Mahāvagga (Sezione dei testi estesi; VIII, 1) una sezione del Vinayapiṭaka (Cesta della disciplina), che è parte del Canone buddhista, fornisce un esempio interessante di esercizio della professione medica con la storia di Jīvaka Komārabhacca, un medico che riuscì a diventare archiatra del gineceo reale e dell'ordine monastico buddhista risolvendo alcuni casi disperati di mal di testa, fistola, torsione intestinale, ittero, e praticò addirittura la trapanazione del cranio. Il contesto culturale medico in cui operava Jīvaka Komārabhacca è molto simile a quello descritto nei testi classici āyurvedici: esami conclusivi per lo studente di medicina, prognosi che calcola i giorni di vita del paziente, rifiuto dell'accanimento terapeutico. Il Mahāvagga (VI) fornisce altre notizie narrando episodi in cui il Buddha autorizza i monaci a usare, in caso di malattia, una gran quantità di medicine, tra cui piante officinali comunemente usate in āyurveda, grassi di animali (orso, pesce, gaviale, maiale, asino), brodo, procedimenti sudoriferi, salasso, antidoti al veleno dei serpenti. Lo stesso Buddha è soggetto, di tanto in tanto, a coliche addominali e a 'disordine degli elementi patogeni', espressione, questa, che indica una tipica concezione āyurvedica (ibidem, VIII, 1, 30). D'altronde, per illustrare il proprio insegnamento, il Buddha utilizzò la similitudine dei quattro elementi terapeutici presentando la sofferenza del saṃsāra come malattia, l'origine della sofferenza come eziologia, il nirvāṇa come guarigione e il dharma come terapia; ciò vuol dire che la pratica della medicina era diffusa al punto da essere largamente nota in ogni ambiente. Da queste fonti si apprende che nella seconda metà del I millennio a.C. in India c'erano senz'altro medici professionisti che sistematicamente esercitavano la pratica medica e utilizzavano concetti e farmaci caratteristici dell'āyurveda.
Le notizie fornite da alcuni autori greci costituiscono un segno ulteriore dello sviluppo della medicina indiana intorno a quest'epoca. Le teorie umorali esposte nel Corpus Hippocraticum sono talvolta molto simili alle dottrine āyurvediche; la pneumatologia del trattato ippocratico Sui venti, per esempio, mostra analogie stupefacenti con il modo in cui Caraka, Bhela e Suśruta insegnano la fisiologia del vento organico (Carakasaṃhitā, Sūtrasthāna, XII, 1-17; Bhelasaṃhitā, Sūtrasthāna, XVI, 1-23; Suśrutasaṃhitā, Nidānasthāna, I, 1-90). Tuttavia la diversità fra le concezioni fondamentali delle due letterature induce a ipotizzare soltanto che possono esservi delle connessioni, più che un rapporto di filiazione diretta fra i testi (Filliozat 1975).
Nel Timeo di Platone sono distinte tre classi di malattie e la terza comprende i disturbi generati dallo pneuma, dal flegma e dalla bile (84d-86a); la teoria dei tre umori esposta in questo passo è molto più simile a quella āyurvedica che non a quelle presenti nei trattati ippocratici. Platone afferma inoltre che la bile, sottoposta all'azione del calore, da dolce diviene salata, e questo fatto, che non può essere oggetto di esperienza, è teorizzato anche dall'āyurveda (Timeo, 83c-d; Suśrutasaṃhitā, Sūtrasthāna, XXI, 12). Altrove Platone riconosce nel corpo umano l'esistenza di due canali paralleli alla colonna vertebrale (Timeo, 77d), che fanno pensare alle nāḍī della letteratura tantrica; assegna a ogni elemento cosmico una figura geometrica poliedrica, così come fanno alcuni testi tantrici che però utilizzano figure piane (ibidem, 55e-56b); formula infine una teoria della visione che postula all'interno dell'occhio l'esistenza del fuoco (ibidem, 45b-d), analogamente a quanto fa Suśruta (Suśrutasaṃhitā, Sūtrasthāna, XXI, 7). Difficilmente queste analogie potrebbero essere casuali e, quindi, se non si vuole dare credito all'idea che Platone abbia ricevuto queste idee dalla tradizione pitagorica e che Pitagora le avesse a sua volta raccolte nel corso di un viaggio in Oriente, occorre comunque ipotizzare che siano esistiti contatti fra la Grecia e l'India anche anteriormente alla conquista di Alessandro Magno, e in particolare sotto l'Impero persiano, che dalla fine del VI sec. a.C. aveva riunito in un unico stato terre lontane come il Sindh, l'Egitto e la Ionia (Filliozat 1975).
Testimonianze dirette sulla medicina indiana si hanno poi dai soldati greci che accompagnarono Alessandro nelle sue spedizioni (331 a.C.). Nearco, per esempio, notò come gli Indiani fossero abili nel curare il morso dei serpenti; secondo la testimonianza di Megastene, che fra il 302 e il 291 a.C. fu più volte ambasciatore presso il re indiano Sandrokottos (nome greco del sanscrito Candragupta), i medici erano molto stimati dalla popolazione indiana e curavano più con il regime di vita che con i farmaci. L'arte veterinaria era praticata soprattutto nei confronti degli elefanti.
Queste dichiarazioni, insieme a molti altri indizi e comuni oggetti d'indagine nella medicina greca e in quella indiana, mostrano che durante il I millennio a.C. l'āyurveda non cessò di svilupparsi e di operare, fino a trovare una formulazione ideale nei tre grandi classici di Caraka, Suśruta e Vāgbhaṭa, che con il loro successo avrebbero offuscato e poi fatto scomparire tutta la letteratura precedente.
La Carakasaṃhitā
La datazione della Carakasaṃhitā (Raccolta di Caraka), il più antico testo āyurvedico oggi esistente, è molto discussa; alcuni studiosi indiani tendono ad accentuarne l'antichità, retrodatandone la composizione alla prima metà del I millennio a.C. (per es., Sanyal 1964), mentre gli indologi occidentali ne spostano la data fino a un periodo compreso fra il 100 a.C. e il 150 d.C. (Meulenbeld 1999). Qualora si accetti questa seconda ipotesi, che è suffragata da evidenze interne ed esterne, e ci si basi sul testo così come è stato tramandato, occorre però ricordare che esso contiene sicuramente elementi molto più antichi.
La Carakasaṃhitā è un'opera assai voluminosa (la sua traduzione inglese occupa 1051 pagine nella edizione della Gulabkunverba Society) e il fatto che nel corso dei secoli sia stata preferita a trattati più snelli o meno complessi è senz'altro dovuto a sue particolari caratteristiche che ne fanno un classico di primaria importanza. Infatti, come in essa si legge, è adatto ai tre tipi di studenti d'intelligenza superiore, media e inferiore, tratta soprattutto di medicina generale ed è sapientemente strutturato in base alle regole di presentazione (tantrayukti) e a numerose dottrine filosofiche attinte da diversi darśana ('sistemi filosofici'). L'autore o gli autori di quest'opera evidentemente padroneggiavano non soltanto il sapere medico ma anche la filosofia, citandone i testi con grande cognizione di causa; i successivi testi āyurvedici, invece, sono molto meno abili nell'utilizzare concetti filosofici, oppure preferiscono limitarsi all'ambito medico. Tuttavia, non è molto convincente l'ipotesi che siano i sūtra filosofici indiani a essere debitori nei confronti della medicina, perché nell'āyurveda le tesi filosofiche, a differenza di quelle mediche, sono di solito date per scontate, e non dimostrate, appartenendo ad altri śāstra. Inoltre, la medicina si prende la libertà di utilizzare dottrine filosofiche contrastanti fra loro, come le definizioni diverse del sé e della mente tratte da vari darśana. Cakrapāṇidatta, nel commento alla Carakasaṃhitā (Sūtrasthāna, VIII, 3), osserva che l'āyurveda ha punti di contatto con tutte le scuole di pensiero, e dunque, se anche contiene qualche dottrina contraddittoria presa da altri, comunque non è in contraddizione con sé stesso, in quanto la contraddizione sorgerebbe soltanto se l'āyurveda sostenesse teorie incompatibili con i propri principî (per es., con le regole che stabiliscono l'aumento o la diminuzione degli elementi patogeni in rapporto a determinate sostanze).
Secondo la tradizione la Carakasaṃhitā sarebbe stata trasmessa ad Agniveśa da Punarvasu Ātreya, discepolo di Bharadvāja (protagonista del mito di fondazione); l'opera sarebbe poi stata ricomposta da Caraka e avrebbe subìto alcune aggiunte da Dṛḍhabala. Non è semplice però assegnare a questi personaggi un'identità storica precisa che consenta di datare il testo; a questo scopo è invece necessario ricorrere ad altri elementi quali una traduzione in arabo, compiuta nell'VIII o IX sec. d.C.; il fatto che Caraka sia citato da Bhartṛhari nel V sec. d.C.; fonti cinesi tradotte dal sanscrito, attestanti che ai tempi del re Kaniṣka (I-II sec. d.C.), che fu patrono del buddhismo, era noto un medico di nome Caraka, del quale è però dubbia l'identificazione con il redattore della Carakasaṃhitā, perché sarebbe strano che, sebbene opera di un esponente della corte di Kaniṣka, essa non menzioni il nome di alcun re e contenga soltanto riferimenti marginali al buddhismo, a volte anche polemici (ibidem, Śārīrasthāna, I, 46-8). Questi e altri indizi fanno tuttavia pensare che la Carakasaṃhitā sia posteriore alla diffusione del buddhismo in India e alla formulazione delle prime opere filosofiche del Sāṃkhya e del Vaiśeṣika, in particolare del Vaiśeṣikasūtra (Aforismi del Vaiśeṣika, dal II sec. a.C. all'inizio dell'era cristiana), che essa cita in più occasioni, insieme ad altri testi, come la Yājñavalkyasmṛti (Codice tradizionale di Yājñavalkya, I sec. a.C.-III sec. d.C.). è possibile ipotizzare quindi che la Carakasaṃhitā sia stata composta in un periodo compreso tra il I sec. a.C. e il I sec. d.C. (Meulenbeld 1999).
La Suśrutasaṃhitā
Posteriore a Caraka è Suśruta; argomento principale della sua opera la Suśrutasaṃhitā (Raccolta di Suśruta), è la chirurgia e, coerentemente con questa impostazione, fin dalle prime pagine, egli rivendica la superiorità della disciplina chirurgica rispetto alle altre branche della medicina. Persino il mito di fondazione ne risulta influenzato in quanto a esporre l'āyurveda non è più Bharadvāja ma Divodāsa Dhanvantari, re di Benares e incarnazione del dio Dhanvantari. Il re, avvicinato da un gruppo di saggi che gli chiedono l'insegnamento per aiutare gli esseri umani ammalati, comincia dicendo che Brahmā compose l'āyurveda in centomila strofe, ma poi, accortosi che gli uomini avevano vita breve e intelletto limitato, rifuse la materia in otto parti (aṣṭāṅga): chirurgia (śalya), oftalmologia-otorinolaringoiatria (śālākya), medicina generale (kāyacikitsā), psichiatria (bhūtavidyā), pediatria (kaumārabhṛtya), tossicologia (agadatantra), geriatria (rasāyaṇatantra) e andrologia (vājīkaraṇatantra). Dhanvantari chiede poi ai suoi studenti quale parte desiderino ascoltare, ed essi, primo fra tutti Suśruta, rispondono che sono interessati a un insegnamento basato sulla conoscenza della chirurgia. Soltanto dopo questo preambolo sono esposti lo scopo, la definizione e i mezzi di conoscenza dell'āyurveda, ribadendo ancora una volta l'importanza della prevenzione: "Scopo della medicina è la cessazione completa della malattia per coloro che ne sono afflitti e la protezione di colui che è sano" (Suśrutasaṃhitā, Sūtrasthāna I, 14). Poi, in forma molto sintetica, si parla dei mezzi di conoscenza, gli stessi di cui tratta Caraka, a eccezione del quarto, il ragionamento, che Suśruta sostituisce con l'analogia.
Per ribadire la superiorità della chirurgia Dhanvantari narra il mito del primo trapianto di organi: la testa di Yajña, l'incarnazione del sacrificio, era stata tagliata dal dio Rudra, incollerito per non essere stato invitato a una cerimonia; allora gli dèi chiesero aiuto ai divini gemelli Aśvin, promettendo loro la supremazia, ed essi riattaccarono a Yajña la sua testa (ibidem, I, 17). Senz'altro erano numerose le situazioni in cui la chirurgia costituiva l'unica via di uscita, come le ferite in guerra, l'estrazione di frecce e altri corpi estranei, l'incisione di ascessi, i morsi di serpenti e altri animali velenosi, i problemi del parto, specie se il feto era già morto, la necessità di un salasso; Dhanvantari ribadisce che fin dai tempi più antichi la chirurgia ha dimostrato la sua notevole importanza per la rapidità del modus operandi, per l'uso degli strumenti a essa peculiari (bisturi smussati e affilati, caustici, cauteri) e per il fatto di poter essere impiegata in tutte le otto parti dell'āyurveda; essa, infatti, è eterna, sacra, fa andare in cielo dopo la morte, rende famosi, concede lunga vita e ricchezza a colui che la esercita (ibidem, I, 18-19).
Questa vibrata apologia dell'arte chirurgica, con cui si apre il secondo grande classico dell'āyurveda, fa pensare che all'epoca della sua composizione la medicina generale fosse già molto diffusa mentre la chirurgia incontrasse qualche difficoltà, forse per i maggiori rischi cui poteva esporre i pazienti. Tuttavia, per questo motivo o forse per l'avversione indiana nei confronti del contatto con il sangue e i liquidi organici, originata dai tabù di casta, la pratica della chirurgia insegnata dalla Suśrutasaṃhitā non si diffuse quanto quella della medicina generale spiegata da Caraka e poi da Vāgbhaṭa. Inoltre, la sua menzione dell'autopsia (Suśrutasaṃhitā, Śārīrasthāna, V, 47-9) rimase un caso isolato, con la conseguenza che anche l'anatomia non poté avere quello sviluppo che è legato a un'attiva scuola chirurgica. A ogni modo, l'importanza dei temi affrontati fece sì che il terzo grande autore classico, Vāgbhaṭa, incorporasse nella sua trattazione sistematica molti elementi provenienti da Suśruta, pur adottando una cornice di medicina generale analoga a quella di Caraka.
Sono state formulate varie ipotesi in merito all'epoca di composizione della Suśrutasaṃhitā. La prima riguarda l'esistenza di parti o strati di diversa antichità, attribuibili a due o più autori, chiamati Vṛddhasuśruta (Suśruta il Vecchio) e Navīnasuśruta (Suśruta il Giovane), oppure Suśruta e Nāgārjuna. Mentre Dṛḍhabala, l'autore di aggiunte alla Carakasaṃhitā, indica chiaramente il suo contributo nel colofone di ogni capitolo inserito nell'opera originale, il nome dei due Suśruta o di Nāgārjuna non si ritrova in nessun colofone, a eccezione di un verso dell'edizione di Muralidhar. Ḍalhaṇa, tuttavia, nel suo commento afferma chiaramente che un autore di nome Nāgārjuna effettuò una revisione del testo della Suśrutasaṃhitā e aggiunse una sezione denominata Uttaratantra (Sezione supplementare). A causa di questa affermazione molti hanno ritenuto che le prime cinque sezioni dell'opera siano più antiche dell'ultima e hanno cercato di datarle separatamente, ma restano molti punti interrogativi: il nome di Nāgārjuna è tipico di autori buddhisti, eppure la Suśrutasaṃhitā non ha un orientamento buddhista; a differenza di Caraka, che faceva riferimento a molti sistemi filosofici, Suśruta si avvale quasi esclusivamente delle dottrine filosofiche del Sāṃkhya; i riferimenti positivi ai Veda, ai sacrifici, ai brahmani e all'induismo mostrano la supremazia di questa religione, mentre la scarsità degli accenni al buddhismo e al jainismo potrebbe essere indizio di un'epoca in cui questi due movimenti religiosi attraversavano una fase di decadenza (infatti le vesti consunte di un monaco compaiono, insieme alle feci, alle piume e alla pelle di un gallo e a quella di serpente, in un elenco di oggetti usati per un esorcismo) (ibidem, Uttaratantra, XXXIII; Meulenbeld 1999).
A ogni modo, ci sono alcuni elementi provenienti da regioni fuori dall'India, e appartenenti a un'epoca tarda, che costituiscono punti di riferimento cronologici abbastanza sicuri. Così, la Suśrutasaṃhitā è menzionata in un'iscrizione del re khmer Yaśovarman (889-900 d.C.), ma ancor prima essa era stata tradotta in persiano e arabo dal medico Manka (766-809 d.C.). Inoltre, Suśruta è sicuramente citato dal Bhāvaprakāśa (Illuminazione degli intendimenti), dal Garuḍapurāṇa (Purāṇa di Garuḍa), dal Bhaviṣyapurāṇa (Purāṇa del futuro), dal Bālarāmāyaṇa (Le gesta di Rāma fanciullo) e dal Naiṣadhacarita (Le gesta di Nala). Sono stati invece considerati meno attendibili, ai fini di una datazione, i riferimenti che si trovano in Pāṇini, nel Manoscritto Bower, nei trattati di ippiatria e, infine, in una narrazione riguardante le vite anteriori del Buddha (Meulenbeld 1999).
Qualche aiuto giunge dal confronto con Caraka. Innanzitutto, Cakrapāṇidatta sostiene che Dṛḍhabala, per completare la Carakasaṃhitā, utilizzò il testo della Suśrutasaṃhitā e, dunque, se quest'affermazione corrispondesse al vero, Suśruta sarebbe anteriore all'epoca di Dṛḍhabala (IV-VI sec. d.C.). In secondo luogo, Suśruta è generalmente considerato più tardo di Caraka sia perché il suo trattato si configura in modo più scarno, tecnico e meno umanistico, sia perché le dottrine Sāṃkhya ivi contenute sono tipiche di un periodo posteriore rispetto a quelle esposte da Caraka. Alcuni passi sono comuni a entrambi i testi ma questo non prova l'anteriorità di un testo rispetto all'altro, anche a causa dei rifacimenti che entrambi hanno subìto. In conclusione, la data più probabile per il nucleo originario della Suśrutasaṃhitā sembra essere il II-III sec. d.C.
L'Aṣṭāṅgasaṃgraha e l'Aṣṭāṅgahṛdayasaṃhitā
Il terzo classico che forma la 'Grande Triade' è quello di Vāgbhaṭa, a cui sono attribuiti due trattati: l'Aṣṭāṅgasaṃgraha (Compendio delle otto parti [della medicina]), in prosa e in versi, molto esteso, e l'Aṣṭāṅgahṛdayasaṃhitā (Raccolta del cuore delle otto parti [della medicina]), in versi ed estremamente sintetico, tanto da essere difficilmente comprensibile senza un commento. A prima vista, il secondo potrebbe sembrare un riassunto del primo, volto a facilitarne la memorizzazione, ma nel secondo si trovano passi assenti nel primo. Questo ha fatto ipotizzare che l'Aṣṭāṅgasaṃgraha sia stato scritto dopo l'Aṣṭāṅgahṛdayasaṃhitā e che sia un rifacimento ampliato e commentato di quest'ultima, tuttavia il consenso su questa ipotesi non è unanime. A Vāgbhaṭa è attribuito anche il trattato alchemico Rasaratnasamuccaya (Summa dei gioielli delle essenze) e numerose altre opere mediche.
Pochi sono i punti fermi a proposito dell'identità di Vāgbhaṭa, della sua datazione e dei testi a lui attribuiti. Innanzi tutto, sia l'Aṣṭāṅgasaṃgraha sia l'Aṣṭāṅgahṛdayasaṃhitā citano Caraka e Suśruta, e quindi appartengono a un periodo posteriore rispetto a questi autori. In secondo luogo, l'Aṣṭāṅgahṛdayasaṃhitā, con il commento di Candrānandana, è stata tradotta in tibetano da Rin-chen-bzang-po tra il 1013 e il 1055 e questa traduzione ha acquisito grande notorietà, tant'è vero che l'opera classica fondamentale della medicina tibetana, il Rgyud-bzhi (Quattro tantra [della medicina]), tradizionalmente attribuito a Vairocana, contiene almeno una strofa identica all'Aṣṭāṅgahṛdayasaṃhitā (Sūtrasthāna, XVI, 46); esiste, inoltre, una traduzione persiana di un'opera di Vāgbhaṭa, probabilmente l'Aṣṭāṅgahṛdayasaṃhitā, redatta nel 1473 d.C. Alcune notizie su Vāgbhaṭa sono fornite dallo stesso testo dell'Aṣṭāṅgasaṃgraha (Uttarasthāna, L, 203-204), dove è detto che il nonno dell'autore era un eccellente medico e si chiamava Vāgbhaṭa, mentre il padre era Siṃhagupta; l'autore nacque nel Sindh e fu istruito dal padre e da un guru di nome Avalokita. Sia il nome del guru, che sembra alludere al bodhisattva Avalokiteśvara, sia la strofa dedicatoria all'inizio dei due trattati hanno fatto sospettare che Vāgbhaṭa fosse buddhista; la strofa dedicatoria iniziale è rivolta infatti a un ekavaidya o 'unico medico', che "elimina rapidamente dal mondo tutte le malattie innate, a cominciare dal desiderio (rāgādiroga), insieme alla loro radice" (Aṣṭāṅgasaṃgraha, I, 1); l'Aṣṭāṅgahṛdayasaṃhitā si rivolge invece a un apūrvavaidya, un 'medico senza precedessori', che potrebbe essere il Buddha, o una divinità hindu o altro, sul quale i commenti indigeni non danno chiarimenti. Fra gli altri argomenti a sostegno dell'adesione al buddhismo da parte di Vāgbhaṭa c'è il fatto che egli menziona divinità buddhiste quali Āryāvalokiteśvara e Āryatārā (Aṣṭāṅgasaṃgraha, Sūtrasthāna, VIII, 59), oppure Bhaiṣajyaguru, il Buddha della medicina, del quale è citato anche il mantra, tuttora in uso presso le scuole del buddhismo tibetano (Aṣṭāṅgahṛdayasaṃhitā, Sūtrasthāna, XVIII, 18; Aṣṭāṅgasaṃgraha, Sūtrasthāna, XXVII, 12). Le opere di Vāgbhaṭa contengono tuttavia numerosi elementi tipicamente induisti e questo ben si spiega con il fatto che induiste sono le sue fonti, cioè Caraka e Suśruta.
Per indagare meglio l'orientamento religioso di Vāgbhaṭa si è anche seguito il metodo di rilevare ciò che egli ha aggiunto, sottratto o modificato rispetto alle sue fonti; queste ricerche hanno dato risultati estremamente interessanti; spesso egli conserva il sostrato induista delle fonti aggiungendo termini e concetti tipici del buddhismo ma non completamente estranei all'induismo. Se da un lato insiste sull'esercizio della benevolenza (maitrī; per es., Aṣṭāṅgasaṃgraha, Cikitsāsthāna, XXI, 135) e della compassione (karuṇā; Aṣṭāṅgasaṃgraha, Śārīrasthāna, XII, 4), dall'altro sottolinea l'importanza di frequentare gli 'amici spirituali' (kalyāṇamitra) e di evitare gli altri (Aṣṭāṅgahṛdayasaṃhitā, Sūtrasthāna, II, 21); inoltre, mentre Caraka e Suśruta consigliano di non prendere in cura un paziente in fin di vita, Vāgbhaṭa raccomanda, con parole che sembrano tipiche della compassione buddhista, di curarlo fino all'ultimo respiro (ibidem, VII, 30-31). Complessivamente, dal momento che è difficile negare la presenza contemporanea e organica di elementi induisti e buddhisti in entrambe le opere attribuite a Vāgbhaṭa, sembra verosimile che l'autore o gli autori coltivassero un atteggiamento sincretistico, ancora oggi non infrequente nel subcontinente indiano.
Quanto all'identità dell'autore, l'idea che ciascuno dei due trattati sia stato composto da uno scrittore diverso nasce innanzitutto dall'abitudine dei commentatori di citare l'Aṣṭāṅgasaṃgraha come opera di un Vṛddhavāgbhaṭa (Vāgbhaṭa il Vecchio) e l'Aṣṭāṅgahṛdayasaṃhitā semplicemente come opera di Vāgbhaṭa. Secondo alcuni autori indiani, però, in questo modo non s'intendeva affermare l'esistenza di due diversi autori, ma soltanto distinguere due versioni, la maggiore e la minore, oppure l'anteriore e la posteriore, dell'opera di uno stesso autore (Meulenbeld 1999). Un'altra ipotesi, in relazione alla quale però non ci sono prove, è che l'Aṣṭāṅgahṛdayasaṃhitā sia stata composta da un omonimo discendente dell'autore dell'Aṣṭāṅgasaṃgraha. Da evidenze interne, comunque, sembra che sia possibile supporre l'esistenza di due autori. La datazione loro assegnata varia dal 3000 a.C. al XII sec. d.C., ma la maggior parte della critica propende per un periodo che va dal IV al VII sec. d.C.
Per quanto riguarda la struttura interna e il contenuto, Vāgbhaṭa segue da vicino i suoi modelli, ma inserisce anche materiale diverso; per esempio, spesso l'inizio dei capitoli è simile a quello della Carakasaṃhitā, ma la fine se ne discosta; i titoli delle sezioni sono gli stessi della Suśrutasaṃhitā, ma hanno un ordine diverso; infine, i due differenti miti di fondazione di Caraka e Suśruta sono fusi in un unico mito, che simboleggia tutta l'operazione compiuta da Vāgbhaṭa. I grandi saggi, fra cui Dhanvantari e Bharadvāja, dopo aver eletto come capo Punarvasu Ātreya si recano da Indra e gli chiedono un rimedio alle malattie che fanno da ostacolo al raggiungimento della virtù (dharma), del successo (artha), del piacere (kāma) e della liberazione (mokṣa). Il dio concede l'āyurveda, che protegge la vita, diviso in otto parti; i saggi, ritornati nel mondo, per preservare le conoscenze acquisite decidono di comporre trattati (tantra), che trasmettono oralmente ai loro discepoli Agniveśa, Suśruta, e così via.
Ciascuno di essi compone a sua volta un trattato e lo fa riascoltare ai maestri per avere la loro approvazione; chi è lodato ottiene la fama sulla Terra (Aṣṭāṅgasaṃgraha, Sūtrasthāna, I, 5-11). Questa riformulazione del mito di trasmissione dell'āyurveda è già di per sé stessa significativa; la struttura del mito è quella di Caraka, con il particolare che Punarvasu Ātreya è la guida, il capo dei saggi, tuttavia, nel mito sono inseriti tutti i personaggi della Suśrutasaṃhitā, soprattutto Dhanvantari, che viene menzionato prima di tutti gli altri, persino prima di Bharadvāja, e lo stesso Suśruta, il quale è nominato dopo Agniveśa, Hārīta, Bheḍa e Māṇḍavya. Dunque Vāgbhaṭa intende inserire nel suo trattato principalmente gli insegnamenti della Carakasaṃhitā, senza trascurare però Suśruta e gli apporti degli altri maestri.
Subito dopo aver esposto questo mito, Vāgbhaṭa constata che nessuno dei trattati precedenti è esaustivo nel campo medico; che, in compenso, essi richiedono moltissimo tempo per essere imparati a memoria e la vita di chi li studia si avvia rapidamente alla fine; che spesso contengono ripetizioni oppure spiegazioni dettagliate di ciò che è già detto in generale, senza riguardo al numero di parole usate. L'intenzione di Vāgbhaṭa è allora quella di concentrare in un solo libro la maggior parte dei trattati esistenti, scrivendo un manuale chiaro, né prolisso né laconico, privo di argomenti fuori luogo, coerente, con uno stile adeguato all'era cosmica attuale, il kaliyuga. Il suo trattato parlerà soltanto dei tre gruppi di cause, sintomi e rimedi, specificatamente per quanto concerne la medicina generale (kāyacikitsā), ciò di cui si fa sempre uso, gli argomenti difficili da conoscere, quelli che sono presenti in ogni parte della medicina (Aṣṭāṅgasaṃgraha, Sūtrasthāna, 13b-9). Vāgbhaṭa è quindi orientato a evitare le digressioni filosofiche di Caraka e a non adottare la spiccata predilezione di Suśruta per la chirurgia. Il suo fine è comporre un trattato didattico, sistematico, privo di orpelli, dove le definizioni continuamente accennate e riprese dai maestri si fissino in un solo luogo e in un'unica forma.
Questa introduzione metodologica è completamente assente nell'Aṣṭāṅgahṛdayasaṃhitā, e ciò costituisce una prova a favore dell'anteriorità relativa dell'Aṣṭāṅgasaṃgraha. Bisogna comunque dire che Vāgbhaṭa è riuscito nel suo intento se ha composto l'estrema sintesi in versi dell'Aṣṭāṅgahṛdayasaṃhitā al fine di aiutare ulteriormente gli studenti del kaliyuga a memorizzare in breve tempo l'intera materia medica; infatti, ancora oggi questo testo è imparato a memoria dai medici dell'India del Sud e le loro famiglie si riuniscono quotidianamente per ripeterne brani.
Altre fonti
Si è ancora lontani dal possedere una visione completa delle fonti āyurvediche e dall'averne compiuto uno studio sistematico. Nelle biblioteche indiane e occidentali, sia pubbliche sia private, esistono tuttora numerosi manoscritti inediti; molti di essi sono stati censiti e descritti nei grandi cataloghi dei secc. XIX-XX, ma senz'altro c'è ancora un numero rilevante di manoscritti di cui s'ignora il contenuto e che potrebbero portare a nuove scoperte. Comunque, a grandi linee, la storia dell'āyurveda è stata già tracciata, nonostante lo studio dei particolari sia in continua evoluzione.
Gli storici hanno seguito vari metodi per determinare l'epoca in cui le opere āyurvediche sono state composte. Innanzi tutto, il metodo di rilevare nelle opere le citazioni più o meno esplicite da altre fonti, al fine di stabilire una cronologia relativa; in secondo luogo, quello di individuare alcuni elementi che originariamente non erano presenti nell'āyurveda, ma che sono stati introdotti nel corso del tempo per influenze esterne o per altre cause. Tali elementi hanno permesso di accertare la datazione piuttosto tarda di alcune opere; uno di questi è l'uso di metalli ‒ in particolare il mercurio ‒ sottoposti a calcinazione e ad altri procedimenti, introdotti forse dagli Arabi alla fine del I millennio d.C.; poi c'è la prescrizione dell'oppio come cura astringente e calmante, anch'essa di origine islamica; l'analisi dell'urina (mūtraparīkṣā), effettuata a partire dall'XI sec.; l'auscultazione del polso (nāḍīparīkṣā), praticata dal XIII sec., e l'esame delle 'otto basi' (polso, urina, feci, lingua, occhi, aspetto generale, voce, pelle), in voga a partire dal XVI secolo. Dopo il I millennio aumenta il ricorso all'alchimia, all'astrologia e ai rituali religiosi; il Vīrasiṃhāvaloka (Sguardo di Vīrasiṃha), per esempio, espone le cause e le terapie di ogni malattia dal punto di vista medico, astrologico e religioso.
Le opere che vantano la maggiore antichità, accanto alle raccolte di Caraka e Suśruta, sono presumibilmente quelle composte dagli altri grandi saggi che, secondo i miti di fondazione, ricevettero gli insegnamenti dai primi maestri; si tratta di tre testi dalla datazione controversa: la Bhelasaṃhitā (Raccolta di Bhela), la Kaśyapasaṃhitā (Raccolta di Kaśyapa) e la Hārītasaṃhitā (Raccolta di Hārīta). Per valutare l'antichità della Bhelasaṃhitā si è tenuto conto del fatto che essa non mostra alcuna influenza buddhista e che i rituali, in essa menzionati, seguono gli usuali schemi vedici; inoltre, contiene forme grammaticali non pāṇiniane ed è menzionata da Kaśyapa. Tutto questo ha fatto ipotizzare che essa fosse anteriore a Pāṇini e alla Carakasaṃhitā, ma probabilmente non è troppo lontana nel tempo da quest'ultimo trattato, perché le due opere presentano un identico numero di sezioni e di capitoli.
La Kaśyapasaṃhitā oppure Vṛddhajīvakatantra (Trattato scientifico di Vṛddhajīvaka) è un'opera mutila, ma quel che ne resta è organizzato sostanzialmente in modo analogo ai due testi classici di Caraka e Suśruta. Come questi, le sezioni hanno il titolo di Sūtra ('aforismi' che contengono le nozioni fondamentali), Vimāna (lett. 'misure', 'proporzioni corrette' di elementi patogeni, medicine e cure), Śārīra (lett. '[sezione] riguardante il corpo'), Indriya ('segni premonitori di morte'), Cikitsā ('terapeutica'), Siddhi ('preparazioni farmaceutiche'), Kalpa ('tossicologia'), Khila ('appendici'). Di fatto il testo si occupa in modo prevalente delle malattie pediatriche. Kaśyapa è già menzionato da Caraka e dal Manoscritto Bower (v. oltre), dunque l'opera dovrebbe essere piuttosto antica (Jolly 1901).
Meno antica è probabilmente la Hārītasaṃhitā, interamente in versi e attribuita a Hārīta, che afferma di essere stato discepolo di Ātreya insieme ad Agniveśa, Bheḍa (Bhela), Jatūkarṇa, Parāśara e Kṣārapāṇi. I motivi per cui questo testo, nella sua forma attuale, non può essere fatto risalire a un'epoca molto antica sono legati al contenuto: il rapporto fra il karman e la malattia è descritto nel modo tipico di opere piuttosto tarde, elencando meccanicamente le malattie che colpiscono chi si è macchiato di determinate colpe; è addirittura menzionato il mais, cereale importato in India dopo il 1500; alla fine dell'ultima sezione (Śārīrasthāna), inoltre, in un capitolo supplementare, sono nominati Atri, Suśruta e Vāgbhaṭa come i maestri di tre diverse epoche cosmiche (kṛta, dvāpara e kali). Dunque l'opera non sarebbe anteriore o contemporanea a quelle di Caraka e Suśruta, ma sarebbe addirittura posteriore a Vāgbhaṭa, dal momento che ne fa esplicitamente il nome; tuttavia quest'ultima parte del testo è stata considerata poco attendibile ai fini della datazione, perché non è presente in tutti i manoscritti. Il primo capitolo della Hārītasaṃhitā si apre con strofe dedicatorie che lodano Śiva utilizzando le stesse parole del famoso incipit di Vāgbhaṭa: Śiva è colui che cura 'le malattie, a cominciare dall'attaccamento' (rāgādiroga). È perciò molto probabile che l'autore della Hārītasaṃhitā abbia voluto rendere omaggio a Vāgbhaṭa citandolo in chiave esplicitamente hindu ed eliminando l'ambiguità del modello; se così fosse, la Hārītasaṃhitā sarebbe a lui posteriore.
A un'epoca intermedia fra Suśruta e Vāgbhaṭa (V sec. d.C.) risale poi uno dei più antichi codici indiani oggi conservati, il manoscritto chiamato 'Bower', dal nome del suo scopritore. Trovato in uno stūpa buddhista nell'Asia centrale, vicino a Kūśa, esso è costituito da un gruppo di sette testi che trattano diversi argomenti: oculistica, divinazione mediante dadi, virtù terapeutiche dell'aglio, decotti a base di burro, erboristeria, pediatria, rimedi contro il morso dei serpenti, eccetera. Il contenuto ricalca spesso quello dei grandi trattati classici, sia nei principî (per es., la teoria dei tre doṣa o 'elementi patogeni') sia nelle ricette mediche; infatti non contiene alcun accenno al mercurio e all'oppio, introdotti tardivamente nella farmacopea indiana.
Un altro manoscritto sanscrito trovato in Asia centrale e risalente all'incirca al VII sec. contiene una parte dello Yogaśataka (Le cento formule medicinali), che è attribuito a Nāgārjuna, probabilmente lo stesso autore che revisionò la Suśrutasaṃhitā e scrisse il trattato Rasavaiśeṣikasūtra (Aforismi sulle particolarità dei sapori). Altri manoscritti dello Yogaśataka sono stati reperiti in Nepal e sono stati confrontati con la fedele traduzione fattane in tibetano. Il sintetico elenco di ricette, raggruppate secondo le otto parti della medicina, era ben noto in tutta l'India, in Nepal e a Ceylon. I versi in vari metri che lo compongono insegnano cento formule per confezionare medicamenti utili per eliminare varie patologie, ma non descrivono né le sostanze indicate come ingredienti, né le malattie che sono da curare.
Di poco posteriore a Vāgbhaṭa è invece il Siddhasāra (Scelta perfetta) di Ravigupta, composto verso il 650 d.C.; come l'Aṣṭāṅgahṛdayasaṃhitā (Raccolta del cuore delle otto parti [della medicina]), è un trattato molto sintetico in versi, ma se ne differenzia per una maggiore autonomia dai classici di Caraka e Suśruta, che pure sono citati qua e là. Il Siddhasāra, forse per le sue qualità di chiarezza e stringatezza, è stato tradotto in tibetano e inserito nel Tanjur, come l'Aṣṭāṅgahṛdayasaṃhitā e lo Yogaśataka; consiste in 31 capitoli dedicati quasi tutti alla descrizione e alla cura delle malattie (per es., febbre, dissenteria, emorragie, consunzione, tumori interni); fanno eccezione il primo, che espone i principî generali; il secondo, sui gruppi di droghe; il terzo, dedicato ai cibi; il quarto, che elenca i segni premonitori della morte.
Circa mezzo secolo dopo il Siddhasāra, intorno al 700, fu composto il Mādhavanidāna (Patologia secondo Madhava), detto anche Rugviniścaya, (Diagnosi delle malattie); seguirono il Siddhayoga (Cura perfetta), un trattato sulla terapia di Vṛndakuṇḍa (IX-X sec.); la Śārṅgadharasaṃhitā (Raccolta di śĀrṅgadhara, XI-XIII sec.), forse l'opera più antica contenente notizie sulla calcinazione e la preparazione dei metalli, oltre a una parte sull'auscultazione del polso (nāḍīparīkṣā); il Vīrasiṃhāvaloka (Sguardo di Vīrasiṃha), scritto nel 1383 da Vīrasiṃha, principe rajput fondatore di una dinastia a Gwalior nel 1375; la Yogataraṅgiṇī (Fiume delle ricette) di Trimallabhaṭṭa (composta dopo il Vīrasiṃhāvaloka e prima del 1499); il Bhāvaprakāśa (Illuminazione degli intendimenti) di Bhāvamiśra, famoso medico di Benares, che menziona la sifilide introdotta in India dai Portoghesi intorno al 1535; l'Āyurvedasaukhya (Felicità dell'āyurveda), contenuto nel trattato enciclopedico Ṭoḍarānanda (Diletto di Ṭoḍara) che Ṭoḍara, ministro dell'imperatore Akbar, compose fra il 1563 e il 1589; il Vaidyajīvana (Vita del medico) di Lolimbarāja (fine del sec. XVI), composto in elaborati metri classici; infine, l'anonimo Yogaratnākara (Miniera delle gemme delle formule medicinali), che menziona le proprietà mediche del tabacco, introdotto in India verso il 1605.
Commenti e repertori
Intorno ai classici si sviluppò una ricca letteratura esegetica; il testo maggiormente commentato fu, ovviamente, quello più sintetico e completo, ossia l'Aṣṭāṅgahṛdayasaṃhitā, ma anche gli altri ricevettero glosse di notevole importanza per la comprensione e lo studio dell'āyurveda. Indu scrisse il suo commento Śaśilekhā (Il digito lunare) all'Aṣṭāṅgasaṃgraha prima del 1050; l'Aṣṭāṅgahṛdayasaṃhitā fu glossata da Candrānandana con la Padārthacandrikā (La luce lunare sui significati delle parole), nella seconda metà del X sec. e da Aruṇadatta con la Sarvāṅgasundarī (La bella di tutte le parti [della medicina]), nella prima metà dell'XI sec.; Cakrapāṇidatta, bengalese vissuto nella seconda metà dell'XI sec., compose l'Āyurvedadīpikā (Lampada dell'āyurveda) per chiarire il significato della Carakasaṃhitā, la Bhānumatī (La splendente) sulla Suśrutasaṃhitā e altre opere, alcune delle quali ancora inedite; Ḍalhaṇa (XIII sec.) si dedicò a glossare la Suśrutasaṃhitā con il Nibandhasaṃgraha (Silloge delle compilazioni). Uno dei commentatori più antichi sia di Caraka sia di Suśruta è Jejjaṭa (VII sec.), che afferma di essere stato discepolo di Vāgbhaṭa. Il suo commento a Suśruta è andato interamente perduto e si sono conservati soltanto pochi frammenti di quello a Caraka; in essi Jejjaṭa cita molti autori che hanno commentato Caraka prima di lui, ma nulla è rimasto delle loro opere.
Oltre ai commenti dei grandi classici, in epoca tarda è stato compilato un certo numero di repertori relativi alla materia medica, il primo e più famoso dei quali è il Dhanvantarīyanighaṇṭu (Glossario di Dhanvantari), che nell'attuale redazione risale forse all'inizio del II millennio della nostra era. Questo repertorio fa seguire al nome di ciascuna sostanza un elenco di sinonimi e di qualità terapeutiche e mostra una certa familiarità con l'uso farmacologico del mercurio trattato e di numerosi metalli e minerali, oltre che dell'oppio e dei semi di papavero. Il Dhanvantarīyanighaṇṭu è integrato dal Rājanighaṇṭu (Glossario reale) di Narahari (XIV sec.), che menziona molte altre sostanze, ma in modo particolare i minerali.
L'āyurveda recente
Nell'XI sec. cominciò a radicarsi in India la pratica della medicina islamica, o unani, che si affiancò a quella dell'āyurveda; l'una era preferita dai pazienti musulmani, all'altra continuavano a ricorrere quelli induisti. Dal XV sec. in poi, con l'arrivo dei Portoghesi a Goa, i medici indiani entrarono in contatto con terapeuti occidentali e reciproco fu l'interesse e lo scambio di informazioni; all'inizio del Seicento, però, i Portoghesi assunsero un atteggiamento più chiuso. Alla fine del secolo gli Olandesi si dedicarono a lungo allo studio della flora e della fauna del Malabar e di Ceylon, pubblicando repertori ed erbari. Gli Inglesi, che intanto si stavano impadronendo gradualmente dell'India, non ebbero un orientamento univoco nei confronti dell'āyurveda; in una fase iniziale fecero ricorso ai rimedi indigeni, anche perché era molto costoso trasportare le forniture mediche per nave dall'Inghilterra all'India. Dal canto loro, gli Indiani si avvalsero spesso dell'abilità dei chirurghi occidentali, essendo quasi del tutto scomparsa la pratica chirurgica locale. Nel 1835, però, le riforme di lord Bentinck provocarono la fine dell'insegnamento āyurvedico nelle università statali e i medici indiani si rivolsero nuovamente a una formazione familiare tradizionale o finanziata da privati.
Una nuova fioritura dell'āyurveda si ebbe dopo il 1947, con il raggiungimento dell'indipendenza indiana; i nazionalisti riportarono in auge lo studio di quella che appariva essere una delle più antiche tradizioni mediche del mondo. Accanto alle università, dove già ci si laureava in medicina occidentale, sorsero collegi e istituzioni statali che fornivano una preparazione basata sulle dottrine āyurvediche. La necessità di riprendere la pratica della medicina tradizionale non era ispirata soltanto a motivi politici, ma anche alla constatazione che la medicina occidentale, nelle zone rurali, spesso non era alla portata della popolazione, sia per l'elevato costo dei farmaci sia per l'estraneità culturale, mentre l'āyurveda, impiegando erbe e sostanze locali, poteva costituire un aiuto capillare e immediato.
Attualmente l'āyurveda è una fra le tante medicine con cui è possibile curarsi in India; esistono università, cliniche, laboratori di ricerca, biblioteche dedicate allo studio e allo sviluppo di questa disciplina dalla tradizione bimillenaria, che tuttavia è tutt'altro che statica, perché di frequente assimila le recenti acquisizioni della medicina occidentale applicando a esse l'antico lessico dei classici. Un settore di notevole interesse della moderna ricerca āyurvedica è l'identificazione dei principî attivi nei semplici indigeni, l'applicazione di antidoti ai moderni inquinanti industriali secondo i criteri tradizionali e l'uso di massaggi e antiche terapie contro lo stress degli organi sensoriali.
Elementi derivati dal Vaiśeṣika
Il testo āyurvedico più ricco di elementi filosofici, la Carakasaṃhitā (Raccolta di Caraka), compone un mosaico sincretistico dove il maggior numero di tessere è fornito dai sistemi vaiśeṣika e sāṃkhya; dal primo è ricavata la dottrina delle categorie, dal secondo è tratto prevalentemente lo schema dei rapporti fra il sé (puruṣa, ātman), il senso dell'io (ahaṃkāra), l'intelletto (buddhi), la mente (manas), gli organi di senso e di azione, gli oggetti dei sensi (artha), gli elementi (mahābhūta) e la natura (prakṛti). Caraka inoltre, anche se in misura minore, presenta elementi caratteristici del Nyāya, del Vedānta, dello Yoga e del buddhismo, ma non riproduce mai pedissequamente le teorie delle scuole filosofiche, bensì le adegua alle necessità della medicina.
Le sei categorie del Vaiśeṣika, cioè sostanza, qualità, azione, universale, particolare, inerenza, sono disposte da Caraka, al momento della loro prima enunciazione, in un ordine diverso: universale, particolare, qualità, sostanza, azione, inerenza (Carakasaṃhitā, Sūtrasthāna, I, 28b-29a), perché in medicina il loro valore cambia. Infatti, mentre nel Vaiśeṣika si tratta di analizzare la realtà e di farle corrispondere un linguaggio e una conoscenza liberatrice, in medicina occorre trovare criteri per descrivere ciò che è utile alla cura delle malattie. Nell'āyurveda gli universali (sāmānya) sono enti che determinano la conoscenza di una somiglianza fra due sostanze e permettono di spiegare perché l'uso di una certa sostanza accresca sostanze o qualità simili, come, per esempio, il cibarsi di carne accresce la carne del corpo del paziente; i particolari (viśeṣa), invece, giustificano la conoscenza della differenza fra due sostanze e la diminuzione di sostanze o qualità antagoniste, come quando il gavedhuka (Coix lachryma-jobi L.) provoca la diminuzione della carne (ibidem, I, 44-45 e Cakrapāṇidatta). Queste regole hanno però numerose eccezioni, come il fatto che l'alimentazione basata prevalentemente sulla carne non accresce soltanto la carne del malato, ma anche il suo sangue, e la spiegazione che è data prende in considerazione anche le altre variabili, come, per esempio, una 'facoltà speciale' (prabhāva) posseduta dalle sostanze.
Aumento e diminuzione incidono, più che sulle sostanze, sulle qualità (guṇa) fisiche e psichiche, interne ed esterne, che costituiscono la terza categoria del Vaiśeṣika. L'elenco delle qualità nell'āyurveda è però parzialmente diverso da quello del Vaiśeṣika: suono, qualità tattile, colore, sapore, odore, pesantezza, leggerezza, freddezza, calore, untuosità, secchezza, debolezza, acutezza, solidità, fluidità, morbidezza, durezza, chiarezza, mucillaginosità, levigatezza, ruvidezza, spessore, sottigliezza, viscidezza, liquidità, conoscenza, desiderio, avversione, piacere, dolore, volizione, superiorità, inferiorità, preparazione, numero, congiunzione, disgiunzione, diversità, misura, trasformazione, ripetizione. Mentre nel Vaiśeṣika le sostanze hanno un'importanza superiore alle qualità, perché ne costituiscono il sostrato, nell'āyurveda le qualità godono di uno status variabile, poiché nell'esposizione ora precedono ora seguono le sostanze (ibidem, I, 28b-29a e 44 e segg.). Tutto il sistema terapeutico è fondato sull'impiego di qualità e sostanze antagoniste alle malattie e agli elementi patogeni, ma sono le qualità a consentire una classificazione più dettagliata delle valenze terapeutiche delle sostanze, essendovi presenti in gran numero. Particolare rilievo è dato alla qualità del sapore percepibile dal gusto, in quanto i cibi, a seconda dei loro sapori, hanno la facoltà di accrescere o diminuire gli elementi patogeni alterati. Dal punto di vista āyurvedico le qualità del sapore sono sei: dolce, acido, salato, pungente, amaro e astringente; fra le sostanze di gusto 'pungente' si fa l'esempio dello zenzero e dei vari tipi di pepe.
Le sostanze (dravya), che costituiscono la quarta categoria, sono classificate in più modi. Il primo, e più generale, è conforme al Vaiśeṣika ed elenca cinque elementi comuni al macrocosmo e al microcosmo, ossia spazio fonico, aria, fuoco, acqua, terra, poi il sé, la mente, il tempo e lo spazio direzionale (ibidem, I, 48a). Il secondo comprende tre sostanze speciali che costituiscono il fondamento della medicina: il vento (vāta, vāyu), la bile (pitta) e il flegma (śleṣman, kapha), chiamate dhātu ('elementi costituenti') quando sono in equilibrio nel corpo, e che diventano doṣa (lett. 'difetti', 'elementi patogeni') se il loro equilibrio si altera. In Occidente è invalso l'uso di tradurle con il termine 'umori', che richiama concetti della tradizione ippocratica e galenica; tale termine è tuttavia impreciso perché allude a uno stato liquido che è proprio soltanto della bile, mentre il flegma talvolta è detto solido, talaltra liquido e il vento non è mai liquido.
Ciascun doṣa ha qualità specifiche; il vento è secco, freddo, leggero, sottile, mobile, chiaro, ruvido; la bile è oleosa, calda, acuta, liquida, acida, fluida, piccante; il flegma è pesante, freddo, soffice, oleoso, dolce, solido, mucillaginoso (ibidem, I, 59-61). I doṣa tuttavia, come del resto le altre sostanze, non sono oggetti limitati nello spazio e sempre percepibili dai sensi, bensì entità la cui presenza è inferita dagli effetti; le qualità dei doṣa sono appunto parte integrante dei loro effetti, oppure segnalano un'alterazione che produrrà altre conseguenze. Il vento, per esempio, non è soltanto l'aria o il gas presente nel corpo ma l'unico doṣa mobile, e dunque ogni movimento del corpo, oppure delle sostanze dentro il corpo (sangue, urina, ecc.), è un effetto della potenza dinamica del vento; il moto e l'esercizio fisico possono aumentare il doṣa vento a tal punto da provocare insonnia o altri disturbi, mentre l'eccessiva staticità del corpo deprime il vento e le sue funzioni, causando fra l'altro stitichezza.
I tre doṣa non corrispondono esattamente ai cinque elementi del microcosmo, pur condividendone alcune qualità; il loro numero rimanda piuttosto a quello dei tre guṇa o 'qualità, stati allotropici' del Sāṃkhya, cioè il sattva ('chiarezza'), il rajas ('agitazione') e il tamas ('ottundimento'), che la psicologia āyurvedica riprende con una importante differenza: mentre tutti e tre i doṣa sono elementi patogeni, il sattva non provoca alcuna alterazione della mente (Cakrapāṇidatta ad Carakasaṃhitā, Sūtrasthāna, I, 57). Come i guṇa pervadono a ogni livello la natura (prakṛti), così i doṣa pervadono tutto il corpo, anche se sono prevalentemente localizzati in alcune sue parti, ossia il vento nella vescica, nel retto, nelle pelvi, nelle cosce, nelle gambe, nelle ossa e in particolare nel colon; la bile nel sudore, nel rasa (lett. 'succo', chilo ed elemento acquoso dell'organismo), nella linfa, nel sangue e in particolare nell'intestino tenue; il flegma nella testa, nel collo, nelle giunture, nello stomaco, nel grasso e in particolare nel torace (Carakasaṃhitā, Sūtrasthāna, XX, 8-9).
Dal punto di vista terapeutico, invece, le sostanze sono classificate in base al sapore posseduto e alla loro origine naturale. Le sostanze dolci, acide e salate diminuiscono il vento; quelle astringenti, dolci e amare fanno decrescere la bile; infine le astringenti, pungenti e amare sono antagoniste al flegma. Quanto alla loro origine naturale, le sostanze possono essere di tre tipi: animali, vegetali e minerali. Per la preparazione dei farmaci l'āyurveda può impiegare, almeno teoricamente, i vari tipi di miele, il latte e i suoi derivati, la bile, il grasso, il midollo, il sangue, la carne, le feci, l'urina, la pelle, lo sperma, le ossa, i legamenti, le corna, le unghie e il pelo di molti animali, ciascuno con proprietà specifiche; le piante sono classificate secondo il loro aspetto e le loro parti (radice, corteccia, lattice, frutti, fiori, foglie, ecc.); fra i minerali è menzionato per primo l'oro, poi il rame, l'argento, lo stagno, il piombo, il ferro, ecc. (ibidem, I, 66 e segg.).
La quinta categoria è costituita dal karman, parola che nell'āyurveda ha molteplici significati; innanzi tutto è l'azione delle sostanze, quindi ciò che produce l'effetto di riportare alla salute il malato; poi è un termine tecnico che indica cinque trattamenti purificatori (pañcakarman), ossia emesi, purga, clistere medicato, clistere oleoso e terapia della testa; infine, c'è l'accezione con cui la parola karman è conosciuta in Occidente, l'adṛṣṭakarman o 'azione invisibile' compiuta in passato, sia in questa vita sia nelle precedenti, che condiziona il presente sotto forma di tendenza positiva o negativa. In particolare, da un'azione molto negativa del passato può derivare nel presente una vita di breve durata o una malattia incurabile, mentre le azioni positive allungano la vita e permettono guarigioni anche da malattie molto gravi (ibidem, I, 52-53 e Cakrapāṇidatta; Cakrapāṇidatta ad Sūtrasthāna, I, 3).
L'ultima categoria è l'inerenza (samavāya), che nell'āyurveda costituisce il legame costante fra una sostanza e le sue qualità, è la garanzia della scienza medica, perché assicura la continuità e la necessità delle nozioni su cui essa basa la sua opera (ibidem, I, 50 e Cakrapāṇidatta).
Elementi derivati dal Sāṃkhya
Nella Carakasaṃhitā il primo capitolo della Sezione (śĀrīrasthāna) sul corpo fornisce un'ulteriore importante cornice teorica a tutto l'āyurveda, data invece per scontata dai testi medici successivi; è apparentemente costituita da dottrine del Sāṃkhya, ma nei testi di riferimento di questa scuola che ci sono pervenuti, queste sono esposte diversamente. È stato affermato che la Carakasaṃhitā apparterrebbe a un'epoca in cui le teorie fondamentali del Sāṃkhya non erano state ancora fissate completamente e questo avrebbe determinato le differenze di ordine concettuale fra Carakasaṃhitā e Sāṃkhyakārikā (Strofe del Sāṃkhya, Dasgupta 19752). A un'analisi attenta, tuttavia, il testo di Caraka mostra che la maggior parte dei concetti estranei al Sāṃkhya classico è ricavata dal Vaiśeṣika e da altre scuole, in un'opera di abilissimo sincretismo e adattamento alla visione āyurvedica. Il filo d'Arianna per distinguere ogni elemento di questo mosaico è sempre la terminologia sanscrita, che è usata in molti significati tecnici diversi.
Il punto di partenza (e di arrivo) dell'antropologia e della metafisica carakiana è il concetto di puruṣa, del quale sono date tre definizioni: (1) l'insieme dei cinque elementi macro-micro-cosmici (mahābhūta), cioè lo spazio fonico, l'aria, l'acqua, il fuoco e la terra, più la coscienza (cetanā); (2) la sola coscienza; (3) l'insieme di ventiquattro componenti: la mente (manas), i dieci organi di senso e di azione, i cinque oggetti dei sensi (artha) e l'ottuplice natura (prakṛti), che a sua volta consiste nei cinque elementi, l'intelletto (buddhi), l''immanifesto' (avyakta) e il 'senso dell'io' (ahaṃkara) (Carakasaṃhitā, Śārīrasthāna, I, 16-17).
La prima definizione corrisponde a quella data da Suśruta (Suśrutasaṃhitā, Sūtrasthāna, I, 22) ed è un modo sintetico per indicare l'essere umano composto di un principio cosciente e dei cinque elementi; è l'essere umano così inteso a essere oggetto della medicina e delle sue cure. Cakrapāṇidatta, commentando Caraka, integra la definizione precisando che la parola 'coscienza' indica sia il sé sia la mente, e le parole 'spazio fonico, ecc.' indicano, oltre gli elementi, anche gli organi di senso e di azione; inoltre afferma che tale definizione di puruṣa, così integrata, è quella accettata dal Vaiśeṣika (Cakrapāṇidatta ad loc. cit.). In realtà, pure se compatibile con alcune concezioni di questa scuola, questa definizione non si ritrova alla lettera nei testi fondamentali del Vaiśeṣika; il termine puruṣa, poi, appartiene prevalentemente al vocabolario del Sāṃkhya e dello Yoga (compare quattordici volte nella Sāṃkhyakārikā e sette volte nello Yogasūtra o 'Aforismi sullo Yoga', mentre non compare neppure una volta nel Vaiśeṣikasūtra o 'Aforismi del Vaiśeṣika') e il Vaiśeṣika si occupa più di fisica e di metafisica (nella sua terminologia tecnica, sostanze-cause, kāraṇadravya) che di biologia e di antropologia (sostanze-effetti, kāryadravya).
La seconda definizione di puruṣa corrisponde pienamente all'accezione specifica del Sāṃkhya e dello Yoga; esso è pura coscienza, considerata in sé, a prescindere da ogni altra cosa; ma, mentre Caraka fa uso del termine puruṣa al singolare, il Sāṃkhya, per giustificare la diversità dei contenuti delle coscienze, dimostra l'esistenza di una pluralità di puruṣa (Sāṃkhyakārikā, 18).
La terza definizione di puruṣa sembra riassumere con sostanziali modifiche sincretistiche la dottrina complessiva del Sāṃkhya; mentre in questa scuola i puruṣa sono distinti dalla prakṛti, che si evolve in ventitré stati allotropici, e quindi gli elementi della realtà (tattva) sono pari a venticinque (puruṣa inteso come sé, prakṛti o 'natura', detta anche avyakta o 'immanifesto', buddhi o 'intelletto', ahaṃkāra o 'senso dell'io', manas o 'mente', cinque organi di senso, cinque organi di azione, cinque tanmātra o 'elementi sottili', cinque mahābhūta o 'elementi grossi'), in Caraka il puruṣa è duplice, da un lato quello chiamato rāśi ('cumulo, gruppo, somma di elementi'), che è l'insieme dei ventiquattro elementi sopra elencati, e dall'altro il sé supremo, paramātman, detto anche 'immanifesto' (avyakta), 'impercepibile' (agrāhya), 'inconoscibile' (ajñeya), 'impensabile' (acintya), ma anche 'conoscitore del conoscibile' (kṣetrajña), 'onnipresente' (sarvagata), 'onnipervadente' (vibhu), 'eterno' (śāśvata, nitya), 'non soggetto a cambiamento' (avyaya), 'libero' (vaśin), 'senza inizio' (anādi), 'sé degli esseri o degli elementi' (bhūtātman) (Carakasaṃhitā, Śārīrasthāna, I, 59 e segg.).
L'esistenza di questo sé supremo è dimostrata con varie prove, alcune delle quali tratte dal Vaiśeṣikasūtra (III, 2, 4; Carakasaṃhitā, Śārīrasthāna, I, 70-72), e le sue caratteristiche sono descritte in termini che richiamano ancora una volta il Vaiśeṣika; essendo cosciente, l'ātman è un 'agente' (kartṛ), e dunque coordina e sostiene l'aggregazione dell'intelletto, degli organi di senso e di azione, della mente e degli oggetti sensoriali; inoltre, essendo onnipresente è di conseguenza immobile, privo di azioni vere e proprie, e tuttavia sembra avere pensieri e percezioni in quanto è unito ai suoi strumenti (ibidem, I, 35 e 54).
Anche l'esistenza della mente è dimostrata con una citazione dal Vaiśeṣikasūtra (III, 2, 1; Carakasaṃhitā, Śārīrasthāna, I, 18). La mente è priva di coscienza ma è mossa dal sé cosciente; è unica e ha la forma di un atomo; gli oggetti su cui esercita la sua azione sono il pensiero, la decisione, l'attenzione e la formulazione d'ipotesi; essa è molto importante non soltanto per la liberazione ultima ma anche per la medicina, permettendo il dominio degli organi di senso e l'autocontrollo, e probabilmente per questo motivo Caraka la pone al primo posto nell'elenco dei componenti del 'sé-aggregato' (ibidem, I, 17b-21; 75-76).
L'intelletto, o buddhi, è un organo del pensiero con la funzione di accertare la natura degli oggetti, le loro qualità e i loro difetti; quindi un individuo parla o agisce soltanto dopo aver usato questa facoltà. Questa visione carakiana della buddhi è di fonte sāṃkhya, ma ancora una volta convive sincretisticamente con un punto di vista vaiśeṣika; le buddhi, al plurale, sono le cognizioni che risultano dal simultaneo operare del sé, degli organi sensoriali, della mente e degli oggetti e variano a seconda dei fattori entrati in funzione (ibidem, I, 22-23; 32-34; 56). La semplice percezione-sensazione è chiamata con un termine tipicamente buddhista, vedanā, che è del tutto assente dai testi fondamentali della filosofia brahmanica, con un'eccezione nello Yogasūtra (III, 36), dove ha il significato di 'percezione sovranormale'.
Mentre il sé supremo non nasce e non muore, il 'sé aggregato' nasce dal karman messo in moto da ignoranza (moha), desiderio (icchā) e avversione (dveṣa), e sussiste fintanto che rimane unito all'agitazione (rajas) e all'ottundimento (tamas). I rapporti fra il sé supremo e il 'sé aggregato' non sono spiegati in modo particolareggiato; non sono identificati l'uno con l'altro, né il secondo è detto essere illusorio rispetto al primo. Si afferma soltanto che il sé supremo svolge la funzione di conservare l'unione di tutti gli altri elementi; tuttavia con l'aumento della chiarezza (sattva) della coscienza si possono eliminare l'agitazione e l'ottundimento e così ottenere che il 'sé aggregato' smetta di funzionare, si arresti e scompaia (ibidem, I, 53, 35-36). Questa descrizione della liberazione dal ciclo delle rinascite richiama la visione del Sāṃkhya, dove però è la natura (prakṛti) a cessare la sua attività dopo essersi manifestata al principio cosciente. Il sincretismo di Caraka traspare da altre definizioni della liberazione, che richiamano il Vedānta e il Vaiśeṣika:
Il sé degli elementi, divenuto Assoluto (brahman), non è più percepito; separatosi da tutte le cose, di lui non c'è più segno. (ibidem, I, 155a-b)
La liberazione, ossia il distacco da tutti i contatti grazie all'assenza di agitazione e ottundimento e grazie all'eliminazione del karman [ancora] dotato di un potere, è chiamata "non ritorno". (ibidem, I, 142)
Allorché si raggiunge la rinuncia ultima, tutte le sensazioni ‒ la percezione indeterminata, quella determinata e quella oggettiva ‒ insieme alle loro cause pervengono a una totale cessazione. (ibidem, I, 154)
Il cammino per giungere alla liberazione comprende anche l'āyurveda, così come tra le sofferenze della trasmigrazione sono comprese le pene della malattia. La conoscenza della medicina non è soltanto parte integrante del percorso gnostico ma anche frutto di esso; il sé liberato è onnisciente e automaticamente in possesso anche del Veda medico. Fonte di ogni problema del sé trasmigrante è un atteggiamento scorretto verso gli oggetti dei sensi, che con termine vaiśeṣika è detto upadhā (lett. 'imposizione', 'contraffazione', 'frode', 'inganno') e con termine buddhista tṛṣṇā (lett. 'sete', 'brama'). La sete, essenzialmente costituita da desiderio e avversione, è attivata dal piacere e dal dolore, e provoca a sua volta altri piaceri e dolori (ibidem, I, 94b-96; 134). A questo proposito si fa qui un importante discorso sulle cause della sofferenza, che salda le tradizionali considerazioni induiste di ordine soteriologico ed etico a precetti tipici dell'āyurveda, così accanto all'ingannevole sete per gli oggetti dei sensi sono distinte altre tre cause di sofferenza: uno scadimento (vibhraṃśa) dell'intelletto (dhī), della forza di volontà (dhṛti) e della memoria (smṛti); una condizione particolare (samprāpti) del tempo e del karman; un incontro non salutare con gli oggetti dei sensi (ibidem, I, 98).
Il declino o scadimento dell'intelletto rientra fra le cause principali della malattia; consiste nell'aderire a una visione squilibrata delle cose, che fa vedere come permanente ciò che non lo è e, in particolare, fa considerare come salutari oggetti che sono nocivi alla salute. Questo modo distorto di conoscere (prajñāparādha) è sommamente pericoloso, perché provoca l'alterazione patologica di tutti i doṣa, ossia impedisce il corretto atteggiamento verso i bisogni fisici (fame, ecc.), fa compiere attività stressanti, conduce a un'attività sessuale eccessiva, ostacola l'applicazione delle cure mediche e fa adottare tutti quei comportamenti fisici e psichici che sicuramente procurano danno (un esempio sempre citato è la frequentazione di cattive compagnie e la mancanza di rispetto verso i buoni; ibidem, I, 99 e segg.). Per distogliere la mente dagli oggetti nocivi è necessaria una grande forza di volontà e Caraka riconosce che adottare una condotta perfettamente corretta è molto difficile (ibidem, I, 129); a tal fine può essere d'aiuto il ricordo continuo della vera natura della realtà, poiché la memoria di questa visione complessiva del reale è di per sé un cammino di yoga e di liberazione (ibidem, I, 147-151).
Oltre allo scadimento dell'intelletto, della forza di volontà e della memoria, la sofferenza è provocata da particolari condizioni del tempo; con ciò si allude alle anomalie atmosferiche, all'età dei pazienti e al momento in cui la malattia si manifesta o si aggrava. Bisogna tener conto del fatto che le alterazioni climatiche del tempo atmosferico relativo a ogni stagione possono essere cause di malattia (ibidem, I, 110-5; II, 40); che i disturbi degli anziani e dei moribondi sono spesso legati alla natura della loro costituzione fisica e non sono curabili; che gli altri malati vanno trattati secondo schemi che assegnano a ciascun doṣa tre delle sei stagioni indiane (primavera, estate, prima stagione delle piogge, seconda stagione delle piogge, autunno, inverno): nella prima il doṣa si accumula, nella seconda si aggrava e nella terza si allevia. Anche il giorno e la notte sono divisi ciascuno in tre parti, corrispondenti ai tre doṣa; al mattino, per esempio, si aggrava il flegma, a mezzogiorno la bile, la sera il vento. Tenendo conto di questi tempi e delle caratteristiche delle malattie, il medico deve cercare di praticare la terapia prima che i sintomi veri e propri si manifestino.
C'è poi il fattore del karman, in quanto le azioni negative compiute in passato possono provocare malattie nel presente; tali azioni possono essere gravi e meno gravi. Quelle del primo tipo causano malattie che non sono curabili con normali terapie, almeno finché i risultati del karman non si sono esauriti (ibidem, I, 116-117). L'ultima causa patologica importante è un contatto non salutare dei sensi con i loro oggetti; se ne elencano tre varietà: eccessivo (atiyoga), assente (ayoga) e scorretto (mithyāyoga). Un uso non salutare dell'udito, per esempio, implica la percezione di suoni troppo forti (atiyoga), l'assenza di percezioni uditive per un lungo periodo (ayoga), oppure l'udire suoni spaventosi e sgradevoli (mithyāyoga) (ibidem, I, 118-127).
Nella medicina āyurvedica l'anatomia non venne molto sviluppata per mancanza di pratica autoptica; infatti i testi di medicina generale contengono elenchi di parti del corpo realizzati più spesso sulla base di considerazioni fisiologiche e di simmetrie teoriche o effetti indiretti, che non in base alla percezione diretta della presenza e della posizione di un certo organo nel corpo. Nella Suśrutasaṃhitā (Raccolta di Suśruta) si trova invece l'unico passo che contiene istruzioni per eseguire una dissezione; occorre prendere, dice Suśruta, un cadavere completo di tutte le membra, appartenuto a un uomo che non sia morto di veleno, né di lunga malattia, e che non sia troppo vecchio; il suo intestino dev'essere stato completamente svuotato; si deve fasciare il cadavere con erba o corteccia, metterlo in una gabbia e immergerlo per sette giorni in acqua corrente in luogo coperto, poi lo si deve estrarre dalla gabbia e, raschiando delicatamente la superficie del corpo con uno spazzolino, si potranno osservare le sue parti (Suśrutasaṃhitā, Śārīrasthāna, V, 47-49).
Malgrado le istruzioni di Suśruta, questo modo di praticare l'autopsia non ebbe grande diffusione e l'anatomia dovette attendere tempi molto recenti per avere nuovo sviluppo. Le classificazioni anatomiche riportate dai testi classici derivano quindi da una tradizione non sempre fondata sull'osservazione, ma anzi dedotta da altri fattori o risalente a fonti religiose; spesso, inoltre, la nomenclatura anatomica è traducibile soltanto impropriamente in un concetto moderno e va corredata di precise spiegazioni per chiarire i limiti di ogni termine. In generale, si contano sei strati di pelle, trecentosessanta ossa, dieci organi di senso e di azione, dieci sedi vitali, quindici visceri, sei parti principali del corpo (per es., la testa) e cinquantasei secondarie (come le labbra), nove orifizi per l'uomo e dodici per la donna. L'esistenza di alcune parti, poi, è inferita dagli effetti: 900 snāyu (legamenti, tendini o nervi), 700 canali detti sirā, 200 detti dhamanī, 400 muscoli, 107 punti vitali (marman), 200 articolazioni, 29.956 punti terminali dei vasi o pori/follicoli e altrettanti capelli e peli; a questi si aggiungono quindici sostanze, fra le quali il sangue, la bile, il rasa o l'urina misurate in añjali, cioè mettendo le mani a coppa. Secondo un'altra classificazione gli organi sono divisi in base all'elemento macro-microcosmico che in essi predomina: i 'terrosi' sono quelli spessi, pesanti, ruvidi e duri, come le unghie e le ossa; gli 'acquosi' sono liquidi, untuosi, soffici, come il sangue; eccetera. è ricordato che le particelle ultime in cui può essere diviso il corpo, gli atomi o paramāṇu, sono estremamente numerose e sottili, e non possono essere percepite dai sensi; la teoria dell'atomismo è tratta dal sistema Vaiśeṣika (Carakasaṃhitā, Śārīrasthāna, VII e Aṣṭāṅgasaṃgraha, Śārīrasthāna, V; in Suśrutasaṃhitā, Śārīrasthāna, V sono presentate ulteriori classificazioni utili alla chirurgia).
Nei testi classici, le sezioni dedicate al corpo contengono l'embriologia, l'ostetricia e la ginecologia, oltre che l'anatomia e l'antropologia; infatti l'analisi del corpo non può prescindere da una descrizione del modo in cui esso si forma a partire da un complesso di cause. Per poter procreare bambini sani, le donne non devono avere meno di sedici anni e gli uomini meno di venticinque anni; il concepimento ha luogo quando sono presenti le condizioni ottimali, ossia il ciclo mestruale della donna è appena terminato e nel suo utero si prepara il 'sangue nuovo' che la rende fertile; il seme maschile, che è prodotto dalla graduale trasformazione di tutte le parti del corpo, ha un equilibrato apporto di quattro elementi (aria, fuoco, terra, acqua) e sei sapori. Il predominio del seme dà luogo a un figlio maschio mentre quello del sangue femminile genera una femmina; invece per spiegare la sterilità, la generazione di gemelli, le anomalie sessuali del feto, sono addotte varie cause di natura organica e karmica. Segni di un avvenuto concepimento nella donna sono un'eccessiva salivazione, pesantezza, sonnolenza, orripilazione, dolori cardiaci e senso di soddisfazione. La salute dell'embrione dipende anche dalla dieta e dal regime di vita della madre, e non soltanto dall'equilibrio fra i doṣa del padre e della madre, dal karman individuale, dalle condizioni dell'utero e dal periodo della gravidanza (Carakasaṃhitā, Śārīrasthāna, II, 4-30; IV, 7; Suśrutasaṃhitā, Śārīrasthāna, X). La preoccupazione maggiore dei classici āyurvedici, nel caso dell'embriologia, è in effetti affermare un concorso completo di cause per ciascun aspetto della gravidanza e dell'ereditarietà, e con ciò spiegare ogni fattore di sterilità, di aborto e di patologie fetali. Durante il primo mese di gravidanza l'embrione ha l'aspetto di una mucillagine e le varie membra non sono distinguibili poiché allo stesso tempo ci sono e non ci sono in quanto, pur non essendo visibili, si sviluppano tutte contemporaneamente. Questo punto di vista è frutto di un dibattito fra i saggi, alcuni dei quali sostenevano che una parte del corpo si sviluppasse per prima (Carakasaṃhitā, Śārīrasthāna, IV, 9; VI, 21). Nel secondo mese l'embrione assume una forma diversa a seconda del sesso; il maschio si presenta come una piccola massa, la femmina come un muscolo allungato, l'ermafrodito come una massa rotonda e gonfia. Dal terzo mese tutte le membra si manifestano contemporaneamente, gli organi di senso e la mente cominciano a funzionare e il feto desidera ciò che ha sperimentato nelle vite precedenti; essendo il suo cuore connesso a quello della madre, trasmette a lei i suoi desideri, che vanno soddisfatti per evitare malformazioni o aborto. Al quarto mese la madre sente il corpo pesante, mentre al quinto dimagrisce per nutrire sempre di più il feto; al sesto perde forza e colorito per arricchire quelli del feto e al settimo tutti gli elementi materni diminuiscono a vantaggio del bambino; all'ottavo mese l'essenza vitale (ojas) oscilla fra la madre e il bambino, rendendo pericoloso il parto. Dal primo giorno del nono mese fino alla fine del decimo (si tratta di mesi lunari) la madre è nel tempo migliore per partorire; il 'vento del parto' capovolge il bambino e lo fa uscire; il medico taglia e lega il cordone ombelicale, poi al bambino sono dati miele e burro chiarificato benedetti con mantra vedici (ibidem, IV, 9-25; VI, 24 e segg.). I testi classici descrivono accuratamente il regime da seguire in ogni fase della gravidanza, la costruzione di un padiglione per il parto, il regime postnatale e l'allevamento del bambino. Suśruta aggiunge anche alcune istruzioni per trattare gli aborti e la presentazione anormale del feto (Suśrutasaṃhitā, Nidānasthāna, VIII).
Prima di curare un paziente occorre valutarne la longevità e la forza, nonché l'intensità della malattia; una terapia drastica, infatti, può nuocere a un paziente debole, mentre una cura leggera non guarisce un paziente robusto gravemente ammalato. è quindi necessario determinare in modo accurato il tipo di costituzione (prakṛti) del paziente, la malattia (vikṛti) di cui soffre, lo stato degli elementi e degli organi corporei, la loro misura e quantità, l'equilibrio fra essi, lo stato psicologico, la capacità di mangiare e digerire il cibo, la capacità di esercizio fisico e l'età.
Fra questi elementi il più importante è la costituzione fisica; essa è determinata all'atto del concepimento dai doṣa predominanti a seconda delle condizioni del seme maschile e del sangue femminile, della stagione, delle condizioni dell'utero, dell'alimentazione e regime della madre e degli elementi macro-microcosmici nel corpo dell'embrione. Gli individui in cui predomina il flegma si chiamano śleṣmala e sono caratterizzati da membra untuose e lisce, aspetto piacevole e carnagione chiara; in loro sono abbondanti seme, desiderio sessuale e progenie; il loro corpo è compatto, le membra sode; agiscono e mangiano lentamente e le loro malattie hanno un decorso lento; non hanno mai molta fame e sete, caldo e sudore; sono pazienti molto calmi, forti e longevi, e facilmente diventano assai ricchi e sapienti.
Gli individui biliosi (pittala) non tollerano il caldo e di solito hanno macchie o lentiggini sulla pelle e diventano precocemente grinzosi, canuti o calvi; mangiano e bevono molto, sudano, urinano ed evacuano frequentemente ed emanano un odore forte; il seme, il desiderio sessuale e la progenie sono insufficienti; nel complesso hanno una forza e una longevità media e tale è anche la loro ricchezza e sapienza.
I pazienti di costituzione ventosa (vātala) sono magri, secchi e piccoli; parlano molto, sono instabili e si muovono continuamente; facili agli entusiasmi, si stancano in fretta e apprendono e dimenticano altrettanto rapidamente. Caratteristica è la loro intolleranza al freddo, vanno soggetti a raffreddori, reumatismi, rigidità delle articolazioni e a malattie dal decorso rapido. Capelli, unghie, denti, mani e piedi sono ruvidi, e le membra facilmente scricchiolano; la loro forza, longevità e ricchezza sono minime. Accanto a questi tre tipi fondamentali di costituzioni, ve ne sono altre in cui predominano due doṣa alla volta, oppure quella in cui i tre doṣa sono in equilibrio (Carakasaṃhitā, Vimānasthāna, VIII, 94-100).
Una volta accertata la costituzione fisica del paziente si procede all'esame delle vikṛti, o manifestazioni patologiche. Si tratta di chiarirne le cause, i doṣa e le parti del corpo del malato che ne sono interessate, il luogo e il tempo della manifestazione, l'intensità della malattia, le peculiarità (viśeṣa) e i sintomi (liṅga). Se tutti questi elementi sono di natura simile e le cause e i sintomi sono forti, la malattia sviluppa grande intensità; se sono di natura dissimile, la malattia sarà debole; se soltanto alcuni fattori sono simili fra loro e le cause e i sintomi sono moderati, la malattia avrà un decorso moderato (ibidem, VIII, 101).
Le cause patologiche sono, come si è detto, il contatto eccessivo, assente o scorretto con gli oggetti dei sensi, la mente e il tempo atmosferico (ibidem, Sūtrasthāna, VIII). La causa remota è la conoscenza errata (prajñāparādha), le cause prossime sono i doṣa, cioè vento, bile e flegma, per il corpo, e i guṇa agitazione e ottundimento per la mente. Mentre le costituzioni possono essere caratterizzate al massimo dall'alterazione di due doṣa, perché se tutti e tre i doṣa fossero alterati il concepimento non avrebbe neppure luogo, la malattia può invece essere provocata dall'aumento o dalla diminuzione di uno, due o tre doṣa per un totale di sessantadue combinazioni, che sono soltanto le più comuni. Esse si riconoscono dai sintomi, perché quando un doṣa è patologicamente in eccesso provoca sintomi forti, medi e leggeri, mentre quando è in diminuzione non produce più alcun segno percepibile (ibidem, XVII, 41-62).
Le parti del corpo e in particolare i sette costituenti fondamentali, o dhātu (rasa, sangue, carne e muscoli, grasso, ossa, midollo, seme o sangue femminile), vanno esaminati in vari modi. Innanzi tutto, dal punto di vista della loro condizione ottimale (sāra), che produce determinate conseguenze fisiche e psicologiche, come, per esempio, quando il corpo di una persona ha carne e muscoli in condizioni eccellenti, non ha parti spigolose o smunte ma è tutto armoniosamente paffuto, compresi i gomiti e le ginocchia che sono ricoperti di carne; dal punto di vista mentale, quando una persona è sempre pronta al perdono, paziente, non avida, ricca, sapiente, felice, semplice, sana, forte e longeva (ibidem, Vimānasthāna, VIII, 102, 105). Un altro punto di vista è quello dei sintomi provocati dalla diminuzione patologica dei dhātu; un paziente con rasa troppo scarso, cioè disidratato, presenta irrequietezza, intolleranza ai rumori, dissenteria e poliuria, dolori al cuore, sfinimento anche per una attività fisica minima (ibidem, Sūtrasthāna, XVII, 64). Tutti gli organi del corpo hanno inoltre una dimensione ottimale, stabilita prendendo come unità di misura relativa la larghezza di un dito dell'individuo misurato (il collo, per es., deve avere una circonferenza di 22 dita). Un corpo strutturato secondo queste proporzioni è più forte e longevo (ibidem, Vimānasthāna, VIII, 117).
Altri fattori per valutare la forza e la longevità del paziente sono l''omologazione' (sātmya), cioè la tolleranza e l'abitudine a sostanze particolarmente corroboranti come burro chiarificato, miele, olio, brodo di carne e sostanze dai sei sapori; inoltre lo stato psicologico, perché, a prescindere dalla costituzione fisica, un paziente pavido ed egocentrico che non sopporta il dolore ha meno possibilità di guarigione rispetto a un paziente coraggioso e altruista (ibidem, VIII, 118-119).
Dopo aver valutato questi e altri fattori riguardanti le condizioni generali del paziente, il medico indaga i sintomi della malattia, che può essere di tre tipi: curabile, alleviabile con cure palliative e incurabile. La manifestazione della malattia è preceduta dai prodromi (pūrvarūpa), come una nuvola precede la pioggia; seguono i sintomi veri e propri nonché le eventuali complicazioni, a volte tali da segnalare che una malattia è diventata incurabile. Se la diagnosi presenta difficoltà si può applicare una terapia fondata su qualità opposte a quelle dei fattori patologici congetturati, così da poter formulare una diagnosi più precisa sulla base della reazione a tale terapia. In generale le malattie curabili hanno cause, prodromi e sintomi leggeri; manifestano qualità contrarie ai doṣa coinvolti e a quelli che predominano nella costituzione del paziente; la stagione e il luogo non producono un aggravamento della malattia; i sintomi compaiono soltanto in un'area del corpo; la malattia si è appena manifestata e non ci sono complicazioni; a provocare il morbo è stato un solo doṣa; il corpo del paziente tollera tutti i tipi di medicine e sono disponibili i quattro fattori terapeutici (v. oltre Carakasaṃhitā, Sūtrasthāna, X, 9-10; Nidānasthāna, I, 3-9 e commento di Cakrapāṇidatta).
Sintomi di natura molto particolare sono invece gli indriya (detti anche riṣṭa o ariṣṭa, dalla radice riṣ-, 'perire, distruggere, rovinare'), che secondo Caraka preannunciano necessariamente la morte, mentre Suśruta afferma che le pratiche religiose o i trattamenti ricostituenti possono comunque allontanare la fine imminente. I sintomi nefasti possono essere quarantasette e riguardano principalmente l'aspetto del paziente, le sue facoltà mentali, i suoi sogni, il decorso della malattia, la reazione alle terapie e le circostanze in cui il medico è chiamato. Sintomi di questo genere sono per esempio la forte e apparentemente immotivata alterazione del colorito di una parte del corpo, la voce che si muta in un rantolo, il colorito bluastro delle labbra, l'odore dolciastro del corpo, il respiro affannoso, gli occhi molto più sporgenti o infossati del solito, oppure ricchi di secrezioni o con colori alterati. I sogni di cattivo augurio possono essere collegati a una sindrome oppure essere indipendenti mentre le percezioni alterate colgono negli oggetti qualità che essi non possiedono, come solidità nel cielo o vacuità nella terra. Nefasta è la percezione di fantasmi e demoni, come pure il non vedere la fiamma di un fuoco, oppure vederla con colori non corrispondenti alla realtà; i testi classici sono piuttosto chiari su questo punto: chi ha percezioni sovranormali senza aver praticato a lungo l'ascesi o lo Yoga è condannato a morire in breve tempo. Per alcuni sintomi nefasti s'indica anche la quantità di tempo che rimane da vivere, in anni, mesi o giorni; altri segni sono di cattivo auspicio soltanto se durano per un periodo determinato o se non sono seguiti da segni positivi (ibidem, Indriyasthāna, I-II; III, 6; IV, 7 e segg.; V, 46).
La patologia āyurvedica non riguarda tanto singole affezioni quanto gruppi di malattie, dato che prende in esame un insieme di sintomi e descrive tutte le variabili relative a tali sintomi e dipendenti dai doṣa. Le malattie a cui Caraka dedica l'attenzione maggiore sono la febbre, il raktapitta (una disfunzione della bile caratterizzata da emorragie), il gulma ('tumore'), il prameha (disturbi urinari comprendenti il diabete), il kuṣṭha (affezioni della pelle fra cui la lebbra), la consunzione, la pazzia, l'epilessia, l'edema, le emorroidi; le loro cause sono sempre di tipo fisico e psichico, anche per l'epilessia, che i Greci ritenevano di origine sovrannaturale (Carakasaṃhitā, nei capitoli Nidānasthāna e Cikitsāsthāna). Suśruta aggiunge ai disturbi sopra elencati una descrizione di ulcere, ferite, disturbi nervosi, calcoli renali, fistola anale, parto con presentazione anormale del feto, cellulite, tragitti fistolosi, malattie del seno, gozzo, ernia, malattie veneree e sessuali, fratture, patologie del cavo orale (Suśrutasaṃhitā, nei capitoli Nidānasthāna e Cikitsāsthāna). A queste patologie descritte nelle sezioni di medicina generale ed eziologia dei due trattati se ne aggiungono molte altre, come le malattie infantili, considerate possessioni demoniache per la rapidità del loro decorso, le malattie degli occhi, l'alcolismo, gli avvelenamenti, e così via.
La terapeutica applica alcuni principî generali enunciati in varie classificazioni; una di queste, per il successo della cura, mette in evidenza la necessità concomitante di quattro fattori: un buon medico, eccellenti medicine, un paziente con adeguate qualità e infermieri adatti allo scopo. Le medicine devono essere abbondanti, adeguate alla patologia, preparate in vari modi (sotto forma di succhi, impiastri, decotti, ecc.) ed efficaci. L'infermiere ideale è quello che sa come somministrare ai pazienti i farmaci e il cibo, che possiede destrezza, dedizione ai malati ed è puro da un punto di vista karmico. Il paziente migliore è quello che ha buona memoria per raccontare al medico tutti gli elementi utili all'anamnesi, che obbedisce alle prescrizioni, è privo di paura e riesce a esprimere con chiarezza ciò che gli sta succedendo riguardo alla malattia. Il fattore terapeutico più importante è però il medico, la sua opera mediante gli altri tre fattori è paragonata a quella di un cuoco, che cucina utilizzando una pentola, il combustibile e il fuoco, oppure a quella di un conquistatore, che attacca un territorio da una posizione geografica favorevole, con l'esercito e le armi. Il medico preparato, esperto, abile e puro è il protagonista assoluto del processo terapeutico e riesce a condurlo a buon fine anche quando gli altri fattori non sono ottimali, mentre il ciarlatano riesce in brevissimo tempo a uccidere pazienti che lasciati a sé stessi sarebbero potuti sopravvivere (Carakasaṃhitā, Sūtrasthāna, IX, 3 e segg.).
I testi classici in più occasioni mettono in guardia dal pericolo dei falsi medici e descrivono con parole di scherno il loro comportamento ingannevole, mentre d'altro canto deprecano il comportamento degli 'abitanti delle selve' (caprai, pecorai, vaccari, ecc.) che, pur ignorando l'āyurveda, sostengono di conoscere le piante officinali e il loro uso soltanto perché ne conoscono il nome e la forma. Un medico che non riesca a identificare un certo vegetale ha comunque consapevolezza dei principî che presiedono al suo uso e, nel migliore dei casi, oltre a distinguerne anche la forma, nelle sue prescrizioni tiene conto del paese, del clima e delle caratteristiche individuali del paziente (ibidem, I, 120-123).
La distinzione tra la professione medica e il ruolo dei guaritori improvvisati si fonda sulla differenza tra l'āyurveda e la comune conoscenza erboristica e tale differenza è giustificata dalla grande quantità di elementi che non sono oggetto della percezione diretta e possono essere acquisiti soltanto con un lungo iter di studi insieme a un maestro. A questo proposito Cakrapāṇidatta osserva:
Non si possono conoscere con la percezione diretta tutte le peculiarità delle medicine, ecc., perché la percezione diretta non ha per oggetto le peculiarità di tutte le cose. Tuttavia è difficile accertare le caratteristiche di ogni cosa soltanto con la combinazione e la separazione, in quanto [per esempio] il miele da solo per natura propria rivitalizza, insieme a un'eguale quantità di burro chiarificato riscaldato provoca la morte, è benefico per la costituzione flemmatica, è nocivo alla costituzione ventosa, ben tollerato nei luoghi umidi, mal tollerato nei secchi, prescrivibile d'inverno, non prescrivibile d'estate, utile al giovane e nocivo al vecchio, fa bene in piccole quantità, fa male in eccesso, non digerito nell'addome reca molto disturbo perché contrasta il trattamento terapeutico, preso con kākamācī [Solanum nigrum L.; Solanum dulcamara L.] e con frutti maturi di nikuca [o lakuca, Artocarpus lakoocha Roxb.] porta alla morte o alla perdita di forza, colorito, energia e luminosità della pelle: questi sono soltanto alcuni esempi di come esso, a seconda della modalità di assunzione, possa avere cento effetti diversi; quindi, dal momento che la natura del solo miele è così difficile da accertare in questo modo, che dire allora della conoscenza di tutte le peculiarità di ogni cosa? (Cakrapāṇidatta ad Carakasaṃhitā, Sūtrasthāna, I, 2)
La vastità delle nozioni che sfuggono alla percezione diretta rende quindi necessari i lunghi anni di studio spesi per conoscere l'āyurveda. I classici descrivono con dovizia di particolari le varie tappe del corso di studi; innanzitutto lo studente deve scegliere il testo che vuole apprendere, un corpus chiaro, completo e applicato da medici illustri e poi cercare un maestro che glielo insegni; le qualità dell'insegnante eccellente non comprendono soltanto l'erudizione ma anche un'esperienza priva di lacune, l'abilità nell'applicazione, la purezza karmica, la conoscenza delle costituzioni umane e del loro trattamento, il possesso di tutti gli organi di senso, l'assenza di vanità, invidia e rabbia, l'affetto per i suoi discepoli, la capacità di esprimersi con chiarezza. Il discepolo che vuole ottenere il favore del maestro deve servirlo e venerarlo come si fa con il fuoco sacrificale, con una divinità, con il re, con il proprio padre o con un padrone. Dopo che il maestro gli ha trasmesso oralmente il testo, il discepolo deve sforzarsi di impararne la terminologia e ricordarne l'interpretazione per poi poterlo a sua volta esporre. Lo studio comincia la mattina presto, dopo le preghiere quotidiane, e prosegue senza interruzioni fino alla sera (Carakasaṃhitā, Vimānasthāna, VIII, 3-7).
Il maestro, dal canto suo, non accetterà un discepolo che non sia dotato di una lunga serie di qualità fra cui spiccano il carattere pacifico e nobile, l'assenza di pigrizia e l'amore per tutte le creature. Con una cerimonia solenne, in un giorno e in un'ora favorevoli dal punto di vista astrologico, il maestro accoglie l'aspirante discepolo richiedendogli di osservare impegni che rammentano il Giuramento ippocratico; si tratta, per esempio, di adoperarsi ogni giorno per la felicità di tutti gli esseri e dedicarsi senza riserve alla salute dei malati, non fare torto ai pazienti neppure per salvare la propria vita, non commettere adulterio e non desiderare i beni altrui, atteggiarsi e vestirsi modestamente, evitare gli alcolici e le cattive compagnie, parlare in modo gentile, puro, corretto, auspicioso, veritiero, giovevole e moderato, cercare sempre di accrescere le proprie conoscenze, osservare il segreto professionale e, in caso di sintomi nefasti, non rivelare l'imminenza della morte al paziente e ai suoi familiari se la notizia può danneggiarli. Inoltre il maestro chiede al discepolo di apprendere sempre anche dagli altri medici senza invidia o gelosia: "Il mondo intero è un maestro per i saggi ed è un nemico per gli stolti" (ibidem, VIII, 8-14).
La parte finale della preparazione del medico è costituita dal dibattito con i colleghi, che elimina i dubbi, conferma ciò che si è appreso, accresce la fama e la capacità oratoria ed è un'occasione per imparare nozioni in precedenza ignorate; infatti il maestro, che quando è soddisfatto del proprio discepolo gli rivela gradualmente dottrine segrete, nel corso di un dibattito può farlo in modo molto più concentrato e improvviso per aiutare il discepolo a sconfiggere gli avversari. I dibattiti possono essere amichevoli oppure ostili e possono svolgersi di fronte a una giuria favorevole, neutrale o avversa. Caraka descrive come ci si deve comportare nelle varie occasioni, anche in relazione alle possibilità offerte dalla lingua sanscrita, e fornisce ai partecipanti un elenco di quarantaquattro categorie logiche da utilizzare, che presentano notevoli analogie con le categorie usate dalla scuola filosofica del Nyāya (ibidem, VIII, 27-66).
La terapeutica āyurvedica è molto complessa, sia perché si avvale di numerosi farmaci e procedimenti, sia perché è flessibile in rapporto a una quantità notevole di variabili (luogo, tempo, costituzione del paziente, ecc.), sia, infine, per il fatto di essere contemporaneamente fondata su due diverse concezioni della malattia: quella derivata dal Sāṃkhya, dove l'alterazione patologica è uno squilibrio che compromette un equilibrio preesistente, e quella mutuata dal Vaiśeṣika, che riconosce alcune sostanze, cioè i doṣa, ecc., come fattori eziologici da riportare alla normalità con determinate terapie. Queste due concezioni sono presenti anche nella storia della medicina occidentale; mentre i Greci prediligevano la prima, dal Rinascimento in poi si è diffusa una teoria 'ontologica' della malattia, ulteriormente rafforzata, in tempi recenti, dallo sviluppo dell'anatomia e dalla scoperta dell'origine batteriologica, virale e parassitologica di molte patologie. Tuttavia, gli sviluppi dell'ecologia, delle biotecnologie e dell'ingegneria genetica hanno riacceso l'interesse per una visione della malattia come squilibrio all'interno di un ampio sistema di fattori correlati.
Tornando all'āyurveda, il fatto che in esso convivano questi due punti di vista produce alcune conseguenze importanti: innanzitutto, la concezione della malattia come squilibrio elimina ogni distinzione netta fra medicina preventiva e terapia; se la salute è un fragile equilibrio talvolta già minato dagli squilibri ereditati dai genitori, la dieta e il regime di vita quotidiani possono salvarlo o comprometterlo; gli autori classici dedicano perciò molta cura alla descrizione del modo migliore per nutrirsi e organizzare la propria giornata. In secondo luogo, la terapia che si applica alla malattia, una volta che questa si è manifestata, non ha soltanto il compito di eliminarla con sostanze, qualità e azioni opposte a essa, ma anche quello di riportare all'equilibrio il complesso di corpo e mente; conseguenza di tale obiettivo è l'estrema attenzione a evitare eccessi terapeutici che potrebbero causare effetti collaterali e squilibri ulteriori.
Il principio fondamentale della dieta āyurvedica è sinteticamente espresso da Caraka con la frase: "mātrāśī syāt" ('si mangi in quantità adeguata'; Carakasaṃhitā, Sūtrasthāna, V, 3), dove le parole 'quantità adeguata' non indicano qualcosa che è soggettivamente determinato in rapporto ai desideri del paziente, ma che è frutto di un'attenta valutazione tecnica del medico basata su molte variabili, fra le quali la stagione, il tipo di cibo, la capacità di digerire e l'età del malato. I cibi leggeri come il riso, se presi in eccesso, sono meno dannosi di quelli pesanti; cibi come il pesce e lo yoghurt non devono essere consumati abitualmente; altri, come il sale, il meno possibile; altri ancora, come gli alimenti incompatibili fra loro o la carne degli animali morti di malattia, sono da evitare in ogni caso. La capacità di digerire (agnibala, lett. 'forza del fuoco') può essere accresciuta facendo esercizio fisico; l'ideale è consumare un pasto al giorno, tuttavia ne sono permessi anche due; il cibo dev'essere vario, ben condito, dotato di tutti e sei i sapori e gradevole agli organi di senso. Ogni alimento solido, semiliquido o liquido è catalogato in relazione al suo sapore e all'effetto che provoca sui doṣa; poiché alcuni cibi accrescono doṣa diversi da quelli corrispondenti ai propri sapori, bisogna tenere presenti altri fattori: il 'sapore post-digestivo' (vipāka), inferito dai suoi effetti; la potenza, o vīrya, qualità che è percepita quando la sostanza entra in contatto con gli organi di senso oppure quando è nel corpo, prima di essere digerita, e può essere di otto tipi: soffice, acuta, pesante, leggera, untuosa, secca, calda e fredda; infine il prabhāva, o 'facoltà speciale', che spiega come mai due sostanze aventi sapore, sapore post-digestivo e potenza dello stesso tipo producano nel medesimo paziente effetti diversi (ibidem, XXVI, 54-72).
Il regime di vita comprende alcune norme generali, come quelle già citate riguardo al soddisfacimento dei propri bisogni fisici e all'uso corretto degli organi di senso, e alcune norme più specifiche, da applicare se possibile ogni giorno. Fra queste c'è l'igiene personale: al mattino pulirsi i denti con una pasta apposita e un rametto ridotto a spazzolino, ricavato da alcune piante dai sapori compatibili con la propria costituzione; lavare il viso e gli occhi con acqua fredda o con particolari decotti; mettere un collirio; al risveglio, oppure dopo il pasto e dopo il bagno, masticare foglie di betel con calce, chiodi di garofano e altre spezie; ungere il capo con un olio medicato che fortifica i capelli, rinvigorisce la testa, rende chiari gli organi di senso e previene le rughe; poi pettinare i capelli e mettere qualche goccia d'olio nelle orecchie per prevenire il mal di testa e i dolori auricolari. L'applicazione di unguenti sul corpo può precedere il bagno oppure esser fatta durante il bagno stesso, versando gli oli nell'acqua; bisogna però fare attenzione alle numerose controindicazioni, perché in caso di febbre e indigestione il grasso e l'olio producono l'effetto di aggravare i doṣa (Suśrutasaṃhitā, Cikitsāsthāna, IV, 3 e segg.).
Un'altra attività quotidiana che giova alla salute è il vyāyama, l'esercizio fisico di tutto il corpo, che dà grazia e crescita simmetrica alle membra, migliora la digestione e l'agilità e fa sì che ci sia una migliore tolleranza per la fatica, la stanchezza, la sete, il caldo e il freddo. L'esercizio fisico va praticato in tutte le stagioni, ma sempre in proporzione alla propria età, forza, costituzione, luogo, tempo e dieta, affinché non provochi squilibri (consunzione, polidipsia, anoressia, vomito, emorragie, vertigini, ecc.); in generale si raccomanda di fermarsi quando si è raggiunta metà della propria capacità di resistenza, cioè quando il respiro si fa affannoso e compare il sudore (ibidem, IV, 38-51a).
Altre pratiche raccomandate sono il massaggio con creme medicinali o con polveri asciutte, il bagno con acqua tiepida, il vestirsi con abiti puliti, ornando il corpo con ghirlande di fiori e con gemme; i capelli e le unghie devono essere periodicamente accorciati; inoltre è consigliato l'uso di scarpe, turbante, ombrello e bastone, ed eventualmente di ventagli e flabelli nelle stagioni calde; è sempre da evitare l'esposizione al sole che, pur migliorando la capacità di digestione, provoca sete, sudore, e anche capogiri e svenimenti, producendo un'alterazione patologica della bile e del sangue (ibidem, IV, 51b-86). In generale bisogna evitare qualsiasi eccesso nel dormire, vegliare, giacere, sedere, stare in piedi, passeggiare, viaggiare, correre, saltare, nuotare, ridere, parlare, avere rapporti sessuali, fare ginnastica, ecc., anche se si è abituati a queste attività (ibidem, IV, 96).
Accanto ai consigli per la dieta e il regime sono date indicazioni riguardanti i ricostituenti (rasāyana) e gli afrodisiaci (vājīkaraṇa). Il rasāyāna (lett. 'percorso del rasa') è un insieme di trattamenti o di elisir che prolungano la durata della vita e fanno ringiovanire il corpo degli anziani; oltre alle singole droghe corroboranti e alle preparazioni complesse, vi sono due tipi di trattamenti: il ritiro in un padiglione apposito (kuṭīpraveśa) e l'esposizione all'aria e al sole (vātātapika). Il primo trattamento è il più difficile ma anche il più efficace ed è descritto in dettaglio da Caraka; il paṇḍit Hardutt Śastri, arciprete della corte del mahārāja di Tehrie, lo ha sperimentato con successo nel 1938 (Carakasaṃhitā, Cikitsāsthāna, I, 1, 16-24).
I vājīkaraṇa sono sostanze che accrescono la potenza sessuale e devono essere prescritti in particolare ai deboli, agli impotenti e agli anziani; in generale, tuttavia, i rapporti sessuali dovrebbero essere evitati prima dei sedici anni e dopo i settant'anni. A differenza dei ricostituenti, che possono essere assunti una tantum, gli afrodisiaci vanno presi quotidianamente, come fossero cibo; fra essi ci sono le sostanze dolci, untuose, rivitalizzanti, corroboranti e pesanti; le principali ricette includono ingredienti come carne di maiale, pepe nero, salgemma, brodo di pollo oppure alcuni pesci e spezie come il coriandolo (ibidem, II).
Se la dieta e il regime non sono sufficienti a mantenere l'equilibrio dei costituenti corporei o a eliminare uno squilibrio che si è già manifestato, il medico interviene con trattamenti e farmaci adeguati alla gravità della malattia. Secondo Caraka l'uso corretto dei farmaci dipende dal dosaggio e dal momento della somministrazione; anche il modo in cui il farmaco è preparato svolge un ruolo molto importante, si può usare, in ordine decrescente di efficacia, il succo fresco della droga (svarasa), le palline d'impasto di droga triturata e succo (kalka), il decotto (sṛta), l'infuso per una notte in acqua fredda (śīta) e l'infuso in acqua calda (phāṇṭa). Il medico sceglie il tipo di preparazione tenendo conto non soltanto della intensità del morbo e della forza del paziente, ma anche delle preferenze di questo; infatti la somministrazione forzata di un farmaco può causare vomito e anoressia (Carakasaṃhitā, Sūtrasthāna, II, 16; IV, 7 e commento di Cakrapāṇidatta).
Caraka raggruppa le sostanze di origine vegetale in base ai loro effetti e preparazioni, per esempio, ci sono cinquanta serie (varga) comprendenti ciascuna dieci decotti, per un totale di cinquecento specie dagli effetti rivitalizzanti, oppure nutrienti, dimagranti, depurativi, cicatrizzanti, digestivi, corroboranti, curativi del colorito, balsamici, cardiotonici, aperitivi, contro le emorroidi, contro le malattie della pelle, per il prurito, parassiticidi, antiveleni, galattogoghi, spermatopoietici, ecc. (ibidem, Sūtrasthāna, I, 8-19). Suśruta menziona trentasette gruppi (gaṇa) per complessive settecento specie, divisi secondo la malattia da curare e designati con il nome della prima pianta del gruppo seguito da -ādi ('eccetera'): per esempio, il vidārigandhādigaṇa, cioè il gruppo che inizia con la pianta vidārigandhā (o śālaparṇī, Desmodium gangeticum DC.), è utile in caso di alterazione del vento e della bile e cura consunzione, gonfiori, dolori articolari e tosse (Suśrutasaṃhitā, Sūtrasthāna, XXXVIII, 2-3). Questa classificazione è da integrare con un'altra serie di gruppi che dividono le specie in emetici, purganti, starnutatori, oppure calmanti del vento, della bile o del flegma (ibidem, XXXIX, 2-8).
Il trattamento più impiegato nella terapeutica āyurvedica è il pañcakarman, o insieme di cinque (pañca) terapie (karman), che elimina dal corpo i doṣa in eccesso: emesi (vamana), purgazione (virecana), clistere medicato (basti, nirūhabasti, āsthāpana), clistere oleoso (anuvāsana) e purificazione del capo (śirovirecana). Prima di sottoporsi al pañcakarman è buona norma procedere all'unzione (sneha) e al procedimento sudatorio (sveda); i grassi migliori per lo sneha sono l'olio di sesamo, il grasso animale, il midollo e il burro chiarificato, ma soltanto quest'ultimo ha la capacità di veicolare pienamente le proprietà delle sostanze con cui è mescolato. I grassi possono essere ingeriti puri o misti a sale, brodo di carne, carne, latte, oppure essere usati come embrocazioni, impiastri, clisteri, colliri; ciascuno di essi, però, va preso soltanto nella stagione più adatta. Ci sono tre dosaggi con indicazioni specifiche; il più forte richiede ventiquattr'ore per essere digerito ed è per i pazienti robusti che sono affetti da tumori, veleno di serpenti, erisipela, pazzia, disuria e costipazione; quello medio, digerito in dodici ore, è adatto a chi ha malattie della pelle, disturbi urinari e gotta, agisce come purgante e non ha molte controindicazioni; quello leggero, infine, è per i deboli, i bambini e gli anziani, cura in particolare la febbre, la diarrea e la tosse cronica ed è assimilato in sei ore (Carakasaṃhitā, Sūtrasthāna, XIII, 9 e segg.).
Lo sveda è un trattamento indicato fra l'altro per chi soffre di tosse, singhiozzo, dispnea, dolori alle orecchie, alla testa, al collo, costipazione, sciatica, paralisi, edema; può essere eseguito in molti modi, per esempio applicando alla parte malata sabbia o altre sostanze riscaldate avvolte in un panno; usando una canna che convoglia al corpo il vapore di una pentola in ebollizione; spruzzando la parte con liquidi medicinali caldi; immergendosi in acqua calda con farmaci; facendo una specie di sauna in una stanza riscaldata da un forno; facendo sdraiare il paziente su una lastra di pietra riscaldata che fa sudare il corpo (ibidem, XIV, 3 e segg.).
Il medico, dopo aver preparato il paziente con lo sneha e lo sveda, constata che non ci siano effetti collaterali e lo lascia riposare per un po' di tempo; poi gli somministra l'emetico, a base di decotto di frutti di madana (Randia dumetorum Lam.), miele, salgemma, succo di canna da zucchero e madhuka (Glycyrrhiza glabra L.). L'emesi, primo procedimento del pañcakarman, è indicato per intossicazioni, malattie flemmatiche, febbre, consunzione, diarrea, diabete e altri disturbi; segue la purgazione, terapia che guarisce le emorroidi, gli ascessi, la fistola anale, l'itterizia, le coliche intestinali e altre malattie e che è compiuta facendo ingerire al paziente della pasta di trivṛt (Operculina turpetum L.) diluita in un liquido. Il clistere medicato, terzo procedimento del pañcakarman, lenisce la costipazione e le affezioni derivanti dalla repressione dei bisogni naturali; l'altro tipo di clistere, anuvāsana, è a base di grassi e serve a diminuire il vento. Infine, in caso di rinite, mal di testa, ecc., si purifica la testa usando sostanze come i semi di apāmārga (Achyranthes aspera L.) e s'introducono polveri medicate nelle narici attraverso una canna, oppure si mettono gocce di oli nel naso. Ogni fase del pañcakarman ha numerosi effetti collaterali e controindicazioni, e richiede una dieta e un regime particolari, senza i quali si corrono gravi rischi; anche se alcune fasi sono complementari non è necessario eseguirle tutte per ogni malattia e neppure attenersi strettamente a un dato ordine, infatti, è il medico che, constatata l'alterazione dei doṣa, deve scegliere il migliore iter terapeutico anche in rapporto a tutti gli altri fattori della cura (ibidem, Sūtrasthāna, XV-XVI e Siddhisthāna, X-XII; Suśrutasaṃhitā, Cikitsāsthāna, XL).
Suśruta divide le operazioni chirurgiche in otto categorie: taglio, incisione, raschiatura, puntura e salasso, introduzione di una sonda, estrazione o rimozione, drenaggio, sutura. Per eseguirle occorrono strumenti appositi, che possono essere taglienti (śastra) o smussati (yantra). Fra quelli taglienti ci sono vari tipi di bisturi, seghe, scalpelli, aghi e coltelli; fra quelli smussati, pinze per rimuovere i corpi estranei dalle ossa, dalla carne, dalle orecchie o dalle narici, inoltre clisteri, specoli, cannule per irrigare e aspirare, bastoncini per tamponare e applicare caustici e colliri, accessori come bende, corde, corregge di cuoio (Suśrutasaṃhitā, Sūtrasthāna, V, XXV, VII).
Le operazioni chirurgiche si svolgono secondo modalità prefissate; prima di cominciare il chirurgo deve procurarsi il necessario per l'intervento, cioè gli strumenti, il fuoco, le sanguisughe, cotone, acqua calda e fredda, medicine, infermieri, ecc.; poi, individuato il momento astrologico favorevole, deve pregare e fare offerte alle divinità, dopodiché, rimanendo rivolto a ovest, si avvicinerà al paziente, opportunamente preparato con la dieta o il digiuno e legato al letto con il viso rivolto verso est. Il medico pratica allora un'incisione adeguata alla patologia, evitando accuratamente di toccare i punti vulnerabili (marman); il taglio deve avere una forma diversa ‒ diritta, obliqua, circolare o semicircolare ‒ a seconda della parte del corpo interessata; eventuali cavità sotto un ascesso devono essere completamente svuotate. L'anestesia non è prevista, a meno che un paziente particolarmente intollerante al dolore non richieda una forte bevanda alcolica. Terminato l'intervento si spruzza acqua fredda sul viso del paziente, si premono i lati dell'incisione e si strofinano i margini della ferita, che è lavata con un decotto astringente e asciugata con un panno pulito; in profondità nella ferita è inserito un tampone intriso di decotti purificatori, cosparso di una pasta di sesamo, miele e burro chiarificato; sopra la ferita è spalmato un impiastro medicato, sul quale si applica uno spesso strato di tessuto; quindi il tutto è fasciato con bende pulite. Si procede a una fumigazione e a un rituale di protezione del paziente, in seguito al quale il medico prescrive le medicine e la dieta adatte al caso; dopo tre giorni si tolgono le bende, la ferita è lavata e fasciata esattamente come prima e per evitare dolori e ispessimenti e che si rimargini con difficoltà, non bisogna togliere le bende prima di tre giorni; inoltre non si deve permettere che la superficie cicatrizzi mentre in profondità rimangono tessuti non sani; anche dopo che la cicatrice si è formata, però, il paziente deve evitare indigestioni, esercizio fisico, eccessivi rapporti sessuali, scoppi di risa, rabbia, paura, e così via. Il medico deve poi prescrivere decotti, unzioni, bendaggi, dieta e regime secondo i doṣa, il clima e la forza del paziente. In casi di emergenza non deve seguire le procedure ordinarie, ma intervenire immediatamente, come se la sua stessa casa fosse in fiamme (ibidem, Sūtrasthāna, V). Da questa serie di prescrizioni riguardanti un intervento si può capire il livello di accuratezza della Suśrutasaṃhitā nel descrivere le terapie chirurgiche. Sebbene in alcuni punti fondamentali essa si discosti dalle teorie della medicina generale, come quando teorizza l'esistenza di un quarto doṣa, il sangue, spesso il suo punto di vista peculiare arricchisce e completa il panorama fornito dagli altri testi.
Attraverso questa sintetica esposizione si può avere un'idea dell'estrema complessità e raffinatezza di un sistema di pensiero che ricevette la sua formulazione più completa circa duemila anni fa. L'āyurveda è una tradizione medica dalla lunga storia, alla perenne ricerca di conciliare la scoperta scientifica e gli insegnamenti tramandati dai maestri, una tradizione tuttora vivente e in grado di offrire molti contributi al mondo attuale quali nuove applicazioni dei principî attivi di una vasta materia medica, preveggenti visioni ecologiche della necessità di equilibrio fra il Cosmo e l'uomo, integrazione psicosomatica dei soggetti da curare, deontologia dei medici, norme generali adattabili a situazioni diverse. Per altri aspetti, d'altronde, l'āyurveda è difficilmente integrabile con la medicina moderna, se non a prezzo di forzature e di reinterpretazioni antistoriche, mentre all'interno di determinate coordinate storiche e geografiche conserva il suo interesse come grande medicina filosofica che riflette in ogni suo aspetto la civiltà indiana che l'ha generata.
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