Scienziati del Seicento - Introduzione
Scriveva Antonio Vallisneri, citando letteralmente Bacone: «Pare che abbiano le loro stelle, ora avverse ora benigne, anche le scienze [...] Est vertigo quaedam, et agitatio perpetua, et circulus». Le due voci, quella del Lord Cancelliere inglese e quella del naturalista italiano, consuonano a distanza di cento anni (1620: proemio del Novum Organum - 1715: data di pubblicazione della vallisneriana Lezione accademica intorno l'origine delle fontane) rivelando la stessa inquietudine di fronte a una «vicenda» che non risparmia alcuna attività umana, ricerca scientifica inclusa.
È un motivo che - modulato in vari registri - percorre tutto il Seicento: questo «secolo del genio», che però si apre tragicamente a Campo dei Fiori, sui bagliori del rogo di Bruno, e fa tappa ad Arcetri, prima di ricomporsi nelle apparenze idilliche dell'Arcadia di Vallisneri.
Ascoltiamolo di nuovo, il motivo, nella modulazione personale, amarissima, di una delle figure più notevoli, più tormentate (e più fraintese) del periodo: quel Lorenzo Bellini che eleggeva a suo motto «ognuno contro di me, et ego semper solus»:
[...] considero per quante ruote girano le cose umane, ed a quanti fili sono legati gli animi nostri, da' quali vengon volti in qua, e in là, e in ogni sorta di più strano movimento, secondo che questo, o quel filo fa forza in loro, come se noi fossimo tanti burattini fatti di cenci e di stecchi, su le dita e su gli attaccagnoli della fortuna e del fato.
Certamente, a siglare questo secolo di conquiste del pensiero e di sconfitte umane, avremmo potuto utilizzare affermazioni ben più orgogliose; per esempio quella (ricorrente in tutti gli scienziati «nuovi») della superiorità di un secolo che - per dirla con Malpighi - «con due guardate fatte con l'occhiale dell'immortal Galileo, ha più scoperto che non hanno speculato tutte le passate migliaia d'anni; e con i microscopii applicati alla vista delle parti minime del corpo animato, ha veduto ne gl'animali minimi medianiche mirabili [...]».
Se abbiamo preferito voci più sommesse e pensose è perché esse ci sembrano interpretare meglio un periodo in cui la fiducia dell'uomo nei suoi mezzi euristici non si è tradotta in concezione trionfalistica della scienza come evoluzione lineare («Est vertigo quaedam, et agitatio perpetua, et circulus»!); non ha quindi ispirato agli scienziati superbie luciferine, non ha autorizzato loro propositi di fuga dalle responsabilità sociali. Le baconiane «ragioni della speranza» emergono dalla «disperazione» e salvano da filosofie regressive, senza d'altra parte promuovere altrettanto assurde mitologie del progresso.
Mano a mano che si ampliano le nostre letture di testi scientifici (e si precisa così la mappa della nostra ignoranza) aumenta la resistenza a pronunciare giudizi globali, a emettere formule sonore; ciò nonostante diremmo che, se c'è un secolo in cui l'uomo ha acquistato verità e perduto sicurezze senza rinunciare a speranze, questo è proprio il Seicento.
Spiazzato dal centro dell'universo, nano di fronte alle «innumerabili» stelle scoperte dal telescopio, gigante di fronte agli «animalcula» rivelati dal microscopio in una goccia di aceto o di sperma, l'uomo - straordinario Gulliver - paga con lo sgomento l'esaltante avventura del suo pensiero. I poeti amplificheranno lo smarrimento, l'angoscia dell'uomo sull'«istmo» fra due infiniti, ma questi stati d'animo si possono già cogliere nelle espressioni pudiche, nelle pagine emotivamente e linguisticamente sorvegliate degli scienziati «filosofi».
A Vallisneri «trema la penna in mano e si sgomenta lo spirito»; la sua «fantasia» si «spaventa» davanti alle «minime immensità» che pure non si stanca di esplorare; «l'immaginazione si atterrisce» (gli farà eco Spallanzani) davanti a quegli esseri che, creando attorno all'uomo un campo di relazioni insospettate, impongono all'uomo stesso - appena proiettato nella «pluralità dei mondi» astronomici - una ridefinizione di sé in rapporto all'infinitamente piccolo.
«Estasi di rapimento», «entusiasmo di ammirazione» colgono Lorenzo Bellini quando, con l'aiuto della geometria, «vera governatrice e sicura scorta di qualsivoglia scienza», si inoltra nel «pelago immenso» dell'anatomia; «Ogni cosa è inesausta» scrive il Bellini a Malpighi «ed ha la sua immensità a chi sa perdervisi dentro con l'occhio della contemplazione e dell'ordine».
Più sbilanciata verso l'angoscia (perché meno «scortata» dalla geometria e dall'ordine) la voce di un galileiano decentrato: «[...] la mia mente non smette mai di pensare,» scrive dalla Sicilia Giovanni Battista Hodierna a un amico romano «Et quia mens numquam satiatur, persaepe in tenebras inexplicabiles incidit et implicatili».
«Un nuovo mondo è stato scoperto per il pensiero,» dice Robert Hooke, l'autore della Micrographia, nel 1665, «i cieli si sono aperti e appare in essi un vasto numero di stelle nuove», mentre «la terra stessa, che giace così vicina a noi sotto i nostri piedi, ci sembra ora completamente nuova e in ogni piccola particella della sua materia noi osserviamo una varietà di creature così grande come quella che prima avremmo potuto contare nell'intero universo».
La critica, già galileiana, contro le definizioni assolute, a favore di definizioni relazionali di ciò che è piccolo o grande, vicino o lontano, ecc., si radicalizza, nel momento in cui l'uomo non ha più sistemi fissi di riferimento e nel momento in cui il suo stesso corpo non gli appare più «misura certa» delle cose. Ricorriamo ancora a Vallisneri, lo scienziato che, concludendo il secolo per proiettarsi in quello dei «lumi», è l'erede diretto del periodo che si chiude e l'interprete più fedele ed equilibrato dei suoi chiaroscuri:
Tenghiamo noi questo grande principio, che nulla è grande, né piccolo in sé, e ch'egli è tale per rapporto al nostro corpo: e che per ciò non segue che tale assolutamente sia, perocché il nostro corpo non è già una misura certa sopra la quale immancabilmente giudicare si possa quale possa essere l'estensione degli altri corpi. Noi stessi noi siamo piccolissimi per rapporto alla Terra; più piccoli ancora per rapporto allo spazio contenuto fra noi e le stelle fisse, più piccoli pure, e più piccoli all'infinito per rapporto agli spazii immensi che noi sempre più grandi e più grandi all'infinito immaginare possiamo. Domeneddio avrebbe potuto fare degli uomini così grandi, in riguardo a' quali noi non fossimo o non apparissimo che la millesima parte d'un Cirone. Ne avrebbe potuto fare degli altri, a riguardo de' quali uomini grandi fossero piccoli come noi saremmo per rapporto a que' primi. Que' massimi e sterminatissimi cercherebbono forse noi co' microscopii, e non ci troverebbono giammai.
È legittimo lo smarrimento dello scienziato e dell'uomo: nel tutto-pieno del mondo è entrato - legato ad una nuova idea di spazio e confermato da esperimenti - il vuoto; è entrato l'infinito: l'infinitamente grande, l'infinitamente piccolo, l'infinitamente divisibile.
Un mondo artistotelico, compattamente ordinato da Dio all'uomo, ma anche un mondo copernicano, concentricamente ordinato dal sole ai confini del sistema, garantiscono all'uomo possibilità di localizzazione sicura; ma le comete che, provenendo da spazi sopralunari, attraversano senza danni le «sfere» adamantine, testimoniano di un cielo fluido, permeabile agli astri, espanso in tutte le direzioni, senza confini. E già Keplero lavora, con «un non so quale segreto e nascosto orrore» a deformare in ellissi la perfezione del cerchio e si sente perduto «in quella immensità, alla quale sono negati limiti e centro, alla quale è negato, di conseguenza, ogni luogo determinato».
L'immaginazione va al di là del visibile: come le stelle scoperte con il telescopio rimandano a stelle invisibili, in numero infinito e in spazio infinito, così, al di là del «più minuto sensibile» visto con il microscopio, l'uomo ha ormai il coraggio intellettuale e fantastico di spingersi nella direzione del «più minuto esistente»; «la ragione ci convince dell'esistenza di ciò che concepir non possiamo», scrive ancora Vallisneri, «Noi abbiamo delle dimostrazioni evidenti della divisibilità della materia all'infinito, e ciò basta per farci comprendere che degli animali più piccoli e più piccoli all'infinito essere ci possono». E Geminiano Montanari, immaginando sé stesso a colloquio con Galileo e con Gassendi sull'argomento del «vacuo», farà dire a quest'ultimo: «In damo voi ricercate (mi replicò il Gassendo) di vedere con gl'occhi del corpo ciò che non ha in sé come farsi visibile. Ma nelle speculazioni del vostro intelletto non trovavate voi almeno qualche motivi che all'una più che all'altra parte inclinare vi facessero?». Battuta significativa, perché pronunciata da chi aveva riformulato una teoria (l'atomismo democriteo) che era in grado di spiegare i fenomeni in termini di processi microfisici elementari: suscettibili quindi di essere rappresentati matematicamente («speculati dall'intelletto») ma non di venir conosciuti mediante osservazione diretta.
Acquista allora significato anche lo «stare assieme» di Gassendi e di Galileo, nella fantasia ultraterrena del Montanari. Lo scienziato modenese identifica, con questo accoppiamento, l'origine di una linea di pensiero fortemente ipotetico-deduttivo (su basi corpuscolari), che passerà per le menti più speculative dell'epoca: in area emiliana e veneta (Malpighi, Montanari stesso, Guglielmini, Vallisneri, i Manfredi, Poleni, ecc.), ma anche in altre aree (Borelli, Bellini, Marchetti, Rossetti, ecc.), lasciando in una fertile ma filosoficamente meno irrorata ansa la ricerca rediana; troppo dominata, quest'ultima, da una necessità di «vedere con gli occhi», che talvolta ottunde le facoltà ipotetiche.
Sì che, quando Spallanzani, in pieno Settecento, dirà che 1'«occhio che vede» non è soltanto l'occhio «curioso», ma quello «giudice» (che cioè non aderisce passivamente alla percezione, ma media l'osservazione con la teoria), quando lo stesso Spallanzani dirà che - là dove i nostri sensi non arrivano, neppure «armati» di strumenti - là «la ragione trova di che schermirsi nella materia divisibile in parti senza numero», la sua ascendenza secentesca non è Redi, ma Vallisneri e, alle spalle di questi, Borelli e Galileo.
Questa marca più fine di «galileismo», più filosoficamente implicata (e quindi più coinvolgente e sconvolgente l'uomo, sotto la maschera impassibile dello scienziato), non è facile da individuare. Dovremo infatti scoprirla in scrittori così impegnati a concretizzare in «prove fisiche» le istanze della nuova scienza, da concedersi ben pochi spazi teorici espliciti, ben poche pause metodologiche. Occorrerà rivolgersi a epistolari, a opere polemiche, là dove il colloquio familiare o la tensione dialettica aprono più frequenti sbocchi agli interessi speculativi dello scienziato, arricchendo al tempo stesso di vibrazioni emotive la sua scrittura abitualmente «referenziale» e «disappassionata».
Qualche volta, per scienziati che manifestano la loro fede filosofica solo nel correlativo oggettivo della ricerca, dell'esperienza, dovremo ricorrere a loro collaboratori e corrispondenti, che funzionino come loro più estroversi interpreti. Sarà Charles Bonnet, la «metà filosofica» dell'«anima» di Spallanzani, a trasferire sul piano speculativo le «esperienze» dell'amico, ad arricchire di entusiasmo e sgomento cosmici le controllatissime ipotesi dello scienziato italiano sulla divisibilità della materia «in parti senza numero»:
Qual profondo abisso non è per noi l'uovo di un insetto ? Ma qual suggetto di storia naturale, di fisica e di metafisica evvi egli mai che non ci presenti degli abissi? [...] I Mondi sono la mia passione; io ci passeggio sovente in idea [. . .] io veggo de' Mondi per tutto, e in questi Mondi delle infinità di creature viventi [. . .] In fine dove non veggo io de' Mondi? Ne scorgo per fino in una gocciola di liquore e la mia immaginazione rimane egualmente confusa dall'infinitamente piccolo e dall'infinitamente grande.
Non sembri strano che uno dei sintomi della tensione filosofica sottesa all'attività scientifica sia proprio l'affiorare, nello scienziato, di inquietudini, di turbamenti, di malinconie che accompagnano anche i momenti esaltanti della scoperta: a conferma del fatto che la ricerca scientifica - per gli scienziati di razza più fine - costituisce un coinvolgimento totale della loro personalità. La solarità di un Redi potrebbe essere, in questo senso, un sintomo accessorio della dimensione meno qualificata del suo «galileismo», soprattutto se paragonata alla tenebrosità di un Borelli, alla fonda malinconia di un Bellini, alle angosce di un Malpighi.
Abbiamo insistito sull'inquietudine che, così spesso, si associa all'ansia della ricerca, alla gioia della scoperta, perché questo elemento umano dà un fascino particolare a questo tipo di «letteratura». Noi non abbiamo avuto indulgenze, né per noi stessi né per il lettore, nello scegliere i testi. Il criterio che abbiamo seguito non è quello - rabdomantico - della ricerca e del collage di pagine «belle», ma quello della validità scientifica dei testi, della loro incidenza sulla storia della cultura e delle idee. Ciò ci ha permesso di eliminare da un volume di «scienziati» quei poligrafi della scienza, curiosi quanto generici raccoglitori di notizie, certo importanti a documentare l'estensione degli interessi scientifici e a caratterizzare il «genio» del secolo, ma - nella frammentarietà delle loro ricerche, nell'incoerenza dei loro metodi, nell'edonismo dei loro interessi - estranei alla scienza impegnata del Seicento. In un periodo in cui la ricerca scientifica è un coinvolgimento totale, un ideale a cui spesso si sacrificano la libertà e la vita, gli orecchianti, i generici, i filosofi «morbidi» (non alludiamo a Magalotti!) devono essere sacrificati anche se scrivono «bene»: almeno nell'economia di un'opera che, essendo una scelta, impone il coraggio delle esclusioni.
Ciò nonostante abbiamo utilizzato anche, nei limiti del possibile, il criterio complementare dell'interesse letterario: non solo e non tanto per quanto riguarda gli aspetti retorico-formali, ma per quanto riguarda gli aspetti emotivi sottesi a queste scritture. Non dovremo aspettarci effusioni, sfoghi lirici, da questi scrittori; dovremo cogliere la loro umanità (la loro sofferenza, la loro rabbia, la loro gioia, nel momento della scoperta) nelle vibrazioni interne di una prosa sobria, razionalmente dominata. Dovremo aspettare che - come spesso accade - il tessuto si squarci, come si squarcia in Malpighi: non solo nella Risposta polemica allo Sbaraglia, ma anche nel De pulmonibus, opera tecnica con cui lo scienziato annunciava al mondo la scoperta dei capillari polmonari, a saldare l'anello mancante della «circolazione» del sangue. Lì, nel latino agile e pur solenne della comunicazione scientifica (un latino che ha il suo archetipo nel Sidereus Nuncius di Galileo), dovremo captare l'inebriante consapevolezza di chi ha «scorso il microcosmo dell'animale» e ha visto, nella massa prima indifferenziata del polmone (il παρέγχυμα degli antichi, o «sangue accagliato», come traduce Malpighi stesso!), la sconvolgente realtà di «strutture minime», di «vessicole», di «utricoli», di «vasi minimi propagati a forma di rete». Dovremo sentire l'emozione di Malpighi quando, sopraffatto dall'epicità del momento, ne delegherà l'espressione ad Omero: «magnum certe opus oculis video» (Il, XIII, 99).
Ma non è soltanto per alimentare il pathos metafisico della lettura che abbiamo insistito sugli aspetti emotivi, impliciti nella scrittura e nell'attività scientifiche; è anche perché ciò consente di dare un significato più pregnante all'impegno morale, civile, politico (oltre che scientifico) dei nostri autori. La rottura di vecchi equilibri può dare stordimenti, angosce, ma non provoca abdicazioni.
Su quella «scena» che il Bellini è consapevole di calcare da «burattino» - condizionato com'è da «soggezioni», da «sospetti», da «invidie», da «impegni terribili» - lo scienziato toscano continuerà a sostenere il suo ruolo per tutta la vita. «Ma che s'ha da fare?» scrive a Malpighi che, sulla «scena» bolognese, non ha minori amarezze, «Siamo uomini, ed alligati officiis»:
La maggiore, e miglior parte della naturale genialità d'ognuno di noi s'ha da consumare e smarrire per le convenienze del mondo, le quali, se ben sembrano vanità, pur son necessarie pel buon governo di questa scena universale. Viva dunque la scena, e in questa scena facciam anche noi la parte nostra, or da filosofi, or da zanni, or da ciarlatani, e che so io qualis magistro probata fuerit.
È atteggiamento condiviso da tutti gli scienziati nuovi, questo, di «stare al secolo», di non escludersi o farsi escludere dai «negozi», dai «maneggi», di far la propria «parte» sulla scena sociale e politica, alla ricerca di equilibri nuovi fra uomo e natura, fra individuo e società. Mentre lavorano a smantellare, a forza di prove fisiche, un sistema solidamente strutturato e che non può essere «filosoficamente» impugnato (Galileo insegna!), questi scienziati si impegnano a far trionfare un «credo» che tuteli meglio la dignità dell'uomo, mentre rialza il livello delle sue conoscenze.
È proprio l'organicità di questo «credo», la sua articolazione, la sua traduzione in un metodo di ricerca che è, al tempo stesso, stile di vita, che consentiranno la sostituzione di un tipo di organizzazione concettuale con un altro.
Se così non fosse sarebbero legittime le «retrodatazioni»: la ribellione a una cultura cartacea e al principio di autorità, la rivalutazione dell'esperienza sorretta dall'ipotesi, il ricorso alla natura, ecc. ecc., sono - ben prima di Galileo - temi che affiorano e diventano, addirittura, luoghi comuni. Ma è l'episodicità, l'isolamento delle posizioni, sono le velleità iconoclaste che non diventano volontà organizzate, i gesti ribelli che non rientrano in strategie, a ridimensionare gli episodi stessi e a limitare la loro incidenza sulla «scena universale». Ciò che assicura alla scienza nuova la sua portata rivoluzionaria è il fatto che essa sostituisce alla concezione tradizionale una concezione diversa, ma organica, razionale, influente sul comportamento sociale e politico dello scienziato; sì che di essa si possono elencare gli aspetti distintivi e qualificanti.
Al «perché" metafisico si sostituisce il «come» scientifico; ad un ordinamento causale e finalistico si sostituisce un ordinamento nomologico; al concetto di maggiore o minore regolarità che divide mondo supra e sub-lunare si sostituisce il concetto di legge necessaria, valida dall'infinitamente grande all'infinitamente piccolo; ad una analisi di tipo morfologico, tendente a identificare sostanze e a incasellarle in categorie, si sostituisce un'analisi di tipo strutturale-funzionale; all'uso di parametri dicotomici e qualitativi si sostituiscono gradazioni continue e quantificabili. La matematizzazione che ne deriva esclude qualsiasi tendenza valutativa, in termini di «nobiltà" o «perfezione»; il metodo non è più soltanto morfologico-empirico, ma ipotetico-deduttivo.
Ma fermiamoci, con un po' più di respiro, su alcuni aspetti che incidono particolarmente sul «comportamento» dello scienziato e sul suo modo di rapportarsi al mondo.
Tramonta l'aspirazione a un sapere enciclopedico (impossibile in un mondo che ha perso tutti i suoi confini, compreso quello dello scibile): la natura infatti è «libraria di tanti volumi che mai finirà di studiarsi», come afferma, da galileiano convinto, Giovanni Ciampoli.
Ma all'ideale pansofico subentra il nescio galileiano che, mentre perimetra i crateri dell'ignoranza umana (e impone allo scienziato una nuova umiltà, nella consapevolezza dei suoi limiti e della possibilità di errore), individua anche zone aperte alla comprensione «intensiva» dell'uomo e assicura quindi ad esso ragioni di speranza, motivi di orgoglio, senso della sua dignità.
Magalotti travestirà da episodio bonario, scioglierà in comportamento socratico il rifiuto di Galileo allo «spirito di sistema»; accentuerà il tono colloquiale e toscaneggiante delle parole del «buon vecchio», a mascherare da «motto” arguto un'affermazione di grande portata filosofica:
Sapete voi quel che rispose il Galileo a un suo amico, che lo consigliava a stabilirne uno [«sistema di filosofia»] che potesse servire di fondamento a chi avesse voluto seguitar la sua scuola ? Eh, padron mio, in settant'anni, che io ho in sulle spalle, averò forse ritrovato la soluzione di una mezza dozzina di problemi fisici, ma per trovar tutto il resto, dubito che il tempo non mi voglia servire; e soddisfarmi, come vedo soddisfarsi certi, a affogare certe poche verità in un mare di verisimili, non me ne dà il cuore.
In realtà il «motto» arguto è il primo e fondamentale articolo del «credo» della nuova scienza. Quando Galileo afferma: «Io stimo più il trovar un vero, benché di cosa leggiera, che 'l disputar lungamente delle massime questioni senza conseguir verità nissuna», egli rovescia consapevolmente una posizione tipicamente aristotelica che anche il padre Campanella sottolineava nell’Apologia pro Galileo: «[...] praestat (ait Aristot<eles> in I De anima) pauca de magnis rebus scire probabiliter, quam multa de parvis demostrative»; sicché si capisce che la professione di umiltà, associata alla rivendicazione ad intendere perfettamente alcuni problemi, si ripeta in tutti i galileiani, con una costanza e con una fissità di formulazione linguistica che garantiscono della sua «ritualità", all'interno di una professione di fede.
Ancora: al mito del potere magico dell'uomo sulla natura subentra il rispetto per essa, la fede nella semplicità e nella regolarità delle sue leggi; quindi la sottrazione al «caso» e al «caos» della sua interpretazione. «Che se l'opera della natura fussero a caso, ed incostanti, a caso e senza alcuna reflessione si potrebbe risolvere ogni questione naturale; perché, nel variar della natura, si confermerebbe talhora per vera quella solution data a caso»: è la voce di un galileiano sincero, anche se «minore», Raffaello Magiotti ; ma è voce estratta da un coro (che i lettori di questo volume potranno apprezzare); perché il postulato della semplicità e regolarità del «modo di operare» della natura è articolo del nuovo «credo» scientifico, e non è senza effetti sul comportamento dello scienziato.
Se prima il «sapiente» si illudeva di poter dominare la grande complessità dei fenomeni usando il passe-partout, la «clavis universalis» di una conoscenza magica, ora la fiducia nella possibilità di interpretazione razionale della natura è assicurata dall'ipotesi opposta: quella, cioè, di una fondamentale unità di costituzione della materia, e quindi di un omomorfismo di strutture, di una analogia di funzioni, di una regolarità nel verificarsi dei fenomeni, che consentono allo scienziato di trasferire ad àmbiti diversi di applicazione una stessa teoria esplicativa e uno stesso metodo di indagine. La disponibilità di Galileo e di molti altri scienziati del Seicento (e, in questo senso, il più «galileiano» di tutti è Borelli) a continue conversioni di interessi (dalle scienze fisiche e matematiche a quelle biologiche e naturali, per esempio) non è determinata da un'aspirazione enciclopedica, ma dalla convinzione che esista una profonda uniformità nella natura e che il metodo usato per osservare le stelle sia applicabile allo studio delle acque correnti, o dei «galleggianti», o a quello della fisiologia degli organismi viventi, ecc.
Corollario di questo mutamento di impostazione è il passaggio da una amministrazione esoterica del sapere, gelosamente custodito, avaramente trasmesso (magari in punto di morte) da maestro a discepolo con formule impenetrabili al profano (ché solo il «mago» conosce le «proprietà» e i «nomi» delle cose e non li comunica perché - come dichiara il Della Porta - si «avvilirebbe» la sua «auttorità»), ad una concezione largamente collaborativa della scienza, che implica la sua comunicazione a largo raggio e la sua trasmissibilità.
Se la verità scientifica si basa su una interpretazione intersoggettiva dei fenomeni, se essa non è mai così definitiva da escludere possibilità di revisione o di perfezionamento, la scienza deve diventare «effabile».
Non basta: l'«effabilità" dei contenuti deve tradursi in «affabilità" del discorso scientifico. Diretto a uomini liberi, «intendenti» ma non necessariamente specialisti, questo discorso deve perdere ogni tono oracolare e diventare «dialogo», «conversazione», «corrispondenza»: deve cioè discutere prima di affermare, attirare e convincere, oltre che dimostrare.
Si spiega così la scelta del volgare da parte di molti scienziati; e sarebbero certamente stati di più, se preoccupazioni censorie - riacutizzate dalla condanna di Galileo - non avessero riproposto il latino come alternativa meno compromettente (perché riservata agli specialisti) e più idonea, nel suo indirizzo internazionale, a superare la provincia italiana.
Per quanto riguarda Galileo abbiamo la motivazione esplicita di questa scelta; e cioè il recupero alla lettura di libri scientifici di giovani che, pur essendo intellettualmente dotati, non conoscono il latino:
[...] et io voglio ch'e' vegghino che la natura, sì come gl'ha dati gli occhi per veder l'opere sue così bene come a i filuorichi, gli ha anco dato il cervello da poterle intendere e capire.
Ancor prima (le parole precedenti sono del 1612), nella prefazione a Le operazioni del compasso geometrico et militare, Galileo aveva affermato che il suo scopo, nell'usare il volgare, era quello di estendere la fruibilità del libro a coloro che fossero «più intendenti della milizia che della lingua latina». Una affermazione a cui faranno eco altri scienziati «nuovi» che, pur ribadendo il carattere teorico-speculativo delle loro opere, ne prevedono l'utilità per professionisti ed empirici; così il Cavalieri de Lo specchio ustorio, che rifiuterà di «nascondere sotto silenzio o mettere in in cifra» i suoi pensieri, acciò che quelli «che hanno prattica nel lavorare i specchi» possano approfittare di ciò che la «specolativa» ha a lui «somministrato in cosa tanto recondita e tanto curiosa».
Sarebbe eccessivo vedere nelle intenzioni di Galileo e dei galileiani un programma di allargamento democratico del sapere che non corrisponderebbe alle condizioni di diffusione e di densità della cultura nel Seicento. Già coloro che sono in grado di leggere opere scientifiche in volgare sono dei privilegiati; i «giovani» a cui Galileo allude sono quelli emblematicamente rappresentati dal marchesino di «casa Martinenga» con cui dialoga socraticamente il Castelli della «mattonata»; gli «intendenti» che Galileo desidera come suoi interlocutori trovano il loro esponente nel Sagredo che dedica alla «conversazione» il suo tempo libero e che, se specula filosoficamente, non lo fa per «concorrere co' professori», ma per «ricreare» il suo animo, «indagando liberamente, sciolto da ogni obbligazione ed affetto, la verità di alcuna proposizione» che sia di suo «gusto».
Proprio questo è il registro caratterizzante il discorso della nuova scienza: quello di un dialogo fra uomini «ingenui», «candidi», «non prevenuti», «disappassionati», impegnati in una «conversazione di filosofi liberi» (come dirà il Baliani), in cui «la familiarità del dire facilita e domestica assai la severità e maestà delle demostrazioni geometriche» (come dirà il Castelli).
Si spiega dunque che sia proprio il dialogo il «genere» in cui si traduce più naturalmente il nuovo discorso scientifico: la nobile medietà della sua lingua è disponibile sia al rialzo di registro, in senso tecnico-scientifico, che al ribasso di questo, in senso più familiarmente colloquiale.
Le ragioni che determinano l'adozione di questa forma letteraria sono certamente molte: c'è una ragione estetico-stilistica che sfrutta la polifonia del dialogo (soprattutto di quello a tre voci) per aumentare la tensione dialettica, la profondità scenica, eliminando così lo «stento» che, a un lettore non specialista, potrebbe procurare una scrittura rigorosamente «dimostrativa». L'intento estetico-stilistico non è dunque fine a sé stesso, ma è strumento di propaganda e di proselitismo.
Inoltre il dialogo a tre voci, che include un interlocutore «curioso», meno attrezzato disciplinarmente e, quindi, meno responsabile scientificamente, introduce un clima di maggiore libertà «filosofica». Il ruolo di un Sagredo, fra Salviati e Simplicio, non è soltanto quello di movimentare il discorso, di inserire in esso dei «riposi»; è anche quello di sollecitare spiegazioni (giustificate dalla sua minore competenza specifica), di autorizzare deviazioni dall'argomento principale, di orientare la discussione verso argomenti rischiosi; la sua «ingenuità" di laico della scienza gli consente insomma una varietà di interessi e una libertà di giudizio che il «filosofo» di professione difficilmente potrebbe permettersi.
È Galileo stesso che conferma la nostra interpretazione, quando scrive (in una lettera del 1629) che l'adozione del dialogo, come «genere», gli consente di inserire nella sua opera molte «novità» diramanti dall'argomento principale, senza incorrere in «stento o affettazzione». Che poi il dialogo fornisse alibi per l'audacia di certe affermazioni lo si ricava anche dalla sentenza del 1633, là dove essa fa esplicita menzione di questa «scusa» prodotta da Galileo, durante il processo: «[...] scusandoti d'esser incorso in error tanto alieno, come dicesti, dalla tua intenzione, per aver scritto in dialogo».
Ma probabilmente, oltre a queste motivazioni estetico-stilistiche e strategico-prudenziali, c'è qualcosa di più profondo, nella scelta del dialogo come «genere» in cui si atteggia il discorso scientifico (e questo «qualche cosa» vale in parte anche per il genere dell’epistola o lettera, più o meno familiare): c'è il bisogno della nuova scienza di privilegiare il momento della ricerca su quello della scoperta, e quindi il momento della discussione su quello dell'acquisizione. Nei confronti del mago cinquecentesco, che già detiene la verità assoluta e definitiva, e quindi la «trasmette» a un evanescente scolaro (tenuto al silenzio!), il filosofo naturale si configura come colui che cerca una verità feconda e che quindi ha bisogno di interlocutori attivi e reattivi, che gli forniscano stimoli, che gli diano conferme o gli manifestino dubbi.
C'è una frase di Lorenzo Bellini che chiarisce bene questo atteggiamento: «[...] il gusto del mio studiare è l'intendere, non il trovare». È un capovolgimento netto di impostazione, rispetto alla scienza tradizionale; ché - se importante è il «trovare» - è chiaro che la scoperta, il «segreto», va custodito, difeso. Se invece si ammette la continua perfettibilità del sapere, l'aspetto scientificamente più fecondo, il momento qualificante, è quello dell'itinerario mentale per raggiungere una «conclusione».
È dunque giustificata la fortuna del genere dialogico, nel corso del Seicento e oltre: da Galileo e da Gassendi a Cornelio, a Montanari, a Vallisneri, a Eustachio Manfredi, ecc., fino ai dialoghi algarottiani, in cui però la formula si stempera e perde il significato profondo con cui era stata in precedenza utilizzata.
Accanto agli episodi di «presenza» del dialogo andranno però valutati anche gli episodi di «assenza», o meglio di mancata realizzazione di un progetto dialogico. Essi sono importanti perché confermano - assieme alle opportunità offerte dal dialogo - la sua pericolosità, dopo che Galileo ne aveva fatto uso in modo così abile, ma anche così rischioso e strategicamente infelice.
È interessante, per esempio, il fatto che Cavalieri avesse non solo progettato, ma addirittura cominciato a scrivere la risposta a Guidino sotto forma di dialogo a tre voci; Benedetto Castelli avrebbe fatto la parte di Cavalieri, Cesare Marsili quella del galileiano Sagredo, fra Castelli e Usulpa Ginuldus (anagramma di Paulus Guldinus), Simplicio di turno.
Solo dopo aver scritto la prima «giornata», Cavalieri ritorna sulla sua decisione e il dialogo si trasforma nelle secche Exercitationes geometricae sex. Cavalieri rinuncia dunque a quella terza voce che, appartenendo a un uomo colto ma non matematico di professione, avrebbe potuto proporre più liberamente, e meno rischiosamente, ipotesi «filosofiche». Un Cesare Marsili, concertante con Benedetto Castelli contro Usulpa Ginuldus avrebbe insomma potuto dichiarare quella fede nella «composizione del continuo di indivisibili» che - come osserva Lombardo Radice - Cavalieri geometra non ardì mai esplicitare. Ma, così facendo, avrebbe potuto procurare al Cavalieri gli stessi guai che Sagredo (concertante con Salviati contro Simplicio) aveva procurato a Galileo. Che il rischio fosse questo si ricava dalle stesse parole con cui il Cavalieri spiegava al Torricelli la «funzione» che, nel progettato dialogo, avrebbe avuto il Marsili:
Vi ho inserito alcuni discorsi fatti dal Marsiglio con un poco di libertà filosofica, acciò anco i puri Filosofi vi abbiano qualche cosa per il gusto loro, sebbene di poco momento, anzi so che a molte cose daranno del naso, come alla composizione del continuo d'indivisibili, alle immagini, e semi, che si riduchino a un punto, il che da me è stato messo per un certo ghiribizzo e come cosa ammirabile, o che si riduchino o no a un punto, e degna di considerazione.
È dunque significativa la rinuncia di Cavalieri (ben consigliato dal suo scolaro Giannantonio Rocca) alla forma dialogica.
Dialoghi scrisse anche Malpighi. Ma considerazioni prudenziali, più che l'incendio in cui perì il manoscritto (una copia di esso era stata inviata a Borelli), dovettero impedirne la pubblicazione. Borelli, scrivendo a Malpighi, gli consigliava l'imitazione, anche stilistica, di Galileo:
[...] pensi alle dottrine et al modo efficacissimo di provare con somma chiarezza e metodo convincente i suoi concetti; per il che fare sarebbe necessario che V. S. desse una scorsa a i primi dialoghi del Galileo del sistema mondano, dove vedrebbe non pochi essempi del methodo, che dovria V. S. osservare nel dialogare per esser chiaro, convincente, et osservare il costume e la dignità delle persone che fanno la parte del Maestro e degl'aversarii.
Malpighi stesso comparirà poi come personaggio in un Dialogo di Vallisneri (scritto e pubblicato, questa volta); ma la sua voce si stempererà nella pacatezza ultraterrena della polemica fra «antichi» (sostenuti da Plinio) e «moderni».
Se il significato del dialogo ci è stato confermato da episodi di rinuncia, una conferma altrettanto significativa sarà quella del suo rifiuto esplicito, polemicamente motivato, da parte di uno scienziato gesuita. Scrive il Grimaldi, nel proemio al De lumine, optando per una forma rigorosamente «dimostrativa» del suo trattato:
Placuit vero per propositiones potius rem totam digerere quam per discursus aut dialogismos aliamve formam doctrinae tradendae, quia sic magis expedite magisve ordinate procedi posse visum est.
E aggiunge una considerazione velenosa nei confronti della decisione contraria alla sua (quella cioè di procedere «per discorsi e dialoghi»); afferma infatti il Grimaldi che - contrariamente a quanto avviene in opere di carattere discorsivo - la sua scelta implica rigore di premesse e di conclusioni:
Et quamvis magna hinc nobis imposita fuerit necessitas, videlicet probandi singulas propositiones nonnisi ex praemissis ante illas et aliunde fir- matis iam rationibus, indipendenter ab iis quae subsequuntur, attamen hanc methodum libentissime amplexi sumus, quia sic certius atque evi- dentius constare potest de vi argumentorum, in quibus nihil supponitur non probatum ac prius non admissum.
Ci siamo fermati a discutere del «genere» dialogo più a lungo di quanto l'economia del nostro discorso consentisse. L'indugio ci sarà forse perdonato da quanti siano consapevoli che l'aspetto stilistico-linguistico è il più trascurato, nell'àmbito della ricerca sulla letteratura scientifica; indebitamente trascurato, perché le scelte linguistiche e stilistiche non sono affatto secondarie per scienziati che, come i nostri, mirino a inserirsi con le loro opere in un contesto culturale più ampio di quello specifico, tecnico, della loro disciplina. Basterebbe pensare alla teorizzazione che del dialogo, come «genere» coerente a una nuova mentalità scientifica, si faceva - proprio in quel periodo - in Inghilterra. Dryden vedrà in esso la formula più adatta all'epoche del giudizio; proprio perché l'argomentazione è sostenuta «da persone di diverse opinioni, tutte lasciate nel dubbio», possono essere i lettori a scegliere, senza condizionamenti, l'opinione per loro più convincente. Questa armonia del compromesso, che rinvia al lettore la scelta fra tesi divergenti, è sottolineata positivamente anche da Thomas Sprat, privilegiata da Boyle, identificata da Glanvill come modulo abituale di discussione all'interno della Royal Society: l'argomentare dei membri di questa accademia - scrive Glanvill - «è modesto, dubbioso riguardo alla certezza dei loro concetti e contrario all'audacia delle affermazioni perentorie».
Certo è che, in àmbito galileiano, la formula dialogica è finalizzata a scopi meno «sospensivi» e «conciliatori» di quelli con cui appare teorizzata e adottata in Inghilterra; il contrasto di opinioni, in Galileo e in altri scienziati italiani, non si risolve nell'armonia del compromesso, ma nel chiaro trionfo delle tesi della nuova scienza.
Occorrerebbe individuare anche il significato profondo dell'epistola, che è l'altra forma tipica in cui si canalizza la comunicazione scientifica, nel Seicento; anche per questa scelta esiste una pluralità di motivazioni: oltre a quella che punta sul registro «familiare» della scrittura, quella che specula sul carattere «privato» di questo tipo di comunicazione per sottrarlo a rigori censori, certamente più aspri nel caso di opere destinate ad una lettura «pubblica».
Ma, anche qui, il discorso dovrebbe allargarsi e distinguere, all'interno del «genere» epistolare, diversi sottogeneri: ché sono «lettere» quelle scritte da Galileo ad amici e scolari, con lo scopo di farle ampiamente circolare negli ambienti interessati, finché giungano in mano di chi desidera lui; e sono «lettere» quelle pacificamente indirizzate dal Redi a personaggi altolocati, con intento puramente dedicatorio; e sono «lettere» quelle di Magalotti, in cui l'interlocutore (fittizio) è concepito come comodo «doppio» per attribuirgli (e rimproverargli con argomentazioni debolissime!) le convinzioni filosofiche che l'autore stesso non può permettersi di professare liberamente.
Non insistiamo su questo argomento, riservandoci qualche ritorno ad esso nel commento ai vari testi, dialogici ed epistolari, contenuti in questo volume.
Riflettiamo piuttosto sul fatto che il trasferimento del discorso scientifico su una scena aperta (sia questa la sala di un palazzo patrizio veneziano o la «villa» magalottiana, o la «corte» malpighiana, ecc.) si adatta perfettamente a quella procedura - tipica della scienza nuova - che parte da «cose quotidiane», «sotto gl'occhi di tutti», per risalire a speculazioni «iniscogitabili», che «pascono soavissimamente». È la partenza dal concreto (sia questo la «ruzzola» con cui giocano i bambini, o il «mattone» esposto ai raggi del sole, o il recipiente che raccoglie le «precipitazioni» della giornata, ecc.) che non pregiudica la risalita del pensiero a «conclusioni» di grande portata generale. E questo non perché il metodo sia «induttivo», ma perché l'ipotesi teorica deve «tornare» in pratica e spiegare tutta la catena degli effetti naturali.
Ne deriva che non ci sono più argomenti o «oggetti» privilegiati, perché più «nobili» di altri, nel discorso scientifico. Il Galileo che passa dalle «meccaniche» e dal «compasso» al «cannocchiale» e all'osservazione dei pianeti medicei, per poi tornare ad argomenti «archimedei» e meccanici, non passeggia su e giù per la scala di una pretesa «nobiltà" di interessi. Se la natura è essenzialmente uniforme, non è vero che l'osservazione astronomica sia più nobile o nobilitante dell'osservazione di un corpo galleggiante sull'acqua o di un «animaluccio» visto con 1'«occhialino»; e non è vero che le leggi fisiche de motu siano diverse da quelle «de motu proiectorum» o «de motu animalium».
Nulla misura meglio la distanza fra Galileo e Campanella, quanto il disappunto di quest'ultimo nel vedere che lo scienziato toscano si interessa delle «cose che stanno in su l'acqua», venendo meno al suo più nobile compito: a quello, cioè, di scoprire «li teatri e scene nelle quali rappresenta il Senno eterno tanti gran giochi di rote sopra ruote». Campanella ha ancora l'idea che la «nobiltà" risieda nell'oggetto della ricerca, mentre Galileo sa che essa risiede nel soggetto, nella sua capacità di risalire dal fenomeno fisico a conclusioni che si accordino con l'ipotesi generale.
Sicché il vero interprete della procedura galileiana è Fulgenzio Micanzio (da noi prima implicitamente citato), quando questi scrive a Galileo:
È cosa inesplicabile come da cose triviali, quotidiane e sotto gl'occhi di tutti, V. S. Ecc.ma osservi gl'effetti di natura e si alzi a speculationi profundissime, iniscogitabili e didotte da principii veri, che pagano la mente e pascono soavissimamente.
Più a fondo di Campanella aveva visto anche l'Accademico incognito (Arturo Pannocchieschi d'Elci) quando - preoccupato delle implicazioni filosofiche contenute proprio nel discorso sui «galleggianti» - reagisce con una intensità che sarebbe sproporzionata ad una divergenza di opinioni su un fenomeno idrostatico:
Chi sa che molti giovani, d'ingegno vivace e curiosi di sapere molte cose, allettati dalla novità della dottrina, non si disviassero incautamente dalla strada piana e sicura della filosofia peripatetica, ad altra nuova, piena di rivolgimenti, e che sotto diverse facce rappresenta tutte le cose dell'universo?
Con intenti opposti, l'amico e l'avversario di Galileo identificano l'aspetto più sconvolgente della procedura galileiana, e cioè quella circolarità di «teoria» e di «pratica», per cui l'ipotesi non rimane nel mondo delle idee ma necessita di prove fisiche, e le prove fisiche - a loro volta - rinviano all'ipotesi, confermandola. È ancora Magalotti che - nell'apparente svagatezza del discorso epistolare - illustra il metodo:
Io trovo che in tutti i problemi fisici, de' quali non è facile il render la ragione a priori, il modo più ordinario, e che l'esperienza approva per il più conducibile al fine del rinvenirla, suol essere l'osservare tutta la serie degli effetti, e poi escogitare un principio che torni a tutti, e, quando questo succede, allora quel principio escogitato senz'alcuna immaginabile anticipata riprova ch'ei fosse il vero, acquista un dritto quasi indisputabile d'infallibilità; quasi principe che riceva l'investitura da' sudditi o, per dir meglio, padre che riceva la paternità da' figliuoli.
Non vogliamo affatto entrare nella discussione del «matematismo» o «sperimentalismo» galileiano, del suo «platonismo» o «aristotelismo» o «archimedismo», perché riteniamo che su questi schemi interpretativi ci sia già stata abbastanza letteratura, e perché il nostro obiettivo è quello di rimanere il più possibile aderenti ai testi, di valorizzare le affermazioni dei nostri autori senza trascenderle in formule generali e - talvolta - obliteranti.
Qui, dalle parole di Magalotti si ricava che - ferma restando la necessità di «escogitare» un principio «senz'alcuna anticipata riprova» che esso sia «il vero» - l'infallibilità «indisputabile» di esso viene decretata dal suo potere esplicativo dei fenomeni fisici.
Castelli dirà la stessa cosa con parole diverse: «[...] siccome mai sarà buona teorica quella che non riesce ancora in pratica, così all'incontro mai non sarà buona pratica quella che non sarà fondata nella buona teorica». Ma aggiungerà subito dopo, a ribadire la sua fede nella validità delle previsioni teoriche:
[...] tengo per fermo che quando noi avremo in teorica una conclusione ben dimostrata, dovrà sempre riuscire ancora nella pratica e, non riuscendo, sarà segno manifesto che non sarà stata messa in pratica con tutte le sue circostanze quella conclusione che era stata approvata dalla teorica, sicché il difetto non nasce dalla teorica, ma dipende dal non essere stata applicata bene alla pratica.
La stessa cosa dirà Torricelli, anche se, «per fuggire le controversie», rivendicherà più decisamente di Castelli il diritto del matematico di argomentare «ex suppositione»; al Renieri, che gli aveva scritto da Genova, «stupefatto» che una teorica così ben «fondata» (quella del De motu proiectorum) rispondesse così male alle diverse esperienze balistiche, fatte «con il tiro di varie sorte di cannoni», il Torricelli replica sostenendo il suo diritto di argomentare «ex hypothesi»; un anno prima il Torricelli aveva scritto al Ricci:
Io fingo o suppongo che qualche corpo o punto si muova all'ingiù et all'in- sù con la nota proporzione et horizzontalmente con moto equabile. Quando questo sia io dico che seguirà tutto quello che ha detto il Galileo et io ancora. Se poi le palle di piombo, di ferro, di pietra, non osservano quella supposta proporzione, suo danno: noi diremo che non parliamo di esse.
Ma, al di là della battuta polemica, il Torricelli è poi convinto (e lo dichiara al Renieri) che, se le esperienze saranno condotte tenendo conto dei vari condizionamenti empirici e adottando le debite cautele, esse corrisponderanno ai calcoli teorici: «Volendo poi fare l'esperienze e volendo che tornino bene, bisognerà fare i debiti defalchi [...]».
Anche Malpighi disegnerà il «circolo» metodologico per cui, partendo dall'esame strutturale delle «parti minime», si giungerà - con scarto ipotetico - a formarne un «modello», che poi, a sua volta - razionalmente utilizzato - servirà di fondamento non solo alla fisiologia e alla patologia, ma anche all'«arte della medicina», cioè alla terapeutica:
L'huomo esaminando queste parti con l'anatomia, con la filosofia e con la mecanica, si è impossessato della struttura e dell'uso d'esse, e procedendo anche a priori è arrivato a formarne modelli, con li quali pone sotto l'occhio la causalità di quell'effetto, e ne rende la ragione a priori, e con la serie di queste, aiutato dal discorso, intendendo il modo dell'operare della natura, fonda la fisiologia e patologia, e successivamente l'arte della medicina.
Abbiamo utilizzato le affermazioni di alcuni scienziati (ma altre analoghe, di altri scienziati, ne incontreranno i lettori di questo volume) che ribadiscono, accanto al primato dell'ipotesi, la sua continua disponibilità alla verifica fisica. Disponibilità costosa: ché noi sappiamo quanto sia costato a Galileo cercare, in cielo, le «prove fisiche» di quella «filosofia copernicana» che, come pura ipotesi, non suscitava scandalo. Sappiamo quanto sia costato al Castelli passare dalla «teorica» idraulica a quella «pratica» di regolamentazione delle acque che gli scatena contro «l'ignoranza e l'interesse altrui, e bene spesso la malignità e l'invidia»; sappiamo quanto sia costato a biologi e fisiologi del Seicento (come Borelli, Malpighi, Bellini) passare dall'ipotesi «filosofica» corpuscolare (dal magalottiano «giuocolino») al postulato dell'esistenza fisica dell'atomo.
Se i danni, per questi scienziati, non sono stati maggiori, è perché, ammoniti dall'esperienza di Galileo (ma anche di Bruno, di Campanella, di Patrizi, di Della Porta, di Cremonini, di Foscarini, ecc. ecc.), essi hanno evitato di trarre le estreme conseguenze dalle loro ricerche e scoperte. Torricelli non sfrutterà l'esperimento barometrico come prova dell'esistenza fisica del «vuoto»; Redi attenuerà strategicamente la portata della scoperta del «pelliccilo» della scabbia, nei confronti della patologia «umorale» e della relativa terapeutica; Malpighi non trarrà esplicitamente le conseguenze della scoperta della «rete mirabile» che - in realtà - fornendo la spiegazione meccanica della «circolazione» del sangue, elimina ipotesi animistiche di «interventi» continuamente riattualizzanti le funzioni vitali, siano essi «spiriti» o «virtù" comunque insufflate nell'organismo vivente.
Fa dunque parte integrante della «filosofia» galileiana (a partire dal suo capostipite) l'imperativo di concretizzare la ricerca, a trovare la conferma fisica delle ipotesi.
Certamente questa ansia diventerà, dopo il '33, sempre più intensa, sempre più esclusiva, fino ad autorizzare certi storici del periodo a parlare di «ripiegamento» della ricerca in senso progressivamente sempre più tecnico e tecnicistico. Il che - basti pensare alle dichiarate intenzioni dell'Accademia del Cimento - sarà anche vero, ma andrà interpretato.
Occorrerà prima di tutto dire che, se l'astronomia diventa sempre più «calcolo» e sempre meno cosmologia, se la ricerca biologica diventa sempre più ispezione degli organi e sempre meno teoria interpretativa dell'essere, ciò è dovuto a impedimenti e a condizionamenti storici, che ci furono, e di cui è inutile negare la cogenza, perché la trama degli indizi - sempre più fittamente emergenti - la conferma.
Si dovrà poi notare che un Torricelli ridotto a «fisico» (da «matematico» e «astronomo» che era), un Castelli che si fa «idrometra» (inaugurando una lunga teoria di matematici che vanno a «visitare» e a «riconoscere» i luoghi), un Malpighi sdegnoso della qualifica di ricercatore «puro» e continuamente riaffermante che la sua speculazione «muterà la terapeutica», ecc., si rifanno coerentemente a Galileo; a quel Galileo che aveva messo l'occhio al cannocchiale e che muore speculando sul «negozio della longitudine» e applicando un «pendulo di materia solida e grave, qual sarebbe di ottone o rame», al suo «misuratore del tempo».
Sarà infine giusto rilevare che questa strategia del «ripiegamento», se era necessità imposta dal clima censorio, era anche la più abile e, a lungo andare, la più produttiva. Quelle verità filosofiche che non era possibile sostenere in scritture (perché ne sarebbe stata ostacolata o proibita la stampa), che non era possibile apertamente «docere» (a rischio di perdere la cattedra, il «posto», o peggio), potevano essere inequivocabilmente confermate da «esperienze», da «ritrovati», da «invenzioni» di strumenti.
Insomma, questi nostri scienziati devono aver pensato ciò che aveva pensato Galileo nel 1640: inutile (oltre che impossibile) discutere con persone «prevenute», invecchiate in certe «opinioni» e decise a perseguitare i sostenitori di teorie alternative. Meglio esibire le prove, accumularle in ogni àmbito dello scibile ; in modo che il cielo possa essere dichiarato «alterabile» (perfino da un Aristotele redivivo!) «perché alterazioni vi si scorgono», e altre ipotesi possano essere approvate perché il «pelliccilo» della scabbia si vede (e se ne può disegnare la «figura»), perché la rete anastomotica dei polmoni c'è e si manifesta all'ispezione microscopica, perché l'«argento vivo» va su e giù nel cannello, testimoniando dell'esistenza in natura di fenomeni che la mente potrebbe rifiutarsi di ammettere.
Acquista un significato molto profondo, allora, quello stare sulla «scena» del mondo, quell'impiegarsi nei «negozi», che già abbiamo sottolineato come sintomo dell'impegno morale e civile degli scienziati del Seicento. Questa attività sperimentale, questo «baconismo» della ricerca, questo cercare le prove di una verità che non può essere teoricamente sostenuta, costituiscono la strategia vincente dei galileiani, dopo la condanna del maestro.
Nessun episodio, più di quello della «conversione al galileismo» di Federico Cesi, può esemplificare il rapido mutamento di impostazione che abbiamo sopra delineato nelle sue linee generali: da una scienza affascinata dalle irregolarità (dal prodigio o dal mostro) e finalizzata al dominio dell'uomo sulla natura (al possesso del segreto) a una scienza fiduciosa nell'ordine matematico, nella regolarità geometrica, e disposta al rispetto della natura e delle sue leggi.
Nel giro di pochi anni il Cesi passa dall'entusiasmo per i «bellissimi segreti» confidatigli dal Della Porta per «aperire Naturae penetralia» alla convinzione che poi informerà tutta l'attività lincea, fino a divenire «sigla» del Tesoro Messicano: «Nos aequum est Naturae, et non hanc nobis se accommodare».
Da una lettura degli antichi intenzionata a «deflorare» (sono parole del Della Porta) «si quid arcani, si quid reconditi scripsissent», il futuro autore delle Tabulae phytosophicae passa alla convinzione che si può fare botanica «non avendo libri» e imparando «da l'istessa natura di continuo».
Certo è che, dal «museo» di Ferrante Imperato, che doveva avere impressionato la giovinezza del Principe, nel periodo napoletano, alla concezione di una ricerca che «si puoi fare a cavallo» percorrendo il feudo di Acquasparta, il passo è molto lungo; ma l'intervallo di tempo è brevissimo. Fallisce il progetto dellaportiano di una «Accademia dei Segreti», e da quell'ipotesi tenebrosa si sviluppa l'idea solare di una «Accademia dei Lincei»: congregazione di uomini liberi, la cui vista acuta deve applicarsi a leggere il «libro della natura», la cui missione deve essere quella di accrescere il sapere, ma anche il «naturai desiderio di sapere» innato in ogni uomo e solo represso dai condizionamenti culturali, politici, economici.
È interessante notare che, all'incirca nel periodo in cui il Cesi ascoltava a Napoli i «segreti» del Della Porta, Galileo - a un diverso parallelo - iniziava l'insegnamento universitario spiegando ai suoi scolari padovani il funzionamento di macchine semplici (piano inclinato, leva, vite, argano, ecc.): argomento «meccanico» e archimedeo quant'altri mai, saldamente ancorato alla realtà fisica, ma utilizzato dal «filosofo» per sfatare l'illusione umana di poter «frodare» la natura, obbligandola a produrre di più di quello che essa sia disponibile a fare in base alle sue «leggi». La macchina non produce «lavoro», anche se modifica - vantaggiosamente per l'uomo - le modalità della sua applicazione. L'energia prodotta da una macchina semplice è uguale a quella che alla stessa macchina è stata fornita.
Parte di qui il motivo (costante in tutti i nostri scienziati) della necessità, per l'uomo, di adeguarsi alle operazioni della natura; il che non significa rassegnarsi al non-intervento, ma significa intervenire sfruttando in positivo le leggi naturali: per regolare i fiumi, per mantenere attivi i porti e agibile la laguna di Venezia, per «rasciugare paludi», per proteggere campagne dalla «frigidità»; ma anche per rimediare agli «sconcerti» del nostro organismo e restaurare i processi fisiologici momentaneamente turbati da alterazioni patologiche.
Tutto il contrario di ciò che prometteva al Cesi l'insegnamento del Della Porta e di Ferrante Imperato.
Ci è sembrato giusto, dunque, dare al Cesi, in questo volume, il posto che egli merita per il suo ruolo di pronto ricettore, di testimone, di organizzatore di una nuova idea di cultura su basi scientifiche. Ma non escludiamo affatto - nella situazione di fluidità delle nostre conoscenze - che la pubblicazione di qualche inedito, o lo studio analitico di qualche opera edita, o il recupero di ciò che si deve personalmente al Cesi in opere collettive di produzione lincèa, permettano domani di delineare più precisamente anche il suo profilo di ricercatore e di scienziato.
È recente la riscoperta (la valorizzazione, la pubblicazione per un pubblico vasto) di un Discorso del Cesi per la progettazione dell'Accademia dei Lincei, che ora noi riproponiamo in questo volume, convinti della sua importanza culturale.
In un mondo in cui il «naturai desiderio di sapere» è represso, condizionato da ostacoli di tutti i generi, il Cesi matura l'idea di una associazione che liberi gli specialisti da ogni preoccupazione (a partire da quella economica) e li sollevi dalla necessità di asservire il loro pensiero e la loro opera alla volontà dei potenti, alla tirannia delle «sette» imperanti, a ogni forma di compromesso. Alla sua «filosofica militia» il Cesi offre tutto ciò che il suo prestigio sociale e la sua posizione economica possono garantire; in cambio chiede impegno pieno (full-time!) senza distrazioni, collaborazione reale senza invidie e meschinerie; chiede «frutti» di «compositioni», ma maturati senza fretta, dal momento che gli accademici, già «provvisti» di tutto, saranno anche certi della sorte editoriale delle loro opere: «[...] le opre ben reviste e corrette, etiam morti loro [...] veranno da' cari compagni stampate, con quell'istessa diligenza che se essi vivessero».
Si contrappone, questa figura di ricercatore immaginata dal Cesi, alla figura del professore universitario, produttore di «dogmi famosi e sonori», ridotto a zimbello dei suoi scolari per averne applauso e frequenza, decaduto dal ruolo di «filosofo» a quello «vilissimo di parasite, buffone o almeno adulatore» dei principi, per non alienarsi la loro protezione e mantenersi il «posto».
Raramente un progetto culturale ha associato tanta audacia a tanto senso pratico, tanta passione ideale a tanta capacità organizzativa. Il Cesi ne emerge come uomo appassionato, ma non così coinvolto emotivamente dal suo progetto da dimenticare le condizioni materiali che ne possono garantire l'attuazione.
Comunque, questo discorso - se conferma la figura del Cesi come stratega e mecenate della nuova scienza - non collabora a restituire al Principe una sua fisionomia nell'àmbito della ricerca scientifica.
Pensiamo invece che sia utile a questo recupero la «lettera» sulla «fluidità» del cielo che presentiamo in apertura di questo volume. Si tratta - a parer nostro - di un documento straordinario. Fino ad oggi esso era leggibile solo da quanti vi si fossero imbattuti sfogliando la Rosa Ursina sive Sol (Bracciano 1630) di Christoph Scheiner, una silloge che, in ambiente galileiano, veniva chiamata «orsa Rosina», con anagramma del titolo significativo della goffaggine dell'opera. Ben strana e imprevedibile ospitalità, quella concessa dal gesuita Scheiner, tenace avversario di Galileo, a una scrittura di così chiara ispirazione galileiana! Si spiega così che questa «lettera» sia sfuggita ai bibliografi del Cesi e sia rimasta praticamente sconosciuta.
A giustificare l'accoglimento della lettera cesiana nella Rosa Ursina (concepita dal suo autore come raccolta di testimonianze subordinanti la nuova scienza all'autorità delle Sacre Scritture) si possono fare alcune ipotesi. La prima (altamente improbabile) è che lo Scheiner, interpretando a rovescio lo spirito del documento e prestando fede ad alcune dichiarazioni formali di «reverenza» ai Testi Sacri in esso contenute, lo considerasse veramente un tentativo di conciliazione, non eversivo dell'autorità di quei Testi; ma l'ingenuità di una simile interpretazione non è attribuibile allo scienziato gesuita. Un'altra ipotesi, meno improbabile della precedente anche perché in linea con la strategia generale dei Gesuiti nei confronti della nuova scienza, è che lo Scheiner - pur intendendo esattamente il significato della lettera - volesse riassorbirla (ammortizzandone quindi la carica d'urto) in un'opera di significato opposto. Ma l'ipotesi più convincente (che del resto non esclude la seconda) è un'altra ancora: lo Scheiner, nel momento in cui Galileo stava per pubblicare il Dialogo dei massimi sistemi (e in cui era quindi prevedibile il riaccendersi di una battaglia che avrebbe coinvolto anche il fronte gesuita), voleva spuntare in mano agli avversari l'arma di una lettera che, indirizzata al Cardinale Roberto Bellarmino, comprometteva la memoria del grande gesuita. In essa infatti il Cesi alludeva apertamente ad atteggiamenti concilianti e a dichiarazioni favorevoli del Cardinale, nei confronti delle nuove teorie astronomiche, che certo non si addicevano a quel Bellarmino che, nel 1600, aveva motivato la condanna al rogo di Giordano Bruno e che, nel 1616, aveva «ammonito» Galileo! Sicché, se l'ipotesi è giusta, il vero motivo dell'accoglimento della lettera cesiana (che sicuramente aveva avuto larga circolazione manoscritta negli ambienti interessati) è l'opportunità che essa offre allo Scheiner di pubblicare - di seguito - la «risposta» del Bellarmino: una risposta così abile da annullare le indiscrezioni del Cesi e da riconfermare pienamente l'«ortodossia» del Cardinale. Né la risposta - brevissima e rinviante di continuo alla lettera del Cesi - avrebbe potuto essere pubblicata da sola, separata dal testo di cui è replica.
L'ipotesi può sembrare ardita; ma bisogna tenere conto del particolare frangente storico e del fatto che lo Scheiner doveva essere fortemente (e anche personalmente) interessato a evitare che un personaggio come il Bellarmino potesse essere citato dai galileiani come testimone a favore delle loro tesi. E andrà valutata anche la personalità dello Scheiner (una valutazione che non si fa mai, di solito, quasi che questi personaggi non fossero stati «uomini», e la loro storia si esaurisse nella loro «biografia intellettuale»); la «visceralità" dei suoi comportamenti è messa bene in evidenza dal Castelli, in una lettera a Galileo del 19 giugno 1632:
Il Padre Scheiner, ritrovandosi in una libraria dove un tal Padre Olive- tano venuto di Siena a' giorni passati si ritrovava, e sentendo che il Padre Olivetano dava le meritate lodi a i Dialoghi, celebrandoli per il maggiore libro che fusse mai uscito in luce, si commosse tutto con mutatione di colore in viso e con un tremore grandissimo nella vita e nelle mani, in modo che il libraio, quale mi ha raccontata l'istoria, restò meravigliato; e mi disse di più che il detto Padre Scheiner haveva detto che haverebbe pagato un di questi libri dieci scudi d'oro per poter rispondere subbito subbito.
Ma veniamo al contenuto della lettera del Cesi: l'argomento è quello, non nuovo nel 1618, della natura fluida, cedevole, espansa del cielo. Erano state le comete di fine Cinquecento, solcanti spazi che avrebbero dovuto essere occupati dalle «sfere» cristalline, a suggerire a Patrizi e poi a Tycho Brahe l'ipotesi della fluidità del cielo. Neppure Copernico aveva ammesso tanto, conservando al suo universo eliocentrico la struttura delle sfere solide, concentriche e ruotanti. L'ipotesi era poi stata assunta da Gilbert, da Campanella e si era diffusa nell'ambiente degli specialisti. Ma non era ancora così pacifica da non provocare, nel 1614, un'interrogazione di Baliani a Galileo sulla sua attendibilità o meno. Galileo rispondeva al Baliani, il 12 marzo dello stesso anno: «Che poi la sustanza celeste sia tenuissima e cedente, io l'ho creduto sempre, non havendo mai sentito forza alcuna nelle ragioni che s'adducono per provar il contrario».
Non bisogna però credere che, riproponendo quell'ipotesi nel 1618 (l'anno in cui compaiono ben tre comete), il Cesi sfondasse porte aperte, soprattutto in quella Roma di cui Piero Guicciardini (ambasciatore mediceo) scriveva: «[...] questo non è paese da venire a disputare della luna, né da volere, nel secolo che corre, sostenere né portarci dottrine nuove».
In realtà la teoria della fluidità del cielo era fortemente avversata dai difensori dell'ortodossia, fedeli all'ipotesi delle sfere solide come supporto della cosmologia tradizionale e quindi come impedimento a cosmologie alternative. Il povero Patrizi, che per primo l'aveva sostenuta, aveva visto la sua opera messa all'Indice, e aveva dovuto, nel 1592, scrivere una Emendatio alla sua Nova philosophia, in cui si dichiarava disposto a «cancellare», assieme ad altri, anche quel «luogo» incriminato! Non dovremo poi dimenticare che, nel frattempo, il padre Campanella era in carcere, in condizioni di rinnovata durezza per aver composto (e l'opera circolava manoscritta) l'Apologia di Galileo; gli argomenti utilizzati dal Campanella avevano molti punti in comune con quelli che il Cesi intendeva usare (ivi compreso quello della «fluidità» del cielo: «[...] quia stellae in eo, non ipsum moveri videantur, possitque stare coelum et stellae moveri, quum non sint sicut nodus in tabula»). Inoltre, proprio nel 1618, uscivano a Venezia le De substantia coeli disputationes aristotelicae del Giannini, che confermavano l'intransigenza della «setta» aristotelica sull'ipotesi di un cielo fluido.
Ma riflettiamo anche sul fatto che erano passati solo due anni da quando Galileo era stato «ammonito» dal Bellarmino. Sempre nel 1616 era uscito il Decreto della Congregazione dell'Indice che «sospendeva» l'opera del Copernico, «condannava» l'opera del Foscarini (quella Lettera sopra l'opinione de' Pitagorici e del Copernico in cui il Cesi riponeva tante vane speranze) e «proibiva» tutte le scritture di analogo argomento.
Con questo quadro di eventi stupisce che il Cesi, buon diplomatico qual era, si decidesse a fare proprio quello che, in quegli anni, aveva così spesso sconsigliato a Galileo, raccomandandogli di stare quieto, di non esporsi, di non entrare in dispute. Per giustificare questa decisione è legittimo fare un'ipotesi: nel 1618 circolavano già indiscrezioni sul Monitum al De revolutionibus di Copernico (che uscirà poi nel 1620) e si profilava il pericolo che Galileo venisse di nuovo coinvolto, tanto più che lo scienziato si era tenuto tutt'altro che tranquillo: aveva continuato a scrivere lettere, memoriali sull'«opinione copernicana», che indirizzava ad amici romani ma che voleva pervenissero, come dichiarava esplicitamente, «in mano di chi io desidero» (pensiamo si deva intendere «Bellarmino»); ma, soprattutto, aveva continuato a «docere» in base all'ipotesi incriminata, senza rispettare la proibizione del 1616.
Non è impossibile, in questa situazione, che il Cesi voglia gettare sul piatto galileiano di una bilancia pericolosamente oscillante, il peso della sua autorità, delle sue aderenze politiche, del suo prestigio culturale e sociale. Occorrerà dire che tutte queste prerogative del Principe dovevano diminuire l'entità del suo rischio personale (ben più indifeso era stato ed era il padre Campanella!) e che l'argomento della fluidità dei cieli non costituiva, di per sé, una presa di posizione prò o contro la teoria copernicana, anche se ne era corollario significativo; ma tutto ciò non toglie che la lettera, indirizzata a quell'interlocutore, in quell'anno, sia un gesto temerario. Tanto più che il Cesi non si «rivolge» soltanto al Bellarmino, ma cerca di «coinvolgerlo» con una frase che qui anticipiamo, a sottolinearne l'audacia:
Meam cum audire sententiam voluisti, neque dumtaxat unicum, tenue perviumque Caelum a me propositum te probare, orbium et orbiculorum tam multas, tam perplexas moles e naturae puritate eliminatas, sed etiam proprio ex voto id esse affirmasti, et sacrae paginae oraculis maxime consonum, tunc certe ad complendum opus exarsi [...]
Questo patrocinio e consenso che il Bellarmino si vedeva attribuire, non dovevano essergli graditi; così come dovevano preoccuparlo le citazioni elogiative di Galileo, le invettive contro i suoi detrattori. Tanto più che quelle invettive implicavano anche il Cardinale; era stato proprio lui che, prima di ammonire Galileo nel 1616, aveva chiesto ai matematici del Collegio Romano un parere sulla validità delle scoperte di Galileo (fatte «per mezzo d'un istrumento chiamato canone overo occhiale»), e aveva proceduto contro Galileo, nonostante che il giudizio degli scienziati gesuiti fosse stato positivo! Come doveva reagire, il Cardinale, di fronte a una frase come questa, indirizzatagli dal Cesi ?
Sed certe non possum non deplorare eam nostro saeculo complurium phi- losophantium aegritudinem, qua ab experimentis et observationibus non solum abstinere, sed plurimum abhorrere solent; non enim pauci sunt qui non modo telescopium, quo visus hominum altius protollitur, Galileumque ipsum, qui tam multa in Caelo priscis abscondita, novos nobis planetas, nova fixa, novas astrorum facies detexit, execrantur; sed simplici etiam oculorum inermium observatione destituti, potius velint sponte caecutire et in antiquam sylvam ire, quorundam veterum scriptorum opinionibus fascinati, quam ab illis tantillum discedere [...]
Non seguiremo il Cesi nella sua, pur brillante, argomentazione: questo è un documento in cui l'interesse astronomico e quello filologico passano in seconda linea, fanno da supporto a una passione, a una fede filosofica, non a una tesi scientifica.
Segnaliamo invece ai lettori la reazione del Bellarmino. Personalmente il Cardinale non era stato duro con Galileo e, come gesuita, seguiva la politica dei suoi confratelli: non favorevoli a Galileo, ma neppure così ostili da rischiare di essere considerati alla retroguardia, in questioni scientifiche. La lettera del Cesi dovette però metterlo in grave imbarazzo. Rispose a giro di «posta» (si considerino le date!); al nobile, solenne latino del Cesi (la lingua dell'alta comunicazione scientifica) contrappose il volgare, forse a sottolineare la «familiarità" dello scambio epistolare e a sottrarre dignità all'episodio.
Fu una lettera brevissima, che ammetteva l'incoraggiamento al giovane principe, ma capovolgeva la motivazione di esso: «[...] desideravo imparare da V. E. se forsi lei havesse fatte considerationi particolari intorno al salvare talmente li moti delle stelle che si potesse insieme salvare l'opinione delli Santi Padri» (il Cesi aveva fatto esattamente l'opposto: aveva considerato «talmente» l'opinione dei Santi Padri da salvare il libero moto delle stelle!). E meditiamo infine sulle parole conclusive del Bellarmino: «Procuriamo, Signor mio, di vivere con il santo timor di Dio, talmente che arriviamo al Cielo, che all'hora in un punto ci chiariremo d'ogni cosa». Il «chiarimento» era rimandato di poco: il Cardinale morì tre anni dopo; il Cesi - prematuramente - nel 1630. A noi rimane questo episodio, non trascurabile - data la statura dei due personaggi - nella vicenda galileiana e nella storia del pensiero scientifico.
Scriveva Gadda, nella Meditazione milanese, rispondendo al suo «critico», che gli aveva rimproverato di simpatizzare per Cardano astrologo:
Lasciate in pace il geniale e sventurato solutore dell'equazione di quarto grado. La sua vita vi dica quanto è complessa la realtà e attraverso quali strani tormenti e quali intime angosce il genio italiano si è disviluppato; e Cesalpino e Malpighi, e Cardano e Cavalieri e altri mille abbiano l'onore che meritano: e si scriva la storia del loro genio e dei loro errori: e con eguale amore si considerino l'uno e li altri, ché tutto è realtà.
Siamo d'accordo con Gadda: la storia della scienza non è soltanto la storia delle grandi scoperte, dei grandi «eroi»; è anche la storia degli insuccessi, degli errori, è la storia di uomini che, pur appartenendo ad un acrocoro, vanno rilevati a quote non vertiginose. Dichiariamo dunque la nostra simpatia per il «signor» Mario Guiducci, un personaggio che oggi vive nella cronaca della scienza come puro riverbero di Galileo, e a cui invece vorremmo restituire qualche lineamento personale.
Il Discorso delle comete, si sa, fu subito interpretato - in Italia e fuori - come opera di Galileo, a cui il Guiducci avrebbe prestato solo il nome. Fosse anche così, occorrerebbe almeno sottolineare il coraggio di questa paternità pericolosamente assunta, in un periodo di cui - parlando del Cesi - abbiamo lumeggiato le tensioni.
Certamente l'opera è stata scritta da due mani, e questo è un pregio, per noi, in quanto ci consente di reintrodurre Galileo in un volume da cui è materialmente escluso, pur essendo il suo pensiero, la sua personalità (il suo «mito»!) continuamente sottesi a tutti (o a quasi tutti) i testi qui proposti.
Ma il manoscritto, per la parte in cui è conservato, parla chiaro: se permette di identificare gli interventi di Galileo, permette anche di assegnare al Guiducci una parte cospicua della scrittura. Un lettore abituale di Galileo potrebbe, del resto, distinguere le due mani anche senza la prova materiale del manoscritto, in base a elementi linguistici e stilistici.
Si sente immediatamente quando alla scrittura più ornata, letterariamente vegetata, più artificiosa dunque e più gracile, del Guiducci, si sostituisce quella più sicura, più rude ed efficace di Galileo; quella sua «presenza» scrittoria che non è difficile avvertire anche in miscela con altre, che pure (come quella del Guiducci qui, del Castelli altrove) non solo hanno caratteri simili, ma vengono irresistibilmente attratte da quella del «maestro» fino a diventare mimetiche di essa.
Quando Galileo si innesta nel discorso, si produce un cambio inequivocabile di «registro»: dovremmo dire un ribasso di registro, che però - stranamente - invece di produrre uno scadimento di livello, produce il suo innalzamento (e già lo osservava il Leopardi dello Zibaldone). L'immagine analogica più vicina è quella di una navigazione in bonaccia, per la scrittura del Guiducci, a intervalli accelerata e mantenuta in rotta da raffiche di vento vigoroso.
Se è giusto ridare al Guiducci quello che sicuramente gli appartiene (il coraggio dell'assunzione di paternità dello scritto, la stesura autonoma di gran parte di esso), dovremo anche cercare di recuperare il personaggio che, sicuramente, non era secondario, nella cultura toscana del tempo: Galileo non avrebbe mai affidato a una «comparsa» l'esposizione delle sue idee! E già il poco che sappiamo del Guiducci ce lo mostra autore di scritture idrauliche, fisiche, letterarie, membro dell'Accademia della Crusca e di quella dei Lincei, autore di una sua «difesa» dall'accusa di plagio, abilmente ritorta contro esponenti del Collegio Romano.
Accettiamo dunque la sua argomentazione a difesa: copiando da Raffaello, Andrea del Sarto aveva fatto opera apprezzata da tutti; esponendo le «idee» di Galileo sulle comete, il Guiducci fa un'opera che gli assicura un posto non servile nella storia della cultura.
Certamente una parte dei lettori contemporanei aveva motivi particolari per cancellare la figura del Guiducci e recuperare, sotto la maschera, il viso di Galileo; far parlare Galileo di argomenti a lui espressamente «proibiti» nel 1616, significava reimplicarlo, comprometterlo. Proprio di questo si lamenterà Galileo, all'inizio del Saggiatore. Dopo essersi ribellato al fatto che il «Sarsi» (in realtà il Grassi) «mettesse il sig. Mario a sì piccola parte della sua scrittura (nella quale egli ve l'ha molto maggiore di me), che lo spacciasse per copista», Galileo fa un'altra, amara considerazione:
E quando pure tutto quel Discorso delle Comete fusse stato opera di mia mano (ché, dovunque sarà conosciuto il sig. Mario, ciò non potrà mai cadere in pensiero), che termine sarebbe stato questo del Sarsi, mentre io mostrassi cosi voler essere sconosciuto, scoprirmi la faccia e smascherarmi con tanto ardire?
Rispettiamo dunque la volontà di Galileo, ma rispettiamo anche la sua intelligenza: Galileo era troppo sensibile agli aspetti linguistici e stilistici della scrittura per non rendersi conto che - scrivendo di suo pugno il discorso - si sarebbe immediatamente svelato.
Come in effetti si svela, appena interviene consistentemente nel testo del Guiducci. Si legga per esempio la confutazione dell'ipotesi che la cometa sia alimentata da un «alito» ascendente dalla terra (qui, a p. 99). Poiché non si può ammettere che tale alito sia «somministrato» dal mare, bisogna ammettere che esso si alzi da una porzione terrestre. E, a questo punto, si sviluppa un'immagine grandiosa del cordone alimentare che, raggiungendo la cometa a partire dall'Africa, dovrebbe continuare a seguirla in tutte le sue rivoluzioni, addipanandosi dunque attorno al globo terrestre «con molte rivolte sopra rivolte», «a guisa d'una lunghissima fascia».
Noi sappiamo che il passo è di Galileo perché così testimonia il manoscritto; ma anche se questo mancasse, nessun lettore di Galileo, abituato all'uso delle sue analogie concrete, potrebbe regalare al Guiducci questa immagine straordinaria della terra, avvolta nel cordone alimentare della cometa come un neonato nelle sue fasce. La traduzione di un'ipotesi scientifica nel correlativo oggettivo di un'immagine familiare, con effetto comico-ironico (distruttivo della tesi avversata) è tipica di Galileo, della sua straordinaria capacità di associare un'audace fantasia figurativa alla razionalità del pensiero.
L'argomento astronomico si conclude, dopo la Lettera del Cesi e il Discorso del Guiducci, se si eccettua una sua ripresa «fantastica» (o almeno definita tale dal suo autore, che altrimenti non vuole chiamarla!) nella Lettera di Magalotti Sopra la luce (qui, a pp. 916 sgg.).
Sicché si potrebbe dire che questo volume, iniziato in «macrocosmo», continua e finisce in «microcosmo». Non che fosse impossibile proporre qualche altro testo astronomico: basterebbe pensare alle Theoricae Mediceorum Planetarum del Borelli, o a scritture di Cassini, per limitarci a due esempi illustri. Ma, a parte l'opportunità o meno di scelte così ardue dal punto di vista disciplinare e linguistico, ci è sembrato giusto mimare, nel volume, l'andamento reale della ricerca scientifica nel corso del secolo. Non c'è dubbio che esso registri una conversione degli interessi dalle scienze fisico-matematiche a quelle biologiche e naturali. Dubbia è invece l'interpretazione del fenomeno, che - a nostro avviso - è largamente determinato dal clima censorio controriformistico e, quindi, da considerazioni prudenziali che orientano le scelte degli scienziati verso àmbiti di applicazione meno compromessi e (apparentemente) meno compromettenti.
Scienziati di cui era nota l'ascendenza galileiana dovevano operare in un clima di sospetto, di diffidenza, di cui oggi è difficile rendersi a pieno conto; certi episodi di «vessazione», che noi via via recupereremo, non sono vistosi come quelli che portano in carcere o sul rogo, ma sono ugualmente significativi. Dovremo insomma credere a Malpighi (uomo incapace di enfasi e di esagerazioni) quando, rivolgendosi a noi, suoi posteri, «a' quali soli» lascia le sue «memorie», giustifica il legato perché impariamo «a quante vessationi s'esponga chi con libertà per la sola verità filosofando intende vivere».
All'influenza della censura va poi associata - come è stato, giustamente, già osservato - quella dell'«autocensura», cioè di un timore, diciamo pure di una «paura» da parte degli scienziati, che blocca in partenza certe loro iniziative e soffoca sul nascere certi interessi.
E sicuramente per «autocensura» che Torricelli non scrive di argomenti astronomici, pur avendo la preparazione per farlo e pur continuando per tutta la vita a coltivare questo interesse privato. A chi, dalla Francia, lo sollecita a intervenire su questa materia, il Torricelli risponde seccamente di non essere in condizioni da entrare in dispute di questo genere («ut has contentiones suscipere possim»).
Così può essere spiegato anche il disinteresse di Viviani per un argomento che, come aiutante di Galileo ad Arcetri, doveva aver praticato non superficialmente.
Anche l'Accademia del Cimento non si occupa ufficialmente di astronomia, pur contando fra i suoi membri specialisti della disciplina. Ed è significativo che essa rifiuti il suo patrocinio a scritture di Cassini su Saturno (pur improntate a un non compromettente «calcolismo»). È ben vero che l'imponente fondo manoscritto della Biblioteca Nazionale di Firenze potrebbe riservarci delle sorprese. Scritture di argomento astronomico ce ne sono, in quelle ben duecento «filze» di manoscritti che la «Domus Galilaeana» di Pisa ha meritoriamente cominciato ad aggredire (pubblicando il primo dei previsti quindici volumi di «Carteggio»). Ci sono, per esempio, autografi di Magalotti contenenti osservazioni e calcoli su Saturno: ben spigoloso argomento per colui che è stato definito «spirito visionario e afferrato dall'ebbrezza delle sensazioni, non senza appannature e brividi d'inquietudine»! Sicché, su questo punto, è bene sospendere il giudizio, in modo che la nostra prudenza sia almeno proporzionata all'entità delle nostre lacune d'informazione.
Ci siamo fermati a lungo su due personaggi come Cesi e Guiducci perché, per ragioni diverse, avevano particolare bisogno della nostra pietas. Ma non è nostra intenzione percorrere la galleria di questi scienziati fermandoci davanti a ogni medaglione. Ché anzi uno degli scopi di questa introduzione è quello di riannodare le relazioni, di ricreare quelle «galassie» che la paratassi degli autori nel volume (vincolata com'è, in certa misura, a criteri esterni, cronologici e disciplinari) impedisce di mettere in evidenza.
Esistono - ed è nostro compito individuarli - dei personaggi- perno, attorno ai quali ruotano altri personaggi (non necessariamente inferiori dal punto di vista speculativo e scientifico). Tale è sicuramente il Redi che, per motivi di prestigio «accademico» e di potere politico-culturale, aggrega intorno a sé tutto un gruppo di scienziati: Bonomo, Caldesi, Lorenzini, Zambeccari, Cestoni, ecc. Ma già Cestoni è personaggio eccentrico, che percorre un'orbita ellittica di cui il Redi occupa uno dei fuochi, essendo l'altro saldamente occupato da Vallisneri.
Ci sono poi dorsali di pensiero che collegano - al di là delle collocazioni geografico-ambientali e delle specificità disciplinari - scienziati allineati da una uguale statura intellettuale e speculativa. Chi è il «maestro», nella linea Borelli-Malpighi-Bellini? Si potrebbe subordinare Bellini ai primi due per ragioni cronologiche e biografiche che lo qualificano come «scolaro»; ma non ci sentiremmo di stabilire una scala di dignità scientifica fra i tre; tanto più che Borelli ha già trovato il suo Koyré e Malpighi il suo Adelmann (a salvarli dall'anonimato), mentre Bellini attende ancora chi lo riscatti dall'ipoteca della Bucchereide o delle Rime (che, comunque, andrebbero rilette in diversa «cifra») e liberi dalla polvere - non solo metaforica - le sue opere anatomiche in latino.
Ci sono personaggi, poi, che - tutto sommato - andrebbero messi da soli. Nonostante il fitto intreccio di relazioni che passa per Magalotti, noi useremmo per lui una formula isolante: non perché sia il solo a «tradire» la scienza galileiana, ma perché è l'unico a continuare la filosofia di Galileo e di Gassendi, nei modi enigmatici in cui era possibile farlo, data la situazione.
La prima «galassia», quella più compatta e sicura (per ragioni biografiche, oltre che scientifiche), è quella galileiana, da Cesi a Viviani.
Personalità come Castelli, Cavalieri, Torricelli, Viviani sono già state esplorate, con varia fortuna e intelligenza. Il problema, nei loro confronti, non è tanto quello di precisare figure evanescenti, quanto quello di fluidificare certi giudizi schematici, di scrostare certe «etichette» che storici di singole discipline (in cerca di «autore») hanno applicato al loro «busto»; con il risultato, talvolta, di bloccarli in un gesto stereotipo, in una definizione che sta loro stretta.
Abbiamo tentato - nei modi che passano attraverso la «scelta» dei testi - di scongelare questi gesti bloccati, questi profili irrigiditi, recuperando la fondamentale unità di pensiero sottesa alla varietà degli interessi.
C'è, in questo volume, il Castelli «idrometra» (e come avrebbe potuto non esserci?), ma c'è anche il Castelli della «mattonata»: quello che «di una cosa in un'altra trapassando», specula sugli «innumerabili immensi e maravigliosi negozii del sole», e va «tanto avanti in questa fantasia» (in realtà nell'ipotesi della natura corpuscolare dell'«illuminazione» e del «riscaldamento») da precipitare quasi nell’empietà! E c'è il Castelli affascinato dal fenomeno patologico della fuoruscita e rigonfiamento delle «budella» di un ferito, e impegnato nella spiegazione di esso e della sua cura. Ma, soprattutto, c'è lo straordinario Castelli del Discorso sopra la laguna di Venezia, galileiano non solo nella rivendicata coerenza di «certe dimostrazioni» e di «sensate esperienze», ma anche nella forza dello stile, nel sarcasmo dell'argomentazione ad hominem, nell'uso di analogie concrete che distruggono implacabilmente la tesi degli avversari.
Si legga il brano in cui Don Benedetto lamenta la maggior fatica impostagli dal dover «accomodare gli animi ed i cervelli delli uomini» che dal dover «porre in freno le gran forze de' fiumi e de' precipitosi torrenti», e quello in cui egli gioca, anche stilisticamente, sul martellante ritorno di «teorica» e «pratica», inscindibile binomio galileiano, insidiato dall'«eccezione di sempre» degli oppositori: che, cioè, i «pensieri», per quanto «belli nel discorso, non però nella pratica possono riuscire».
Si noti infine l'uso - non indegno del Galileo del Saggiatore - dell'esempio «quotidiano», a ridicolizzare l'obiezione degli avversari (e non si dimentichi, leggendo, il significato traslato di «melone» nel senso di sciocco, baggiano, qui probabilmente sotteso dal Castelli, a qualificare indirettamente i suoi oppositori):
Di più io concederò al filosofo che le proposizioni matematiche sono false applicate: ma perché i matematici hanno per proposizione vera che, moltiplicandosi il numero dispari per dispari, il prodotto è sempre dispari, come per esempio il 3 moltiplicato per 5 fa 15, che è numero dispari in astratto, sarà obbligo del filosofo dimostrare che in concreto tre volte cinque meloni facciano un numero di meloni pari, e perché tre meloni presi cinque volte fanno 15 meloni in concreto, sarà necessario che il filosofo mantenga che 15 meloni riescono numero pari in concreto, cosa manifestissimamente falsa.
A Torricelli si applica, in modo specifico, quanto dicevamo prima sulla deformazione che, nella definizione di uno scienziato, può produrre la valutazione sbilanciata di un particolare aspetto della sua attività. Considerato totus geometra, nihil philosophus, poi «tutto fisico», Torricelli è un grande matematico speculativo e un astronomo represso. La cosa che più desidereremmo leggere, di lui, sono quelle postille, in margine agli esemplari del Cabeo e del Kircher (forse dell'Aristarcus di Roberval), che Torricelli stesso, già in punto di morte, raccomandò all'amico Serenai di cancellare: tanto poteva in lui l'«autocensura»!
Qui, a dare un'idea della varietà degli interessi di Torricelli, abbiamo proposto una scrittura idraulica: in essa, sollecitato dall'occasione polemica, il Torricelli utilizza tutta una serie di «temi» galileiani che aggiungono valore teorico e metodologico al già interessante problema tecnico del «rasciugamento» delle Chiane.
Benché più letterariamente agghindate, le due Lezioni accademiche da noi qui proposte sono altrettanto interessanti e «filosoficamente» audaci: si veda per esempio l'elogio della geometria e delle matematiche anche come strumenti interpretativi delle Sacre Scritture, là dove queste si esprimano «con traslati» e «in sensi mistici» (che è, come si sa, rischiosa tesi galileiana). Ma sarà da meditare anche il luogo in cui Torricelli cita Gregorio XIII come papa che si era servito della collaborazione di astronomi e di «matematici allora viventi», contrapponendolo implicitamente ad altri, più recenti papi, che ben diversamente si erano comportati. Si colga infine la precisa allusione a Galileo, nel recupero dell'immagine del libro della natura:
[. . .] l'unico alfabeto et i soli caratteri, con i quali si legge il gran manuscritto della filosofia divina nel libro dell'universo, non sono altro che quelle misere figurette che vedete ne i geometrici elementi.
Ben poco abbiamo potuto fare per il Cavalieri: la sua altezza speculativa è fuori dubbio e lo scienziato non ha certo bisogno di essere recuperato da noi alla storia della matematica. Ma, di fronte alla rigorosa scrittura della Geometria, il lettore non specialista si trova nella stessa condizione di Fulgenzio Micanzio quando questi, rispondendo a Galileo (che gli aveva caldamente raccomandato quella lettura), ammetteva con franchezza:
Ho voluto dar qualche occhiata alle opere dell'Eccel.mo padre matthematico di Bologna, ma le sue speculationi eccedono la mia capacità. Conosco ben certo il mancamento essere da me; ma però non credo ingannarmi: non vi è un altro Galileo che le più alte speculationi riduce a tal facilità che anco li poco prattichi, come son io, ne ricevono gusto inestimabile.
L'opera di Cavalieri è veramente scritta in cerchi e in triangoli, e respinge il profano, come del resto l'autore stesso avvertiva: «Nemo autem haec aggrediatur, qui sex saltem priores libros et undecimum Elementorum non calluerit», e - a integrare il bagaglio minimo di competenze iniziali del lettore - aggiungeva agli Elementi di Euclide, Apollonio e Archimede!
L'ultimo rappresentante della «galassia» galileiana, il Viviani, è autore diffìcile per un recupero significativo. Non antologizzabile per scritti geometrici di arduo tecnicismo, finisce per essere ricordato soprattutto come autore del Racconto istorico della vita del sig. Galileo Galilei o della Lettera intorno all' applicazione del pendolo all'orologio: scritture decorosissime, che individuano l'erede di Galileo, quasi il depositario del suo «mito», ma non rendono conto della personalità scientifica del Viviani. Sicché noi abbiamo voluto documentare almeno quell'aspetto della sua attività che - continuando la linea di Castelli, di Torricelli, di Famiano Michelini, ecc. - si applica alla regolamentazione dei fiumi. Dal Discorso intorno al difendersi da' riempimenti e dalle corrosioni de' fiumi abbiamo poi scelto una sezione che associa il problema idraulico a quello «ecologico»; e forse questa scelta è stata suggerita anche dalla straordinaria attualità dei problemi che - già tre secoli fa - il Viviani denunciava, attribuendo il «riempimento d'Arno», e i danni che ne derivano, al «gran disboscamento che in universale, contro agli antichi provvedimenti, è stato fatto delle alpi e de' monti [...] poiché le piogge cadenti sopra que' monti spogliati di legname, coltivati e smossi, non trovando più il ritegno della macchia e del bosco, vi scorrono precipitose e s'accompagnano con la materia di terra, sasso e ghiaia [...]».
La collocazione di Borelli, subito dopo la prima «guardia» galileiana, non rispetta soltanto il dato cronologico e quello della discendenza diretta da Galileo (attraverso Castelli). Posto e spazio dedicati a Borelli, in questo volume, vogliono indicare in lui la personalità che, per l'altezza speculativa, per l'ampia convertibilità degli interessi, per la fedeltà con cui sviluppa temi tipicamente galileiani o realizza progetti solo abbozzati da Galileo, è la più vicina al maestro ideale (almeno fra gli scienziati della seconda generazione).
Il giorno in cui il De motu animalium sarà studiato seriamente (non solo citato onorificamente come testo archetipo della iatromeccanica) e Borelli sarà rivalutato a pieno, oltre che come astronomo, come matematico, come fisico, come vulcanologo, come patologo, ecc., speriamo che questa nostra indicazione - che oggi può sembrare un po' azzardata - riceverà conferme. Ma occorrerà che il recupero di Borelli avvenga (come scrive un giovane, Ugo Baldini, che già procede intelligentemente su questa strada) ricostruendo 1'«unità profonda di ispirazione sottostante alla molteplicità degli argomenti di studio» e valorizzando la base filosofica, micro-fisica corpuscolare, su cui poggia tutta l'attività del grande scienziato.
Dovremo anche attendere che si colmino le lacune di informazione per i periodi trascorsi dal Borelli fuori Toscana, e che si chiariscano gli eventi del suo soggiorno toscano, dato che in questo ambiente il Borelli fu investito da invidie, da livori, da calunnie, che - facendo leva su certi aspetti del suo carattere ombroso - lo discreditarono agli occhi della Corte (e rischiano ancora oggi di condizionare il nostro giudizio). Certo è che, conoscendo il Redi (ma anche il Viviani fu nemico di Borelli!), non dubitiamo che lo scienziato toscano abbia fatto di tutto per liberarsi di un rivale che era perfettamente in grado di insidiare il suo prestigio. Sicché, più che di certe allusioni maligne del Redi, ci fideremo di ciò che scrisse Magalotti, nel 1668: pur criticando il carattere del Borelli, Magalotti affermava che questi era un «letterato da far risplendere una corte». E ci fideremo di Malpighi, traendo conseguenze non solo da sue affermazioni esplicite, ma anche dalla calda, confidente amicizia che lo legò al Borelli, e che lo associò a lui nel reciproco rispetto, nella comune amarezza per le persecuzioni di cui ambedue soffrirono. Bilanceremo, inoltre, l'interpretazione che il Redi dette di certi progetti di ritorno in Toscana del Borelli (che avrebbe «istuzzicato i suoi ferruzzi» per ottenere questa grazia) con ciò che il Bellini scrisse al Magliabechi sullo stesso argomento:
Grand'onore, e gran segno di stima pare a me quel degl'Inglesi, e gran malignità e perfidia mi par quella de' fiorentini, che il ritorno del Borelli hanno mascherato con tanta falsità, e interpretato con tante bugie, quand'ella vede che egli non ha preteso, né intende venire se non con quelle condizioni, e essendo chiamato. Mi perdoni di questa briga per lo zelo che ho dell'onore di quel buon vecchio.
Ma soprattutto ascolteremo l'elogio di Bellini al «maestro», recitato all'Accademia della Crusca (davanti dunque a quei «fiorentini» che - se crediamo a quanto lo stesso Bellini scriveva al Magliabechi - non dovettero gradirlo molto):
[...] diede l'ultima mano a una sola parte di quelle meccaniche [. . .] che, venute alla luce ed esposte al giudizio del mondo, sono state lo sbalordimento de' letterati, lo stupore e il trionfo delle mattematiche facoltà, un riscontro sicuro che vi è qualcosa di più che umano nell'uomo [...] giacché in quelle vi si riconosce capace di comprender l'incomprensibile, di misurar l'immenso, di maneggiare e governar con le leggi dell'intelligibilità delle cose che ànno per fondamento dell'esser loro il non potersi capire [...] Dar gloria all'anima grande dell'immortal Borelli è obbligo e sfogo della mia gratitudine, che devo e voglio professarli altissima e sempiterna, e devo e voglio cosi, perché egli con tal tenerezza m'amò, e in insegnamenti cosi profondi mi ammaestrò, ch'ei fu mio sempre riverito signore, e mio sempre amato maestro finch'egli visse, ed è mio sempre quasi adorato nume da che egli è morto.
Anche noi, in questo volume, abbiamo voluto «dar gloria» al Borelli, proponendo molti brani del De motu animalium e scegliendoli in modo da documentare sia gli interessi speculativi e metodologici, sia quelli più tecnici e applicativi dell'autore. Proponiamo invece nella sua integrità il Discorso sopra la laguna di Venezia, che ci presenta un Borelli in linea con Castelli, Torricelli, Viviani, per l'attività «idraulica». Questo progetto di «grattamento» della laguna è scritto in un volgare non privo di ritmo: ma bisogna che noi, leggendolo, ci liberiamo sia dal preconcetto letterario della «bella pagina» che da quello della «dignità" del tema. C'è più poesia nella fiducia del Borelli nella macchina, nella possibilità di impiegarla razionalmente, al servizio dell'uomo e nel rispetto della natura, che in una «bellissima» pagina del Buonanni sulle chiocciole.
Nella minuzia con cui un grande matematico speculativo come il Borelli descrive i vari strumenti e opera su «modelli» per ipotizzare gli effetti realizzabili in natura, c'è quella fede nella tecnica e nella intelligente applicazione dell'uomo alla soluzione di problemi naturali che è uno degli elementi fondamentali della scienza nuova.
La scena dei barcaioli che - a determinati segnali acustici impartiti dal campanile di San Marco, o a segnali luminosi - iniziano il «grattamento» del fango della laguna, approfittando del flusso e del riflusso delle acque, può piacere per la sua animazione, ma ha un significato che trascende la lettera: è un intervento sulla natura che non ne turba gli equilibri, che sfrutta (senza inganni e senza prodigi) il modo di operare della natura stessa; è il progetto di un lavoro manuale, che un matematico di alto bordo non disdegna di programmare fin nei minimi particolari, sottraendolo ai rozzi «periti» e «ingegneri», ricchi magari di esperienza, ma incapaci di elaborazione teorica.
Per queste considerazioni dovremo superare la noia che a noi può procurare la precisazione di tanti particolari strumentali, il calcolo della quantità di fango necessaria a «intorbidare caricamente», cioè a saturare, l'acqua della laguna. Proprio lo scrupolo matematico, la precisione del progetto, sono testimonianza di quel passaggio dal «pressappoco» all'esattezza scientifica che è una delle conquiste più importanti del secolo. Questo è il secolo in cui il sole è concepito come un immenso fornello, in cui Dio è raffigurato come architetto, meccanico, orologiaio della gran macchina dell'universo, in cui lo scienziato non è il «filosofo» contemplante, ma il «filosofo sperimentale», il medico «razionale», capace di prepararsi un tessuto e di esaminarlo al microscopio: è il secolo in cui Torricelli può parlare di «meccanica filosofia» senza che l'espressione sembri una contraddizione in termini.
Se Borelli ci è sembrato il più vicino a Galileo per il tipo e per l'ampiezza degli interessi, per quanto riguarda la dimensione intellettuale, il rigore metodologico, la vena polemica, la forza stilistica della scrittura, dovremo almeno equiparare a lui Marcello Malpighi. Per rendersi conto di questo basterà leggere la Risposta allo Sbaraglia; al di là dei pregi stilistici, questo testo è un vero e proprio discorso del metodo, in cui sono presenti tutti i motivi qualificanti della scienza nuova: l'orgoglio per aver riscattato la fisiologia dal caos delle interpretazioni animistiche e la terapeutica dalla cecità delle procedure empiriche (ripetendo così, nel microcosmo e con il microscopio, l'operazione fatta da Galileo nel macrocosmo con il telescopio); l'affermazione della natura «matematica» delle leggi fisiche, e quindi della loro regolarità; la fiducia nel «discorso», nell'«a priori», correlata alla certezza della fecondità applicativa della teoria; il rifiuto della cultura cartacea e della terminologia mistificatoria; la fede nella trasmissibilità e perfettibilità del sapere, ecc.
Malpighi sa che molte cose «sfugono alla fiacchezza de' nostri sensi» e che spesso «non danno luogho all'esperienze»; non per questo gli pare giustificato «lo spendere tutto il tempo nel ricercar l'archeo, le simpatie, li mali archeali causati da idee peregrine e vitiose, la medicina universale, et altre strane fantasie, le quali con parole nuove occultano la fiacchezza d'un filosofare totalmente astratto».
Vero scolaro di Galileo, amico di Borelli, Malpighi ha l'umiltà per dire «non lo so» e la coerenza metodologica per eliminare dalla sua ricerca tutto ciò che è «ineffabile»; ma ha anche l'orgogliosa consapevolezza delle capacità speculative dell'uomo. Proprio nella capacità dei «moderni», dei «rationali», di dedurre da «modelli» ipotetici conseguenze non attingibili con l'esperienza diretta, Malpighi fa consistere la loro superiorità sui medici «volgari» (sui «metodici», sugli «empirici») unicamente preoccupati del ritrovamento di rimedi «specifici» cavati «con franchezza» dalla «signatura [...] come il cedro per il cuore». La possibilità di risalire, con il ragionamento, all'ipotesi e poi di verificare in natura la fecondità dell'ipotesi stessa, differenzia gli scienziati nuovi da coloro che «essendo stati occupati [...] nella sposizione de' testi degli antichi autori, nella conciliatione dei loro vari sentimenti et in tante dispute ideali et inutili», hanno tralasciato «d'indagare l'opere della natura con quei mezi e quell'arte ch'è analoga al suo modo d'operare».
L'inserimento su una stessa linea speculativa di Borelli e di Malpighi non può - crediamo - suscitare perplessità. Meno pacifico, forse, l'inserimento sulla stessa linea di Bellini. Benché scolaro di Borelli a Pisa, benché amico e corrispondente assiduo di Malpighi, Bellini sembra troppo radicato nell'ambiente culturale toscano per riscattare la vecchia ipoteca di una sua collocazione fra Redi e Magalotti.
Dal punto di vista scientifico non ci sono dubbi: basta la lettura del De structura et usu renum. che qui proponiamo, per capire che Bellini appartiene agli scienziati forniti di «occhio giudice», capaci cioè di interpretare l'ispezione oculare alla luce di una teoria generale (nel caso specifico l'ipotesi micro-fisica e micro-chimica corpuscolare, filtrata attraverso Borelli); e si noti che, per spiegare la funzione renale, il Bellini utilizzerà l’”atomo» come concreta ipotesi fisica, non solo come nozione speculativa.
Ma anche i Discorsi di anatomia, che sono considerati dalla critica come exemplum di barocchismo stilistico (e tali in effetti sono, in forma così enfatica ed esasperata da autorizzare - addirittura - un'interpretazione parodistica!), sono tutti permeati di filosofia corpuscolare; sicché, se sottraiamo la «maraviglia», le figure retoriche, il ribobolo, il gusto nomenclatorio e sinonimico (così abilmente calcolato - se accettassimo l'intenzione parodica - nell'indirizzo dei Discorsi al pubblico di accademici della Crusca!), ciò che resta è un filo logico lucidissimo, filosoficamente impegnato e - aggiungiamo - straordinariamente rischioso per l'allievo del lucreziano Marchetti, in una Toscana in cui si ordinava con apposito editto ai professori dello Studio di Pisa di insegnare secondo la dottrina aristotelica, lasciando ogni altra suggestione filosofica.
Ma si dirà che, sulla definizione di uno scienziato, pesano anche la sua appartenenza di fatto a un determinato ambiente culturale e politico, i suoi rapporti scientifici e professionali con colleghi, collaboratori, amici. Da questo punto di vista il Bellini «alligatus officiis», non potrebbe essere più impigliato di come è nell'ambiente cortigiano (sull'asse Firenze-Pisa) e nella cerchia rediana.
La produzione letteraria di Bellini, soprattutto quella poetico- giocosa, sembra confermare pienamente questa collocazione. Se però si arriva alla lettura delle Rime e della Bucchereide dopo aver letto le opere anatomiche del Bellini e dopo aver letto le sue lettere veramente «familiari» (soprattutto quelle, sincerissime, al Malpighi) l'interpretazione può cambiare.
Facciamo un piccolo esempio, interessante perché riguarda i sonetti del Bellini in lode di Francesco Redi. Chi legge quegli otto sonetti senza conoscere il Bellini del De structura et usu renum, del De gustus organo, del De urinis et pulsibus, ecc., non ha motivi per dubitare della sincerità dell'omaggio, del tributo di stima. Chi invece, conoscendo la produzione scientifica del Bellini, è cosciente dello iato speculativo esistente fra i due scienziati, comincia a sospettare di quelle manifestazioni «pindaricotoscanose» (come il Redi stesso le avrebbe definite, se non fossero state a lui dirette e non avessero lusingato la sua vanità).
Che cosa in realtà pensasse il Bellini del Redi, noi lo sappiamo da una lettera indirizzata a Malpighi nel 1678:
Con tutto ciò a me conviene dissimulare, e star cheto, perché in oggi il signor Redi è l'arbitro di quella poca letteratura che è qua. Egli giudica d'ogni mestiere, pesa ogni talento, determina ogni controversia, e guai a chi muovesse un passo fuori della sua direzione, o procurasse di portarsi avanti e di promuovere i suoi interessi senza la di lui dipendenza. Per questi riguardi a me conviene l'accomodarmi al suo genio per non rovinare le cose mie proprie, e per appagare la sua vanità, e vistosa ambizione di gloria è bisognato che io mi accomodi a promettergli di stampare più presto che io posso, qualche cosa, e dedicargliela, dove io dovrò riconoscerlo per maestro della pratica, cosa alla quale egli è andato sempre a caccia fin dai primi anni delli studi miei.
Rispondendo a questa lettera, Malpighi poi autorizzava, in un certo senso, la strategia adulatoria del Bellini:
[...] mai mi sarei persuaso che il signor Redi letterato di tanto garbo, si fosse dilettato, come fanno gli svogliati e quei che non hanno buon gusto, dell'intingolo, e della salsa della vana gloria. Io credevo che la verità svelata fosse l'unico e saporito cibo delle anime grandi, e non quella nascosa vivanda di vedersi ad ogni passo lodato [...] Ma de gustibus non est disputandum [...] so che V. S. [...] farà una violenza a sé stesso correndo con gli altri all'adorazione della statua.
In effetti il Bellini farà «violenza a sé stesso» dedicando al Redi, di lì a pochi anni, il De urinis et pulsibus e componendo per la «statua» i famosi otto sonetti. Al Redi questi piacquero tanto che li definì «cosa miracolosa», associandoli nella lode a quelli composti dal Bellini in onore di Benedetto Menzini. Ma il Bellini stesso dava poi dei suoi sonetti menziniani una ben diversa valutazione, scrivendone a Malpighi:
Feci sopra di lui, molti anni sono, dieci sonetti andanti con alcune canzonette inserite a' lor luoghi fra essi in certa foggia pindarica, che a lui piacque incredibilmente, e se ne è sempre pavoneggiato in eterno. Ora in Roma, dove egli dimora, si ristampano tutte le sue opere insieme, ed egli ha volsuto mettere in fronte del libro questa mia fantasia [...] e così io andrò pel mondo sotto questo altro titolo di Poeta [...]
Il dubbio che anche i sonetti per il Redi non siano cosa seria, ma solo un episodio di cortigianeria verso l'arbitro indiscusso della cultura toscana (sul duplice fronte della ricerca scientifica e dell'attività letteraria) è legittimo, e ci consente una lettura non ingenua dei sonetti stessi. In essi il Bellini immagina il Redi trionfante post mortem nel tempio celeste dell'eternità, e gli si rivolge così:
Godi, mio Redi, poi che sei sì grande
che non sol per la terra batti l'ale,
ma sovra 'l cielo il tuo nome si spande
ov'ha l'eternità seggio immortale.
Un preciso «calco» da Dante, dunque, senza dubbio intonato a quel Redi che seminava citazioni dantesche anche in opere scientifiche e addirittura le utilizzava a incastonare le Esperienze intorno alla generazione degl'insetti.
Però il lettore che conosce i retroscena di questo exploit poetico non può esimersi dal pensare che il passo «calcato» è quello dell'invettiva a Firenze (che ben poco ha da «godere» della sua fama terrena e ultra-terrena); sicché l'allocuzione belliniana al Redi non è priva di ambiguità. Se esitiamo a vedere in essa una sanguinosa ironia è proprio perché questa ci sembra troppo scoperta. Ma forse il Bellini, abile scrutatore di quel «pelago» che è il corpo umano, era altrettanto acuto interprete dei meandri della psiche e confidava nel fatto che il Redi non decodificasse a fondo il messaggio, non cogliesse la valenza ironica di quella particolare allusione dantesca.
Ambigui, in questa chiave interpretativa, sono anche due versi del sonetto conclusivo della serie:
tal ti vid'io, ne' tuoi color distinto,
ma non appien rassomigliante al vero.
Versi che alludono, evidentemente, alla «trasfigurazione» fisica del Redi, nella sede celeste. Ma viene il dubbio: non sarà questa una nuova astuzia del Bellini per negare somiglianza fra il Redi da lui esaltato in cielo e il Redi vero, operante sulla terra?
Non vogliamo andare al di là dei nostri punti interrogativi; il nostro scopo era solo quello di sottolineare la possibilità di una lettura «decifrante» la scrittura belliniana (quella poetica inclusa).
Ciò che invece ci sentiamo di fare è di liberare il Bellini da quel suo andare «pel mondo sotto questo altro titolo di Poeta», visto che la qualifica è accessoria rispetto a quella di filosofo e di scienziato. Inoltre ci sentiamo di sottrarre il Bellini alla «galassia» rediana, per quanto riguarda la «ricerca» scientifica, in quanto questa ha una matrice filosofica che trascende nettamente il pur splendido empirismo rediano.
Riflettiamo del resto su ciò che il Redi, per testimonianza dello stesso Bellini, esigeva da lui: il riconoscimento di «maestro della pratica», cioè di una dipendenza e soggezione professionali, nel campo della medicina e della terapeutica. Per quanto riguardava gli «studi», il Redi doveva essere rassegnato a vedersi sfuggire di mano quell'allievo del Borelli che, a soli diciannove anni, aveva scritto il De structura et usu renum.
Che l'aspetto professionale fosse il punto cruciale del rapporto Redi-Bellini ci viene confermato da lettere di quest'ultimo, terrorizzato (è la parola giusta) dalla possibilità che il favore a lui accordato dai principi, come medico curante, lo esponesse all'invidia e alle persecuzioni dei colleghi. Ma di chi, soprattutto, poteva temere il Bellini se non del potente «protomedico» di corte? Scrive al Malpighi:
[...] questa medesima gelosia, che hanno di non perdermi i dominanti, dà gran fastidio a più d'un altro, che teme ch'io non mi faccia loro troppo vicino. Così, stando a Pisa, non dò sospetto a' padroni, e non tornando a Firenze non dò ombra a chi trema di me.
Alla fine d'agosto anderò a Firenze, né penso che tal mia gita sia per dar ombra ad alcuno [. . .] ma se in questo poco tempo alcun malato di là mi chiama a farsi medicare, Dio me ne guardi. Oh quanti bronci! Quanti occhi grossi! Quanti cicalii! Quanti sospetti!
Nel 1683, sempre in una lettera a Malpighi, il Bellini scrive di aver passato un periodo a Firenze «sospetto di restare in corte in figura di medico del Sovrano», ma di essere riuscito a fuggire di lì per tornare a Pisa «a vivere meco medesimo e con gli studi miei». Gli duole soltanto di non essere «in uno stato da lasciare anco Pisa» e andare a vivere «in una qualche corticella», lontano da «questo luogo disprezzato e fuggito».
Ma in quella Toscana disprezzata e fuggita il Bellini vivrà fino alla morte. «L'asinità collegata con la furfanteria» non cesserà di perseguitarlo anche oltre la morte. L'iscrizione che alcuni amici veri del Bellini avevano progettato per la sua pietra tombale non verrà eseguita per l'opposizione esplicita dei Gesuiti. Non è difficile capirne il motivo: l'iscrizione, molto lunga (la si può leggere in L. Bellini, Rime inedite, a cura di A. Dolfi, Urbino, Argalia, 1975, p. XXVIII), instaurava fin dalle prime righe un parallelo fra Bellini e Galileo: «[...] uterque Florentiae natus, uterque maximus, uterque suo aevo clarissimus, uterque omnium litteratorum hominum admiratione celeberrimus, uterque fortunae parum obsecundantis vicibus obnoxius, felix qui potuit rerum cognoscere causas, atque metus omnes et inexorabile fatum subiecit pedibus: amice lector, a Galilaeo ad Bellinium animum revoca [...]».
Fu invece un rappresentante della cultura ufficiale, l'abate Anton Maria Salvini, a dettare l'iscrizione, molto breve: mancava in essa ogni riferimento a Galileo; il Bellini vi era definito «in poeticis, rhetoricis, geometricis, philosophicis, medicis sui saeculi facile princeps» (si noti la successione delle competenze!).
Sottraiamo dunque il Bellini alla cerchia rediana e all'ambiente di ricerca locale, perché egli merita altra formula. Discendente di Galileo, scolaro di Borelli, intimo amico di Malpighi, egli supera con la sua produzione anatomica (di fama internazionale) la provincia toscana. Quell'ambiente senza dubbio attivo e fertile, ma che si era rivelato soffocante per uomini come Stenone, come Borelli, come Malpighi, che era «gabbia» per Magalotti, «scena» per Bellini, non riesce però a togliere a quest'ultimo il «vantaggio» riservato ai filosofi speculativi, anche in condizioni difficili; scrive Bellini stesso:
Gran vantaggio è di chi specula con universalità di fondamenti e di dottrine, perché non può essere costituito in circostanze di cose, benché stranissime, nelle quali egli non ritrovi un'immensità di ricchezze [. . .] non degnamo questi meschini, i quali se non ci possono torre il nostro bene, la nostra fama, le nostre nobili satisfazioni vorrebbono almeno torci la nostra quiete [...]
Il Redi è già entrato nel nostro discorso - attraverso il Bellini - nella prospettiva peggiore: quella dell'uomo di potere, del medico professionalmente interessato alla sua «arte». Il personaggio non è certamente tutto qui: occorrerà salvare in lui il ricercatore, instancabile nell'impostare «reiterate» esperienze («carnefice perpetuo de' più schifi e de' più sordidi parti della natura», come lo definirà scherzosamente Magalotti) e capace di trarre da esse conseguenze rivoluzionarie nel campo della «generazione» e del «parassitismo».
Qualche ridimensionamento è però legittimo anche in questo àmbito; noi sappiamo del Redi ciò che lui stesso ci ha voluto tramandare e ciò che, con maggiore o minore sincerità, hanno scritto di lui scolari e corrispondenti, in documenti «pubblici». Le cose cambiano se leggiamo una lettera privata del Cestoni che - pur amico del Redi - non aveva avuto motivi né accademici né professionali per adorare la «statua» in vita, e ancor meno ne aveva dopo che il Redi era morto. Scrive dunque lo speziale livornese al Vallisneri, il 9 dicembre 1697:
Tutto quello che il Redi operò (o la maggior parte) lo fece a tavolino con la gran borsa del Gran Duca Ferdinando de Medici, e non andava (come faceva il Malpighi) a veder crescere le zucche. Mi disse più volte che il Gran Duca aveva tanto il gran genio nelle cose naturali, che lui stesso ordinava a staffieri, giardinieri, et a persone di campagna, che portassero al Redi di quelle cose che trovavano, che paresse loro stravagante et incognite, tenendosi la borsa aperta per regalare a chiunque portava bachi, bruchi, crisalidi, bitorsoli, aurelie, foglie o tronchi storti, e cose così fatte. Doppo la morte poi del Gran Duca Ferdinando cessorno li regali, e mancorno i lavoranti, e lui per non spendere non si curava più di nulla. Ma solo faceva delle esperienze non dispendiose a tavolino.
Sia o no vero ciò che insinua qui il Cestoni (uomo abitualmente privo di malizia e di invidia), è indubbio che il Redi, «il più incredulo uomo del mondo» (come lui stesso si definisce), disposto a vedere «con gli occhi», a mandare i sensi «a scoprir paese», si fida troppo delle «relazioni» dei sensi stessi. Mentre accetta il richiamo galileiano alle «sensate esperienze», gli sfugge quello, altrettanto galileiano, alle «certe dimostrazioni»; gli manca coraggio ipotetico.
Solo così si spiega che proprio lui, distruttore della teoria della generazione «equivoca» o «spontanea», fondatore (con Harvey) della teoria «ex ovo omnia», cada poi nell'errore di attribuire virtù zoogenica alle piante, sulla base di una prolungata serie di osservazioni sugli «insetti» delle «galle». «Più di ventimila gallozzole» aperte «nello spazio di tre o quattro anni» hanno più potere, sul Redi, della corretta ipotesi di partenza, che cioè le «gallozzole» fossero «una malattia cagionata nelle quercie dalle punture delle mosche». Così si spiega anche la sua diffidenza di fronte a scoperte rivoluzionarie come quella degli «animalcula» del Leeuwenhoek: («[...] i microscopii [...] fanno vedere di belle cose, ma questa volta dubito che abbiano fatto travedere [...]» o di fronte a procedimenti destinati a vincere la battaglia scientifica, come quello della trasfusione del sangue:
Di Londra hanno mandato il libretto delle attestazioni, che sia veridica l'invenzione del ridurre facilmente e con poca spesa l'acqua marina buona a bere [...] Per ben comune non vorrei che fosse una cosa come quella della trasfusione del sangue, o delle trombe parlanti [...]
Le incoerenze del Redi sono parecchie: medico ippocratico, sanamente diffidente davanti a malattie immaginarie e a rimedi «pellegrini», confessa di non aver mai capito che cosa siano le «evaporazioni» (malattia di moda fra le signore dell'epoca) e le «fuliggini», non crede al fegato «caldo» e allo stomaco «freddo», il che poi non gli impedisce, nei Consulti a lauto pagamento, di utilizzare quelle nozioni e quei termini: «[...] labefattata la facultà concottrice del medesimo stomaco per gli errori esterni commessi nelle sei cose non naturali, e perché ancora, essendo questo signore di fegato caldissimo, consuma questo allo stomaco l'umido radicale, che è il pabulo ed il fondamento del calor naturale del medesimo stomaco [. . .]», ecc. Questo è proprio il linguaggio della «gentilissima ciurmeria», come il Redi stesso lo definisce, in riferimento a medici suoi colleghi. È chiaro che il Redi è il primo a non crederci e a utilizzarlo solo nel rapporto con il malato. Ma questo, da un punto di vista scientifico, aggrava la situazione, perché il Redi sa che stomaco freddo e fegato caldo sono una «falsa opinione [. . .] e quel che più ridicoloso mi pare, si è che della freddezza del povero stomaco ne danno la colpa alla soverchia caldezza di quell'insolentone del fegato [. . .]».
È la stessa incoerenza che ci stupisce nel «filologo»: compilatore e revisore scrupoloso di «schede» per il Vocabolario della Crusca, il Redi non esita a «fabbricare» esempi antichi, quando questi gli servano, attribuendoli ad autori di cui avrebbe posseduto i codici nella sua biblioteca.
La figura accentratrice del Redi (che emerge dalle parole del Bellini) è poi pienamente confermata dalla strategia di «ricerca di gruppo» che il Redi attua nei confronti di scolari e collaboratori. Il più «dominato» è sicuramente il Bonomo; ma è sintomatico che anatomisti di valore, come il Caldesi delle tartarughe, lo Zambeccari delle anguille, ecc., sottolineino la dipendenza dei loro lavori da spunti, idee, «carte» del loro maestro e «padron colendissimo».
In realtà, se dal punto di vista linguistico e stilistico il Redi non teme confronti, da quello scientifico le straordinarie «anatomie» di un Caldesi, di un Lorenzini, non hanno niente da invidiare alle «osservazioni» del Redi, e anzi si distinguono per un più raffinato tecnicismo. Si ha, insomma, la sensazione che il dominio esercitato dal Redi sul gruppo sia soprattutto di tipo politico-culturale e accademico.
Tale sensazione si fa molto precisa, quando si considera il rapporto fra Redi e Cestoni. Lo speziale livornese (pur non essendo «dottore» e non aspirando a far carriera accademica) ha soggezione del potentissimo «amico» e probabilmente paga questa relazione onorifica dando al Redi più di quanto non riceva: suggerimenti, materiali di studio, «figure» di insetti (fatte disegnare da lui, a Livorno, e poi stampate in opere rediane), perfino la «paternità" della scoperta del «pelliccilo». La sua generosità è tale da presentare come «dono» spontaneo ciò che invece era stata richiesta precisa del Redi; scrivendo al Vallisneri, infatti, il Cestoni presenta la sua «cessione» della scoperta in modo da liberare il Redi da ogni responsabilità:
Il Redi mi voleva un grande grandissimo arcigrandissimo bene e mi amava di vero cuore, e per ciò innalzò tanto il Dott. Bonomo, perché io glie lo raccomandai, et era il mio intimo, conforme adesso il Sig. Dott. Marcellino [...]
Ciò non toglie che, in altre occasioni, il bravo speziale livornese, si scandalizzi di certa «faciloneria» del Redi:
A conto delli due insetti del Redi creduti da esso non alati. Uno è il Cureulione chiamato da lui Punteruolo del Grano, e l'altro, baco de' canditi e delle droghe. Ora effettivamente sono due scarabei alati, et io li feci vedere ad esso medesimo; e quando vidde che erano alati, si ristrinse nelle spalle, e disse, che vuoi tu che io ci faccia? se mi sono ingannato?
Lo stesso tipo di rapporto che era esistito fra Cestoni e Redi si riprodurrà poi, dopo la morte del Redi, fra Cestoni e Vallisneri; anche se, in questo secondo binomio, sentiremo circolare un maggiore calore, una vena più confidenziale (determinati anche da una differenza di età che consentiva al Cestoni di assumere un ruolo quasi «protettivo»).
Questo farmacista livornese, che non legge il latino (ma che, facendoselo tradurre da amici «dottori» e «letterati», si tiene al corrente su tutta la letteratura scientifica europea) non è affatto subalterno, nel dialogo con i suoi ben più famosi interlocutori. A Vallisneri fornisce grana Kermes e camaleonti importati da Tunisi, ma soprattutto gli fornisce consigli preziosi e, talvolta, non gli risparmia rimproveri:
[...] io non suppongo le cose, le provo con l'esperienza. Io non averei mai creduto che un filosofo come lei possa dire che dalla sommità d'un monte cada ruscelli o fiumi, e pure dice di averlo veduto. V. S. ci torni e vedrà che non esce dalla sommità, ma dalla falda del monte [...] e di più V. S. si è bevuta la favola che gli è stata raccontata del bel giochetto che fa col mare. V. S. mi scandalizza di molto [...] Son supposti, e son chimere da Aristotelici, del resto si serva come vuole, perché non so altrimenti; lei dice di dire queste cose per passaggio, ma io vedo che le dice perché le crede cosi [...] procuri d'allontanarsi dai supposti, et avverta a scrivere cose miracolose per sfuggir le autentiche.
Straordinario uomo, questo Cestoni. Da un punto di vista strettamente letterario non ci sono dubbi sulla superiorità di scrittori come il Redi, come il Vallisneri, capaci di amministrare fascinosamente anche la loro scrittura scientifica. La prosa del Cestoni è spesso rozza, talvolta sintatticamente zoppicante. Ma la sua vena di ricercatore è autentica, la sua passione scientifica è di quelle che coinvolgono totalmente anche l'uomo: quando lo vediamo scattare (dopo tanti anni di silenzio) perché la sua scoperta dell'acaro della scabbia non ha avuto le debite conseguenze terapeutiche, quando assistiamo alla sua disperazione per la perdita di qualche camaleonte (insidiato dai gatti del giardino confinante; «arrostito» da un braciere imprudentemente sbraciato dalla sua «consorte»; scappato dalla «paniera», ecc.) non possiamo fare a meno di sentirci (almeno emotivamente) più vicini a lui che al Redi, quando questi «spara» con il coltello anatomico «lumaconi ignudi», o allo Zambeccari che taglia «diverse viscere» a «diversi animali viventi», sia pure per saggiare le loro possibilità di sopravvivenza.
Abbiamo detto prima che Magalotti merita di «stare solo»: ma non perché egli sia - come la critica letteraria ha detto e continua a dire - scrittore individuo per eccellenza, anticipatore, in un ambiente scientificamente impegnato, della scienza «piacevole» e salottiera: sfuggente dunque a definizioni che vogliano imbrigliare il suo temperamento estroso e il suo «morbido» stile.
Dopo che storici della filosofia e della scienza hanno riconosciuto in Magalotti una personalità non secondaria nel quadro del dibattito sull'«atomismo», e hanno individuato il suo tentativo di svincolare la filosofia corpuscolare dalle conseguenze teologiche che avrebbero potuto comprometterne l'affermazione, è intollerabile che rispunti l'ipotesi del dilettante «svogliato», del «rappresentante del piccolo barocco toscano fiorito fra scienza e poesia, tra laboratorio e salotto».
Magalotti non va sottratto alla letteratura, ma va riscattato alla filosofia della scienza e alla storia delle idee. Il modo per farlo è proprio quello di rileggere la sua opera mettendone a nudo la «cifra»; rilevando cioè il significato profondo sotteso a certi argomenti apparentemente svagati, a certe soluzioni linguistiche e stilistiche chiaramente allusive al Galileo filosoficamente più impegnato.
Per questo, oltre a una doverosa scelta di brani dai Saggi di naturali esperienze (opera «collettiva» e ufficiale, scritta da Magalotti con fatica e disgusto per la «poca libertà» che in essa gli era concessa), abbiamo proposto alcune lettere di Magalotti, scegliendole fra quelle apparentemente più «morbide» e inconsistenti.
Ma tali non sono: a parer nostro il vero argomento della Lettera VIII (delle Scientifiche ed erudite), sulla difficoltà di giudicare gli odori, è quello del rapporto fra «ragione» e «sensi», risolto da Magalotti a favore della prima. Ciò che conta, infatti, oltre all'» esperienza di sentire», è la «pratica di manipolare»: cioè (si faccia attenzione alla formulazione linguistica) un «abito acquistato da' replicati errori e da' replicati disinganni», finché si giunge a un punto in cui «non s'odora altro col naso che quello che s'ha nella mente».
Si capisce allora perché il Magalotti consigli al suo corrispondente di tenere cautamente nascosto questo «odorato intellettuale»:
Gl'ignoranti hanno questo di comune con gli empi, quando sono nel profondo, disprezzano. Per questa ragione ho insino pensato di metter tutta questa lettera in cifra, per tenerla al coperto di tutti quei sinistri che ella potesse incorrere di qui a Arcetri. Considerate che nel mondo, in oggi, sono pochi quelli che fossero capaci d'approfondarne e di rinvenirne i misteri.
Vorremmo che i sostenitori della tesi del «filosofo morbido», dello scienziato «salottiero», ci spiegassero quali «sinistri» avrebbe potuto incontrare, sulla strada che va ad Arcetri (la residenza coatta di Galileo!), questa lettera, se essa fosse soltanto un raffinato rito odoristico!
Ma sulla rarità di interpreti capaci di intendere i «misteri» della sua scrittura, Magalotti aveva perfettamente ragione: si può dire che, a distanza di tre secoli, egli aveva previsto la Ronda e i suoi epigoni. Ben altrimenti capaci di individuare la «cifra» magalottiana dovevano essere i lettori contemporanei: il che spiega la «gelosia» (così la definirà l'editore settecentesco delle lettere), in realtà la «prudenza» di Magalotti, che quelle lettere tenne nel cassetto, rifiutandosi di pubblicarle in vita.
Nella lettera che segue (IX delle Scientifiche ed erudite) il passaggio dalla «teoria degli odori» alle «materie morali e politiche» è altrettanto chiaro. Leggiamo, in questa chiave, il passo in cui Magalotti sostiene che gli odori devono essere commisurati alla qualità dell'ospite. Quando l'ospite non sia in grado di apprezzarli, bisogna «tener ben sigillati i vasi della fonderia, e contentarsi di non fare odore»:
L'interesse della nostra stima e della nostra pace merita bene il sacrifizio della nostra vanità, in sopprimere di quei talenti che, conosciuti a mezzo, ci rendono redicoli, e che, conosciuti a fondo, ma non pareggiati da quei degli altri, ci rendono odiosi.
La lettera, dopo questo chiaro proposito di «autocensura», si conclude con una frase che potrebbe essere assunta più vastamente, a siglare l'intera produzione letteraria magalottiana. Dice, Magalotti, commentando la sua stessa lettera: «per una buffoneria è troppo, e per una cosa seria è poco».
Ma, prima di considerarla una «buffoneria» (e per riscattarne la «serietà»), potremmo rivolgerci alle Lettere familiari, là dove gli equilibri ironico-polemici si fanno ancora più rischiosi, e la «cifra» più trasparente.
Pensiamo, fra i moltissimi, al brano in cui Magalotti giustifica quello che potrebbe sembrare un ossequio alla filosofia di Epicuro, mentre invece - assicura l'autore - «il cuore n'è molto lontano, e solamente l'onoro colle labbra, facendone una tale quale professione esterna, dove si tratti di cose naturali per isfuggir le difficoltà che mi fanno i principii dell'altre filosofie nell'adattargli a render qualche apparente ragione degli effetti particolari». E si notino, in questo brano che ricorda così da vicino tante altre professioni di fede esterna (quella di Galileo al copernicanesimo, quella di Cavalieri al «continuo d'indivisibili», ecc.), i veri e propri prelievi linguistici da Galileo, in un centone chiaramente allusivo al «maestro».
Tutta l'opera di Magalotti è giocata su questa pericolosa ambiguità fra il proposito di «discreditarvi gli atomi» (che sarebbe l'intento dichiarato serio) e quello di «ammettervigli per buoni e comodi a discorrer con qualche maggior soddisfazione, se non chiarezza, di qualche effetto particolare» (che sarebbe il «giuocolino»). Ma, data la debolezza degli argomenti utilizzati a produrre il «discredito» della filosofia corpuscolare, è il «giuocolino» che diventa cosa seria (dando così nuovo significato alla straordinaria abilità scrittoria di Magalotti).
Il fascino della parola di Magalotti non deve oscurare lo scopo a cui questo è finalizzato. A questo proposito vorremmo indicare ai lettori una lettera che non abbiamo proposto in questo volume, ma che consideriamo interessante per la sua struttura tematica, oltre che per la straordinaria forza stilistica.
Si tratta della lettera Intorno all'anima de' bruti (XI delle Scientifiche ed erudite). La dimostrazione, anticartesiana, del fatto che i bruti possiedono un'anima è condotta sull'osservazione diretta del comportamento degli animali: assolutamente inconciliabile con l'ipotesi che essi siano «macchinette», «oriuoli» puramente passivi, reagenti solo a stimoli meccanici.
Il vero eroe della lettera è Becar, il cane di Magalotti. Lo scienziato non può ammettere che le reazioni affettive dell'animale (sempre diverse in presenza degli stessi oggetti, delle stesse persone, e quindi degli stessi stimoli o «effluvii»), siano determinate dallo scattare di qualche «molla» o di qualche «carillon» («gariglione», come scrive Magalotti).
Un giorno Becar si smarrisce (anzi, viene smarrito!) e riesce a ritrovare da solo la strada di casa: tutti i «gariglioni» possibili e immaginabili hanno suonato in lui: quelli «lugubri e patetici» dello smarrimento, quelli «affannosi» e «perquisitivi» della ricerca, quelli «allegri», «teneri» e «vezzeggianti» del ritrovamento, finché «snervate le molle», Becar si addormenta, sfinito, ai piedi del padrone. Ma basta un involontario calcio al cane dormiente per risvegliare in lui i gariglioni «gravi» e «bravatori». Tutti comportamenti - osserva Magalotti - che sono un grave «impiccio a pretender di decifrarne i misterii per via di ruote, di rocchetti, di tamburi», ecc.
Dopo più di trenta pagine di «gesta» di Becar e cagnuoli vari, la lettera arriva ad uno snodo significativo. Magalotti, «per ultimo», fa «un'altra considerazione»: anche le Sacre Scritture e i Santi Padri mostrano di credere all'anima dei bruti!
E allora, in poche pagine e con uno scarto stilistico notevole (sono pagine fitte di citazioni latine e di richiami filologici ed eruditi, contrastanti con la caratterizzazione domestico-espressiva delle precedenti), Magalotti elenca i luoghi delle Sacre Scritture e poi, nell'ordine, i santi Ambrogio, Agostino, Girolamo, Gregorio, Basilio, Bernardo, ecc.
Non è difficile afferrare il sapore ironico di questa giustapposizione, di queste «prove» d'alto bordo (i «sacri oracoli», come li chiama Magalotti) che vengono in appendice alle «prove naturali», già abbondantemente fornite da Becar e compagni.
Magalotti sta eseguendo, in questa lettera, un preciso programma galileiano; sta cioè ribaltando audacemente l'attacco che gli avversari avevano portato a Galileo, determinandone la condanna. Magalotti ha in mente quel luogo della Lettera a Madama Cristina di Lorena, in cui Galileo aveva affermato:
[...] nelle dispute di problemi naturali non si dovrebbe cominciare dalle autorità di luoghi delle Scritture, ma dalle sensate esperienze e dalle dimostrazioni necessarie.
«Perché», si chiede Galileo nella stessa lettera e in quella al Castelli, se gli avversari si sentono tanto sicuri del fatto loro, «nel venir poi al congresso, por subito mano ad un'arme inevitabile e tremenda, per atterrire con la sola vista il loro avversario ?». Sono le Sacre Scritture che - eventualmente - vanno interpretate nei loro sensi riposti, per portar conferma alle conclusioni naturali.
Magalotti fa proprio questo: utilizza prima e a lungo Becar e altri animali, poi «per ultimo» le testimonianze dei «sacri oracoli», a conferma del già dimostrato.
Non rischiamo di superinterpretare, perché Magalotti stesso conferma la nostra ipotesi, inserendo un chiaro «snodo» fra prima e seconda parte della lettera:
Orsù un'altra considerazione per ultimo, e vada per soli quelli, che, se credessero che ella facesse per loro [...] ce l'averebbero messa innanzi fin da principio. In quanto a me io ho sempre avuto una somma aversione a quell'abuso, che molti fanno de' sacri oracoli, tirandogli il più delle volte pe' capelli a spalleggiare un'opinione intorno a questioni puramente naturali; ella è sempre una soperchieria, dice non so dove il Galileo, a chi viene colle sole armi della ragione umana, venirgli subito addosso col fulmine dell'autorità.
Se così è, tutta questa lettera, nella struttura contrappositiva fra prima e seconda parte, nella sproporzione quantitativa delle due parti, nel salto stilistico che fra esse si realizza, nella fitta rete di richiami testuali a Galileo (parole, sintagmi, moduli sintattici ironici e polemici, che qui non possiamo fermarci ad isolare, ma che sono frequentissimi), infine nella citazione esplicita di Galileo, così abilmente svagata («non so dove»: Magalotti doveva avere invece presente un testo famoso e drammatico come la Lettera a Cristina di Lorena!) è un calcolato, piccolo capolavoro polemico. Anche la festività stilistica, l'accumulo, insomma la «morbidezza» letteraria della prima parte, giocano un ruolo preciso nell'operazione coraggiosa, acrobatica, metodologicamente impegnata, che lo scrittore sta conducendo.
Ci siamo fermati a lungo, davanti al ritratto di Magalotti; l'indugio è motivato dalla convinzione che questo scrittore vada recuperato alla filosofia e alla scienza, sotto la sua imbottitura letteraria; il che non significa sottrargli fascino, ma aggiungere fascino a fascino.
Gli scienziati di cui abbiamo parlato fino ad ora, pur consentendo diversi raggruppamenti al loro interno, appartengono al filone trionfante della scienza del Seicento. È stata una scelta precisa, la nostra, determinata dalla convinzione che occorra reagire a ogni tentativo di minimizzare la portata rivoluzionaria della scienza «nuova», attraverso operazioni di «retrodatazione» delle idee o di ridimensionamento della loro incidenza culturale.
Naturalmente non vogliamo dire, con questo, che abbiamo considerato solo il «nuovo» e scartato il «vecchio», dimenticando che «nuovo» e «vecchio» si mescolano spesso, inestricabilmente. Ci sono casi netti e sicuri, in cui si può parlare di assoluta coerenza dello scienziato alla «filosofia» della nuova scienza. Ma spesso la formula è più ambigua e complessa: ciò si verifica - talvolta - per incapacità di identificare chiaramente la strada giusta; altre volte per opportunismo determinato da condizionamenti storici; altre volte ancora per il prevalere, sugli interessi scientifici, di preoccupazioni religiose, di «ideologie» da difendere. Solo semplificando ingenuamente e operando classificazioni arbitrarie si possono fare tagli netti fra scienziati «novatori» e scienziati «conservatori». Dobbiamo invece essere disposti a riconoscere, in scienziati «nuovi», le sopravvivenze di una vecchia mentalità e le deviazioni, così come dovremo essere pronti a constatare che il «galileismo» è penetrato, con varie sfumature, a vari gradi di travisamento, con varie forme di compromesso, anche nelle opere dei «conservatori».
Caratteristica, in questo senso, la posizione dei Gesuiti che, consci delle verità galileiane, le accettano parzialmente, attestandosi su posizioni variamente avanzate: assorbendo in parte quelle verità, conciliandole con la loro «filosofia», arginando la loro portata generale, a far sì che quella che si presenta come una scienza coinvolgente tutto l'uomo e i suoi equilibri, diventi un'attività settoriale.
Uomini come il Bartoli o il Lana Terzi (ma anche il Grimaldi, il Riccioli, il Cabeo, lo stesso Kircher, ecc.) sono, in questo senso, esemplari. Non appartengono più alla categoria di coloro che rifiutano di mettere l'occhio al cannocchiale e di ascoltare la «testimonianza» delle stelle; la loro cauta accettazione di certi aspetti o di certe scoperte della nuova scienza rappresenta un'operazione più abile e, certamente, più produttiva della negazione ottusa di verità dimostrabili. Al muro della negazione rigida, facilmente smantellarle, i gesuiti più intelligenti sostituiscono più soffici ed elastiche resistenze: accettano la lettera di certe affermazioni inoppugnabili, modificandone lo spirito e riducendone la portata filosofica, includendole in un «sistema» diverso.
Nel momento in cui, morto Galileo e - per una specie di fatalità - morti i suoi più diretti scolari (Castelli, Torricelli, Cavalieri, Aggiunti, Peri, Renieri), l'eredità galileiana si tecnicizza all'interno del Cimento, si provincializza nell'attività del protomedico Redi alla corte di Cosimo III, si specializza in vari àmbiti settoriali, si enfatizza nell'ambiente napoletano del Di Capua, non è facile capire chi sia più galileiano: il padre Lana che esalta lo spirito di ricerca e distrugge il principio di autorità, o il Redi che «guarda» solo «con gli occhi» e manda i sensi a far da «spiatori», ma diffida delle ipotesi e scrive Consulti che recuperano la teoria umorale e la relativa terminologia; il Bartoli che elogia in volgare Galileo o il Borelli di cui il Padre Proposto delle Scuole pie (prefatore del De motu animalium) rileva l'ortodossia cattolica ineccepibile «adeo ut, cum, in astronomia edocenda, de systematibus oriretur sermo, quicquid alii dixerint, inquit, omittendum: ita Sancta docet Ecclesia, ita credendum, idque certum in illius obsequium habendum».
Eppure il nostro compito è proprio quello di precisare le posizioni al di là delle apparenze, di ritrovare sotto la prudenza «letterale», sotto le «omissioni», sotto la «cifra» degli uni, lo spirito del rinnovamento e della rivoluzione scientifica galileiana; e, al di là dell'apparente progressismo degli altri, i pregiudizi e la sostanziale immobilità che li ricollocano in una prospettiva tradizionale.
Riconosciamo, comunque, che gli scienziati del filone gesuitico sono rappresentati in questo volume meno di quanto essi meriterebbero per la loro importanza culturale e scientifica. L'aver scelto solo due «campioni», in questo àmbito, il Bartoli e il Lana, è frutto di una meditata decisione che, mentre non disconosce l'importanza della loro presenza nel secolo, ne ridimensiona però l'incidenza, nei confronti del filone scientifico galileiano.
Uno scritto come il Prodromo del padre Lana, del resto, interessa proprio per quella incredibile mescolanza di sincerità e di impostura, di spregiudicatezza e di arretratezza, di idee nuove e di princìpi stantii; l'uomo che conosce Galileo, Torricelli, Huygens, Malpighi, Magalotti, Boyle, l'Accademia del Cimento, ecc., spera ancora - alla Kircher - di far nascere una pianta senza il seme, crede in Paracelso e in Della Porta, cita Fludd e Kenelm Digby, e cerca «la strada per ritrovare la pietra filosofale con il modo di fare le vere quinte essenze»!
E il Bartoli fa «disputare» la Tensione e la Pressione per stabilire quale di esse «sostenga l'argento vivo ne' cannelli dopo fattone il vuoto», ma basta leggere il retoricissimo inizio del trattatello per capire che siamo in un altro mondo rispetto a quello del «dialogo» e della civile «conversazione» della nuova scienza; Torricelli, e Boyle, e l'Accademia del Cimento sono assorbiti e snaturati, in questa prosa erudita che fa della scienza un «gioco», un «trattenimento»: in un secolo in cui essa è stata, invece, impegno, sacrificio, rischio.
Questo volume, e l'altro, che seguirà, di Scienziati del Settecento, sono stati programmati, desiderati, «voluti» da Raffaele Mattioli.
Restia come sono a mescolare al «lavoro» ricordi personali, farò un'eccezione per ricordare l'ultimo messaggio di Mattioli, dalla clinica romana in cui era ricoverato: mi sollecitava a cominciare il lavoro (già progettato e discusso assieme, in incontri milanesi) perché questi volumi, lui, avrebbe voluto «vederli».
Raffaele Mattioli non vedrà questi volumi, ma essi sono stati curati, nel rispetto della sua volontà e della sua memoria, così come il Cesi voleva che fossero curate le opere degli accademici lincei, anche dopo la loro scomparsa: «[...] le opre ben reviste e corrette, etiam morti loro [...] veranno da' cari compagni stampate, con quell'istessa diligenza che se essi vivessero».
Un volume come questo, che propone testi poco conosciuti e meno ancora studiati (sotto il profilo linguistico, almeno), non può andare esente da imperfezioni, da qualche lacuna («aliter non fit liber», diceva Marziale), ma la diligenza, l'impegno non sono mancati nei curatori e nei «cari compagni» di Raffaele Mattioli (il figlio Maurizio, i collaboratori della casa editrice) che continuano con fedeltà la sua opera culturale. A questo proposito devo dire che, se i nomi dei curatori che compaiono sul frontespizio del libro sono due, ad essi va aggiunto il nome di Carlo Cederna, la cui collaborazione è andata ben oltre la funzione «redazionale», costituendo un aiuto costante e prezioso sia dal punto di vista filologico che da quello interpretativo del testo.
Spero che questi volumi, che Raffaele Mattioli non ha avuto la soddisfazione di «vedere», non siano indegni della sua memoria.
Maria Luisa Altieri Biagi
Ringraziamo gli amici e colleghi dell'Università di Bologna, che ci hanno aiutato quando l'argomento scientifico trattato dai nostri testi esigeva una competenza specialistica; in particolare vogliamo ricordare l'attenta consulenza offertaci da Paolo Serra Zanetti della Facoltà di Magistero, da Anna Stagni della Facoltà di Scienze, da Francesco Barozzi della facoltà di Ingegneria. Ma un caldo ringraziamento va anche al personale della Biblioteca dell'Archiginnasio di Bologna, che ha assistito e reso possibile il nostro lavoro, con pazienza e dedizione eccezionali.
I due curatori si assumono uguale responsabilità per quanto riguarda la scelta, il commento, la traduzione dei testi. Le note bio-bibliografiche, introduttive ai singoli autori, la nota critica ai testi e l'indice dei nomi sono invece opera personale di Bruno Basile.
Indichiamo, qui di seguito, i «luoghi» da cui sono tratte le citazioni più consistenti, ospitate nell'Introduzione.
A p. IX: Lettera di Lorenzo Bellini a Marcello Malpighi, datata 23 maggio (senza anno), in L. Bellini, Rime inedite, a cura di A. Dolfi, Urbino, Argalia, 1975, p. x.
A p. XI: A. Vallisneri, Opere fisico-mediche, stampate e manoscritte [. . .] raccolte da Antonio suo figliuolo [. . .], Venezia, Appresso S. Coleti, 1733 (3 voll.), vol. II, p. 125.
A p. XIII: Lettera di Charles Bonnet a Lazzaro Spallanzani, in Le Opere di Lazzaro Spallanzani, pubblicate sotto gli alti auspici della Reale Accademia d'Italia, Milano, Hoepli, 1932-1936 (6 voll.), vol. II, pp. 632 e 637-8.
A p. XV: Lettera di Lorenzo Bellini a Marcello Malpighi, del 19 ottobre 1689, in L. Bellini, Rime inedite, cit., pp. IX-X.
A p. XVIII: il passo di Magalotti è in questo volume, a p. 913.
A p. XIX: Lettera di Galileo a Paolo Gualdo, del 16 giugno 1612, in G. Galilei, Opere, Ed. Naz., a cura di A. Favaro e I. Del Lungo, Firenze, Barbèra, 1929-1939, vol. XI, p. 327.
A p. XXII: traiamo la citazione cavalieriana da B. Cavalieri, Geometria degli indivisibili, a cura di L. Lombardo Radice, Torino, UTET, 1966, Appendice II, p. 777. Il passo della lettera di Borelli è in M. Malpighii Opera posthuma, Amstelodami, Apud D. Donati, 1698, p. 3.
A p. xxiii: F. M. Grimaldi, Physico-mathesis de lumine [. . .] Opus posthumum, Bononiae, Ex Typ. V. Benatii, 1665, Prooemium.
A p. xxv: Lettera di Fulgenzio Micanzio a Galileo, del 27 gennaio 1635, in G. Galilei, Opere, cit., vol. XVI, pp. 200-1.
A p. XXVI: il passo di Arturo Pannocchieschi d'Elci, ivi, vol. iv, p. 177. Il passo di Magalotti è in questo volume, a p. 914.
A p. XXVII: il passo di Castelli è in questo volume, a p. 219. Il passo di Torricelli è in E. Torricelli, Opere, a cura di G. Loria e G. Vassura, Faenza, G. Montanari, 1919 (4 voll, in 5 tomi), tomo III, p. 459.
A p. XXVII: il passo di Malpighi è in questo volume, a p. 1082.
A p. XXXIV: Lettera di Benedetto Castelli a Galileo, del 19 giugno 1632, in G. Galilei, Opere, cit., vol. XIV, p. 360.
A p. XXXVI: i passi del Cesi sono in questo volume, a pp. 10-1 e 21-2.
A p. XXXVII: C. E. Gadda, Meditazione milanese, Torino, Einaudi, 1974, p. 258.
A p. XXXIX: il passo del Saggiatore in G. Galilei, Opere, cit., vol. VI, p. 219.
A p. XLIV: il passo di Castelli è in questo volume, pp. 216-7.
A p. XLV: il passo di Torricelli è in questo volume, a p. 323.
A p. XLV: Lettera di Fulgenzio Micanzio a Galileo, del 25 ottobre 1636, in G. Galilei, Opere, cit., vol. XVI, p. 510.
A p. XLVII: Lettera di Lorenzo Bellini ad Antonio Magliabechi, del 9 ottobre 1670, in L. Bellini, Rime inedite, cit., p. XLIX. L'elogio di Bellini a Borelli è in questo volume, a p. 1017 e a p. 1018.
A p. LI: Lettera di Lorenzo Bellini a Marcello Malpighi, del 7 marzo 1678 in L. BELLINI, Rime inedite, cit., p. XII.
A p. LI: Lettera di Marcello Malpighi a Lorenzo Bellini, del 20 marzo 1679, ivi.
A p. LII: Lettera di Lorenzo Bellini a Marcello Malpighi, dell' 11 novembre 1690, ivi, p. LXXXVII.
A p. LIII: i due brani di lettere di Lorenzo Bellini a Marcello Malpighi appartengono, nell'ordine a: Lettera del 20 maggio 1688, in L. Bellini, Rime inedite, cit., p. XIX: Lettera del 5 luglio 1688, ivi.
A p. LIV: Lettera di Lorenzo Bellini a Marcello Malpighi, in L. Bellini, Rime inedite, cit., p. XVIII.
A p. LV: G. Cestoni, Epistolario ad Antonio Vallisnieri, con introduzione e a cura di S. Baglioni, Roma, Reale Accademia d'Italia, 1940-1941 (2 voll.), vol. I, p. 94.
A p. LVI: F. Redi, Opere, Milano, Soc. tip. de' classici italiani, 1809-1811 (9 voll.), vol. VII, pp. 141-2.
A pp. LVII e LVIII: G. Cestoni, Epistolario, cit., vol. II, p. 563, p. 624, p. 462 (nell'ordine).
A p. LX: i due brani di Magalotti sono in questo volume, rispettivamente a p. 944 e a p. 971.
A p. LXII: Lettera a Madama Cristina di Lorena, in G. Galilei, Opere, cit., vol. V, pp. 316 e 342.
A p. LXIII: il passo di Magalotti è in L. Magalotti, Lettere scientifiche ed erudite […],Firenze, Tartini e Franchi, 1721, p. 178.