Scienza indiana: periodo classico. La tradizione del vyakarana (grammatica')
La tradizione del vyākaraṇa (grammatica')
L'Aṣṭādhyāyī (Trattato in otto capitoli) di Pāṇini (v. cap. VIII, par. 1) rappresenta la massima espressione della speculazione grammaticale sanscrita nell'India antica. Quest'opera continuò a esercitare la sua influenza anche nei secoli seguenti, dando origine a una copiosa letteratura di commento. Furono anche composte grammatiche non pāṇiniane, la maggior parte delle quali mostra, sia pure in maniera indiretta, l'influsso dell'Aṣṭādhyāyī e delle sue tradizioni interpretative. Una breve rassegna delle grammatiche sanscrite e medioindiane può dunque articolarsi in due grandi sezioni, dedicate rispettivamente alle opere pāṇiniane e a quelle non pāṇiniane. Bisogna inoltre distinguere tra le opere pāṇiniane di epoca antica e quelle più tarde. Il periodo antico s'identifica con l'attività dei tre grandi saggi (muni) che rappresentano le principali autorità in materia: Pāṇini (V sec. a.C. ca.), Kātyāyana (IV-III sec. a.C. ca.) e Patañjali (metà del II sec. a.C. ca.). Grande attenzione ricevettero anche la semantica e gli aspetti logici e filosofici del linguaggio e della grammatica, nell'ambito di una costante interazione tra i grammatici pāṇiniani e gli esponenti di altri campi tradizionali del sapere.
I primi commentatori di Pāṇini
Vi è motivo di credere che commenti all'Aṣṭādhyāyī siano esistiti già prima di Kātyāyana, e che lo stesso Pāṇini abbia composto un autocommento. Tradizionalmente, i commenti individuano e spiegano i termini costitutivi dei sūtra ('aforismi'), forniscono esempi e controesempi per l'applicazione delle regole e, quando opportuno, indicano i contesti in cui esse operano. Tuttavia, il primo commento di epoca postpāṇiniana che si sia conservato integralmente è il Vyākaraṇamahābhāṣya (Grande commento alla grammatica) di Patañjali, comunemente chiamato Mahābhāṣya, che costituisce anche la più importante opera della scuola pāṇiniana del periodo antico.
Il Mahābhāṣya di Patañjali
La maggior parte delle considerazioni contenute nel Mahābhāṣya prende spunto dalle argomentazioni relative a particolari sūtra formulate in brevi enunciati detti vārttika ('glosse') incorporati sin dall'antichità nel testo di Patañjali. Il principale autore dei vārttika è Kātyāyana, ma ve ne sono alcuni, fra cui quelli in versi (ślokavārttika), composti da altri autori. Inoltre, Patañjali discute argomenti relativi a sūtra sui quali non esistono vārttika. Secondo la tradizione, i vārttika considerano ciò che è stato detto, ciò che è stato omesso e ciò che è stato espresso in maniera insoddisfacente. Il loro scopo principale è dunque quello di verificare se i sūtra, così come sono formulati, siano conformi a quel che dovrebbero essere, se, cioè, includono tutto quel che devono includere secondo un criterio di massima economia.
Tradizionalmente, un bhāṣya ('commento') spiega i significati dei sūtra con le medesime parole impiegate nei sūtra e motiva le proprie affermazioni. Le discussioni nel Mahābhāṣya si presentano come dibattiti tra diversi interlocutori, che s'interrogano sugli scopi e i significati delle regole e dei loro costituenti. In generale, queste discussioni partono da un'interpretazione preliminare (pūrvapakṣa), che è sottoposta a un esame critico; si propone poi un'altra soluzione (uttarapakṣa), che risponde alle prime critiche ma può essere soggetta a ulteriori obiezioni. Generalmente la soluzione finale (siddhānta) non è resa esplicita. È consuetudine invece proporre risposte a tutte le obiezioni. Ciò nondimeno, i commentatori più tardi segnalano un importante principio che aiuta a comprendere quale sia il siddhānta: il principio di economia (lāghava) e ridondanza (gaurava) relative nella valutazione del funzionamento di una regola. Un'interpretazione che consenta di applicare una regola senza fare ricorso a una serie di metaregole o procedimenti speciali è preferibile a un'interpretazione che li richieda.
All'inizio, prima di commentare i sūtra, Kātyāyana e Patañjali esaminano alcuni argomenti generali concernenti la grammatica. Nell'introduzione al Mahābhāṣya Patañjali spiega che la grammatica serve a insegnare sia le forme del linguaggio vedico, sia quelle utilizzate nella comunicazione ordinaria. Poi passa a discutere il significato di śabda ('parola', 'linguaggio').
Successivamente, Patañjali elenca gli scopi per cui bisogna studiare la grammatica (Cardona, ed. 1997, pp. 543-548). Questi sono intimamente connessi alla cultura brahmanica e ai Veda. Lo studio della grammatica serve a preservare i Veda e modificare in maniera appropriata i mantra ('formule sacre') vedici utilizzati nei diversi contesti rituali; la tradizione esige che i brahmani studino e conoscano i Veda, il che non è possibile senza la grammatica; i brahmani devono conoscere gli usi corretti, e ciò non è possibile in maniera concisa senza l'ausilio della grammatica; la conoscenza della grammatica consente di evitare possibili ambiguità nell'interpretazione delle prescrizioni vediche.
Ci si chiede poi se si debbano insegnare le forme linguistiche corrette (śabda), indicando così implicitamente che quelle scorrette sono da evitare, o se si debbano insegnare invece le forme scorrette (apaśabda), per mostrare che le altre sono corrette. Per esempio, se s'insegna la forma gauḥ 'vacca', se ne deduce che i sinonimi gāvī, ecc. (v. cap. VIII, par. 2) sono forme scorrette; al contrario, se s'insegna che le forme gāvī, ecc. sono scorrette, si sa che gauḥ è la forma corretta. La conclusione è che si dovrebbero insegnare le forme corrette, non soltanto perché ciò serve a spiegare direttamente quali sono le forme desiderate, ma anche perché insegnare le forme scorrette comporterebbe una maggiore prolissità, essendo queste assai più numerose di quelle corrette.
A questo punto Patañjali enuncia il principio più generale della grammatica: una grammatica dovrebbe articolarsi in regole generali e relative eccezioni (v. cap. VIII, par. 2). Continua poi chiedendosi se le forme linguistiche siano prodotte (kārya 'da farsi') o permanenti (nitya 'eterno', 'perenne'), e conclude accettando la posizione esposta nel Saṃgraha (Compendio) di Vyāḍi: qualunque sia la concezione adottata, bisogna operare mediante un insieme di regole.
S'interroga quindi sul modo in cui Pāṇini avrebbe redatto la sua grammatica. Secondo l'interpretazione dei commentatori successivi, il nocciolo della questione è se Pāṇini debba essere considerato un inventore di forme linguistiche o se si limiti soltanto a spiegare le forme esistenti. Ciò serve a introdurre il primo vārttika di Kātyāyana: siddhe śabdārthasambandhe lokato'rthaprayukte śabdaprayoge śāstreṇa dharmaniyamaḥ, in cui si afferma che le forme linguistiche (śabda), i loro significati (artha) e il rapporto (sambandha) che li unisce sono fissi (siddha), e che l'uso delle forme linguistiche è dettato dai significati che si vogliono comunicare. I significati possono essere espressi indifferentemente per mezzo di forme corrette o scorrette, ma la grammatica stabilisce una restrizione per quanto riguarda il merito spirituale: soltanto l'uso delle forme corrette, preceduto dalla conoscenza di come queste sono spiegate dalla grammatica, fa acquisire merito (dharma).
Prima di discutere le regole contenute nel corpus principale di sūtra, Kātyāyana e Patañjali considerano i cosiddetti śivasūtra, 'aforismi [insegnati da] Śiva', che compongono il catalogo dei suoni di Pāṇini (v. cap. VIII, par. 2). L'esame dei singoli śivasūtra è preceduto da una discussione generale sui possibili scopi dell'elencazione di questi suoni: essi sono enunciati per poter essere sistemati secondo un ordine particolare, al fine di apporre un contrassegno a ciascun śivasūtra (o gruppo di suoni) e consentire così la formazione di abbreviazioni che permettono di formulare e applicare le regole grammaticali in maniera economica ed efficiente. Inoltre, si avanza l'ipotesi che i suoni siano insegnati per far conoscere la pronuncia corretta. Questo suggerimento conduce a una discussione sugli errori di pronuncia e altri argomenti collegati.
I commenti al Mahābhāṣya
Il Mahābhāṣya è stato oggetto di numerosi commenti e subcommenti. Il più antico che si sia conservato è la Dīpikā (L'illuminatrice), nota anche come Mahābhāṣyaṭīkā (Commento al Grande commento), di Bhartṛhari (V sec. d.C.). Il testo oggi esistente copre soltanto la sezione introduttiva e il commento fino ad Aṣṭādhyāyī 1.1.55, con una lacuna iniziale. Il Pradīpa (L'illuminazione) di Kaiyaṭa (XI sec.), che riconosce il proprio debito nei confronti di Bhartṛhari, abbraccia invece l'intero Mahābhāṣya. Un altro commento importante è il Ratnaprakāśa (La luce delle gemme) di Śivarāmendra Sarasvatī (XVII sec.), che in maniera argomentata dissente da Kaiyaṭa. Tra i numerosi commenti al Pradīpa, quelli maggiormente degni di nota sono il Mahābhāṣyapradīpoddyotana (L'illustrazione del Commento chiarificatore al Mahābhāṣya) di Annambhaṭṭa (XVII sec.) e il Mahābhāṣyapradīpoddyota (Luce del Commento chiarificatore al Mahābhāṣya) di Nāgeśa (inizi del XVIII sec.) (Yudhiṣṭhira Mīmāṃsaka 1984, I, pp. 385-470).
Come riferiscono i versi finali del secondo libro del Vākyapadīya (Della frase e della parola) di Bhartṛhari (v. oltre), il Mahābhāṣya cessò a un certo punto di far parte del tradizionale programma di studi brahmanici e sopravvisse solo come testo, privo di un'autorevole tradizione interpretativa tramandata da maestro a discepolo, finché Candragomin (v. oltre) non lo riportò in auge. Esiste infatti un notevole iato tra Patañjali e i successivi Pāṇinīya.
I commenti all'Aṣṭādhyāyī: la Kāśikāvṛtti
I commenti all'Aṣṭādhyāyī sono riconducibili a due tipi generali, quelli che trattano i sūtra nell'ordine in cui sono presentati nel testo originale e quelli che riordinano i sūtra per argomento. Inoltre, alcuni commenti omettono le regole riguardanti l'accentazione e le forme vediche.
Fra i commenti del primo tipo, il più completo e rilevante è la Kāśikāvṛtti (Commento letterale composto a Benares), del VII sec. circa. Nella forma in cui ci è pervenuta, è opera di due autori, Jayāditya e Vāmana. L'esposizione è organizzata come si conviene a un commento puntuale (vṛtti), ciascuna parola dei sūtra è identificata e spiegata, di ogni termine s'indica lo scopo che ne giustifica l'inclusione nella regola, e sono forniti esempi e controesempi che illustrano i casi in cui la regola deve o non deve essere applicata.
Per esempio, nella Kāśikā relativa al sūtra 1.1.1 (v. cap. VIII, par. 2) si afferma che il termine vṛddhi (vṛddhiśabdaḥ) è prescritto (vidhīyate) come designazione grammaticale (saṃjñātvena) di ciascuno (pratyekam) dei suoni (varṇānām) denotati da ād e aic, e che ciò vale in generale (sāmānyena) sia quando le vocali ā ai au sono introdotte da regole in cui si impiega esplicitamente il termine vṛddhi (tadbhāvitānām), sia quando non lo sono (atadbhāvitānām) perché fanno parte della base nominale originaria. L'autore adotta poi una particolare posizione riguardo alla t che figura nella regola (in ād aic, per accomodamento fonologico da āt aic): questa non si accompagnerebbe alla ā precedente, bensì ad aic che segue, per far sì che ai e au in sostituzione di altri suoni abbiano sempre due sole more. Quindi fornisce esempi che illustrano entrambi i tipi di vocali chiamati vṛddhi: così, āśvalāyana 'discendente di Aśvala' ha una ā iniziale introdotta da una regola che adopera il termine vṛddhi, mentre la prima ā di śālā 'casa' non è introdotta in base ad alcuna regola, appartiene cioè alla base originaria. In conclusione, il commento accenna ai sūtra dell'Aṣṭādhyāyī in cui è impiegato il termine vṛddhi, citando il primo di questi.
In una strofa introduttiva, Jayāditya ammette di aver fatto ricorso a diverse fonti e dichiara che la sua opera è un compendio dell'essenza della grammatica, che è sparsa fra varie vṛtti, oltre che nel Bhāṣya e nelle opere che trattano in modo esauriente le forme verbali e nominali. Come notano i commentatori, il Bhāṣya in questione è il Mahābhāṣya di Patañjali. La Kāśikā incorpora anche vārttika tratti dal Mahābhāṣya, alcuni dei quali sono citati in forma modificata.
Nella Kāśikā si riconosce inoltre l'influsso della grammatica di Candragomin (v. oltre). Per esempio, Aṣṭādhyāyī 4.1.54, svāṅgāc copasarjanād asaṃyogopadhāt, prescrive che il suffisso ṄīṢ (= ī) possa essere introdotto facoltativamente dopo composti usati al femminile, se questi terminano con parole che denotano parti del corpo e finiscono con una vocale non preceduta da un gruppo consonantico: per esempio, candramukhī 'una ragazza dal volto di luna', in alternativa a candramukhā. A tale proposito, la Kāśikā suggerisce (aṅgagātrakaṇṭhebhya iti vaktavyam) di specificare che questo suffisso si applica anche dopo i composti terminanti con -aṅga 'corpo', 'parte del corpo', -gātra 'membro del corpo' e -kaṇṭha 'gola'. Come si fa notare nella Padamañjarī (Il mazzo di fiori delle parole), un subcommento alla Kāśikā, questi suggerimenti non sono contenuti nel Mahābhāṣya. I tre termini in questione figurano invece nel sūtra 2.3.62 del Cāndravyākaraṇa (La grammatica di Candra), che recita: nāsikodarauṣṭhajaṅghādantakarṇaśṛṅgāṅgagātrakaṇṭhāt, corrispondente ad Aṣṭādhyāyī 4.1.55, nāsikodarauṣṭhajaṅghādanta- karṇaśṛṅgāc ca. La Kāśikā fa anche riferimento a opinioni esposte nella Vṛtti al Cāndravyākaraṇa (Oberlies 1996).
Un aspetto importante della Kāśikā è che il testo dell'Aṣṭādhyāyī adottato in questo commento presenta numerose aggiunte che sono suggerite, ma non sempre accettate, nel Mahābhāṣya. Per esempio, Aṣṭādhyāyī 3.1.95, kṛtyāḥ, è una rubrica in base alla quale gli affissi introdotti dalle regole successive sono chiamati kṛtya (in termini occidentali, 'participio ottativo passivo'). Esistono due vārttika a questo sūtra. Nel primo, kṛtyasaṃjñāyāṃ prāṅṇvulgrahaṇam, Kātyāyana propone di aggiungere prāṅ ṇvulaḥ 'prima di ṆvuL' affinché la regola modificata (kṛtyāḥ prāṅ ṇvulaḥ) specifichi dove cessa la validità dell'intestazione, cioè con Aṣṭādhyāyī 3.1.133, ṇvultṛcau. Nel secondo vārttika, arhe kṛtyatṛjvacanaṃ tu jñāpakaṃ prāṅṇvulvacanānarthakyasya, Kātyāyana dichiara che, impiegando kṛtyatṛcaḥ in Aṣṭādhyāyī 3.3.169 (arhe krtyatṛcaś ca), Pāṇini mostra che l'aggiunta proposta è superflua. In altre parole, la formulazione di quest'ultima regola presuppone che tṛC, prescritto in coppia con ṆvuL, non sia un membro della classe kṛtya, cosicché la rubrica 3.1.95 è valida solo fino a 3.1.133. In breve, il secondo vārttika propone un'indicazione meccanica del limite di validità della rubrica, che è poi rifiutata a favore di un procedimento deduttivo. La Kāśikā conserva l'indicazione meccanica e adotta il sūtra nella forma modificata. Analogamente, la Kāśikā accetta anche sūtra aggiuntivi (Cardona, ed. 1997, pp. 577-731, in cui sono segnalate e discusse le modifiche apportate ai sūtra).
Due sono i commenti principali alla Kāśikā: la Kāśikāvivaraṇapañjikā (Commento esplicativo alla Kāśikā), conosciuta anche come Nyāsa (Esposizione), di Jinendrabuddhi (700 ca.) e la Padamañjarī scritta da Haradatta (1050 ca.).
Altri commenti all'Aṣṭādhyāyī
La Bhāṣāvṛtti (Commento letterale [ai sūtra relativi] alla lingua parlata) di Puruṣottamadeva (inizi del XII sec.) commenta soltanto i sūtra che reputa attinenti alla lingua parlata (bhāṣā). Sono esclusi invece i sūtra concernenti le forme vediche. Inoltre, sebbene le regole di accentazione di Pāṇini non si limitino all'ambito del vedico, Puruṣottamadeva considera le variazioni d'accento una caratteristica del vedico e quindi le omette in blocco.
Anche Annambhaṭṭa, autore di un commento al Pradīpa di Kaiyaṭa, scrisse un commento puntuale all'Aṣṭādhyāyī intitolato Mitākṣarā ([Commento] conciso), che a differenza della Bhāṣāvṛtti include le regole relative alle forme vediche e all'accentazione.
Lo Śabdakaustubha (Il gioiello kaustubha delle parole) di Bhaṭṭoji Dīkṣita (seconda metà del XVI-XVII sec.) è un ampio commento che illustra in maniera dettagliata gli argomenti tenendo conto del modo in cui sono trattati nel Mahābhāṣya. Tuttavia, l'opera è incompleta, poiché copre soltanto i capitoli 1, 2, 3.1-3.2 e 4.
Un altro commento parziale è la Durghaṭavṛtti (Commento letterale alle [forme linguistiche] difficili) di Śaraṇadeva (tardo XII sec.), che tuttavia non risponde al modello consueto. Śaraṇadeva non si limita infatti alla parafrasi e spiegazione dei sūtra, accompagnata da esempi e controesempi, bensì analizza forme linguistiche selezionate in connessione con regole che presentano problemi nella spiegazione di tali forme.
I commenti riordinati all'Aṣṭādhyāyī
Numerose opere più tarde trattano i sūtra in un ordine diverso da quello dell'Aṣṭādhyāyī. La differente organizzazione interna di queste opere è dettata dall'importanza data alla trattazione delle forme per gruppi. Per esempio, forme come rāmaḥ rāmau rāmāḥ (nom. sing., duale e pl. di rāma) sono derivate insieme, cosicché le regole pertinenti sono presentate congiuntamente, anche se nell'Aṣṭādhyāyī sono separate. L'organizzazione della materia in questi trattati della tradizione pāṇiniana trova paralleli nelle grammatiche non pāṇiniane (v. oltre).
L'opera più antica di questo tipo è il Rūpāvatāra (Introduzione alle forme [linguistiche]) di Dharmakīrti, un buddhista singalese (1100 ca.). Il testo consta di due parti principali, suddivise in capitoli detti avatāra. La prima parte tratta i seguenti argomenti: il primo capitolo ha inizio con l'elenco dei suoni secondo Pāṇini (v. cap. VIII, par. 2), per poi occuparsi di una selezione di sūtra concernenti convenzioni generali e designazioni di categorie grammaticali; il secondo contiene le regole di sandhi, a loro volta articolate in sezioni dedicate all'incremento tUK, al sandhi vocalico, allo iato, al sandhi consonantico in generale, al sandhi che comporta -ḥ, -s e fenomeni correlati; il terzo tratta le forme nominali ed è suddiviso in basi che terminano in vocale e basi che terminano in consonante, a loro volta ripartite per generi (maschile, femminile, neutro) e per segmenti finali, mentre le forme pronominali sono trattate per ultime, in quanto non hanno genere fisso; il quarto tratta i temi nominali della classe avyaya ('indeclinabili'); il quinto i suffissi femminili (strīpratyaya); il sesto comprende le regole di classificazione dei kāraka ('partecipanti all'azione'), i sūtra che introducono desinenze nominali che esprimono i kāraka, e le regole che introducono le desinenze nominali in base ad altre condizioni (con preposizioni, postposizioni, ecc.); il settimo riunisce le regole di formazione dei composti (samāsa), ripartite in sottogruppi in base ai tipi di composto (avyayībhāva, tatpuruṣa, bahuvrīhi, dvandva), le regole che prescrivono affissi e sostituzioni alla fine dei composti, e quelle che prescrivono la conservazione delle desinenze all'interno di certi composti; l'ottavo conclude con le regole relative ai suffissi taddhita ('secondari'). La seconda parte è consacrata alle forme e alle derivazioni verbali, incluse le basi verbali derivate e i temi nominali formati mediante suffissi deverbativi kṛt ('primari'). Dharmakīrti omette le regole vediche e di accentazione. Altre opere organizzate in maniera simile sono la Rūpamālā (La ghirlanda delle forme [linguistiche]) di Vimalasūri (XIV sec. ca.) e la Prakriyākaumudī (La luce lunare che illumina la derivazione grammaticale) di Rāmacandra (fine del XIV sec.-inizi del XV sec.), che fu commentata dal nipote di Rāmacandra, Viṭṭhala.
L'opera più completa di questo tipo è la Siddhāntakaumudī (La luce lunare che illumina le dottrine conclusive) di Bhaṭṭoji Dīkṣita. Bhaṭṭoji considera tutti i sūtra dell'Aṣṭādhyāyī e spesso propende per una versione più fedele all'originale di quella della Kāśikā. La Siddhāntakaumudī comprende una lunga sezione dedicata alle regole vediche che include anche le regole di accentazione. Inoltre, la trattazione degli affissi primari (kṛt) è suddivisa in due sottosezioni, inframmezzate da una sezione dedicata ai suffissi uṇādi (v. oltre). Bhaṭṭoji è un tipico rappresentante della nuova scuola di grammatica (navyavyākaraṇa) e manifesta di frequente il proprio disaccordo nei confronti dei predecessori, soprattutto Rāmacandra e Viṭṭhala. La Siddhāntakaumudī è l'opera più influente di questa categoria, tuttora largamente utilizzata nell'insegnamento della grammatica di Pāṇini.
Bhaṭṭoji compose un autocommento, la Prauḍhamanoramā ([Commento analitico] che diletta le menti delle persone di alto sapere), a sua volta commentata dal nipote Hari Dīkṣita nel Bṛhacchabdaratna (La gemma delle parole in versione estesa), e da un discepolo di Hari Dīkṣita, Nāgeśa, nel Laghuśabdaratna (La gemma delle parole in versione abbreviata). Quest'ultimo compose anche due commenti alla Siddhāntakaumudī: il Bṛhacchabdenduśekhara (Il diadema lunare che illumina le parole in versione estesa) e la sua versione abbreviata, il Laghuśabdenduśekhara (Il diadema lunare che illumina le parole in versione abbreviata), che è il testo più comunemente utilizzato ed è noto semplicemente come Śabdenduśekhara (Il diadema lunare che illumina le parole). Quest'ultimo è stato a sua volta oggetto di una serie di subcommenti, uno dei quali, la Cidasthimālā (La collana di ossa dell'intelletto), è opera di un discepolo di Nāgeśa, Vaidyanātha Pāyaguṇḍa.
Si segnalano altri due importanti commenti alla Siddhāntakaumudī, la Bālamanoramā ([Commento analitico] che diletta le menti delle persone semplici) di Vāsudevadīkṣita e la Tattvabodhinī ([Commento] che insegna il contenuto autentico [della Siddhāntakaumudī]) di Jñānendrasarasvatī, entrambi degli inizi del XVIII secolo. Della Siddhāntakaumudī esistono anche versioni ridotte compilate da Varadarāja (XVII sec.), una media, Madhyasiddhāntakaumudī, una breve, Laghusiddhāntakaumudī, e una brevissima, Sārasiddhāntakaumudī, tuttora in voga per l'insegnamento del sanscrito.
Un'altra risistemazione dei sūtra di Pāṇini è il Prakriyāsarvasva (La totalità delle derivazioni grammaticali) di Nārāyaṇabhaṭṭa (tardo XVI-XVII sec.). Una caratteristica di quest'opera è che mostra l'influsso di una grammatica non pāṇiniana, il Sarasvatīkaṇṭhābharaṇa (L'ornamento della gola di Sarasvatī) di Bhoja (v. oltre).
I trattati sui principî operativi della grammatica
Nell'Aṣṭādhyāyī Pāṇini non soltanto formula in modo esplicito alcune metaregole, ma presuppone anche determinati principî operativi di portata generale (v. cap. VIII). A questo tipo di regole, denominate paribhāṣā, sono dedicate diverse opere. La più nota e importante di tali raccolte è il Paribhāṣenduśekhara (Il diadema lunare che illumina le metaregole) di Nāgeśa, su cui sono stati composti numerosi commenti, tra cui uno intitolato Gadā (Prontuario), composto dall'allievo di Nāgeśa, Vaidyanātha. Proprio come gli antichi Pāṇinīya, Nāgeśa riconosce diversi tipi di paribhāṣā: quelle esplicitamente enunciate da Pāṇini, quelle ricavate in base a qualcosa che è detto nell'Aṣṭādhyāyī e che ne rivela l'esistenza, quelle stabilite tramite il ragionamento (sia radicate nelle convenzioni dell'uso corrente, sia derivate per induzione logica), e quelle che è necessario esplicitare, come spesso fanno il Mahābhāṣya e i vārttika.
Un'altra raccolta di metaregole (paribhāṣā), la Paribhāṣāvṛtti (Commento letterale alle metaregole), è ritenuta assai antica e attribuita al grammatico Vyāḍi, anteriore a Patañjali, ma sulla reale antichità di quest'opera sono stati di recente sollevati seri dubbi (Cardona 1976, p.168; Cardona 1999, p. 145; Wujastyk 1993, I, pp. xiv-xv).
I commenti al dhātupāṭha di Pāṇini
Il dhātupāṭha ('catalogo di radici verbali') di Pāṇini (v. cap. VIII) è un elenco di verbi non accompagnati da glosse che include anche alcuni sūtra ed è noto solo nella forma tramandata dai commenti. Fra quelli pervenuti, i più importanti sono la Kṣīrataraṅgiṇī (Il fiume di latte) di Kṣīrasvāmin (non oltre gli inizi del XII sec.), il Dhātupradīpa (La fiaccola che illumina le radici verbali) di Maitreyarakṣita (metà del XII sec.) e la Mādhavīyadhātuvṛtti (Commento di Mādhava alle radici verbali) di Sāyaṇa (XIV sec.). Il dhātupāṭha, così come è conservato in queste opere, include glosse che secondo la tradizione furono aggiunte per la prima volta da Bhīmasena. I commentatori specificano anche i segni di accentazione delle radici verbali, che erano andati perduti, e i limiti dei sottogruppi delle radici elencate. Tutti questi testi citano forme nominali derivate da verbi insieme a forme verbali, ma è la Mādhavīyadhātuvṛtti a offrire le discussioni più estese su tali derivati.
Altre opere associate all'Aṣṭādhyāyī
La grammatica di Pāṇini contiene regole di accentazione, alcune delle quali riguardano le basi nominali derivate, ma non cerca di descrivere l'accentazione delle basi in relazione alla loro struttura fonologica, al genere o ad altre proprietà semantiche. Esiste una raccolta di regole che si occupa di questo: il Phiṭsūtra (Gli aforismi sulle basi nominali) di Śāntanava. Per esempio, la prima di queste regole (phiṣo'nta udāttaḥ) afferma che la vocale finale di una base nominale (qui chiamata phiṣ) sia di tono alto, ma una regola successiva (2.2: hrasvāntasya strīviṣayasya) prescrive che una base femminile terminante in vocale breve abbia tono alto sulla prima vocale: per es., vṛkṣá- (m.) 'albero', ma váli- (f.) 'ruga'.
Un altro insieme di regole, l'Uṇādisūtra (Aforismi sui suffissi primari detti 'Uṇādi') attribuito a Śākaṭāyana, si basa sull'assunto che tutte le basi nominali possano essere derivate da radici verbali (v. cap. VIII). Il primo sūtra di questo testo introduce il suffisso uṆ dopo specifiche basi, come in vāyu- 'vento', da vā 'soffiare'. Entrambe queste opere sono in genere associate all'Aṣṭādhyāyī. Infatti, Pāṇini conosceva questi suffissi, a cui fa riferimento col termine collettivo uṇādayaḥ 'uṆ eccetera'. La versione a noi nota dell'Uṇādisūtra, tuttavia, è posteriore a Pāṇini, così come il Phiṭsūtra.
Vi è ancora un'altra raccolta di regole associata all'Aṣṭādhyāyī, il Liṅgānuśāsana (L'insegnamento dei generi grammaticali), che si prefigge di enunciare norme che definiscano il genere dei sostantivi sulla base della struttura e del significato. Sebbene alcuni studiosi ritengano che lo stesso Pāṇini abbia composto un Liṅgānuśāsana, l'ipotesi non è suffragata dalle testimonianze esistenti.
La filosofia dei grammatici
Il Mahābhāṣya contiene diverse discussioni di ordine filosofico, in cui Patañjali prende in esame le idee dei suoi predecessori. Per esempio, fa esplicitamente riferimento a un'opera intitolata Saṃgraha, attribuita a Vyāḍi. Kātyāyana menziona le opinioni di Vyāḍi e di Vājapyāyana: il primo sosteneva che le parole denotano manifestazioni individuali (i 'particolari'), per il secondo esse esprimono invece proprietà generali (gli 'universali').
In seguito i Pāṇinīya composero importanti opere in cui elaborarono le antiche concezioni relative alla lingua, alla filosofia della grammatica e alla semantica, presentando argomenti a sostegno di determinate tesi e a sfavore di altre su questioni di interesse comune per i grammatici, gli esegeti ritualisti della Mīmāṃsā, i logici della scuola del Nyāya e altre correnti di pensiero (v. oltre).
Basandosi su concezioni enunciate nel Mahābhāṣya e sull'opera di altri predecessori, tra cui il proprio maestro Vasurāta, Bhartṛhari compose la più importante e influente delle opere pāṇiniane su questioni di semantica e di filosofia del linguaggio, il Vākyapadīya, un trattato in versi (kārikā). Nell'edizione critica di Rau (1977) il testo contiene 149, 490 e 1325 strofe nei rispettivi libri (kāṇḍa) in cui è suddiviso. In questa edizione alcune strofe sono state chiaramente identificate come citazioni nel commento al primo libro (commento attribuito dalla tradizione e da molti studiosi contemporanei allo stesso Bhartṛhari); inoltre, l'autenticità di alcune strofe conclusive del secondo libro è controversa. Ciononostante, l'opera è comunque di dimensioni ragguardevoli, soprattutto tenendo conto che la versione conservata manca di intere sezioni del terzo libro alle quali allude Puṇyarāja, uno dei suoi commentatori.
Altre opere di filosofia del linguaggio
Molti secoli dopo Bhartṛhari, Bhaṭṭoji Dīkṣita compose un testo intitolato Vaiyākaraṇasiddhāntakārikā (Strofe sulle dottrine grammaticali), in cui le dottrine conclusive (siddhānta) grammaticali e linguistiche della scuola pāṇiniana sono esposte in versi, alcuni dei quali tratti direttamente dal Vākyapadīya. Come Bhaṭṭoji afferma nella prima strofa, le conclusioni da lui raggiunte e presentate nello Śabdakaustubha sono qui esposte in forma sintetica. Il nipote di Bhaṭṭoji, Kauṇḍabhaṭṭa (XVII sec.), compose un commento a queste kārikā, il Vaiyākaraṇabhūṣaṇa (L'ornamento della grammatica), con una versione concisa, il Vaiyākaraṇabhūṣaṇasāra (L'essenza dell'ornamento della grammatica). L'opera è suddivisa in sezioni chiamate nirṇaya che trattano, nell'ordine, dei seguenti argomenti: i significati pertinenti alle basi verbali in quanto opposte ai suffissi verbali; i significati da attribuire alle desinenze verbali; i significati rispettivi delle desinenze nominali e delle basi nominali; la semantica dei composti nominali, in quanto distinta dai significati attribuiti ai loro costituenti; il rapporto fra un'unità linguistica e il suo significato (śakti); il valore della particella negativa naÑ (na); i significati associati alle particelle in generale e la discussione delle due ipotesi alternative: che almeno alcune di esse abbiano un significato proprio, o che invece svolgano tutte un ruolo accessorio nell'esprimere il significato denotato dagli elementi della frase nella quale sono utilizzate; il significato dei suffissi secondari (taddhita) astratti quali quelli che s'incontrano in derivati come puruṣatva, puruṣatā, 'umanità'; il significato dei suffissi secondari attestati in derivati come aindra, 'la cui divinità è Indra, dedicato a Indra'; l'uso del singolare in quanto associato all'assenza di differenziazione tra possibili numeri in contrasto col singolare in quanto opposto ai numeri differenti da uno; l'uso di diversi suffissi di numero a seconda di quello che s'intende significare; i significati del suffisso -tvā (come in kṛtvā, 'dopo aver fatto') e suffissi correlati; lo sphoṭa quale portatore indivisibile di significato.
Tra le opere di maggior ampiezza sono infine da menzionare quelle composte da Nāgeśa Bhaṭṭa. Nella Vaiyākaraṇasiddhāntalaghumañjūṣā (Lo scrigno delle dottrine conclusive grammaticali in forma abbreviata), l'autore affronta gli argomenti trattati da Kauṇḍabhaṭṭa e da altri studiosi di epoca precedente nel seguente ordine: parola e significato, e il rapporto esistente tra loro; presupposizione (ākāṅkṣā) e compatibilità (yogyatā) semantiche, cooccorrenza di termini (āsatti, 'prossimità') e intenzione del parlante (tātparya) in quanto fattori che concorrono a determinare i significati degli enunciati; i significati attribuiti a basi verbali, particelle, desinenze verbali, suffissi kṛt; i significati attribuiti a basi e desinenze nelle forme nominali; le formazioni derivate e argomenti correlati. Di questo testo esistono anche una versione più lunga, la Vaiyākaraṇasiddhāntamañjūṣā (Lo scrigno delle dottrine conclusive grammaticali), nota anche come Bṛhanmañjūṣā (Lo scrigno in versione estesa), e una più breve, la Paramalaghumañjūṣā (Lo scrigno in versione estremamente abbreviata), la cui paternità è controversa.
A differenza di Bhartṛhari, questi ultimi autori perseguono l'obiettivo di confutare le opinioni avanzate da precedenti studiosi e ribadire quelle che ritengono essere le dottrine conclusive (siddhānta) fondate su argomentazioni corrette. Così, nella quarta strofa introduttiva del Vaiyāka- raṇabhūṣaṇa, Kauṇḍabhaṭṭa dice: gautamajaiminīyavacanavyākhyātṛbhir dūṣitān / siddhāntān upapattibhiḥ prakaṭaye teṣāṃ vaco dūṣaye // ("Io chiarirò per mezzo di argomenti ragionati le dottrine che sono state confutate da coloro i quali interpretano le affermazioni di Gautama e Jaimini e dimostrerò che quel che dicono è sbagliato"). L'autore intende in questo modo controbattere agli argomenti proposti dai logici della scuola Nyāya, che prese le mosse dal Nyāyasūtra (Aforismi sul Nyāya) di Gautama, e dagli esegeti ritualisti che commentarono il Mīmāṃsāsūtra (Aforismi della Mīmāṃsā) di Jaimini, ripristinando così le dottrine che egli, in accordo con Bhaṭṭoji, considera corrette nell'ambito del sistema pāṇiniano.
Esistono numerose grammatiche composte da autori che, pur non aderendo direttamente alla tradizione pāṇiniana, risentirono del suo influsso. In genere tali opere tralasciano le regole di accentazione e quelle relative all'uso vedico, secondo la consuetudine del Kātantra (Il trattato breve) e delle grammatiche composte da studiosi jainisti e buddhisti (v. oltre). Le opere in questione includono non soltanto un corpus di sūtra, ma anche un corredo di testi sussidiari: dhātupāṭha, gaṇapāṭha, uṇādisūtra, paribhāṣāsūtra, śikṣā e liṅgānuśāsana. Alcune adottano cataloghi di suoni paragonabili a quello di Pāṇini, mentre altre ritornano alle liste di genere più tradizionale. Per il tipo di trattazione tematica queste grammatiche sono affini a opere della tradizione pāṇiniana quali il Rūpāvatāra (Introduzione alle forme [linguistiche])e la Siddhāntakaumudī (La luce solare che illumina le dottrine conclusive) che riordinano in sostanza i sūtra di Pāṇini, e devono quindi operare in un sistema in cui sintassi e morfologia sono interdipendenti. A prima vista, le grammatiche posteriori, come il Kātantra, sembrano tentare di analizzare separatamente la flessione nominale, la flessione verbale e i procedimenti di derivazione. Tuttavia, anche un testo breve come il Sārasvatavyākaraṇa (v. oltre) include una serie di norme per la classificazione dei kāraka e regole che prescrivono le desinenze introdotte in condizioni di cooccorrenza. Nessuna di queste grammatiche tratta paradigmi, composti e suffissi derivazionali se non in quanto correlati tra loro.
All'origine di una così vasta produzione di trattati grammaticali vi sono diversi fattori. Uno di questi è menzionato nella sezione conclusiva del secondo libro del Vākyapadīya, in cui Bhartṛhari parla (Vākyapadīya, ed. Rau, 2.481) del declino del Saṃgraha di Vyāḍi causato dal fatto che esso finì nelle mani di grammatici amanti delle opere concise, da cui imparavano ben poco. Lo sforzo necessario per padroneggiare il sistema dell'Aṣṭādhyāyī e le sottigliezze discusse nel Mahābhāṣya incoraggiò certamente la produzione di grammatiche più succinte e organizzate in modo differente. Inoltre, il patrocinio reale dovette svolgere un ruolo rilevante (Scharfe 1977, p. 187); non a caso, Bhoja (v. sotto) era un re. Anche l'esigenza degli studiosi jaina e buddhisti di conoscere il sanscrito ebbe la sua importanza, in un'epoca in cui la produzione intellettuale nei rispettivi ambiti arrivò a esprimersi in quella lingua. Questi studiosi composero opere in diversi campi del sapere, inclusi commenti su testi che non erano né jaina, né buddhisti.
Il Kātantra
Una delle prime grammatiche non pāṇiniane, il Kātantra, fu composta da Śarvavarman (IV sec. d.C. ca.). L'opera, nota anche come Kalāpavyākaraṇa (Grammatica della coda del pavone) o Kaumāravyākaraṇa (La grammatica di Kumāra), si basa su un trattato più antico di Kumāralāta. Entrambi i testi erano utilizzati dai monaci buddhisti del Turkestan orientale per lo studio del sanscrito. Il più importante commentatore del Kātantra è Durgasiṃha (VII sec. ca.), sebbene esistano commenti di epoca anteriore (Oberlies 1996, p. 270). Il Kātantra, nella versione nota a Durgasiṃha, consta di quattro capitoli rispettivamente di cinque, sei, otto e sei sezioni. Già da tempo è stato dimostrato che l'intero capitolo quarto, dedicato ai suffissi kṛt, è un'aggiunta a un testo più antico (Liebich 1919, p. 9). Ciò era noto a Durgasiṃha, che all'inizio del commento al capitolo in questione cita un verso secondo cui tale capitolo era stato composto da Kātyāyana, che è diverso dall'autore dei vārttika alla grammatica di Pāṇini (v. sopra) e che Trilocanadāsa, un commentatore più tardo, identifica con Vararuci (Eggeling 1874-78, p. 538; ed. Dwivedi 1997-98, Introduzione, p. 6). Inoltre, il testo fu ampliato con l'aggiunta di una sesta sezione, nel primo capitolo, dedicata alle particelle, e di una settima sezione, nel secondo capitolo, dedicata ai suffissi femminili. In effetti, ciascuna delle sezioni chiamate pāda dovrebbe essere pari a un quarto di capitolo. Anche nella forma ampliata, il Kātantra conta approssimativamente 1400 sūtra, molti di meno dell'Aṣṭādhyāyī (v. cap. VIII). Il Kātantra ha goduto di particolare popolarità nel Bengala e nel Kashmir ed è stato oggetto di un gran numero di commenti.
Le grammatiche jaina
Vi è un discreto numero di grammatiche composte da studiosi jaina. La più antica di quelle pervenute è il Jainendravyākaraṇa (Grammatica di Jinendra) di Devanandin (forse metà del V sec. d.C.; Scharfe 1977, p. 168; Oberlies 1996, pp. 272-273). L'opera consiste di cinque capitoli, ciascuno suddiviso in quattro parti (pāda), ed è nota in due versioni: una più breve di 3063 sūtra, commentata da Abhayanandin nella Mahāvṛtti (Il grande commento letterale), l'altra più lunga (3695 sūtra) commentata da Somadeva nella Śabdārṇavacandrikā (La luce della luna che illumina l'oceano delle parole), in cui l'opera è attribuita a Guṇanandin.
L'assenza di alcuni sūtra nella versione breve è dovuta a differenze teoriche. Mancano infatti le regole basate sulla nozione di ekaśeṣa, secondo cui un elemento sussiste come 'singolo rimanente' di una serie di elementi possibili. Per esempio, invece di formulare, come fa Pāṇini (Aṣṭādhyāyī 1.2.64: sarūpāṇām ekaśeṣa ekavibhaktau), una regola in base alla quale fra vari termini identici ne rimane uno solo qualora la desinenza sia la stessa, come in vṛkṣau 'due alberi', invece di un potenziale composto *vṛkṣavṛkṣau, Abhayanandin (commento a Jainendravyākaraṇa 1.1.100: svābhāvikatvād abhidhānasyaikaśeṣānārambhaḥ) afferma che questo procedimento non è applicato perché per propria natura le parole possono denotare più cose. La versione più lunga, invece, comprende un sūtra (1.3.97: samānām ekaḥ) paragonabile a quello di Pāṇini, come pure altre regole basate sull'ekaśeṣa analoghe a sūtra dell'Aṣṭādhyāyī.
La caratteristica più sorprendente del Jainendravyākaraṇa è, tuttavia, l'impiego estremo di forme abbreviate, secondo il principio per cui i termini tecnici dovrebbero essere, se possibile, monosillabici. Per esempio, invece dei termini tradizionali prathamā, ecc., per designare le terne di desinenze nominali, Abhayanandin usa sette termini monosillabici ricavati dai suoni che compongono la parola vibhakti: vā (prathamā), ip (dvitīya), bhā (tṛtīyā), ap (caturthī), kā (pañcamī), tā (ṣaṣṭhī), īp (saptamī). L'unico vantaggio consiste nel risparmiare qualche sillaba e, come Kielhorn (1881, p. 181) constatò molto tempo fa, il Jainendravyākaraṇa è di scarso interesse dal punto di vista teorico.
Il grammatico Śākaṭāyana (IX sec.; Birwé 1971, pp. 1-13), il cui vero nome è Pālyakīrti e che non bisogna confondere con l'omonimo studioso menzionato nell'Aṣṭādhyāyī, compose una grammatica intitolata Śākaṭāyanavyākaraṇa (La grammatica di Śākaṭāyana) e un autocommento a questa, l'Amoghavṛtti (Il commento infallibile).
L'opera consta di quattro capitoli, ognuno di quattro pāda. Il corpus dei sūtra è preceduto da un catalogo di fonemi che è simile a quello di Pāṇini (v. cap. VIII, par. 2), ma presenta qualche differenza: (1) a i u Ṇ; (2) ṛ K; (3) e o Ṅ; (4) ai au C; (5) h y v r l Ñ; (6) ñ m ṅ ṇ n M; (7) j b g ḍ d Ś; (8) jh bh gh ḍh dh Ṣ; (9) kh ph ch ṭh th Ṭ; (10) c ṭ t V; (11) k p Y; (12) ś ṣ s ṃ ḥ ≍k ≍p R; (13) h L . Le differenze sono dovute a procedimenti e presupposti differenti. Śākaṭāyana si discosta dagli altri grammatici anche perché non utilizza i termini tradizionali prathamā, ecc. per definire le desinenze nominali. Per esempio, l'equivalente di Aṣṭādhyāyī 2.3.2, karmaṇi dvitīyā ('le desinenze dell'accusativo sono introdotte per denotare l'oggetto dell'azione'), nella grammatica di Śākaṭāyana è il sūtra 1.3.105, karmaṇi [amauṭśas 100], dove al termine collettivo dvitīya 'accusativo' corrisponde am-auṭ-śas, composto dalle tre desinenze di base (singolare, duale e plurale) dell'accusativo.
Il più celebre grammatico jaina è il monaco Hemacandra, nato nel 1088, il cui vero nome era Cāṅgadeva e che ricevette il nome Hemacandrasūri quando assunse il titolo di ācārya 'maestro'. Il suo Siddhahemacandraśabdānuśāsana (L'insegnamento delle parole di Hemacandra ordinato dal re Siddha) si articola in otto capitoli, ciascuno suddiviso in quattro parti. Tuttavia, soltanto i primi sette sono dedicati al sanscrito, mentre l'ottavo è consacrato al pracrito. Esistono diversi commenti ai capitoli dedicati al sanscrito, alcuni dei quali composti dallo stesso Hemacandra, incluso un lungo commento chiamato Bṛhadvṛtti (Grande commento letterale).
Come nella maggior parte delle sue numerose opere, Hemacandra non dimostra grande originalità. Un elemento degno di nota nell'organizzazione del Siddhahemacandraśabdānuśāsana sta nel fatto che la parte sanscrita termina con una serie di metaregole e convenzioni (sūtra 7.4.104-122). Inoltre, Hemacandra fa propria una convenzione non formulata da Pāṇini, ma suggerita da Kātyāyana. Pāṇini (Aṣṭādhyāyī 1.1.72: yena vidhis tad antasya) stabilisce che un elemento qualificatore X, impiegato nella formulazione di una regola, denoti un termine Y che termina in X. Kātyāyana, invece, propone (vārttika 29 a 1.1.72: yasmin vidhis tadādāv algrahaṇe) che X, che è una forma al locativo e va interpretata in base ad Aṣṭādhyāyī 1.166 (v. cap. VIII, par. 2), stia per un'unità Y che inizia per X, qualora denoti un suono. Per esempio, aci di Aṣṭādhyāyī 6.4.77 fa riferimento a un suffisso che inizia con una vocale. Per ragioni che non possono essere qui discusse, questa aggiunta non è necessaria. Hemacandra, tuttavia, include nella sua grammatica non soltanto un sūtra comparabile ad Aṣṭādhyāyī 1.1.72 (Siddhahemacandraśabdānuśāsana 7.4.113: viśeṣaṇam antaḥ), ma anche un altro (ibidem, 7.4.114: saptamyā ādiḥ) che appare ispirato dall'aggiunta suggerita da Kātyāyana.
Il procedimento seguito da Hemacandra per la derivazione delle forme verbali risulta simile a quello del Kātantra, in quanto opera direttamente con serie distinte di desinenze tiV, tu ecc., chiamate vartamānā, pañcamī, e così via. In realtà, Hemacandra è ancor meno sintetico di Śarvavarman, poiché considera come serie distinte syat syatas syanti, ecc. del futuro e syat syatām syan, ecc. del condizionale, senza analizzare sya come un affisso separato aggiunto in concomitanza con altre desinenze.
Le grammatiche buddhiste
Molti studiosi buddhisti, come Jinendrabuddhi e Dharmakīrti (v. sopra), diedero il loro contributo alla grammatica sanscrita. Fra questi spicca Candragomin (V sec. d.C.), autore di una celebre grammatica, il Cāndravyākaraṇa (La grammatica di Candra), che influenzò gli autori della Kāśikāvṛtti (Commento letterale composto a Benares).
Candragomin è noto non solo per la sua grammatica, ma anche per aver riportato in vita la tradizione pāṇiniana. In una famosa strofa assai discussa del Vākyapadīya (ed. Rau, 2.486: parvatād āgamaṃ labdhvā bhāṣyabījānusāribhiḥ / sa nīto bahuśākhatvaṃ candrācāryādibhiḥ punaḥ //), Bhartṛhari dice che il maestro Candra e altri recuperarono la tradizione grammaticale che da tempo languiva e, seguendo gli spunti di riflessione presenti nel Bhāṣya, la portarono a una nuova fioritura (bahuśākhatvam, lett. 'il fatto di avere molti rami', espressione che sicuramente fa riferimento allo sviluppo di varie scuole di pensiero grammaticale).
Il Cāndravyākaraṇa consta di sei capitoli, ciascuno suddiviso in quattro parti. La serie di sūtra è preceduta da un repertorio di suoni assai simile all'akṣarasamāmnāya di Pāṇini (v. cap. VIII, par. 2): (1) a i u Ṇ; (2) ṛ ḷ K; (3) e o Ṅ; (4) ai au C; (5) h y v r l Ṇ; (6) ñ m ṅ ṇ n M; (7) jh bh Ñ; (8) gh ḍh dh Ṣ; (9) j b g ḍ d Ś; (10) kh ph ch ṭh th c ṭ t V; (11) k p Y; (12) ś ṣ s R; (13) h L. La grammatica di Candra comprende anche un dhātupāṭha e altri testi sussidiari, fra cui un testo di fonetica e raccolte di metaregole. Il Cāndravyākaraṇa ha un commento, la Cāndravṛtti (Commento letterale all'opera di Candra), verosimilmente opera di Dharmadāsa, sebbene alcuni studiosi ritengano si tratti di un autocommento.
È noto che Candragomin introdusse diverse modifiche nella grammatica di Pāṇini, oltre a omettere le regole vediche e di accentazione. Non si tratta solo di aggiunte a sūtra particolari o di piccole differenze terminologiche. Candra si discosta radicalmente da Pāṇini per quanto riguarda la derivazione delle frasi. Quest'ultimo assegna i partecipanti diretti (kāraka) all'azione a categorie sintattico-semantiche, quindi introduce affissi per esprimere i kāraka così classificati (v. cap. VIII). Il Cāndravyākaraṇa manca di una serie di sūtra corrispondenti alle regole di classificazione dei kāraka di Pāṇini, pur servendosi dei termini kartṛ, karaṇa, eccetera. Per esempio, si consideri Cāndravyākaraṇa 2.1.43-44: kriyāpye dvitīyā; gatibodhāhāraśabdārthānāpyānām prayojye. La prima regola corrisponde ad Aṣṭādhyāyī 2.3.2, ma in un sistema che si differenzia da quello di Pāṇini, in cui entrano in gioco anche Aṣṭādhyāyī 1.4.49-53 (che assegnano la designazione di karman, 'oggetto'). Nella grammatica di Candra queste regole sono assenti. Invece, Cāndravyākaraṇa 2.1.43 prescrive l'applicazione delle desinenze della seconda terna (accusativo) quando si voglia denotare un partecipante sul quale ricade direttamente l'effetto di un'azione (kriyāpye). Secondo Aṣṭādhyāyī 1.4.52, gatibuddhipratyavasānārthaśabdakarmākarmakānām aṇi kartā sa ṇau, il kāraka classificato come kartṛ di un'azione non causale è classificato come karman in rapporto alle corrispondenti azioni causali denotate da radici verbali accompagnate dal suffisso ṆiC del causativo; i verbi in questione sono quelli di movimento, di percezione, di consumo di cibo, quelli che denotano un'azione il cui oggetto sia un suono e quelli privi di oggetto (intransitivi). A questo punto, interviene Aṣṭādhyāyī 2.3.1 che introduce le desinenze della seconda terna per denotare un karman. La regola 2.1.43 di Candra non si applica mediante una regola di classificazione paragonabile ad Aṣṭādhyāyī 1.4.52; invece, prescrive direttamente che le desinenze della seconda terna vengano introdotte quando si voglia indicare l'agente indotto (prayojya) di un'azione causale relativa a verbi di percezione eccetera.
Opere letterarie che illustrano le regole grammaticali
I commenti ai sūtra grammaticali includono esempi che illustrano l'applicazione delle regole. Vi sono inoltre interi componimenti poetici che hanno lo scopo di esemplificare il funzionamento della grammatica. Il più famoso tra questi è il Bhaṭṭikāvya (Il poema di Bhaṭṭi), che illustra le regole di Pāṇini narrando la storia di Rāma. Nel Dvyāśrayamahākāvya (Il poema dal duplice sostegno), Hemacandra illustra le regole del suo Siddhahemaśabdānuśāsana e nel Dhātukāvya (Il poema sulle radici verbali) Nārāyaṇabhaṭṭa spiega le regole del Prakriyāsarvasva.
Le grammatiche pracrite
Nel cap. 14 del Nāṭyaśāstra (Trattato sul teatro), la più antica opera indiana di drammaturgia e poetica, Bharata illustra per grandi linee la tradizione grammaticale sanscrita, distinguendo tra l'uso del sanscrito e dei pracriti nel teatro, mentre nel cap. 17 descrive le caratteristiche salienti dei pracriti. Come si è già osservato, i più antichi Pāṇinīya conoscevano i vernacoli con caratteristiche medioindiane e distinguevano tra forme linguistiche corrette, ossia quelle illustrate dall'Aṣṭādhyāyī, e forme 'corrotte' (apabhraṃśa). Anche Bharata parla di forme corrotte (vibhraṣṭa) suddividendo i termini pracriti in tre categorie a seconda che siano identici al termine sanscrito (samānaśabda), corruzioni del corrispondente sanscrito (vibhraṣṭa) o termini regionali (deśīgata) non correlabili ad alcuna forma sanscrita (17.3: trividhaṃ tac ca vijñeyaṃ nāṭyayoge samāsataḥ / samānaśabdaṃ vibhraṣṭaṃ deśīgatam athāpi ca //). Riconosce anche certi sviluppi fonetici, per esempio il mutamento di -st- e -ts- in -tth- e -cch- come in hattha- 'mano', vaccha- 'vitello', dal sanscrito hasta-, vatsa-.
Numerose grammatiche furono dedicate alla descrizione delle diverse varietà di pracrito e in particolare della più importante, la mahārāṣṭrī. Come si è detto sopra, le grammatiche di Hemacandra e di Kramadīśvara trattano sia i pracriti sia il sanscrito. I grammatici che si occupano di pracrito prendono solitamente le forme sanscrite come base per le trasformazioni che risultano nelle corrispondenti voci pracrite. Essi operano anche con elementi postulati, come quelli che s'incontrano nel sistema di Pāṇini (v. cap. VIII, par. 2). Alcuni esempi tratti dal Prākṛtaprakāśa (Elucidazione dei pracriti) di Vararuci (un'opera antica, sebbene di cronologia incerta) e dal Siddhahemaśabdānuśāsana di Hemacandra serviranno a chiarire il concetto.
Per spiegare forme quali hattho 'mano' (nom. sing.), hattheṇa (strum. sing.), Vararuci (5.1.1; 4: ata ot soḥ; ṭāmor ṇaḥ) parte da hattha-s, hattha-ā e fa sì che o (ot) e ṇa sostituiscano rispettivamente sU e Ṭā, con conseguente elisione di -a davanti a -o e sostituzione di -a con -e davanti a -ṇa: hattha-s →hattha-o →hattho, hattha-ā→hattha-ṇa→ hattheṇa. Questi procedimenti sono affini, anche se non identici, a quelli seguiti nell'Aṣṭādhyāyī.
Vararuci opera con le stesse desinenze di base sU e Ṭā che si trovano nel sistema di Pāṇini. In Hemacandra (8.3.2; 6: ata ser ḍoḥ; ṭāmor ṇaḥ) ḍo sostituisce sI e ṇa sostituisce Ṭā; inoltre -e sostituisce -a davanti a ṇa (8.3.14: ṭāṇaśasy et) e -a si elide davanti a -o. Questa elisione, tuttavia, si applica sulla base di una regola del secondo capitolo (2.1.114: ḍity antyasvarādeḥ [luk 113]) per cui, davanti a un elemento marcato con ḍ, quella parte di un elemento precedente che comincia con la sua ultima vocale è eliminata. È da notare che la desinenza sostituita nel sistema di Hemacandra è sI, la desinenza di base introdotta da una regola della sezione dedicata al sanscrito come membro della serie prathamā nella regola 1.1.18 (syaujas […] ṅyossupāṃ trayī trayī prathamādiḥ). Dunque, Vararuci, che non compose una grammatica per il sanscrito, dipende da Pāṇini per quanto concerne gli elementi di base, mentre Hemacandra prende come punto di partenza le sue regole relative al sanscrito.
Le grammatiche pāli
Esistono numerose grammatiche di pāli (Norman 1983, pp. 163-166), la più antica delle quali è il Kaccāyanavyākaraṇa (La grammatica di Kaccāyana, VII sec. ca.). Particolarmente degne di menzione sono la Saddanīti (La guida alle parole) di Aggavaṃsa, composta in Birmania nel 1154, che Norman definisce "la più grande grammatica pāli esistente", e il Moggallānavyākaraṇa (La grammatica di Moggallāna) di Moggallāna (1165). Come è stato dimostrato, queste opere mostrano l'influenza delle più antiche grammatiche sanscrite, in particolare l'Aṣṭādhyāyī, il Kātantra e il Cāndravyākaraṇa. A differenza delle grammatiche pracrite, tuttavia, sono scritte in pāli e non prendono come punto di partenza il sanscrito, come illustreranno alcuni esempi tratti dal Kaccāyanavyākaraṇa. Il secondo capitolo è dedicato alle forme nominali e include nella sesta sezione una serie di regole che assegnano le designazioni delle categorie dei kāraka. Così, i sūtra 2.6.10-11 (yaṃ karoti taṃ kammaṃ; yo karoti sa kattā) stabiliscono che il kāraka che un agente crea o modifica (yaṃ karoti) attraverso l'azione sia chiamato kamma 'oggetto', mentre il kāraka che compie l'azione (yo karoti) sia chiamato kattā 'agente'. Il sūtra 2.6.27 (kammatthe dutiyā) prescrive l'applicazione di una desinenza nominale della classe dutīyā 'terna di desinenze dell'accusativo', qualora s'intenda esprimere un kamma. Le desinenze sono fornite in 2.1.4: siyo aṃyo nāhi sanaṃ smāhi sanaṃ smiṃsu. Vi sono sette serie di due desinenze ciascuna, singolare e plurale.
Già in epoca molto antica vi furono scambi di vedute tra i grammatici pāṇiniani e i seguaci di altre scuole di pensiero. Riprendendo ed elaborando idee presenti nel Mahābhāṣya, Bhartṛhari confuta determinate opinioni concernenti lo status della frase e i suoi possibili costituenti. Sebbene non assuma un atteggiamento dichiaratamente polemico, è evidente che i principali destinatari delle critiche sono i Mīmāṃsaka, come riconoscono i suoi commentatori. I Pāṇinīya successivi attaccarono sistematicamente le concezioni propugnate dai Naiyāyika e dai Mīmāṃsaka (v. sopra), i quali a loro volta difesero le proprie posizioni contestando le dottrine dei grammatici.
Bhartṛhari dedica gran parte del secondo libro del Vākyapadīya alla dimostrazione del principio secondo cui la frase è un'unità indivisibile dotata di significato unitario, mentre le singole parole costituenti di cui si postula l'esistenza non hanno in realtà alcun significato autonomo. Una delle sue argomentazioni (Vākyapadīya, ed. Rau, 2.16) è diretta contro l'opinione dei Mīmāṃsaka secondo la quale le parole di una frase sono portatrici di significati propri e indipendenti, che sono poi correlati l'uno con l'altro. Da questo punto di vista, il significato di una frase (vākyārtha) è non verbale (aśābda), in quanto non direttamente denotato da un'unità linguistica. A tale proposito, Bhartṛhari osserva che anche il significato di una parola sarebbe allora non verbale, poiché i suoni che apparentemente costituiscono le parole non coesistono fisicamente in modo tale da comporre una simile unità. Ma ciò contraddice la dottrina della Mīmāṃsā sul rapporto permanente che esiste fra parole e significati.
Kumārila (VII sec.) risponde a questa obiezione nel Vākyādhikaraṇa (Sezione sulla frase) del Tantravārttika (Glosse al sistema), contestando anche altre tesi dei Pāṇinīya. Uno dei principali punti di disaccordo tra i Pāṇinīya, i Bhāṭṭa Mīmāṃsaka seguaci di Kumārila e gli esponenti del Nyāya riguarda la concezione dei rapporti esistenti tra i significati costitutivi nella cognizione verbale (śābdabodha) generata da una frase. Secondo i Pāṇinīya, una desinenza verbale come -ti in devadattaḥ pacati 'Devadatta cucina' denota l'agente (kartṛ), e il significato principale della frase è l'azione di cucinare (pākakriyā), ossia il significato attribuito alla base verbale pac.
Per il Nyāya, invece, il significato principale della frase è quello denotato dalla forma che figura al nominativo. La desinenza verbale indica lo sforzo cosciente (kṛti) che caratterizza l'agente; ciò implica che l'agente sia necessariamente un essere capace di volizione. Secondo tale interpretazione, la frase esprime dunque un predicato di Devadatta: egli è caratterizzato da uno sforzo consapevole che risulta nell'atto di cucinare.
Secondo i Bhāṭṭa Mīmāṃsaka, -ti denota l'atto di far accadere qualcosa (bhāvanā), in cui il significato della base verbale funge da strumento. Nell'esempio suddetto si afferma che Devadatta sta producendo qualcosa di cotto tramite la cottura (pākena).
Queste diverse opinioni sono state a lungo oggetto di dibattito e hanno ricevuto forma sistematica in opere importanti, tra cui il Bhāvanāviveka (Discriminazione della forza causante) di Maṇḍanamiśra e il Kārakacakra (La ruota dei partecipanti diretti all'azione) e il Lakārārthanirṇaya (Accertamento dei significati degli affissi L) di Bhavānanda (XVI sec.). Le ultime opere significative della tradizione pāṇiniana, composte da Kauṇḍabhaṭṭa e Nāgeśa, esaminano approfonditamente tali problematiche.
In conclusione, è da ricordare che la grammatica di Pāṇini, in quanto disciplina ausiliaria del Veda (vedāṅga) e grazie al suo status di mezzo per conseguire la liberazione (secondo la concezione sviluppata nella sua forma più compiuta da Bhartṛhari), si era assicurata un posto nel Sarvadarśanasaṃgraha (Compendio di tutti i darśana) di Sāyaṇa-Mādhava (XIV sec.), dove figura come Pāṇinidarśana, il 'Sistema di Pāṇini'.
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