Scienze e archeologia
di Daniele Manacorda
L'archeologia è una disciplina che presenta aspetti di grande modernità, per il privilegio raro che la contraddistingue di poter costruire con i propri metodi le proprie fonti, per la sua capacità di contribuire a pensare la vita futura ripensando quella passata e di conciliare, come nessun'altra disciplina, a sintesi altrettanto elevate il lavoro intellettuale con quello manuale nella forma umana e creativa del lavoro artigianale. Ma l'archeologia è una disciplina moderna anche perché si colloca su quell'affascinante crinale delle scienze umane che è rivolto verso le scienze esatte e naturali. Se il compito dell'archeologia è fare storia di civiltà, ricostruendo le relazioni intercorse nel tempo fra gli uomini e fra le società, e fra queste, le cose e l'ambiente, prendendo le mosse dallo studio dei dati materiali, per raggiungere il suo obiettivo l'archeologo opera un po' come un traduttore che ha a sua disposizione, attraverso i metodi propri dell'archeologia, le grammatiche, le sintassi e i lessici necessari per tradurre in fonte storica il linguaggio dei dati archeologici. Nel percorso che conduce alla conoscenza non esiste una gerarchia delle lingue: ciascuno dei linguaggi parlati dalle testimonianze materiali esprime infatti un segmento del sapere, che di volta in volta potrà offrire questa o quella risposta, questo o quell'elemento di maggiore oggettività, certezza o fondatezza. I contesti archeologici, infatti, sono realtà in genere piuttosto complesse; è pertanto difficile che la loro spiegazione possa basarsi su una sola categoria di informazioni. L'ampiezza delle domande postula in genere la messa in campo di tutti i nostri dizionari, attraverso un uso incrociato delle fonti archeologiche, che permette di utilizzare al momento opportuno le diverse nature dei dati, traendo da ciascuna di esse differenti qualità di informazioni, che mettono in luce la complementarità dei percorsi che lo storico, l'archeologo o lo scienziato compiono per indagare il passato. Appare quindi evidente che i metodi storici, i metodi archeologici o quelli scientifici non rappresentano altro che diverse opportunità che si presentano al ricercatore nel corso della sua indagine: ad essi si farà ricorso di volta in volta, a seconda della natura della fonte indagata e della domanda che ispira la ricerca. L'acquisizione di saldi fondamenti scientifici per l'archeologia moderna data già al XIX secolo, quando le discipline preistoriche elaborarono quel triangolo fruttuoso di rapporti reciproci fra analisi tipologica, tecnologica e stratigrafica, che costituisce tuttora il caposaldo delle metodologie archeologiche. Ogni discussione che debba ancora misurarsi con interrogativi circa il ruolo o addirittura la liceità dell'approccio scientifico alle testimonianze archeologiche risulta quindi sostanzialmente oziosa. L'archeometria non è infatti altro che ogni forma di indagine archeologica che affronti i dati materiali alla luce degli strumenti e dei metodi propri delle discipline scientifiche. Essa gioca pertanto un ruolo fondamentale nel processo di costruzione e di analisi delle fonti archeologiche, a mano a mano che le nostre domande sul significato delle cose giungono a penetrare dentro la materia per interrogarla. Le qualità distintive di molti materiali, quali la pietra, i metalli e in particolar modo la ceramica, possono essere infatti riconosciute solo attraverso tecniche scientifiche di caratterizzazione (l'esame al microscopio petrografico delle sezioni sottili, l'analisi diffrattometrica, l'analisi degli elementi in tracce, l'analisi isotopica, per non limitarsi che ad alcuni principali esempi). Tali tecniche possono illuminare i processi di scelta, trasformazione e uso delle materie prime e i livelli di conoscenza di una determinata cultura e far comprendere non solo la funzione dei manufatti, ma la stessa natura dei processi mentali che presiedevano alla loro produzione e al loro uso. Per l'interpretazione delle fonti materiali l'archeologo deve poter assumere pertanto l'atteggiamento dello scienziato che, utilizzando i metodi scientifici d'analisi e le relative tecnologie, sa raccogliere i dati, formulare ipotesi che ne diano una spiegazione, sottoporle quindi a verifica mediante esperimenti, proporre descrizioni e costruire modelli capaci di fornire risposte soddisfacenti a problemi di natura assai diversa. Contributi di grande rilievo sono stati arrecati in tal modo ad alcuni degli aspetti fondamentali per la ricostruzione storica e ambientale degli insediamenti archeologici e delle loro culture. I settori dove l'applicazione delle scienze all'archeologia affronta problemi la cui soluzione potrebbe essere solo parzialmente ottenuta con i metodi tradizionali riguardano in particolare la datazione, cioè la definizione della cronologia assoluta dei reperti e dei contesti, la determinazione d'origine dei manufatti, la descrizione delle tecnologie produttive, l'analisi del degrado dei beni archeologici per la messa a punto delle strategie adatte alla loro conservazione. Nel campo dell'archeologia storica i sistemi di datazione dei manufatti e dei contesti possono naturalmente giovarsi delle tecniche più tradizionali, in particolare dell'uso incrociato dei sistemi di fonti storiche e archeologiche, che tanto più sono importanti quanto più è attenta e adeguata l'indagine sul terreno e quindi la costruzione delle sequenze. Ma il metodo stratigrafico, proprio dell'archeologia, opera nel campo della cronologia relativa: appare quindi del tutto evidente, per i siti come per i reperti, l'importanza dell'individuazione di un quadro di riferimento cronologico assoluto. È fondamentale la ricaduta che quelle datazioni, ottenute ad esempio con il metodo del radiocarbonio o attraverso le analisi dendrocronologiche, possono a loro volta avere anche sulla costruzione delle serie tipologiche, oltre che, evidentemente, sull'interpretazione storica dei dati. Purché l'archeologo sia comunque consapevole che tali datazioni possono essere di volta in volta riferite all'epoca dello scarto del manufatto o a quella della sua produzione o anche solo a quella della genesi dei materiali in esso contenuti e che quindi i dati relativi vanno inseriti in un sistema logico-interpretativo che ne consenta il pieno utilizzo in sede storica. Gli studi sulla determinazione d'origine dei manufatti hanno visto anche nel più recente passato un incremento considerevole, grazie al progredire degli strumenti analitici oggi a disposizione, che rivelano, attraverso le caratteristiche distintive di molti materiali, anche le possibili fonti di approvvigionamento delle materie prime, e quindi l'area di produzione di alcune serie di manufatti diffusi in ambiti geografici anche molto distanti. L'importanza della domanda relativa all'originaria provenienza dei manufatti è evidente: gli oggetti mobili sono infatti, per definizione, oggetti che "viaggiano" e possono essere trasportati in località anche molto lontane da quelle dove furono prodotti. Ogniqualvolta si rinvenga un oggetto in un determinato sito e se ne possa stabilire anche il luogo d'origine si viene di fatto a stabilire un rapporto tra l'area di produzione e l'area di ritrovamento. Queste osservazioni consentono di redigere carte di distribuzione di materiali e manufatti, che sono il risultato dell'intreccio dei metodi tradizionali di analisi (prevalentemente di natura tipologica, tecnologica e stratigrafica) con le applicazioni archeometriche e recano contributi decisivi allo studio dei contatti commerciali, quindi anche culturali, che legavano ‒ in forma diretta o mediata ‒ le comunità antiche. In alcuni casi è piuttosto facile stabilire il luogo d'origine di un manufatto: le monete, ad esempio, recano quasi sempre una scritta o un'immagine che consente un rapido riferimento a una determinata città o regione. In altri casi, come ad esempio per alcune particolari ceramiche, la forma e lo stile delle decorazioni rendono pressoché immediata l'attribuzione ad un centro produttore: si pensi ai celebri vasi attici rinvenuti nelle necropoli dell'Etruria o alla ceramica aretina raccolta nei campi del limes germanico. Ma non sempre le ceramiche sono decorate, anzi spesso la loro semplicità ne rende arduo il riconoscimento (esiste anche un problema di copie e falsificazioni). Sono questi i casi in cui i metodi archeometrici, attraverso le analisi delle rocce e dei minerali che compongono l'argilla o degli elementi chimici che la caratterizzano, rendono possibile risalire, con maggiore o minore approssimazione, all'area di provenienza, qualora si conosca la natura delle formazioni geologiche dei centri produttori ove si approvvigionarono i ceramisti antichi. Ma quel che è possibile fare su vasta scala per le ceramiche è assai più difficile per gli oggetti in pietra o in metallo, per i quali è spesso impossibile individuare le cave e le miniere dalle quali proviene la materia prima, la cui localizzazione peraltro non coincide necessariamente con i luoghi dove sorgevano le officine artigianali. Mentre infatti per le età antiche è in linea di massima da escludere un trasporto a lunga distanza dell'argilla necessaria per l'industria ceramica, sono ben attestati invece i commerci di marmi e di metalli non lavorati (rame, stagno, zinco, piombo, argento, ecc.), che di solito viaggiavano sotto forma di lingotti. Per quanto riguarda il piombo, negli ultimi tempi sono notevolmente progrediti gli studi di caratterizzazione basati sull'analisi dei suoi differenti isotopi, che stanno dando risultati del massimo interesse, se si considera la grande diffusione di questo materiale nell'antichità e la varietà dei suoi impieghi. L'impatto delle applicazioni scientifiche sulla storia economica della produzione e del commercio va di pari passo con la maggiore attenzione prestata agli indicatori archeologici delle attività produttive, a partire dagli studi di archeologia dell'industria estrattiva, molto sviluppatisi in questi ultimi anni, ed anche con il maggiore interesse rivolto in sede storica alle fonti scritte di natura economica, che ha visto crescere un settore particolare di ricerca indicato come "epigrafia della produzione e della distribuzione".Gli studi archeometrici applicati alle analisi di provenienza indicano anche agli archeologi quali possano essere le strade più fruttuose da percorrere, invitando a rivolgere con maggiore intensità l'attenzione della ricerca sulle aree di produzione. Solo studiando in primo luogo le officine è infatti possibile cogliere i fenomeni produttivi nella loro complessità, a partire dall'identificazione dei processi di lavorazione, che sono lo specchio diretto del livello tecnologico delle culture antiche e del grado di complessità delle loro economie. In questo quadro, le risposte archeometriche esplicano al massimo le loro potenzialità informatrici e giungono a necessario complemento della rete di domande e risposte messe in campo dall'analisi topografica degli insediamenti, dalla stratigrafia delle loro fasi di vita, dalla tipologia delle produzioni e, quando possibile, dall'epigrafia dei protagonisti. Conoscere i procedimenti mediante i quali un determinato manufatto fu prodotto aiuta inoltre a capire i processi di alterazione subiti nel corso del suo uso e nell'epoca successiva al suo scarto e seppellimento. La diagnosi sullo stato di degrado sarà a sua volta la condizione preliminare per la definizione delle strategie da adottare per renderne possibile l'eventuale esposizione e garantirne al tempo stesso la conservazione, realizzando restauri tanto più efficaci quanto più fondati sulla conoscenza analitica delle caratteristiche materiali del manufatto. In questo campo, in cui la tutela del bene si integra con la sua valorizzazione, risulta particolarmente opportuno il ricorso alle tecniche scientifiche di indagini non distruttive, che trovano ampia applicazione anche nelle prove di autenticità, alle quali sono sottoposti i manufatti sospetti di essere "falsi" di età moderna o contemporanea. Le applicazioni delle scienze all'archeologia riguardano anche il campo dei materiali organici e biologici che è possibile recuperare nei contesti di scavo. Nella bioarcheologia, che assomma in sé le competenze proprie dell'archeozoologia, dell'archeobotanica e della stessa antropologia fisica, confluiscono le procedure di analisi che consentono un più completo inquadramento ecologico delle testimonianze, con particolare riferimento ai sistemi di sfruttamento delle risorse naturali (flora e fauna), allo sviluppo delle tecniche della coltivazione e dell'allevamento e in generale alle capacità di adattamento all'ambiente e di trasformazione della natura manifestate dalle singole comunità. Gli studi biologici hanno arricchito in particolare il ventaglio delle domande che è possibile porre all'antropologia fisica, attraverso la quale ‒ in presenza di procedure di raccolta dei dati che tengano conto delle metodologie archeologiche ‒ è possibile ricondurre nell'alveo degli studi storici l'interesse per le persone stesse che produssero il documento archeologico. Lo sviluppo delle conoscenze sul DNA e sui meccanismi della sua trasmissione ha reso possibile ricostruire, attraverso quella che è stata chiamata una "archeologia del corpo vivente" (Renfrew - Bahn 1995), la storia genetica delle popolazioni attuali, con evidenti riflessi sulla storia del popolamento del pianeta e sulle forme in cui esso si produsse. Questo settore di avanguardia si affianca a più tradizionali ma non meno importanti campi di indagine, quali quello della paleopatologia o quello della paleonutrizione, che, ricostruendo la diffusione e l'incidenza delle malattie e la qualità dei regimi alimentari, indagano in ultima istanza lo stato di salute delle comunità antiche, inteso come fattore non trascurabile delle loro stesse vicende storiche. Il progresso tecnologico ha avuto applicazioni fondamentali non solo nelle indagini su manufatti ed ecofatti, ma anche nell'individuazione dei siti e delle infrastrutture che collegano i siti, quindi, di riflesso, nella gestione della tutela e in particolare nel campo della valutazione archeologica. Le diverse tecniche di rilevamento a distanza o al suolo hanno consentito la conoscenza dettagliata di vaste distese territoriali, offrendo un'idea preventiva dello stato delle strutture sepolte, della loro quantità e qualità. Lo stesso si può dire per i fondali marini, dove lo sviluppo tecnico e tecnologico dell'immersione e della prospezione subacquea ha cambiato radicalmente le possibilità d'intervento, sia sui siti sommersi che sui relitti. Le diverse forme e tecniche di prospezione geofisica precedono abitualmente o accompagnano la ricerca topografica tradizionale, che resta il metodo fondamentale di approccio al terreno, basato sulla rilevazione delle situazioni al suolo mediante survey, dai cui dati e dalle cui ipotesi interpretative si generano nuove domande, che possono a loro volta trovare risposta nell'adozione di apposite strumentazioni. Lo sviluppo dell'informatica ha provocato uno scossone enorme anche nell'archeologia, innanzitutto nella gestione dei dati, resa più facile sul piano operativo, ma anche più ordinata e quindi più in grado di rispondere alle esigenze del ciclo domanda- scelta rispetto al metodo risposta-nuova domanda su cui si basa la metodologia dell'indagine archeologica. Naturalmente l'informatica non è solamente gestione di dati alfanumerici, grafici e fotografici, ma accompagna anche l'uso di metodi matematico-statistici applicati. Senza il computer sarebbe assai più difficile svolgere, ad esempio, quelle ricerche di storia quantitativa che hanno cambiato il volto a interi capitoli della storia economica dell'antichità. Anche su questo, tuttavia, la preparazione dell'archeologo è ancora piuttosto carente, dal momento che le metodologie matematico-statistiche non fanno ancora parte integrante della formazione dell'archeologo che voglia fare storia attraverso i numeri. I progressi nel settore delle tecnologie strumentali e informatiche sono stati talmente sensibili e sono in così continua evoluzione che spesso l'archeologo non riesce ad esprimere una esauriente capacità di utilizzo delle tecnologie. Talvolta la disponibilità di strumentazioni anche molto avanzate può creare situazioni rischiose: da un lato può suscitare nell'archeologo che non abbia le capacità culturali e tecniche necessarie per affrontare questi strumenti un senso di frustrazione e quindi un sostanziale rifiuto nei confronti delle potenzialità della scienza e della tecnologia; dall'altro può produrre una sorta di fuga in avanti e quindi l'illusione che attraverso l'applicazione di tecnologie sempre più sofisticate si possano superare o aggirare le procedure tradizionali e fondamentali della ricerca archeologica. Questa seconda circostanza è forse ancora più pericolosa, perché fa male all'archeologia, ma fa male anche alle scienze e alle tecnologie, che vengono applicate in maniera superficiale o per dare un lustro tecnologico a ricerche che non hanno invece motivazioni o impostazioni storiche e filologiche fondate. Si tratta naturalmente di rischi estremi, dei quali è bene tuttavia prendere adeguata coscienza. Non c'è dunque crescita senza problemi e infatti "l'archeometria stenta a diventare una disciplina di routine" (Olcese - Picon 1995). Nel settore che concerne in particolare l'analisi dei manufatti i problemi metodologici non ancora risolti riguardano spesso la stessa impostazione della ricerca, a partire dalla formulazione delle domande che l'archeologo pone al laboratorio e dal livello di reciproca conoscenza che si instaura tra archeologo e archeometrista rispetto ai metodi di lavoro e alle loro finalità. Ogni progetto interdisciplinare esige infatti una particolare chiarezza circa gli scopi della ricerca: occorre che l'approdo storiografico del percorso conoscitivo sia sin dall'inizio chiaro e comprensibile, innanzitutto agli archeologi, che devono quindi fare ordine nei loro modi di procedere, porre con limpidezza i loro interrogativi, definire gli ambiti in cui si muove l'indagine. Nel caso di ricerche archeometriche mirate ad analisi di determinazione d'origine dei manufatti, ad esempio, risulta prioritario distinguere, anche sul piano concettuale, l'archeologia della produzione dall'archeologia del commercio o del consumo, anche se l'archeometria applicata ai luoghi di produzione crea strumenti formidabili che potranno essere fruttuosamente applicati all'archeologia del consumo, e quindi allo studio dei reperti provenienti da insediamenti di abitato, che costituiscono la grande maggioranza dei manufatti generalmente trattati dagli archeologi. Si spiegano meglio in tal senso le aspirazioni e le proposte, da più parti avanzate, in favore di un incremento degli studi sulle aree di produzione, della creazione di gruppi di riferimento per analisi archeometriche adeguati e numerosi, di una scelta oculata dei metodi analitici e dei laboratori, della costituzione di banche-dati internazionali da gestire in rete. Sarebbe bene che gli archeologi conoscessero meglio i metodi di laboratorio, le loro potenzialità e i loro limiti, perché solo così sarà possibile evitare facili illusioni circa i risultati attesi dalle applicazioni tecnico-scientifiche e delusioni tanto cocenti quanto dannose per lo sviluppo del dialogo tra archeologia e archeometria. Sarebbe anche utile una maggiore consapevolezza del fatto che quest'ultima non può essere utilizzata per cercare di risolvere per altre vie i problemi che emergono nel corso di ricerche male impostate dal punto di vista archeologico e che non esiste quindi un diritto di delega, che risulta tanto più inconcludente quanto più assolve apparentemente l'archeologo dai suoi compiti di impostazione storiografica della ricerca e di interpretazione storica dei dati e separa al tempo stesso l'archeometria dall'ambito delle procedure archeologiche. Mentre è evidente che i dati archeometrici, che non sono sempre in grado di dare da soli le risposte sperate, devono essere non solo confrontati fra di loro, a seconda delle diverse tecnologie utilizzate, ma continuamente integrati con gli altri dati provenienti dal contesto archeologico. Evitare di delegare alcuni passaggi fondamentali della ricerca archeologica non significa negare il riconoscimento della necessità degli specialismi, quanto piuttosto cercare di stabilire un dialogo costruttivo con lo specialista di archeometria, partendo da una conoscenza adeguata delle potenzialità dei vari metodi archeometrici. Per questo sarebbe assai utile che l'archeologo fosse in grado di sviluppare personalmente alcune semplici procedure, che potrebbero essere definite di archeometria elementare da laboratorio archeologico, che possono tuttavia garantire una migliore impostazione delle domande da rivolgere allo specialista. Nel rapporto tra archeologo e archeometrista un ruolo molto importante è svolto dalla scelta dei campioni da sottoporre ad analisi, che è uno dei momenti più delicati della ricerca, da cui può dipendere il successo o l'insuccesso dell'indagine archeometrica. Questa scelta non può essere appannaggio né del singolo geologo, chimico o botanico, né del singolo archeologo, ma solo il risultato di una procedura (o almeno di una discussione) comune, che tenga conto dei caratteri naturalistici dei manufatti quanto di quelli tipologici, tecnologici e più in generale storici; ma spetta innanzitutto all'archeologo verificare in prima istanza l'effettiva rappresentatività del campione, il suo significato nel contesto indagato e quindi la possibilità che esso risponda a domande storiche chiare. Gli archeologi sono quindi oggi più coscienti di un tempo che nella loro formazione ci deve essere più spazio per la cultura scientifica, per condividere con la scienza moderna l'uso non solo delle apparecchiature strumentali, ma degli stessi strumenti critici di indagine conoscitiva che costituiscono la base di ogni vera ricerca scientifica, dal momento che consentono di costruire i dati e di tradurli in fonti, di porre le ipotesi e di verificarne la validità o l'erroneità. Questa maggiore familiarità che l'archeologo dovrebbe assumere nei confronti delle nozioni fondamentali del pensiero scientifico non mette certo in discussione la centralità della figura dell'archeologo storico di formazione umanista nell'ambito del progetto di ricerca. L'archeometria non può essere delegata al chimico o al naturalista, né più né meno di quanto non possano essere delegati in campo archeologico il telerilevamento al fisico o all'ingegnere o la multimedialità all'informatico. Ciò non significa che l'archeologia sia legittimata ad esercitare alcuna egemonia sulle altre discipline o a riproporre versioni aggiornate del concetto di "sussidiarietà" delle scienze rispetto alle discipline storico-archeologiche, che ha prodotto tanti guasti e incomprensioni anche nel recente passato. Si tratta semmai di ridurre la mancanza di comunicazione e di informazione fra archeologi e scienziati, per rendere anche questi ultimi più partecipi e consapevoli dei concetti, dei metodi, delle finalità delle discipline archeologiche, almeno tanto quanto l'archeologo deve impossessarsi degli strumenti del pensiero scientifico. In altri termini, poiché l'indagine archeometrica implica in genere forme di collaborazione interdisciplinare intense e continuate, il progressivo raggiungimento di risultati via via più soddisfacenti sarà certamente facilitato dalla capacità dell'archeologo di rendere l'archeometrista partecipe della problematica storica, che viene sottoposta al vaglio delle procedure di analisi scientifiche, e dei risultati già conseguiti con le metodologie archeologiche tradizionali. Negli studi ceramologici, ad esempio, è certo che i progressi nelle ricerche di laboratorio sono intimamente legati ai progressi di conoscenze che si acquisiscono grazie allo sviluppo dei lavori tipologici e quindi delle stesse indagini stratigrafiche e per contesti, che a loro volta sono strettamente interconnesse. La consapevolezza dei fini comuni che uniscono l'archeometrista all'archeologo rende dunque necessaria una riflessione sulla formazione di queste due figure e in particolare di una figura di ricercatore che sappia dare veste professionale alle attitudini necessarie per cogliere la complessità dei fenomeni rilevabili archeologicamente. Il problema è assai delicato a causa della condizione di marginalità ancora sofferta dalle applicazioni scientifiche nel sistema della ricerca, in particolare negli ordinamenti didattici universitari, che rende ancora poco chiari gli sbocchi professionali e scarse le prospettive di carriera per i giovani. La formazione del futuro archeometrista richiede una sensibilità che è l'esatto opposto di un nuovo specialismo chiuso in se stesso e pretende invece il massimo di padronanza dei concetti e dei metodi delle singole specializzazioni, perché "fare ricerche archeometriche non vuol dire fare analisi scientifiche (...). Fare archeometria vuol dire invece decidere di ricorrere ad una fonte di informazione matematica, fisica, chimica, geologica, zoologica o botanica per avere un certo tipo di dati (...) significa quindi conoscere bene quali tipi di risposte possa dare ciascuna analisi, e quindi quando e quali di esse siano utili, e dove e come vadano prelevati i campioni (...). Fare archeometria significa anche elaborare le risposte" (Mannoni - Giannichedda 1996), cioè produrre conoscenze anche di carattere storico. L'archeometria è dunque un settore proprio della stessa archeologia, che usa il linguaggio e i metodi delle scienze esatte e naturali, pur partecipando appieno delle finalità proprie delle scienze umane. In conclusione, senza nulla togliere agli approcci tradizionali di carattere tipologico, antiquario o storico-artistico, che non hanno perduto nulla della loro rilevanza e che naturalmente possono ricevere beneficio dall'applicazione delle tecnologie moderne, oggi non c'è ricerca archeologica sul campo e sui manufatti che possa fare a meno dell'apporto delle scienze. Là dove i metodi tradizionali dell'archeologia non possono proporre soluzioni (ma possono purtuttavia indicare il problema e i possibili approcci), i metodi scientifici di analisi e le tecniche più disparate allargano a dismisura le potenzialità interpretative in sede storico-archeologica: i successi straordinari inizialmente conseguiti nel campo degli studi preistorici sono ormai evidenti anche nelle archeologie delle più recenti età storiche e hanno causato benefiche conseguenze sia nella pratica che nella stessa teoria della ricerca archeologica.
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di Mario Fornaseri - Sebastiano Sciuti
Christopher Hawkes, professore di Storia all'Università di Oxford, su richiesta di M. Aitken suggeriva a quest'ultimo nel 1958 il titolo di Archaeometry per il bollettino del laboratorio di ricerche per l'archeologia e la storia dell'arte della stessa università. Da quell'epoca il termine archeometria, originariamente ristretto alle scienze chimiche e fisiche, veniva gradualmente e di fatto esteso senza restrizioni a comprendere il contributo di tutte le scienze della natura all'archeologia e al campo delle opere d'arte. Anche se il termine archeometria è di conio recente, è opportuno riconoscere che l'attenzione dei fisici e dei chimici nei confronti dell'archeologia risale a circa due secoli fa. I. Rieder (1981) pone in evidenza come veri e propri contributi archeometrici siano da considerare molti lavori analitici di M.H. Klaproth, apparsi fra il 1788 e il 1811 e riguardanti vetri, porcellane, metalli e monete; mentre nel 1809 apparivano le prime analisi dei pigmenti di Pompei e nel 1815 le ricerche di H. Davy su pigmenti e pitture. Di rilievo è il fatto che H. Davy era già in grado di operare con quantità minime di materiale, oggi diremmo con metodi minimamente distruttivi. Nel 1847 M.-E. Chevreul analizzava il contenuto di circa 50 vasi contenenti pigmenti, rinvenuti in una tomba romana presso Saint-Médard-des-Près. Più tardi, nel 1898, oltre 100 cubetti di colore, rinvenuti in una tomba presso Herne- Saint-Hubert (Belgio), venivano studiati da F. Schoof a Lüttich e da G. Buchner a Monaco. Le ricerche sui metalli erano talmente sviluppate che fu possibile nel 1860 la pubblicazione dell'opera di E. Bibra, Die Metalle der alten und ältesten Völker, contenente 1250 analisi. Per le importanti conseguenze archeometriche che ne derivarono è da menzionare anche la scoperta del fluoro nei denti e nelle ossa da parte di D. Morichini (1802); nel 1844 a J. Middleton era già chiaro il significato del contenuto in fluoro delle ossa fossili in relazione alla loro età geologica. La scoperta della spettrografia di emissione ottica da parte di G.R. Kirchoff e di R.W. Bunsen nel 1866 ha aperto la via ai metodi di analisi spettrochimica qualitativa e quantitativa, che hanno consentito di operare su quantità minime di sostanza, e così pure la scoperta dei raggi X per opera di W. Röntgen nel 1896 ha rappresentato una svolta importante nell'archeometria, non solo per la possibilità di eseguire esami radiografici, ma perché ha reso possibile lo sviluppo della diffrattometria a raggi X, la determinazione delle strutture cristalline e l'analisi per emissione di raggi X, con gli attuali sviluppi nel campo delle analisi non distruttive. Molti dei recenti progressi realizzati in archeometria non sono che conseguenze dei moderni sviluppi della spettroscopia in senso lato che si sono verificati a partire dalla seconda metà del XX secolo. Sul finire del XIX secolo la scoperta della radioattività (fatta da H. Becquerel nel 1896) è stata del pari ricca di conseguenze favorevoli, sia dal punto di vista della cronologia isotopica che dal punto di vista analitico. L'analisi chimica, concepita come una serie di operazioni intese a stabilire la composizione qualitativa o quantitativa, nonché lo stato strutturale dei materiali, rappresenta un capitolo fondamentale dell'archeometria. I metodi di analisi chimica, siano essi quelli cosiddetti "classici" o quelli chiamati "strumentali", consentono all'archeologo, attraverso l'identificazione e il dosaggio degli elementi o dei composti presenti nei materiali archeologici (metalli, leghe, materiali lapidei, vetro, suoli, pigmenti, sostanze organiche, resti animali o vegetali), di risalire non solo alla caratterizzazione e alla provenienza delle materie prime impiegate, ma anche alle tecniche di lavorazione usate nel passato, alle correnti di traffico, ai processi di degrado, nonché di ricavare testimonianze di autenticità o di falsificazione. Se i metodi analitici classici in scala macroanalitica tendono ad essere distruttivi, quindi sono applicabili solo dove la disponibilità di materiale analitico lo consente, essi costituiscono tuttavia validi termini di riferimento. In scala microanalitica esigono l'impiego di quantità minime di materiale (dell'ordine del mg) e diventano competitivi. Un'attenzione particolare è oggi rivolta allo studio analitico delle sostanze organiche, siano esse presenti come residui alimentari, resinosi o cosmetici in antichi vasi, o impiegate come prodotti per l'imbalsamazione, siano esse costituite da aminoacidi presenti nelle sostanze leganti di pitture murali, o nelle ossa, denti, gusci di fossili. Di grande aiuto in questo tipo di analisi si sono rivelate le tecniche cromatografiche. L'analisi chimica dei suoli infine, per quanto riguarda il contenuto in fosforo, è stata in passato un efficace metodo d'indagine ai fini della prospezione archeologica e l'interesse per questo procedimento non è del tutto esaurito. Attualmente è ai metodi fisici di analisi spettrale che spetta un ruolo determinante. Occorre precisare che mentre i principi fisici che caratterizzano la spettroscopia nelle sue varie realizzazioni e nei vari campi spettrali, dall'ultravioletto al visibile e all'infrarosso, sono rimasti invariati nel tempo, si è invece avuta una profonda e continua evoluzione nei sistemi di raccolta ed elaborazione dei dati di cui gli spettrometri moderni sono oggi dotati. Le analisi spettrometriche sono caratterizzate da limiti di sensibilità dell'ordine del millesimo di milligrammo (μg) di elemento in una matrice di un grammo e richiedono generalmente il "sacrificio" di qualche decina di milligrammi di materia da prelevare dal reperto. Con ulteriori perfezionamenti si possono ottenere migliori sensibilità e sono possibili analisi non distruttive. Di queste ultime, in particolare, in considerazione del loro determinante impatto in archeometria, verrà qui data un'esposizione sommaria. Oggi infatti sono disponibili diversi metodi che consentono di effettuare indagini analitiche e strutturali senza fare alcun prelievo o apportare alcuna modifica al materiale da esaminare. Questi metodi, detti "non distruttivi" (ND), sono particolarmente adatti per lo studio e per la diagnostica di materiali archeologici di qualsiasi forma, dimensione ed epoca. Le analisi ND di elementi chimici sono effettuate secondo uno schema logico simile a quello che caratterizza le osservazioni visive. Infatti l'occhio, in un ambiente illuminato da luce bianca (radiazioni elettromagnetiche nell'intervallo spettrale da 400 a 700 nm), è in grado di classificare cromaticamente ogni oggetto che osserva. Con questo obiettivo si impiegano gli spettrometri operanti nel campo del visibile e anche dell'infrarosso e dell'ultravioletto per analizzare la luce emessa o diffusa o assorbita dalle molecole del corpo in esame. Soltanto due fra queste tecniche spettroscopiche nel campo ottico risultano in realtà di tipo ND: la spettroscopia in diffusione e quella in trasmissione. Quest'ultima è poco praticabile per questioni di geometria. Resta pertanto attuabile per tutti gli oggetti la spettroscopia Raman in retrodiffusione, che oggi si può praticare anche in situ grazie all'impiego di una strumentazione compatta e leggera e di opportune fibre ottiche. La luce (laser nel rosso) impiegata nella spettroscopia Raman è caratterizzata da una penetrazione nella superficie in esame estremamente ridotta, dell'ordine dei milionesimi di millimetro. Per analizzare spessori più grandi, cioè dell'ordine dei millesimi di millimetro, sempre in diffusione e in modo ND, s'impiegano radiazioni più penetranti e cioè i raggi X che interagiscono direttamente con gli atomi. I raggi X sono utilizzabili con facilità perché sono prodotti agevolmente con piccoli impianti elettrici o, più di rado, con sorgenti radioattive. Pertanto la metodologia di analisi ND più diffusa è quella di fluorescenza dei raggi X (XRF), che impiega come sorgente primaria un tubo a raggi X. Gli spettrometri XRF sono strumenti costruiti sia in modelli da laboratorio, sia in modelli facilmente trasportabili per analisi in situ. Il principio di funzionamento di uno spettrometro XRF è il seguente: i raggi X della sorgente primaria colpiscono un punto dell'oggetto da analizzare ed eccitano gli strati elettronici più profondi (estrazione di elettroni da una delle orbite più vicine al nucleo, orbite K o L o M) degli atomi, che si diseccitano emettendo radiazioni X monocromatiche ("righe" X) di energia caratteristica dell'elemento coinvolto. Lo spettrometro XRF è costituito dalla sorgente di radiazione primaria, da un rivelatore di raggi X con risposta proporzionale alle energie delle "righe" e, infine, da un sistema elettronico che raccoglie i segnali del rivelatore e li cataloga in relazione alla loro ampiezza (energia). Alla fine della misura, della durata di qualche minuto, il sistema fornisce, tramite un piccolo computer incorporato, per ogni elemento chimico trovato il numero di atomi che sono stati eccitati dalla radiazione primaria. Lo spettrometro, nella versione ND, è caratterizzato da una geometria molto compatta in cui l'asse del rivelatore e il fascio primario (molto collimato, quasi puntiforme) sono disposti a 90° tra loro: nel punto ideale d'incontro viene posta la parte (il "punto") dell'oggetto che si vuole analizzare. Gli spettrometri XRF portatili operano in aria e pertanto possono puntare su qualsiasi parte accessibile dell'oggetto in esame. La minima quantità rivelabile di elemento chimico è dell'ordine dei millesimi di grammo per grammo di campione. Negli spettrometri da laboratorio, che hanno una camera di irraggiamento sottovuoto e quindi richiedono spesso un prelevamento di campione, la sensibilità è notevolmente migliore arrivando al milionesimo di grammo per grammo di reperto (1 ppm). La spettroscopia XRF può anche essere realizzata con una sorgente primaria di protoni e allora il sistema di analisi viene indicato con la sigla PIXE (Proton Induced X-ray Emission). Nei reperti archeologici il dosaggio degli elementi in tracce, anche a livelli estremamente bassi di concentrazione, è spesso necessario per risalire al luogo di origine (miniera, cava) della materia prima. La presenza degli elementi in tracce infatti non è tanto legata alla costituzione chimico-mineralogica del reperto (calcare, argilla, metallo), quanto alla situazione geologica e all'ambiente geochimico di formazione della materia prima stessa. In questi casi le analisi devono essere eseguite da impianti XRF di elevata sensibilità e cioè quelli associati a macchine acceleratrici che producono flussi di raggi X centinaia o migliaia di volte maggiori dei normali impianti. Si tratta delle stazioni XRF denominate SIXRF (Synchrotron Induced XRF), che utilizzano come sorgente primaria gli intensi raggi X prodotti da un acceleratore di elettroni ad anello ("luce di sincrotrone"). Anche se in senso stretto non appartiene ai metodi rigorosamente non distruttivi, è il caso di ricordare in questa sede l'analisi per attivazione con neutroni per l'elevata sensibilità conseguibile, dato che la minima quantità rilevabile è dell'ordine del miliardesimo di grammo per grammo di reperto (1 ppb). Le analisi ND di particolari composti chimici possono essere effettuate sfruttando l'effetto Mössbauer in retrodiffusione. Uno spettrometro Mössbauer sfrutta l'effetto della risonanza nucleare tra atomi i cui nuclei sono eccitati (sorgente primaria) e atomi dello stesso elemento inglobati in composti solidi (il diffusore). Il sistema in quiete non dà luogo alla risonanza, che viene ottenuta mediante effetto Doppler realizzato con basse velocità di spostamento lineare della sorgente. La coppia risonante più impiegata è quella che ha come sorgente di raggi gamma l'isotopo 57 del ferro in uno stato eccitato (prodotto dal decadimento del cobalto-57) e come diffusore il ferro nella sua composizione isotopica naturale presente come composto chimico. Per ogni composto di ferro si ha risonanza ad una ben precisa velocità, che si determina quando il segnale retrodiffuso ha la massima intensità. L'effetto Mössbauer, che si realizza anche per altre coppie, viene particolarmente impiegato in archeometria per studiare i vari composti di ferro (specie gli ossidi), caratteristici dei colori a base di terre, molto sfruttati per colorare le ceramiche antiche. Questa metodologia consente anche di ricavare informazioni sulla temperatura usata dagli antichi nei loro forni di cottura delle ceramiche: a questo scopo è sufficiente analizzare con la tecnica ora descritta un piccolo campione di materiale proveniente dal forno. La struttura superficiale e interna di un oggetto di studio può essere osservata in diversi modi. In particolare: in trasmissione mediante radiografia con raggi X o gamma, oppure mediante tomografia assiale computerizzata; in riflessione mediante riflettografie in diverse bande spettrali di luce con particolare riguardo all'infrarosso vicino (0,7÷2 μm), termografie con radiazione infrarossa lontana (5÷15 μm), tecniche di ecografia mediante segnali ultracustici (segnali sonori con frequenze dell'ordine dei milioni di periodi al secondo), oppure autoradiografia. Ognuno di questi procedimenti fornisce una particolare immagine dell'oggetto o di una sua parte. Nel passato l'immagine veniva registrata esclusivamente mediante sistemi fotografici tradizionali. Oggi la fotografia è destinata ad essere soppiantata da tecniche di ripresa digitale che consentono l'istantanea memorizzazione. L'emulsione fotografica, pur offrendo a tutt'oggi la migliore risoluzione d'immagine e il più basso costo d'impianto, presenta inconvenienti che invece non sono riscontrati con i sistemi elettronici. Precisamente le riprese fotografiche: non garantiscono una lunga durata nel tempo, a causa del facile danneggiamento dell'immagine analogica da parte di agenti esterni di vario tipo; non consentono di ottenere immagini in tempo reale; non consentono regolazioni della qualità d'immagine "in linea", cioè la regolazione indipendente, uno per uno, dei vari parametri di ripresa. Già da tempo si vanno facendo strada le riprese con telecamere (o fotocamere) digitali che riproducono l'immagine ottica con sensori CCD (Charge Coupled Device) inseriti in un circuito elettronico, che trasformano l'immagine da analogica a digitale, esprimendola cioè con un linguaggio numerico limitato (matrice di numeri) perfettamente allineato con il linguaggio del computer. L'immagine viene memorizzata e in qualsiasi momento può essere sia "stampata" sia "riprocessata", cioè essere sottoposta a cambiamenti programmati di vario tipo. La memorizzazione elettronica consente la conservazione illimitata nel tempo della qualità di riproduzione dell'immagine e la possibilità di creare un numero illimitato di copie modificabili secondo necessità. Attualmente tutti i sistemi di analisi e di ispezione ND sono dotati di un computer integrato nel sistema stesso: "il cervello del sistema". Il computer infatti viene impiegato nelle "stazioni multifunzione" per controllare una alla volta le varie funzioni (strumentazioni) di analisi e di ispezione impiegate nella stazione. Oltre al controllo, il computer esegue l'elaborazione dei dati analitici raccolti, provvede alla loro memorizzazione e catalogazione ed infine esegue le operazioni di "riprocessamento" di cui sopra. Esempi di sistemi integrati per analisi e ispezioni in campo archeologico si possono trovare nelle stazioni multifunzione (workstations) mobili di recente costruzione, con particolare riguardo a quelle progettate per essere agevolmente trasportate dovunque e cioè presso musei, chiese, cantieri di restauro e di scavo, ecc. Queste stazioni pertanto devono disporre di varie strumentazioni, quali spettrometri funzionanti in aria per analisi XRF e dispositivi per radioscopie (radiografie in tempo reale), per riflettografie, per termografie, ecc. Tutte queste misure debbono fornire risultati in tempo reale, comprese le riprese radiografiche. Il computer è collegato alle uscite dei vari strumenti tramite opportune schede. Il piccolo impianto a raggi X opera come sorgente primaria, sia per le analisi XRF (generando un fascio altamente collimato), sia per le radioscopie (impianto radioscopico con fluorimetro). Le riflettografie sono effettuate con telecamera dotata di filtro per l'infrarosso e impiegando un'illuminazione uniforme e ovviamente ricca di radiazioni infrarosse. Nella stazione l'impiego di radioscopie è indispensabile al fine di una completa ispezione anche all'interno dell'oggetto in esame: essa quindi non ha le funzioni che spettano alle radiografie con buona risoluzione, ma svolge un ruolo di monitoraggio. Tra i procedimenti più innovativi va citata inoltre la tomografia assiale computerizzata (TAC), che, opportunamente adattata alle esigenze archeometriche, è impiegata già da qualche anno sia per riprese a 360°, per l'esame accurato di strutture interne di oggetti archeologici, sia in dendrocronologia per la conta degli anelli di crescita in artefatti lignei senza dover ricorrere ad interventi distruttivi. Metodi fisici e chimici concorrono a risolvere uno dei compiti fondamentali dell'archeometria, la valutazione del tempo trascorso o, in altri termini, la datazione. I criteri impiegati sono basati sullo studio di fenomeni dipendenti dal tempo. Se i metodi puramente chimici hanno in sé notevoli limitazioni, poiché le grandezze tempo-dipendenti che si misurano risentono fortemente delle condizioni ambientali, risultati più attendibili sono conseguibili con i procedimenti basati sul decadimento radioattivo, le cui costanti sono indipendenti da tali fattori. La misura delle variazioni di composizione isotopica di elementi quali il carbonio, l'ossigeno, lo zolfo, lo stronzio, il piombo si è rivelata in quest'ultimo trentennio uno strumento validissimo negli studi riguardanti la provenienza di materiali archeologici, la paleoclimatologia, la ricostruzione della dieta di antiche popolazioni. Alla risoluzione dei problemi archeologici, oltre alle scienze fisiche e chimiche, concorrono in pari grado e spesso in modo determinante le scienze naturali. La geologia come scienza storica dalla quale l'archeologia ha mutuato il metodo dello scavo seriale e stratigrafico e i criteri di cronologia relativa; la paleontologia, di cui sono parte la paleobotanica e l'archeobotanica; tra le scienze biologiche, la paleoantropologia; infine le scienze mediche (paleopatologia, paleochirurgia, archeologia molecolare). Nella precedente esposizione si è posto l'accento principalmente sulle scienze sperimentali, dato per scontato che nessun ramo della scienza può essere oggi concepito senza l'ausilio delle scienze matematiche. Passati ormai i tempi in cui si riteneva che nessuno studio archeologico fosse abbastanza avanzato senza l'abbellimento di alcune analisi riportate in appendice al lavoro, mentre queste analisi in se stesse spesso avevano assai poco significato e raramente venivano usate come argomento nel testo principale, oggi i dati scientifici vanno intesi come parte integrante della ricerca. Quale che sia l'orientamento futuro dell'archeologia, l'archeometria rimane una chiave indispensabile per la lettura dei documenti del passato.
R.M. Organ, The Value of Analyses of Archaeological Objects, in Archaeometry, 13 (1971), pp. 27-28; Applicazione dei metodi nucleari nel campo delle opere d'arte, Roma 1976; Z. Goffer, Archaeological Chemistry, New York 1976; I. Riederer, Kunstwerke chemisch betrachtet, Berlin 1981; G. Harbottle, Chemical Characterization in Archaeology, in J.E. Ericson - T.K. Earle (edd.), Contexts for Prehistoric Exchange, New York 1982, pp. 13-51; Archeometria: scienze esatte per lo studio dei beni culturali, Roma 1985; J. Rieder, Analytische Methoden in die kulturgeschichtlichen Forschung, Berlin 1985; U. Leute, Archaeometry, Weinheim 1987; J. Mills - R. White, The Organic Chemistry of Museum Objects, London 1987; J. Henderson, Scientific Analysis in Archaeology and its Interpretation, Oxford 1989; E. Pernicka - G.A. Wagner, Archaeometry '90, Basel 1991; S. Sciuti - G. Suber, Nuclear and Atomic Physics, in Nuovo Cimento, 14 (1991), pp. 1-75.
di Bruno Turi
In molti argomenti trattati nel corso dell'opera ‒ dai metodi di datazione, alla caratterizzazione e conservazione dei materiali archeologici, alle ricostruzioni climatiche del passato ‒ si farà ampio riferimento al significato degli isotopi dei vari elementi chimici; appare pertanto utile illustrare i principi che regolano la distribuzione e la composizione isotopica degli elementi e le cause che ne determinano le variazioni. Secondo il modello di E. Rutherford, un atomo si può considerare composto da un nucleo centrale, carico positivamente e in cui è concentrata quasi completamente la massa, intorno al quale si muove una nube di elettroni, particelle di massa piccolissima e carica elettrica negativa, il numero e la distribuzione delle quali determinano le proprietà chimiche dell'atomo. Il nucleo ha struttura e composizione molto complesse. In prima approssimazione, tuttavia, possiamo immaginarlo costituto da due tipi di particelle elementari, il protone (p) e il neutrone (n), indicate genericamente col termine "nucleoni". Il numero di protoni e di neutroni presenti nel nucleo viene convenzionalmente indicato con le lettere Z e N. Il protone possiede una carica elettrica positiva, uguale ma di segno opposto a quella dell'elettrone, mentre il neutrone, di massa leggermente superiore, è elettricamente neutro. Il nucleo avrà quindi una carica elettrica positiva che, nell'atomo neutro, bilancia esattamente quella negativa associata agli elettroni extranucleari. Il numero Z corrisponde anche al numero di elettroni extranucleari dell'atomo neutro e coincide perciò col "numero atomico" dell'elemento a cui l'atomo appartiene. Il numero totale di nucleoni, A = Z + N, si chiama "numero di massa". Il numero atomico Z degli elementi noti varia da 1 (idrogeno) a 103 (laurenzio), il numero di massa A fra 1 e 260 e N fra 0 e 157. Con il termine "nuclide" si usa indicare la specie nucleare caratterizzata da un determinato valore di N, Z e quindi di A. Un nuclide viene solitamente rappresentato dal simbolo chimico dell'elemento di appartenenza con in alto a sinistra il valore di A e facoltativamente in basso, dallo stesso lato, il valore di Z. Ad esempio ¹² ₆C rappresenta la specie nucleare del carbonio costituita da 12 nucleoni; poiché il numero atomico del carbonio è Z = 6, il numero di neutroni sarà N = A ‒ Z = 12 ‒ 6 = 6. Si chiamano isotopi i nuclidi aventi lo stesso Z, ma N, e quindi A, differente. Gli isotopi, in quanto atomi dello stesso elemento, hanno proprietà chimico-fisiche molto simili seppur non identiche. S'intende per "complesso isotopico" di un elemento l'insieme degli isotopi che l'elemento stesso può presentare. La maggior parte degli elementi possiede due o più isotopi naturali, le proporzioni relative dei quali, espresse in percentuale, costituiscono le cosiddette "abbondanze isotopiche". Gli isotopi di un elemento hanno masse diverse, in quanto contengono un diverso numero di neutroni. Poiché le masse dei nuclei sono troppo piccole per essere espresse nelle unità abituali, si è convenuto di adottare per la loro misura una nuova unità: l'unità di massa atomica (u.m.a.), corrispondente ad 1/12 della massa dell'isotopo ¹²C. Ciò significa che le masse dei nuclidi e quelle delle particelle elementari sono riferite a quella del ¹²C, posta esattamente uguale a 12 unità. Negli ambienti naturali si conoscono 264 nuclidi stabili, i quali cioè mantengono inalterata nel tempo la loro composizione nucleare, ed una ventina di nuclidi detti "instabili", perché si trasformano spontaneamente attraverso il processo noto come decadimento radioattivo. Nel complesso isotopico di un elemento possono figurare sia isotopi stabili che radioattivi: ad esempio, il carbonio presenta tre isotopi naturali, due dei quali sono stabili (¹²C e ¹³C) e il terzo (¹⁴C) è radioattivo; quest'ultimo è noto anche come "radiocarbonio". Altro esempio notevole è quello del potassio, il quale possiede due isotopi stabili, ³⁹K e ⁴¹K, ed uno radioattivo, ⁴⁰K. Sia il ¹⁴C che il ⁴⁰K trovano applicazione come cronometri geologici. In natura le abbondanze degli isotopi di un elemento possono variare in seguito a processi nucleari (reazioni nucleari, decadimento radioattivo) o a processi di frazionamento di natura chimico-fisica, che determinano la ripartizione degli isotopi dell'elemento fra due specie chimiche (o fasi diverse di una stessa specie). Questi ultimi processi interessano gli elementi a basso numero atomico (e quindi anche numeri di massa bassi), solitamente detti "leggeri", aventi almeno due specie isotopiche. Fra questi, di particolare interesse archeologico e geochimico sono l'idrogeno (Z=1), il carbonio (Z=6), l'azoto (Z=7), l'ossigeno (Z=8) e lo zolfo (Z=16), elementi che si ritrovano in un gran numero di composti naturali solidi, liquidi e gassosi. L'abbondanza del loro isotopo più raro varia da alcune centinaia di parti per milione a qualche unità per cento ed è quindi sufficiente a consentire precise determinazioni per spettrometria di massa del rapporto R fra isotopo pesante (raro) e leggero (comune), cioè del parametro abitualmente usato per esprimere la composizione isotopica dell'elemento. L'entità del frazionamento isotopico dipende dalla differenza di massa relativa fra la coppia di isotopi considerata; ad esempio, per le coppie ¹⁸O-¹⁶O, ¹³C-¹²C e ²H-H tale differenza è pari a circa 12,5, 8,3 e 100% rispettivamente, e pertanto ci si deve attendere che, a parità di altre condizioni, i frazionamenti isotopici dell'idrogeno siano circa 10 volte maggiori di quelli presentati dall'ossigeno, dal carbonio e dagli altri elementi "leggeri" sopracitati. Per coppie di isotopi di elementi con Z relativamente alto, quindi anche A elevato, le differenze relative di massa sono molto minori di quelle proprie degli elementi "leggeri", e pertanto gli effetti di frazionamento saranno piccoli o addirittura trascurabili. La composizione isotopica indicativa degli elementi "leggeri" di maggiore interesse archeologico e geochimico è riportata nella Tabella 1. Non considerando gli isotopi radioattivi naturali che alcuni di tali elementi "leggeri" possiedono, la cui abbondanza relativa è peraltro estremamente bassa, è risultato conveniente esprimere la composizione isotopica di questi elementi in termini della deviazione relativa, in parti per mille, del rapporto fra isotopo pesante e isotopo leggero nel campione in esame rispetto allo stesso rapporto in un conveniente standard di riferimento. Tali deviazioni si misurano in unità δ (‰) così definita: δ = [(Rcamp ‒ Rstd)/Rstd ]×1000, dove Rcamp e Rstd rappresentano i rapporti isotopici considerati rispettivamente nel campione e nello standard. Un valore positivo di δ sta a significare che l'elemento in esame ha, nel campione analizzato, un rapporto isotopico più alto di quello dello standard; analogamente, un valore di δ negativo indicherà che il rapporto isotopico del campione è inferiore a quello dello standard. Se δ=0, campione e standard hanno lo stesso rapporto isotopico. Convenzionalmente i δ relativi ai rapporti isotopici degli elementi leggeri di maggiore interesse geochimico e archeologico sono indicati come δD, δ¹³C, δ¹⁵N, δ¹⁸O, δ³⁴S. Per ogni sistema, l'entità del frazionamento dipende dalla temperatura T a cui il processo si verifica e, in un intervallo di temperatura non molto esteso, generalmente tende a diminuire con l'aumentare di T. Sulla relazione fra frazionamento isotopico e temperatura si basa la cosiddetta "termometria isotopica". Anche le variazioni di composizione isotopica di alcuni elementi "pesanti", quali principalmente lo stronzio (Z=38) e il piombo (Z=82), hanno trovato importanti applicazioni in archeologia. Interessanti prospettive sembrano aprirsi anche per il neodimio (Z=60). La composizione isotopica di questi elementi è espressa in termini dei rapporti ⁸⁷Sr/⁸⁶Sr, ¹⁴³Nd/¹⁴⁴Nd, ²⁰⁸Pb/²⁰⁶Pb, ²⁰⁷Pb/²⁰⁶Pb, ²⁰⁶Pb/²⁰⁴Pb. L'isotopo che figura al numeratore è radiogenico, cioè è prodotto dal decadimento di un nuclide genitore radioattivo, mentre quello che si trova al denominatore non deriva da processi di decadimento radioattivo; entrambi gli isotopi sono stabili. Le variazioni di composizione isotopica di questi elementi dipendono non già da fenomeni di frazionamento chimico-fisici, come avviene per gli elementi "leggeri", ma da processi di decadimento radioattivo. Da quanto esposto emerge il molteplice interesse, dal punto di vista archeologico, della conoscenza, acquisibile attualmente con misure sperimentali di alta precisione, dei rapporti isotopici degli elementi sopracitati. Tali rapporti possono essere utilizzati: per caratterizzare materiali di vario tipo (minerali, rocce, residui organici ); negli studi di provenienza e delle correnti di traffico (metalli, marmi, ossidiane, pomici, vetri, pigmenti ); come metodo di valutazione e di ricostruzione di condizioni genetiche e/o ambientali (ad es., paleotemperature, paleoclimi); per la valutazione di parametri paleonutrizionali (paleodiete); nei problemi di datazione. Le possibili applicazioni delle metodologie isotopiche in archeologia sono sintetizzate nella Tabella 2.
In generale:
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