Scienziati del Settecento - Introduzione
Sembrami che la presente letteratura si ritrovi in uno stato di abbondanza e di lusso, che non più si prenda molto pensiero di accrescere le sue ricchezze, ma si cerchi soltanto di spenderle in ogni maniera, e di rendere più comoda ed agiata la vita dei letterati: ciò che può far temere un'imminente rovina della letteratura; dicendo, non senza ragione, il Verulamio essere spesso cagione di miseria e di povertà l'opinione della ricchezza: inter causas inopiae est opinio copiae. Ed ecco, dopo il progresso di tanti secoli, lo stato attuale della letteratura.1
È un giudizio, datato 1782, del gesuita spagnolo Juan Andrés; causa di tanto allarme, nel contesto da cui la citazione è tratta, è la constatazione che dizionari specialistici ed enciclopedici, screditati in passato «dai severi letterati», ora «si veggono saliti a tanto onore, che vengono rispettati come libri classici e magistrali». Se si pensa che l'Andrés scriveva queste parole nel momento in cui si diffondevano per tutta Italia ben due ristampe dell'Encyclopédie (quella lucchese: 1758-1776, e quella livornese: 1770-1779), la sua predizione rovinosa s'inquadra significativamente nel clima di rinfocolata lotta fra novatori e custodi della tradizione.
Installatosi in Italia dopo l'espulsione dalla Spagna dei Gesuiti, l'Andrés aveva dedicato gran parte delle sue energie a tracciare il panorama della decadenza culturale europea, e italiana in particolare, imputando quest'ultima soprattutto all'abbandono, da parte dei nostri scienziati, del modello galileiano. Si chiedeva, l'autore del Saggio della filosofia di Galileo (1776) e della Dissertazione sopra le cagioni della scarsezza de' progressi delle scienze in questo tempo (1799), «come mai l'Italia» non avesse «formato un partito nella scuola filosofica e, prendendo a capo il suo Galileo», non avesse contrastato alla Francia la gloria del suo Cartesio, all'Inghilterra quella del suo Newton, alla Germania quella del suo Leibniz; un interrogativo a dir poco ingenuo, da parte di uno storico della cultura e di un gesuita, che avrebbe dovuto essere ben consapevole dei condizionamenti esterni che avevano gravato sulla vicenda di Galileo e sulla sua «fortuna», disperdendo e riducendo al silenzio almeno quattro generazioni di post-galileiani.
Pur riconoscendo la «maggiore estensione» data dal Settecento ai «lumi spuntati nel secolo precedente», e pur ammettendo la diffusione universale del «sapore della filosofia» (due espressioni attentamente calcolate, ché «estensione» è alternativa esclusiva di «profondità", e «sapore» è sostituto epidermico di «gusto»), l'Andrés rilevava nel suo secolo «cert'aria di frivolezza ed un tuono fantastico e orgoglioso», «certi semi di corrompimento», che gli facevano prevedere «l'intiera rovina, anziché sperare l'avanzamento della letteratura». Fatta sua la geometrica predizione del correligionario Boscovich, l'Andrés ne radicalizzava il pessimismo, entrando nel coro di coloro che - in vari centri culturali della penisola, da Napoli a Torino - opponevano ai pericoli delle idee ultramontane (e della laicizzazione della cultura che ne derivava) il modello di un empirismo moderato di cui Galileo poteva essere presentato come persuasivo interprete. Infatti, è proprio come «maestro della logica fisicale», cioè di «quell'arte di fare le esperienze e le osservazioni, ch'è il fondamento e la base di tutta la fisica, e su cui con tanta sottigliezza e dottrina hanno poi scritto il Muschembroek ed il Senebier», che il filosofo e matematico del Granduca viene riproposto da Andrés all'imitazione degli Italiani.
Ciò che era avvenuto in Francia, qualche decennio prima, per Cartesio, recuperato dai Gesuiti perché utile al ripristino di vecchie categorie scolastiche, avviene in Italia per Galileo, ridimensionato a campione di quegli scienziati che, «rispettosi della loro professione», contenti di una loro «rozzezza» geometrica, potevano essere contrapposti a quanti, nel Settecento, volevano diventare «begli spiriti»: una velleità di cui, secondo Andrés, le scienze non possono che «risentire» negativamente, «giacendo languide senz'acquistare nuove forze, senza avere nuovo vigore». Più la scienza diventa pervasiva della vita sociale, economica, politica, più essa «si distende», e più diventa «leggera», visto che «non si può alquanto crescere di superficie, senza che altrettanto si perda di profondità».
Né esita, l'Andrés, a ribaltare su d'Alembert l'accusa che Galileo aveva a suo tempo rivolto ai Gesuiti del Collegio romano:
[. . .] i nostri analitici, senz'avere mai preso in mano il cannocchiale, senza neppure aver voltato uno sguardo verso le stelle, ardiranno a decidere francamente sopra i più ardui e più difficili punti dell'astronomia? [. . .]. Io medesimo ho inteso il Boscovich dire del geometra D'Alembert che vergognerebbesi egli di pigliare in mano il cannocchiale, riservandosi solamente alle speculazioni analitiche, e troppo superiore riputandosi a queste meccaniche operazioni.2
L'aver ridotto Galileo a sperimentatore puro, l'averlo fatto capostipite di una genealogia costituita dal Musschenbroek del De methodo instituendi experimenta physica e dal Senebier dell 'Art d'observer, non impedisce poi al gesuita spagnolo di addebitare a Galileo, come aspetto negativo e causa non ultima della sua scarsa «fortuna», il rifiuto a formare sistemi. Come tutti coloro che, nel Settecento, si oppongono alla fisica newtoniana, alla gnoseologia di Locke, all'ideologia degli enciclopedisti e dei loro seguaci, l'Andrés è favorevole ad uno spirito di sistema che non escluda la causalità divina, a una forma di metafisica razionale che autorizzi le ipotesi; contro la cultura coeva, responsabile del fatto che «si abbandonino i sistemi, che più conto non si faccia delle ipotesi», egli sostiene che «le ipotesi ben esaminate anno molto giovato allo scoprimento della verità; e il rigettarle che si fa presentemente, il chiamarle, che molti usano, veleno della ragione, e peste della filosofia, non può che portare ritardo al progresso delle scientifiche cognizioni».
Si veda, allora, come può ambiguamente configurarsi un ritorno a Galileo (a quel Galileo!), proposto centotrentaquattro anni dopo la morte dello scienziato toscano e la nascita di Newton: l'operazione, patrocinata da un membro della Compagnia di Gesù, può sembrare culturalmente ardita, spregiudicata, anche se le tensioni attorno al nome di Galileo erano certamente allentate, all'epoca, come dimostra l'edizione padovana delle Opere (comprensiva del Dialogo condannato, ancora escluso dall'edizione fiorentina del 1718) e anche l'episodio della tumulazione di Galileo in Santa Croce, che riscattava le esequie furtive del 1642. Ma la stessa operazione è suscettibile di ben diversa interpretazione, quando si pensi che la vera eredità galileiana - eredità di pensiero e di metodo - era quella passata attraverso la fisica di Newton; il ritorno diretto, e cioè l'arretramento antistorico al nostro scienziato, avrebbe costituito una remora all'ingresso e all'impianto in Italia dell'empirismo fenomenologico inglese: lo dimostra la situazione di relativa stasi della Toscana settecentesca, in cui la fedeltà al genio locale prolungava campanilisticamente un «geometrismo» nel frattempo battuto in breccia dall' «algebrismo» europeo e nord-italiano, e battuto anche nel campo delle scienze biologiche, dove al modello interpretativo geometrico si era ormai sostituito il modello chimico-fisico. La proposta di Andrés, da questo punto di vista, si configura come strumentalizzazione della figura e del mito di Galileo, per arginare più attuali e più temibili suggestioni transalpine.
Se abbiamo indugiato sul panorama della decadenza tracciato da un Andrés non è perché consideriamo particolarmente significativa la figura di questo autore (anche se grande fu la fortuna europea delle sue opere, e quindi notevole la loro corresponsabilità nell'avvalorare un'interpretazione riduttiva della cultura settecentesca); è anzi la statura media del personaggio che permette di assumere il suo giudizio come espressione di un'opinione largamente diffusa, anche se di parte. Traspare insomma da Andrés, meglio che da altri apocalittici di spiccata personalità, l'intenzione di costringere in una formula, ideologicamente condizionata, fenomeni complessi che - se inquadrati da una prospettiva diversa - autorizzano anche la formula opposta, «entusiastica»; quella di cui, per esempio, si fece portavoce Voltaire. Gli stessi elementi che, per Andrés, erano indizi di superficialità e di sperpero, sintomi di languore speculativo e di imminente rovina, potevano essere annoverati da Voltaire «tra le grandi superiorità di cui il nostro secolo gode»; la capacità dei filosofi di passare «dalle spine delle matematiche ai fiori della poesia», la loro disponibilità applicativa, la «razionalità profonda e chiara» da essi profusa «nei loro scritti e nelle conversazioni», il contributo da essi dato a «istruire e coltivare la nazione», sono proprio gli aspetti che rendono questi uomini «molto superiori a quelli del passato».
È un entusiasmo che coinvolge, oltre ai grandi interpreti, costantemente citati, anche attori non generici, ma fino ad oggi ignoti, della scena settecentesca. A rappresentarli, si può citare il medico veneziano Eusebio Sguario, salvato dall'anonimato, in questo volume, come «elettricista». Si può leggere, nella Prefazione del suo dialogo, l'elogio di quegli strumenti divulgativi e didattici (dizionari, repertori, manuali, «tavole», ecc.) che, lungi dall'essere indizi di superficialità e di scialo culturale, hanno il merito di «render più accessibili le scienze e meno schiffosa la fatica dello studio». «Non istà bene», secondo lo Sguario, che «certe scienze di loro natura rigide e austere siano trattate sempre con uno stesso metodo scientifico e dottrinale»; è legittimo usare, in vista del «publico interesse», tutti gli espedienti (ivi compresi «generi» letterari allettanti come il dialogo, la novella filosofica e galante, il romanzo) che possano trasferire questi argomenti «dai deserti e dalle cupe caverne nelle mani di gente di spirito e nelle amene conversazioni del secolo». I modelli di questa divulgazione culturale sono, ovviamente, Fontenelle e Pluche, Swift e quell'Algarotti il cui Newtonianismo sta ormai sulle «tavolette» delle dame, là dove esse «al lume d'un vetro sogliono far la rassegna delle loro bellezze, e dove mettono tanto studio ad accomodarsi il loro ciuffetto». Sembra un'introduzione frivola, ma l'impressione è subito smentita dalla sezione specificamente scientifica dell'opera, una vera e propria teoria generale dell'elettricismo, su modello newtoniano, che contempla anche le applicazioni mediche, e che - pur protesa verso tutte le esperienze europee coeve - non rinnega l'archetipo nazionale dell'Accademia del Cimento. Ma anche nella Prefazione, quando lo Sguario sembra perdersi nell'elencazione di quelli che oggi chiameremmo materiali didattici («figure fatte a bella posta di legno, di avorio, d'ebano», «piccioli arnesi» che educano «allettando» l'età puerile), è la lezione di Locke che dobbiamo leggere in trasparenza, ché quei materiali «imprimono fortunatamente le necessarie figure e i primi elementi nell'anima, così che le idee ne restano poi indelebili per tutto il corso della vita».
Gli stessi fatti consentono dunque a uomini schierati su diversi fronti culturali diagnosi diametralmente opposte. A volte la contraddizione è interna alla psicologia del personaggio: scetticismo, sfiducia nella ragione, senso della decadenza associato al mito vicinano del risorgere delle energie in un mondo giovane e innocente («Tutto qui va in decadenza [. . .] tutto si rifonda di nuovo in America») penetrano in un uomo come Ferdinando Galiani che, per molti aspetti, anche biografici, appartiene alla civiltà illuministica. Altre volte, come nel caso di Muratori, la contraddizione si articola nella parabola personale di chi, profondamente attratto dalle nuove idee, capace di dichiarare una sua rischiosa ammirazione per Locke («Niuna opera di metafisica a mio credere è uscita che apra più l'intelletto»), viene poi riafferrato dal timore delle conseguenze che la nuova scienza e la filosofìa della «materia pensante» possono avere per l'ordine costituito, e desidera «che il tanto sapere d'oggidì serva a edificare e non a distruggere, a fortificare e a dilatare, e non abbattere la religione, a sostenere e non a sconvolgere la giustizia».
Giustificabili, queste opposte interpretazioni, contraddizioni interne, incoerenze, nel momento in cui sono funzionali alla polemica e alla lotta, esse non possono essere acriticamente ereditate dagli storici del periodo, attualizzate come supporto di nuove ideologie, come pure è avvenuto in passato (ed è capitolo interessante della storia della critica). Certi schemi interpretativi parziali (nel doppio senso della parola) sono pericolosi anche perché, filtrati dalla manualistica, accreditano nella cultura media definizioni stereotipe dell'Illuminismo che non reggono alla prova dei «testi» e dei documenti. Chiunque abbia una cultura liceale è, per esempio, capace di definire il Settecento il «secolo della ragione», senza però dubitare che tale «ragione» è un'etichetta che copre le più diverse concezioni: c'è la ragione concepita come tecnica di ricerca applicata ai fenomeni, che mira dunque a separare la ricerca scientifica dalle sue implicazioni filosofiche, dalle ambizioni sistematiche, e c'è la ragione che invece indulge al «delizioso mestiere di fabbricar sistemi» (è un'espressione di Muratori) e trova nell'interpretazione geometrico-matematica della realtà fisica il mezzo per reintrodurre, accanto alle scienze fisiche e naturali, le scienze dello spirito. C'è la ragione che si chiede il «come» e il «quanto» delle cose, che si fonda sull'esperienza e «alza fabbrica» su questa (l'espressione questa volta è di Spallanzani) e c'è la ragione che si chiede il «perché" delle cose, «lavora a fil d'aria» le ipotesi (ancora Spallanzani) e si affida all'analogia. Insomma, c'è una ragione di marca baconiana-newtoniana-lockiana, e c'è una ragione di marca platonico-agostiniana-leibniziana. E ci sono poi contaminazioni e impasti sempre vari delle due «ragioni», realizzati dai singoli per intimo compromesso, o per dissimulazione, o per reticenza. Sicché, questa parola «ragione» è applicata a una realtà poliedrica di cui non è sempre facile individuare le facce.
Oggi prevale, in coloro che studiano il Settecento, l'esigenza di reperire fatti, di riportare alla luce documenti, carteggi, scritture inedite o a lungo dimenticate in biblioteche ed archivi. La tendenza, come scrive Paolo Casini,3 è quella a «deporre le presunzioni» (anche nel senso etimologico della parola), a recuperare una delle più importanti lezioni muratoriane: la storia «non tocca al nostro cervello il cavarla da' suoi gabinetti»; è necessario «raccogliere e distendere quello ch'è stato od è». A nulla servirebbe «il più vigoroso ingegno, ove mancassero i fonti esterni da trarne le notizie pertinenti all'istoria proposta. Se questi fonti si possono trovare, la filosofia vuol tutti, per quanto è lecito, avergli in sua balìa e attentamente considerarli».
Il tentativo che si sta compiendo in questo momento è proprio quello di far riaffiorare zone sommerse della nostra produzione scientifica seria, di liberarne altre da interpretazioni precorse e che - mano a mano che affiorano le testimonianze - si rivelano insufficienti o falsificanti la realtà, sia che tendano a diluire il periodo nei «pre-" e nei «post-" di una visione evolutiva, sia che tendano a caratterizzarlo originalmente, come momento di «mutazione» storica. Non si tratta di rinuncia alla descrizione e interpretazione dei fatti, di rassegnazione al particolare erudito per impotenza sintetica; è piuttosto coscienza del fatto che una sintesi (come ci insegnano proprio i nostri scienziati) deve operare sul numero maggiore possibile di dati, e che questi - allo stato attuale - in gran parte mancano; e mancano soprattutto per quanto riguarda la produzione fisico-matematica, ben più sotterranea della produzione anche seriamente divulgativa, ben meno vistosa di quel suo epidermico succedaneo che è la «predicazione dal pulpito» poetica.
Anche questo volume partecipa, nei modi che gli sono consentiti, di questa intenzione «filologica». Non sostiene di lasciar parlare i fatti, in questo caso i «testi», ché sarebbe illusione o finzione; è sufficiente l'operazione di selezione di autori e opere, il «taglio» di queste ultime, per reintrodurre il soggetto che sceglie e taglia secondo certe convinzioni, indulgendo più o meno consapevolmente a certa sua, ineliminabile, faziosità. Né rinuncia, in sede di introduzione, a fornire una chiave di lettura dei testi che sia soprattutto giustificazione delle scelte o almeno dichiarazione dei criteri con cui queste sono state operate. Mancherà però a questo nostro panorama introduttivo ogni presunzione definitoria; nella pagine che seguono proporremo una serie di osservazioni che, emerse dalla lettura dei testi, avranno nei testi stessi (in quelli selezionati per il volume e in quelli a cui si rinvia) un riscontro immediato e una verifica da parte di chi legge.
Prima di tutto, e senza aderire a nessuna «periodizzazione», diciamo che c'è continuità, fra Seicento e Settecento, per quanto riguarda temi di ricerca, aspetti teorici e metodologici, forme di scrittura letteraria. A nostro parere la coerenza è maggiore nell'àmbito delle scienze naturali (nonostante alcune rilevanti conversioni di metodo) piuttosto che in quello delle scienze fisicomatematiche. Avvalora questo giudizio anche la consapevolezza - esplicita, in certi «filosofi naturali» - di appartenere a un filone tradizionale, di rispettare pur innovandoli certi «modelli» nazionali. Spallanzani, per esempio, considera sé stesso il quarto frazionista di una splendida staffetta iniziata da Redi e continuata da Malpighi e da Vallisneri. Ma su questo e, più in generale, su quegli elementi di continuità, che facevano dire recentemente a Mirko Grmek «Le siècle des Lumières développe les programmes de recherche inventés par la Révolution scientifique de l'àge baroque. Le XVII6 siècle a semé, le XVIIT fait murir, le XIXe cueillira les fruits!», torneremo in séguito, in fase di presentazione dei singoli autori.
Preferiamo insistere sui motivi di discontinuità, di cambiamento, che pure sono abbastanza netti. Ciò non significa esasperare la dinamica rivoluzionaria della scienza, ma semplicemente anticipare quegli elementi che, essendo di contrasto, più servono a caratterizzare un periodo. Ed è procedura legittimamente applicabile a qualsiasi periodo, data la velocità con cui muta il quadro epistemologico, cioè il punto di vista da cui l'uomo inquadra scientifica- mente-filosoficamente il mondo e se lo rappresenta. È stupefacente - ci fanno notare i biologi -4 come, rimanendo praticamente immobile l'«oggetto», data l'enorme lentezza della sua storia, e rimanendo fisse le funzioni logiche del «soggetto» (c'è ben poca differenza di potenzialità logica fra un neonato del paleolitico e un neonato contemporaneo, fra un membro di società primitive e un membro di società sviluppate), siano invece cosi rapidi i mutamenti del quadro culturale che, di fatto, si basa sull'utilizzazione di quelle funzioni logiche costanti. Mentre l'evoluzione delle capacità mentali si misura con i tempi della specie, la velocità di mutamento del quadro culturale ha l'ordine di grandezza della memoria del singolo, e quindi ritmi generazionali. È una considerazione che ci fa accettare con più fiducia certi ribaltamenti del quadro osservativo-operativo della realtà, e cioè della scienza, nel giro di pochi decenni.
Cominciamo con un «ribaltamento» che può appoggiarsi anche a dati quantitativi. Chi consulti l’indice dei nomi che conclude questo volume e lo confronti con l'analogo indice degli Scienziati del Seicento (da noi curati per questa collana), potrà constatare la diversa frequenza con cui ricorrono, nei due volumi, i nomi di autori classici, greci e latini. L'indice del volume secentesco testimonia di ben 72 ricorrenze del nome di Aristotele (e di citazioni da sue opere) nei testi degli scienziati; numero che sale a 153 se includiamo i rinvii alle introduzioni e alle note, che non sono sempre «doppioni» del testo commentato perché spesso esplicitano citazioni allusive o ricollegano al filosofo greco luoghi che lo utilizzano tacitamente come fonte. I due numeri corrispondenti, nel volume settecentesco, sono rispettivamente 6 e 12. Lo stesso confronto, per Platone, ci dà le coppie numeriche 22 e 44 per il volume secentesco; 3 e 16 per quello settecentesco. Per Democrito: 16 e 30 (nel volume secentesco); 3 e 3 (nel volume settecentesco). Per Archimede: 20 e 31 (nel volume secentesco); 3 e 6 (nel volume settecentesco). Per Plinio: 38 e 80 (per il volume secentesco) contro 11 e 20 del volume settecentesco.
Non vogliamo insistere con questa ridda di numeri, anche perché non ci sfugge che il dato da essi offerto, pur interessante, non è dimostrativo, data la limitatezza del campione e la sua non calcolata rappresentatività; i numeri possono solo servire a mettere in luce alcune linee di tendenza, ovviamente da verificare con altri strumenti. Vogliamo però precisare che i nostri esempi non sono scelti astutamente, dal momento che il crollo di citazioni si verifica puntualmente, nel passaggio dal Seicento al Settecento, per tutti i filosofi e scienziati «antichi».
L'osservazione si completa se si controlla il numero di autori greco-latini citati nell'uno e nell'altro volume: nel volume secentesco, a differenza di quello settecentesco, figura quasi tutta la letteratura filosofico-scientifica dell'antichità, testimoniando di una sua presenza massiccia e costante all'interno della biblioteca mentale dei nostri scienziati.
Si potrebbero naturalmente fare anche delle considerazioni più sottili e differenziali, all'interno della tendenza documentata dai nostri numeri. Per esempio, nel Seicento, Aristotele è presente in tutta la sua poliedricità di pensiero e di opere; nel Settecento sarà soprattutto il biologo (e, per Spallanzani, lo splendido scrittore del De animalium historia) ad essere ricordato. Ancora: per quanto rimanga costante la tendenza al calo di riferimenti all'«autorità" classica, questo è certamente più netto nel caso di Aristotele che nel caso di Plinio; il che si può giustificare con la minore implicazione filosofica dell'autore latino, ma anche pensando che lo scrittore della Naturalis historia serviva da riferimento terminologico per autori fortemente interessati alla classificazione e alla nomenclatura, e quindi disponibili a stabilire corrispondenze fra «nomi» emergenti dalla tradizione latina, «nomi» assegnati dai vari sistematici moderni, «nomi» forniti dal lessico locale (un lessico che si impone, nel momento in cui si afferma la ricerca sul campo, aperta dunque alle testimonianze terminologiche di pescatori, coltivatori, ecc.).
Ma non ci avventuriamo in queste distinzioni più sottili, che dipenderebbero sempre più pericolosamente dalla qualità del campione. La conclusione che invece ci sembra legittimo trarre da questo confronto è che, mentre il Seicento dialoga fittamente con il passato remoto, il Settecento non è più coinvolto in questo dialogo diacronico. Il fatto che si tratti di un dialogo polemico, per quanto riguarda il Seicento, non toglie importanza al rilievo; serve anzi a individuare il motivo per cui esso si spegne, nel Settecento. Gli scienziati del XVIII secolo danno per scontata la vittoria contro le «autorità" del passato; gli antichi compaiono come vinti, non come avversari: combattere contro Aristotele sarebbe ormai una battaglia di retroguardia. Spallanzani conferma questa interpretazione:
L'autorità, e la credulità sono stati que' due massimi ostacoli, che per tanto tempo hanno contrastato ai progressi della Storia della Natura. Può dirsi essere poco più di mezzo secolo da che, scosso il giogo della prima, e sbandita la seconda, questa bellissima e nobilissima scienza ha cominciato ad esser coltivata dagli uomini come conveniva. Ma uno spazio di tempo si brieve di quante inaspettate verità, di quante interessanti cognizioni non è egli stato ferace! Quale vivissima luce non hanno accesa le osservazioni e le sperienze ne' seni più cupi, e più tenebrosi della mineralogia, della botanica, della zootomia, e dell'altre finitime scienze, onde risulta la naturale filosofia? [. . .] cosi che tutti gli andati secoli, non che quello di Aristotele e di Plinio, dire si possono una nascente aurora rispetto al secolo decimottavo.5
Se autori greci e latini ricorrono nelle polemiche degli uomini del Settecento è perché essi vedono riaffiorare teorie e sistemi dell'antichità in ricercatori moderni, restauratori delle «forze occulte» e delle «virtù" ormai espunte da una scienza tutta sperimentale. Se Spallanzani rievoca le «forze plastiche» degli antichi è per combattere la «forza vegetatrice» di Needham e di Buffon, «null'altro fatto avendo i due viventi scrittori che ornare una cosa già antica di un nuovo nome». È per demolire Vallisneri iunior, che Spallanzani scomoda Aristotele:
[. . .] non può averci che un uomo imbrattato ancora dai pregiudizi delle antiche e garrule scuole, come per atto di esempio un Vallisneri juniore, le cui delizie sono di richiamar dal sepolcro, proteggere, e carezzare le rugginose opinioni di Aristotele, e suoi seguaci, a dispetto di essere state confutate con tanta gloria dall'immortale suo padre, il quale ignori, e sapere non voglia i vantaggi amplissimi che ridondano alla medica sapienza dalla notomia comparata.6
È un giudizio ribadito, con la maggiore energia e espressività consentita dallo stile epistolare, in una lettera a Caldani:
Seguita più a scrivere quelle sue eterne inintelligibili Dissertazioni in cui vuole conciliare Platone con Galileo, e Aristotele con l'illustre suo padre? Anni sono me ne fece sentire alcuni squarci. Oh che robaccia! Oh che robaccia!7
Quando Spallanzani non cita di rimbalzo Aristotele, e lo propone all'imitazione, è soprattutto come maestro di lingua e di stile:
Fra i libri [. . .] che vi siete proposto di leggere [. . .] mettetevi anche la Storia Naturale degli animali di Aristotele. Oh, amico caro, credetemi che Buffon non ha il torto quando favella così bene di un tal libro. Toltone alcuni difetti che sono più di quel tempo che suoi proprj, egli è grande, e poi grande [. . .] io leggo questa Storia nel suo originale, e non potrei dirvi quanto mi piace.8
Nonostante questo apprezzamento, emerge con chiarezza, da Spallanzani e dagli altri scienziati coevi, il definitivo rifiuto della tradizione classica e della soggezione ai grandi nomi dell'antichità:
[. . .] il genio moderno vantasi immune da que' lordi e abbominevoli pregiudizii che con tanto svantaggio delle filosofiche discipline bruttamente oppresso avevano e guasto un lungo fascio di secoli oltrepassati, di prestar fede cioè, senza cercare più addentro, alle asserzioni di uomini venerati dal tempo e dalla fama, nulla meno oggigiorno rispettandosi che l'autorità de' gran nomi.2
Ma torniamo ai nostri Indici, e ai numeri, per individuare un altro mutamento che, questa volta, interessa soprattutto la concezione formale della scrittura scientifica. Se controlliamo l'indice degli Scienziati del Seicento. vediamo che sono molto numerose le citazioni da poeti greci, latini e italiani. Virgilio, per esempio, è citato 17 volte nei testi (e, complessivamente, 32 volte nel volume); le citazioni diventano, rispettivamente 1 e 4 in questo volume settecentesco. Dante è citato esplicitamente 26 volte, dai nostri scienziati del Seicento; un numero che sale a 32 se vi aggiungiamo altre sei citazioni implicite e allusioni al testo dantesco, rivelate dalle note; in questo volume di Scienziati del Settecento ci sono soltanto tre rinvii a Dante.
Il fenomeno di appiattimento delle citazioni «letterarie» è costante; potrà esserci qualche nome di poeta o di scrittore per cui il calo è meno vistoso, ma esso rimane sempre netto. E questo ci dice qualche cosa sulla coscienza linguistica dei nostri scienziati che, con il passare del tempo, accentuano la specificità della loro scrittura: a una standardizzazione di tipo terminologico e morfosintattico, a una specializzazione dei livelli stilistici (calcolati in rapporto alla natura dell'argomento, alla previsione del pubblico, al «genere» prescelto), si associa una espunzione sempre più decisa dell'intarsio letterario, del «fioretto» poetico. Benché «letteratura» abbia ancora, nel Settecento, la sua valenza ampia, inclusiva della produzione scientifica, le «belle lettere» hanno ormai - agli occhi degli scienziati - un loro perimetro. Se essi attingono da quell'area è soprattutto nel corso di scritture polemiche, là dove la citazione può contribuire alla vivacità del tono, collaborare alla funzione ironica del testo; così fa Spallanzani nelle lettere contro lo Scopoli.
Così fa anche, Spallanzani, in opere tecniche, quando però, attivando un piano del discorso diverso da quello descrittivo, instaura una specie di dialogo con immaginari lettori e critici. Nella specie di «oasi» che si viene così a creare, lo scienziato può anche permettersi la citazione petrarchesca. Per esempio, dopo aver parlato a lungo di rane e di rospi, Spallanzani si ferma un momento a considerare che «forse taluno di pasta un po' tenera o troppo dolce di sale, all'aver sentito in questa operetta ragionar sovente di rospi, preso avrà motivo di ributtarsi, per essere animali apparentemente disaggradevoli e nauseosi». Replicando a questo ipotetico ribrezzo, Spallanzani attribuisce ad ogni creatura «per quanto vile, o disgustosa ella appaia, il suo bello, il suo grande, l'oltremirabile suo, per esser fattura del Supremo Architetto» e, a rinforzo della sua opinione, cita i due versi «Tutte le cose di che 'l mondo è adorno / uscir buone di man del Mastro eterno». Ma l'esempio stesso, per le modalità con cui s'inserisce nel testo, conferma l'eccezionalità della citazione letteraria.
Indizio di una accresciuta consapevolezza della specificità anche formale della scrittura scientifica, questa vendemmia di citazioni è forse anche il portato di una nuova canalizzazione della comunicazione scientifica: quella costituita dai «giornali», dagli «atti» delle accademie, in una parola da quei mezzi di comunicazione, attivati proprio nel Settecento, che impongono una scrittura essenziale, concentrata sugli aspetti euristici e tecnici della ricerca, e quindi corrosiva di elementi superflui quali potevano essere gli intarsi e gli addobbi letterari.
Passiamo ora a una terza osservazione: già nel Seicento l'attenzione degli scienziati italiani è tutt'altro che confinata nel perimetro nazionale. Gli interlocutori di Galileo, di Torricelli, di Magalotti, di Malpighi, di Bellini, ecc. sono spesso interlocutori europei. Se contiamo i nomi stranieri citati dai nostri scienziati del Seicento, quali compaiono nell'indice del volume ricciardiano, essi ammontano a circa un centinaio. Ma il numero cresce del cinquanta per cento (ed oltre) nel Settecento. Il paragone diventa ancora più istruttivo se si controlla la frequenza con cui compaiono i singoli nomi, e quindi la continuità di un colloquio scientifico che ha ormai latitudine europea. Al dialogo prevalentemente diacronico del secolo precedente, il Settecento sostituisce dunque un dialogo sincronico. I moderni, ormai saldamente montati sulle spalle del gigante, parlano fra loro, da un paese all'altro d'Europa. Non è certamente un rilievo nuovo, questo; ma il dato numerico, per quanto siamo ben consapevoli della modestia del nostro «pallottoliere», collabora a individuare la ricca polifonia del «concerto europeo» e la presenza consistente dei nostri scienziati in quell'orchestra.
Un'altra considerazione può essere autorizzata dalla localizzazione geografica e culturale degli autori compresi nel volume secentesco e in quello settecentesco; si tratta di un rilievo meno probante dei precedenti, perché ancor più condizionato dalla nostra «scelta» di testi. Comunque, con alcune precisazioni che apporteremo in séguito, la considerazione può essere almeno proposta. Nel volume del Seicento ben undici scienziati su diciannove sono toscani di nascita, di vita, di cultura e di «scuola»; altri due, Castelli e Borelli, pur non essendo toscani di nascita e pur avendo a lungo vissuto e operato fuori Toscana, sono intimamente legati a Galileo per ragioni di scuola; e la stessa considerazione si applica al romano Cesi e al lombardo Cavalieri. Malpighi e Montanari sono emiliani, ma in rapporto così significativo con la scuola toscana che il primo di essi, soprattutto, può essere considerato uno degli interpreti più fedeli di Galileo, almeno dal punto di vista metodologico.
Ammettiamo, naturalmente, che questa concentrazione in Toscana dipende in larga misura dalla faziosità delle scelte; più che indizio del primato scientifico di questa regione, essa è dunque conseguenza della nostra convinzione che il baricentro culturale italiano è, nel Seicento, interno al quadrilatero Firenze-Pisa-Livorno-Arezzo. Nel volume settecentesco, se escludiamo il Boscovich, cittadino del mondo e operoso soprattutto a Roma, tutti gli autori sono settentrionali e si dispongono su un asse culturale che attraversa la pianura padana da Milano a Venezia, passando per Pavia, Reggio Emilia, Modena, Bologna, Padova. Anche in questo caso molto dipende dalla parzialità delle scelte: parzialità in parte imputabile ai curatori del volume, in parte imputabile al fatto che certi autori, che pure avrebbero meritato l'inclusione, sono presenti a diverso titolo in altri volumi della collana, e infine imputabile anche a esigenze editoriali che, a un certo punto, ci hanno imposto di ridurre il numero degli autori già scelti e commentati; nella dolorosa amputazione è stato coinvolto, oltre al torinese Giambattista Beccaria, anche il toscano Targioni Tozzetti. Siamo comunque coscienti del fatto che certe esclusioni di scienziati toscani, romani e napoletani (per identificare solo tre centri particolarmente fervidi) possono essere considerate alterazioni del panorama geoculturale della scienza settecentesca. Ciò nonostante, dobbiamo riconfermare che le assenze più dolorose, imposte dai limiti del volume, sono - ancora una volta - quelle di nomi settentrionali: Morgagni, Caldani, Scarpa, Lagrange, Lorgna, Ruffini, Malfatti, Gabriele Manfredi, Zanotti, Poleni, Beccari, il Fontana operoso a Pavia, ecc.
Tutto considerato, ci sembra dunque di poter dire che si produce, nel Settecento, una vera conversione diocleziana dell'asse culturale. Se nel Seicento esso corre longitudinalmente, da Venezia a Napoli e oltre, imperniandosi sulla Toscana, nel secolo successivo esso si orienta nel senso dei paralleli, andando dalla Torino di Beccaria e di Lagrange a Venezia, e funzionando come collegamento dell'Italia, da una parte, con l'oriente di Boscovich e della cultura petropolitana, dall'altra parte con la Francia, con la Svizzera, con la Germania, con l'Olanda e, naturalmente, con l'Inghilterra. Il perno di questo nuovo asse trasversale è probabilmente Bologna, non solo per gli scienziati che bolognesi sono o che a Bologna fanno capo per ragioni di studio e di ricerca, ma anche perché in quella città esiste un Istituto delle scienze che continua, nel Settecento, la tradizione delle grandi accademie secentesche. Più affiorano le testimonianze, più si precisano i contorni dell'attività di questo istituto, più esso appare importante, pur nella situazione estremamente policentrica e fittamente canalizzata della ricerca scientifica in tutta l'Italia del Nord.
Certo è che, nonostante gli indizi che puntano su Bologna, esiste per il Settecento una maggiore difficoltà, rispetto al secolo precedente, nel rilievo di certe mappe culturali. La proliferazione dei centri di cultura e di ricerca scientifica, la progressiva specializzazione disciplinare, la prospettiva applicativa tipica del secolo e che, per certe discipline quali l'idraulica, induce gli scienziati a una mobilità accentuata, gli stessi effetti di risonanza creati attorno alla ricerca dalla divulgazione e dalla produzione letteraria di argomento scientifico, ostacolano la ricezione di segnali precisi. E proprio la ricchezza di fatti, di iniziative e di manifestazioni che appartengono alla scienza o che le sono in varia misura connesse, il rivoleggiare della cultura scientifica nelle piccole accademie, attorno alle redazioni dei giornali, nei salotti e nelle conversazioni, che a un certo punto crea fenomeni di interferenza e di rimbombo.
I segnali emessi, nel Seicento, dalla Toscana di Galileo, dalla Roma dei Lincei, dalla Napoli degli Investiganti, dalla Firenze del Cimento, sono segnali intensi, precisi; nonostante i suoi chiaroscuri e i suoi sfumati, il Seicento è uno di quei secoli in cui alcune, straordinarie voci prevalgono decisamente sul coro. Se è vero che il quadro culturale varia con il ritmo delle generazioni, è però vero che ci sono secoli come il Seicento in cui le variazioni si manifestano come eventi improvvisi, capaci di mutare sismicamente il panorama, e ci sono secoli, come a noi appare il Settecento, in cui il cambiamento è bradisismico: avviene cioè per variazioni addizionali e, se il totale rimane vistoso, gli addendi sono modesti.
Spallanzani aveva ragione a vantare i progressi della «mineralogia, della botanica, della zootomia», ecc. Potremmo anzi allungare il suo elenco giacché in quasi tutte le branche scientifiche avviene qualcosa di nuovo: si pensi al calcolo infinitesimale in matematica, all'ingresso del modello chimico-fisico nelle scienze biologiche, allo sviluppo dell'elettrologia, all'impianto della chimica su basi scientifiche, ai progressi della medicina nel campo del «contagium vivum», della medicina del lavoro, della chirurgia, ecc. Ma, tutto considerato, il panorama - pur nella ricchezza delle sue componenti - rimane più piatto che nel secolo precedente.
Anche l'Istituto di Bologna, a cui prima abbiamo assegnato un ruolo importante, correttivo della frantumazione «epistolare» della comunicazione scientifica, appare più come luogo di confluenza che come centro di propulsione. Già il Cimento aveva avuto, per volontà del suo fondatore mediceo, una fisionomia meno spiccata delle altre accademie secentesche, accogliendo nel «dialogo» (rigorosamente agganciato alle esperienze) anche i rappresentanti della scienza non galileiana; per esempio quel Rinaldini che Borelli chiamava «Simplicio», in lettere private, mostrandosi insofferente della funzione di freno esercitata dal personaggio sul gruppo fiorentino. L'Istituto di Bologna si rivela, in questo senso, ancora più tollerante ed accogliente. Nonostante il sicuro newtonianismo di personaggi centrali come Zanotti, Eustachio Manfredi, Algarotti, è sintomatico che il primo tomo dei Commentari ospiti, accanto alle osservazioni astronomiche di Manfredi e alle esperienze ottiche di Algarotti, la scrittura di un «Simplicio» antinewtoniano, il Rizzetti.
Ma qui il discorso ci conduce al fenomeno, già individuato ma forse non ancora sufficientemente esplorato, della reticenza, della dissimulazione prudente, che accompagnava l'impianto della scienza di Newton e della gnoseologia di Locke; un Newton che è penetrato (magari attraverso il filtro olandese) abbastanza rapidamente, se è già utilizzato da Vallisneri per la spiegazione del mutamento di colore dei camaleonti; un Locke che riscuote il consenso delle menti più illuminate ed è assunto da Spallanzani come maestro di metodo:
In filosofia non dobbiamo avere desideri
La preoccupazione degli scienziati doveva essere intensa, soprattutto in quelle regioni d'Italia che più direttamente erano sottoposte al potere romano e al controllo delle autorità ecclesiastiche. Chi legge lettere di Manfredi a corrispondenti romani (ancora inedite e conservate nell'Istituto delle scienze di Bologna) si rende conto di quanto fosse difficile ottenere l'imprimatur oppure stampare le proprie opere alla macchia, evitarne la messa all'Indice. Analoghi sintomi di disagio sono stati recentemente messi in luce nello Zanotti che inviava a Roma, per l'approvazione, il primo tomo dei Commentari dell'Accademia. Non aveva potuto «sfuggire», lo Zanotti, di fare una serie di ammissioni pericolose: per esempio di «esporre» l'ipotesi copernicana, dichiarandola «ingegnosa ed atta a spiegare i fenomeni della natura», ma soprattutto non aveva potuto fare a meno di «parlare con rispetto e con carità dei moderni». Pertanto il timore, manifestato dallo Zanotti in una lettera ad un amico romano, è che i revisori lo «obblighino a riempire il libro di atti di fede» e a respingere come eretiche opinioni che lo Zanotti afferma di non aver mai reputato tali.10
Rimase vigile, per tutto il secolo, la sorveglianza ecclesiastica sulla stampa: non solo continuavano ad essere all'Indice Copernico, Galileo, Keplero, Cartesio, ma si aggiungevano alla lista i nomi di Fontenelle, di Locke (il cui Saggio fu condannato nel 1734), dell'Algarotti del Newtonianismo per le dame. Non sfuggirà alla severità censoria neppure lo Spallanzani della fecondazione artificiale, anche se la notizia non scuote eccessivamente lo scienziato «sapendosi da tutto l'universo quanto grande sia tuttora l'ignoranza che domina in Roma in fatto di filosofia»; Spallanzani spera anzi che il suo libro acquisti, grazie alla condanna, «un pregio che non ha».
Anche l'uscita postuma delle Instituzioni astronomiche di Manfredi dimostra che le «vicende» sofferte dall'autore (e a cui allude lo Zanotti, nella lettera sopra citata) non erano di facile soluzione, nonostante l'indubbia abilità diplomatica che gli accademici bolognesi possedevano, data la loro esperienza contrattuale con le autorità romane e i rapporti di amicizia che li legavano a importanti personaggi di quell'ambiente. Un certo scalpore doveva aver fatto, nella Bologna di Manfredi, allievo di Grandi, anche la disavventura capitata ad un altro allievo pisano di Grandi, quel Giovanni Alberto De Soria che, nel 1732, era stato messo sotto inchiesta con l'accusa di ateismo, per aver insegnato le dottrine inglesi sulla fisica.
Né bisogna dimenticare la funzione di freno esercitata, per gran parte del secolo, dai Gesuiti, non solo in forme di antagonismo diretto, ma in quelle - più subdole e incisive - di un monopolio pedagogico che Paolo Frisi deplorava (nell’Elogio di Cavalieri), scagliandosi contro quella «società d'uomini» che avevano osato assumere «la direzione delle pubbliche scuole», ma «non avendo né lumi sufficienti, né viste abbastanza grandi [...] anzi facendo servire gli istessi studi ad altre viste particolari […] contribuirono sistematicamente a fissarne la semplice mediocrità».
Al quadro già grigio che abbiamo tracciato possiamo aggiungere altre due pennellate epistolari; esse mostrano la preoccupazione di maestri e amici bolognesi nei confronti di un troppo ardito Algarotti. Già nel 1733 lo Zanotti scriveva a Manfredi che il giovane era «ben invogliato dal calcolo integrale, dalla meccanica», ma aveva «una certa febbre lenta di Lockismo» che evidentemente preoccupava il maestro più degli accessi di newtonianismo a cui l'Algarotti era soggetto. Nel 1737 Manfredi, scrivendo allo stesso Algarotti, gli raccomanda la prudenza: non solo per tutela di sé stesso, ma anche nella previsione che diffidenze o condanne suscitate dalla sua opera possano «inviluppare» anche gli amici bolognesi «nella medesima odiosità, la quale da chi vive in Italia e ama la sua quiete non può riputarsi leggera».
È certamente per amore della «quiete» che gli astronomi italiani, anche se residenti all'estero come Cassini, anche se stranieri importati in Italia come Jacquier e Le Seur (commentatori dei Principia di Newton), non osarono affermare che «la terra si muove» se non ipoteticamente e protestando il loro ossequio al contrario decreto della Chiesa. E, forse, per amore della «quiete» che i nostri matematici si rifugiarono nel calcolo, apparentemente insensibili a una battaglia per il rinnovamento delle idee e per la libertà della ricerca.
La repressione non raggiunse le forme persecutive del Seicento, ma certamente costituì una remora potente, che lo storico del Settecento non deve sopravvalutare, ma neanche sottovalutare. Se consideriamo il timore che gli scienziati italiani dovevano avere, e quindi le forme di autocensura che essi dovevano esercitare, nell'Italia di Giannone, dobbiamo dare ragione a Pietro Verri quando, riecheggiando Frisi, scriveva al fratello Alessandro, nel 1778: «gli oltramontani non debbono calcolare il punto a cui c'innalziamo; ma la somma degli ostacoli superati da un italiano, per calcolare di che siamo capaci. Noi siamo nella necessità di fare un mistero delle nostre fatiche e darle al pubblico giudizio lontano da noi per sottrarci da più noiose e amare dicerie».
Certamente gli «oltramontani» non avevano un'alta opinione della scienza italiana nel suo complesso, anche se - ovviamente - facevano alcune luminose eccezioni; questa consapevolezza affiora spesso nei nostri scienziati, soprattutto in quelli che, come Manfredi (membro della Royal Society e nodo di una rete di rapporti internazionali), si sentivano meno coinvolti dalla squalifica (cfr., in questo volume, a p. 667). Né c'è da meravigliarsi, se si pensa che la nostra immagine esterna non doveva essere ben rappresentata da personaggi come l'abate Conti, newtoniano in Inghilterra e leibniziano altrove; né questa immagine doveva essere stata abbellita dagli scritti antinewtoniani di un Campailla o di un Rizzetti, severamente smentito, quest'ultimo, dalla Royal Society.
C'è da dire che anche la classe scientifica italiana, nei suoi rappresentanti più «esportabili», non faceva molto per dare di sé stessa, complessivamente, una buona impressione verso l'esterno. La polemica che nel Seicento, pur avendo punte personali, investiva essenzialmente le impostazioni filosofiche e scientifiche, si sviluppa, nel Settecento, soprattutto sul piano del prestigio individuale: un prestigio che, spesso, si difende gettando il discredito su connazionali. Volta denigra Galvani; Spallanzani denigra Volta e quasi tutti i suoi colleghi pavesi, presenta sotto tinte fosche tutta l'accademia italiana e non risparmia la «nobiltà» accusandola di ignoranza e di cattivo gusto letterario.
Ciò nonostante furono molti gli scienziati italiani conosciuti e apprezzati all'estero. Oltre a quelli iscritti alla Royal Society (di cui ha recentemente trattato Marie Boas),11 dobbiamo almeno ricordare un Marsili, pubblicamente elogiato da Newton in una seduta dell'Accademia inglese; Fontenelle ammirò senza riserve l'astronomia di Manfredi, considerato anche da Cassini l'unica figura solida nel «vuoto» da lui lasciato in Italia; Voltaire apprezzò la scuola medica emiliana e fu grande ammiratore di Spallanzani, scrivendo anche un opuscolo anonimo sulla rigenerazione della testa delle lumache che riempì di gioia il nostro scienziato (anche in vista dell'aumento di notorietà che gliene poteva provenire). Haller «assegnò due stelline» (l'espressione è di Spallanzani) a Morgagni, e stimò Spallanzani tanto da dedicargli un volume della sua opera fisiologica. Inutile citare gli amici ed estimatori svizzeri dello scienziato scandianese perché la sua fama fu latamente europea e varcò il secolo, anche nella dimensione letteraria: Alfred De Musset lo citò infatti nella Confession d'un enfant du siècle e Victor Hugo mise un tomo dei Viaggi di Spallanzani nelle mani del protagonista di Le dernier jour d'un condamné à mort. Leibniz ebbe rapporti epistolari con molti scienziati italiani, fra cui Vallisneri e Ramazzini. Kant fu lettore di Boscovich in cui trovò notevoli intuizioni de spatio ac tempore. Gaetana Agnesi suscitò l'ammirazione di un De Brosses ed ebbe l'onore, davvero raro, di traduzioni inglesi e francesi.
Se elenchiamo queste attestazioni di stima non è certamente per amor patrio; è piuttosto per sottolineare il contrasto fra esse e il discredito in séguito gettato dai nostri storici, fra Ottocento e Novecento, sull'«arcadia della scienza» italiana, incapace di sostenere confronti con la scienza europea. L'idealismo fece il resto: puntando soprattutto su quei campioni della «scienza nuova» delle «nazioni» (Vico, Muratori), che gli erano certamente più congeniali di scienziati sperimentali come Vallisneri, Spallanzani e Volta, esso espunse dal panorama settecentesco proprio la prosa scientifica. Anche il recente risveglio di studi filosofici, storici, letterari, che ha riportato alla luce tanti aspetti della cultura settecentesca, ha scartato o aggirato (tolte luminose eccezioni) il settore delle scienze fisico-matematiche e sperimentali. Una lacuna ormai segnalata da più parti e che sta stimolando interessanti programmi di ricerca.
Tutto sta nel ricercare le tracce della «settemplice luce» newtoniana non nel chiacchiericcio dei poeti, ma nella Istoria del camaleonte di Vallisneri, nelle Instituzioni astronomiche di Manfredi, nei manuali newtoniani studiati da Paolo Casini; per esempio in quella introduzione del Genovesi all'edizione degli Elementa physicae di Musschenbroek che, nella Napoli del 1745 (che aveva già conosciuto l'opera dei De Martino), esponeva «le idee di Newton riguardo a «Dio, lo spazio, la materia, il moto» [. . .] in significativa contrapposizione ai sistemi di Descartes e di Leibniz, con l'aggiunta di un suggerimento rivelatore: «Si legga Voltaire, Lettere filosofiche, XIV»».12
Tutto sta nel ricordare che la personalità poetica di Eustachio Manfredi è secondaria rispetto a quella scientifica e che il vero Mascheroni è quello della Geometria del compasso, non quello dell'Invito a Lesbia Cidonia (grazie a cui il nome di questo matematico compare sui manuali di storia letteraria); tutto sta nell'accorgersi che, accanto a Eustachio, c'è il fratello Gabriele, certamente di non amena lettura, ma più importante dal punto di vista scientifico; e così via.
Non può mancare, in questa introduzione, qualche accenno al problema linguistico, tutt'altro che marginale per scienziati che abbiano, come diceva Spallanzani, lo «spirito del Filosofo» e non «l'istinto del Meccanico».
C'è, prima di tutto, il problema della scelta fra italiano e latino, complicata - in questo secolo - dal presentarsi di un'altra alternativa, quella del francese: una possibilità di cui approfitteranno Lagrange (ovviamente), ma, meno ovviamente, Marsili e Volta. Ho avuto già occasione di segnalare, in altra sede, che in effetti tutte e tre queste possibilità furono presenti a Spallanzani, all'inizio della sua attività di scrittore, e che non fu facile, per il nostro scienziato, decidersi.
Scrivendo a Bonnet, Spallanzani asseriva che la scelta della lingua «pour un italien, parlant d'un livre de Philosophie, c'est un véritable embarras»; il francese era una prospettiva attraente perché avrebbe consentito la più ampia circolazione europea, ma il nostro scienziato temeva le reazioni campanilistiche dei suoi connazionali: «si un italien s'effor a d'imprimer un livre dans cette langue, ses compatriotes, pardonnez-moi l'expression, l'accableroient de coups de pierres». Delle due altre lingue, Spallanzani confessa che l'italiana gli darebbe «moins de peine que l'autre»; essa inoltre gioverebbe alla diffusione nazionale delle opere, pur nuocendo a quella europea. Bonnet risolse il dubbio di Spallanzani (che proprio con questa speranza doveva averglielo manifestato): sconsigliò il francese perché lo scienziato italiano non lo scriveva correttamente (questo è il succo di un discorso leggermente più eufemistico); suggerì l'italiano contro il latino perché «c'est bien assez d'avoir à s'occuper des choses, il ne faut pas avoir à s'occuper encore des mots»; ma, soprattutto, trovò a Spallanzani un traduttore in francese: quel Jean Senebier, bibliotecario e «filosofo» egli stesso, che diventerà l'amico più fedele e il corrispondente più assiduo del nostro scienziato. Sicché lo Spallanzani che aveva esordito in latino con il De lapidibus ab aqua resilientibus e aveva cercato in Gassendi un modello stilistico («per essere uno de' migliori che abbiano scritto in latino»), scriverà da ora in poi nella lingua di Redi e di Vallisneri.
Ma torniamo all'alternanza latino/italiano da un punto di vista più generale. Non bisogna credere che, nel Settecento, essa fosse risolta a favore della seconda possibilità. Se l'italiano dominava nel campo delle cosiddette «belle lettere», la situazione era capovolta a favore del latino nell'ambito scientifico, soprattutto per scienze «pure» come la matematica, o per scienze che utilizzavano terminologia esemplata da Newton come l'astronomia, o per scienze che avevano un particolare interesse per la connotazione elevata (assicurata dalla lingua classica) come la medicina. Scienze applicate, come ad esempio l'idraulica, erano più disponibili alla «natia favella», perché si rivolgevano a un pubblico più eterogeneo, comprensivo di tecnici e di amministratori; non bisogna inoltre dimenticare che esse si avvalevano di un modello nazionale ormai consolidato, a partire da Castelli. Scienziati «giovani», come gli elettrologi, sono anch'essi più disinvolti nell'adozione della lingua: riconoscendo il loro archetipo nazionale nelle «esperienze» dell'Accademia del Cimento, essi potevano ripetere la scelta dei Saggi magalottiani. Ma potevano anche non farlo, come mostra la scrittura di Galvani, bolognese e quindi condizionato da un ambiente particolarmente conservativo, da questo punto di vista.
Un altro elemento che certamente gioca, in questa scelta, è quello della minore o maggiore accessibilità della disciplina; minima, nel campo delle severe matematiche, questa apertura al profano diventa massima nel campo delle scienze naturali. La previsione di poter penetrare in circoli colti non specialistici, nei salotti di «appassionate» che, come Olimpia Agnelli Sessi o come Isabella Teotochi Marin, aspirano ad essere guidate «ne' giardini della Fisica», pesò (e ne abbiamo visto un indizio) sulla decisione di Spallanzani, ben conscio dell'amplificazione assicurata alla sua opera da un Voltaire (che pure veniva definito «charlatan», nel carteggio con Bonnet) e dell'influenza che certi ambienti mondani potevano avere anche sulle vicende accademiche, soprattutto a Venezia: «Dans les autres Universités c'est le mérit qui fait les Professeurs, à Padouè ce sont les dames Vénitiennes», scrive nel suo jargon francese a Bonnet, nel 1766.
Comunque, prescindendo per un momento dalle varianti legate alle condizioni geografiche, ai condizionamenti politici e culturali, alle diverse esigenze comunicative proprie delle singole discipline, è interessante notare le motivazioni della scelta dell'italiano, nel Settecento, e metterle a confronto con le motivazioni diverse che agivano su quella stessa scelta nel secolo precedente.
Nel Seicento la spinta verso il volgare è data soprattutto dalla politica culturale degli scienziati: ampliamento del pubblico a personaggi di cultura letteraria che possono favorire la «nuova scienza», fluidificazione del discorso scientifico e della terminologia a uscire dal codice cristallizzato del latino peripatetico, caratterizzazione letterario-elevata dell'opera, a garantire la sua diffusione e a recuperare funzioni retoriche utili alla polemica e alla propaganda delle idee. Anche il ritorno al latino degli scienziati post- galileiani ha motivazioni politico-culturali, perché tien conto del fallimento della strategia «nazionale» di Galileo e della conseguente necessità di superare - attraverso il mezzo linguistico - i confini troppo angusti e troppo rischiosi della penisola. Non vogliamo dire che questi siano gli unici motivi, ma certamente furono fra i più determinanti.
Nel Settecento, pur permanendo l'esigenza del dialogo internazionale, evidentemente meglio garantito dal latino (ma Spallanzani documenta la scarsa disponibilità dei francesi a leggere libri scritti in quella lingua!), esistono altre motivazioni per la scelta contraria.
Intanto non bisogna sottovalutare la progressiva difficoltà che gli scienziati incontrano nell'usare la lingua latina; se questa difficoltà viene dichiarata da Spallanzani, che pure era capace a Bologna di discettare oralmente in quella lingua, dobbiamo immaginare che essa fosse ancora maggiore per altri, per esempio per un Volta, non a caso irritato contro il prosperare, nelle scuole, dell'idioma in or e in us. E un altro lombardo, Pietro Verri, pronosticava la morte del latino nel giro di un cinquantennio ... E forse non era soltanto «materiale», la «fatica di trascrivere in latino ciò che aveva di già scritto in italiano», che Gaetana Agnesi adduce a giustificazione della pubblicazione in lingua nazionale delle sue Instituzioni analitiche. Sono del resto sempre più numerosi, nel corso del secolo, i matematici che adottano l'italiano: per esempio Mascheroni, Cagnoli, Ruffini, Brunacci; e molti sono quelli che, nella seconda metà del secolo, soprattutto nel decennio 1770-1780, passano dal latino alla lingua nazionale: per esempio Lorgna, Malfatti, Paoli, Fergola. Essi danno, così, una risposta alla domanda che Scipione Maffei aveva rivolto a Poleni: «Ma perché mai voi altri signori matematici scrivete sempre in latino? e all'istesso tempo lodate i Francesi perché scrivono in volgare. Non è dunque atta la nostra lingua alle cose di matematica, quanto sia la francese?».13
Decennio significativo, quello dal '70 all'8o: caratterizzato da eventi vistosi come quello dello scioglimento dei Gesuiti (i più tenaci assertori della vitalità del latino e dell'importanza del suo insegnamento), e anche da episodi ben più circoscritti, ma sempre indicativi, come quelli segnalati da Bruno Basile2 nell'àmbito della produzione a stampa: esce per esempio, proprio nel 1777, a Venezia, un opuscolo anonimo con il titolo Pregiudizii d'insegnar le scienze e le arti in lingua latina, che fa da contraltare al Pro linguae latinae usu adversus Alambertium, scritto nel 1771 da Girolamo Ferri da Longiano: sintomo di crisi del latino scientifico, ma anche - se si vuole - sintomo della sua resistenza, in un secolo che era iniziato con l'affermazione vallisneriana dell'«obbligo», per ogni italiano, di «scrivere in lingua purgata italiana, 0 toscana, per debito, per giustizia, e per decoro della nostra Italia».
Proprio dal titolo vallisneriano possiamo trarre altri elementi che militano a favore della lingua nazionale: mentre francesi e inglesi ci offrono esempi di un «genio» della nazione che sempre più si rispecchia nel «genio» della lingua, l'Italia non può sottrarsi all'analogo impegno, per il suo stesso «decoro». Al di là della spinta campanilistica occorre però ricordare motivazioni più valide della conversione dal latino all'italiano: per esempio il bisogno di abilitare definitivamente la nostra lingua all'espressione di contenuti seri; il desiderio di rispondere, con uno strumento linguistico adeguato, alla richiesta di cultura e di informazione di un pubblico lentamente emergente, sempre più vasto e sempre più tagliato fuori dall'uso del latino scientifico.
Bisogna anche ricordare alcuni elementi che favorivano l'eventuale decisione dello scienziato di adottare l'italiano: per esempio il proliferare di vocabolari tecnici (spesso traduzioni da lingue straniere) che mettevano a disposizione, per le varie discipline, la relativa terminologia. Basti ricordare il Chambers, Dizionario universale delle arti e delle scienze, uscito a Venezia fra il 1748 e il 1765; il Macquer, Dizionario di chimica, uscito a Pavia negli anni 1783- 1784 nella traduzione (aspramente criticata da Spallanzani) dello Scopoli; il James, Dizionario universale di medicina, chirurgia, uscito a Venezia nel 1753; e, ancora, i dizionari di commercio dei Savary, di Alberti di Villanova, il Dizionario delle arti e mestieri di Griselini e Fassadoni, ecc.
Ma va valutato anche il fatto che, nel secolo precedente, i testi scientifici scritti in volgare avevano ormai creato, per le diverse discipline, modelli linguistici (in particolare terminologici) e stilistici che potevano essere utilizzati, magari provvedendo ad una loro ulteriore standardizzazione. Ho già cercato di dimostrare, altrove,14 come Spallanzani scriva rielaborando mentalmente precisi materiali rediani e dei Saggi del Cimento, e specializzando certe forme, che in Redi erano appena accennate, nelle strutture tipiche del Diario, della Memoria, della Dissertazione, del Saggio, ecc. Discorso analogo si potrebbe fare per il Cogrossi della Nuova idea del male contagioso de' buoi nei confronti delle scritture secentesche sui «pelliccili», e per il Ginanni botanico; ma anche per il Manfredi, esperto di «acque correnti», nei confronti di tutta la letteratura secentesca pertinente all'argomento. Insomma, anche da questo punto di vista si può dire, con Grmek, che «le XVIIe siècle a semé, le XVIIF a fait murir».
Altro argomento interessante è quello dei «generi» letterari attraverso cui si canalizza la comunicazione scientifica; anche perché essi ci consentono di apprezzare quel fenomeno di cambiamento, pur nella innegabile coerenza con il passato, che abbiamo rilevato ad altro proposito.
Prendiamo ad esempio il «dialogo», un genere che avevamo privilegiato anche nella Introduzione agli Scienziati del Seicento. Lo troviamo utilizzato da Vallisneri, allo scadere del Seicento, nella formula bidimensionale di due voci ultraterrene (Plinio e Malpighi), impegnate in una civile querelle fra antichi e moderni. Ha dunque già perso la sua virulenza, l'arma di Galileo, quella di Tommaso Cornelio, perfino quella del gesuita Buonanni, autore, nel 1691, di un dialogo a tre interlocutori, il cui titolo è già tutto un programma: Observationes circa viventia quae in rebus non viventibus reperiuntur (Romae, Typis D. A. Herculis); il lettore di Redi non può non cogliere il ribaltamento, nel titolo, di una famosa opera rediana: Osservazioni intorno agli animali viventi che si trovano negli animali viventi e, qualora gli rimanesse qualche dubbio, questo scomparirà davanti al personaggio di Rufus (il Redi stesso, nel molo di «Simplicio»!).
Il secolo, comunque, si chiude con l'annacquamento della formula dialogica nel Della curiosa origine, degli sviluppi e de' costumi ammirabili di molti insetti, dialoghi due di Antonio Vallisneri. Quando Ruggero Boscovich riproporrà la formula del dialogo, per trattare dell'aurora boreale, contaminerà questo genere con l'egloga pastorale, mettendo le battute in bocca a due pastori, con relativo armamentario di zampogne, greggi, e stupori bucolici davanti al misterioso fenomeno naturale. E lo Sguario produrrà un'altra contaminazione, fra il dialogo, la novella galante e il trattato vero e proprio, finalizzata allo scopo divulgativo-didattico di marca illuminista e sensista. Siamo dunque in un secolo che recupera il dialogo senza drammi, offrendolo alle «dame» e a quanti abbiano sete di cultura scientifica. In questa ambientazione mondana può reincarnarsi anche Simplicio, ma è, in Algarotti, personaggio incipriato, «invaghito» di Cartesio. Con questo non vogliamo affatto aderire al giudizio che ridimensiona l'importanza di Algarotti e del suo Neiotonianismo. Algarotti «sait son Locke et son Newton», come scriveva Voltaire; basterebbe del resto la condanna all'Indice del dialogo per dimostrare che la Congregazione romana aveva interpretato (meglio di coloro che poi hanno parlato di scienza «salottiera») il significato di quel Simplicio che alludeva a Rizzetti e che, ario- stescamente, affermava: «io credei, credo, e creder credo il vero»!
Del resto il dialogo ha anche, nel Settecento, manifestazioni serie: adottato da Grandi, da Poleni, noi ne abbiamo documentato il ricorrere nella formula di Manfredi. I Dialoghi fra Giorgio, Maurelio e Petronio [. . .] riprendono da Galileo la triangolazione scenica, le «funzioni» dei tre personaggi (con la variante di un Maurelio che, in partenza, è favorevole a Giorgio-«Simplicio», e solo in séguito si convertirà alle idee di Petronio-«Salviati»), le separazioni a intervallo dei tre dialoganti, l'esibizione di una «scrittura» da commentare, ecc. C'è solo da notare che Manfredi adegua all'argomento «idraulico» e al clima da Secchia rapita, che caratterizza la polemica municipale fra due città vicine, il registro linguistico della sua scrittura. La «commedia filosofica» di Galileo scade a farsa, soprattutto nelle parti in cui agisce lo stolido Giorgio; la civile conversazione diventa battibecco. Questo ribasso dal salone patrizio alla piazzetta provinciale non deve però far dimenticare la serietà con cui sono ribaditi, nel dialogo, certi postulati della scienza galileiana: primo fra tutti quello del primato delle dimostrazioni matematiche sulle esperienze, specie se insensate.
Seria è anche l'utilizzazione che, del dialogo, fa Vincenzo Riccati nel 1749: Dialogo dove ne' congressi di più giornate delle forze vive e dell'azione delle forze morte si tien discorso (Bologna, Lelio dalla Volpe). Ma proprio in questa formula che si richiama esplicitamente al modello galileiano è possibile apprezzare certe differenze fondamentali che trasformano la funzione di questo «genere» nella sua utilizzazione scientifica.
Infatti, dopo aver giustificato la scelta del dialogo come quella che, «non richiedendo un ordine rigoroso», concede «la libertà d'introdurre qualche opportuna digressioncella», e come quella che permette di ospitare opinioni «non solo varie e diverse, ma ancor discordi e contrarie», il Riccati sottolinea la diversità dei suoi personaggi nei confronti di quelli galileiani:
Quanto a' personaggi, che dialogizzando favellano, non altro dirò, se non che ho amato meglio di partirmi dall'esempio del Galileo, il quale in bocca di persone viventi ha messi i suoi ritrovati, e d'introdurre anzi persone fìnte, e ideali: perciocché non possono, siccome quelle, far querela che le rappresenti sotto un aspetto che lor non piaccia, e che le faccia dir cose che non avrebbero pensate forse giammai.15
I tre personaggi «finti» e «ideali» del Riccati si chiameranno dunque Lelio (un nome da personaggio elevato, nella tradizione teatrale), sotto cui lo scienziato rappresenterà sé stesso, Nestore («alcun poco impegnato per l'opinioni degli acutissimi inglesi») e Cesare («amante più del dovere del Cartesio»). Pur discordando inizialmente da Lelio, Nestore e Cesare possiedono «il bel pregio della docilità» e sono pronti a «cedere alla forza della ragione»;
dunque «non riuscirà strano» - afferma il Riccati - «s'essi finalmente la sentenza abbraccino che vien da Lelio con nuove ragioni provata».
Come si vede, si tratta di un terzetto pacifico, che scarica completamente le tensioni galileiane, e fa piuttosto pensare al clima dialogico teorizzato dalla Royal Society come il più favorevole alla sospensione del giudizio e all'armonia del compromesso.
Potremmo continuare, in questa rassegna, ma abbiamo ormai gli elementi per trarre una conclusione. Nel Settecento il dialogo continua, ma in forme pacate, ireniche, oppure finalizzate alla divulgazione. Il «genere», proprio perché destituito di forti valenze polemiche, ammette contaminazioni varie: con l'egloga pastorale, con la novella filosofica e galante, con il romanzo, ecc.
L'impressione è che, nel corso del Settecento, questo «genere» - pur venendo meno i condizionamenti che ne avevano ostacolato l'adozione - sia sempre meno agibile per la comunicazione scientifica. I motivi sono almeno due. Per scienziati ormai coinvolti in una competizione internazionale, si fa sempre più viva l'esigenza di scritture brevi, rapidamente pubblicabili, anticipabili in stampa periodica di ampia circolazione.
Un altro motivo da non sottovalutare è l'esigenza di agevole «traducibilità" dell'opera, quando questa - come sempre più spesso avviene - sia scritta in lingua nazionale. La previsione della traduzione in francese dell'opera (condizione necessaria della sua circolazione europea) retroagisce sulla sua scrittura, imponendo una semplificazione della sintassi, una omogeneizzazione preventiva della terminologia, ecc. Abbiamo testimonianze precise di questo fenomeno in Spallanzani, là dove lo scienziato dichiara a Senebier di aver scritto periodi «bene spesso corti, per maggiore facilità d'essere da voi tradotto».
È chiaro che questo condizionamento a ritroso influisce anche sulla scelta del «genere», sconsigliando l'adozione di quelli che, come il dialogo, erano più ombelicalmente legati al «genio» della lingua e a una tradizione linguistica e stilistica nazionale. Spallanzani, che pure incoraggiava l'amico scandianese Giuseppe Rovatti a comporre un dialogo fra Malpighi e Vallisneri (padre!), giudicando adeguata questa formula alla statura da erudito locale del fedele «Giuseppino», non avrebbe mai scelto per sé stesso un «genere» così difficilmente trasferibile in altre lingue, e quindi condannato alla sola circolazione italiana. Quando gli si presenterà l'occasione di scritture fortemente polemiche (contro lo Scopoli, contro Hunter) ricorrerà alla lettera, cioè al modello del Saggiatore, non a quello della «commedia filosofica».
I generi che sempre più si affermano, nel Settecento, sono quelli che consentono la scrittura breve: la lettera, la memoria, la dissertazione, il saggio; oppure è il «manuale» universitario, le «Istituzioni», astronomiche, analitiche, anatomiche, ecc. Il dialogo rimane disponibile alla disputa filosofica, storica, morale, nell'intera area europea.
Le note introduttive ai singoli autori sollevano, almeno in parte, chi scrive l'introduzione generale dal passare in rivista singoli nomi e singole opere. Tuttavia non rinunciamo a una rapida carrellata che miri soprattutto a giustificare certe scelte, a creare qualche collegamento fra autori di questo volume e altri del volume secentesco.
Sottolineiamo, per esempio, la funzione di cerniera che assume, all'inizio di questo volume, la figura di Vallisneri, anche biograficamente a cavallo fra i due secoli. Lo scienziato emiliano colloquia ancora con il passato recente: allievo di Malpighi, il suo interlocutore polemico è Redi. La longevità di Cestoni, amico sottomesso del toscano, poi più sciolto collaboratore del «signor Antonio», consente allo speziale livornese di catalizzare il rapporto ideale fra i due scienziati, attraverso confronti, stimoli, consigli a fare (e più spesso a non fare) cose a cui il Redi si era già applicato.
Ma Vallisneri ha anche un intenso dialogo (polemico) con Andry, si protende verso la scena europea, conosce l'ottica di Newton e la scienza olandese, corrisponde con Leibniz. Legato agli amici toscani (che frequenta durante l'estate nel cenacolo livornese del Cestoni) è però un padano e insegna a Padova. Scrive un trattato come l’Istoria della generazione dell'uomo e degli animali, ma pubblica largamente su «giornali», usando quindi un canale che è già tipicamente settecentesco. Ha una lingua fortemente letteraria, severa, compostissima, ma non ignora le sprezzature stilistiche e si avvale fortemente di un'ironia già shaftesburiana; si legga, nel suo trattato (che uno storico della scienza trionfale definirebbe tutto sbagliato), l'ironia lessicale e sintattica con cui accompagna la nascita degli «omaccini», finalmente liberati dalla loro scomoda tunica vermiforme, o con cui descrive l'agguato dei «vermi spermatici» all'unico «uovo» calante nell'utero.
Utilizza la lingua del Redi, ma sente - molto più del toscano - l'esigenza di fissare la terminologia, di istituzionalizzarla. Irritato con la Crusca, che non provvede alla schedatura dei termini tecnici, pensa a un certo punto di sopperire personalmente al deficit e inizia a scrivere un vocabolario scientifico (naturalistico, matematico, medico) che è già in linea con la tendenza settecentesca. Anche per quanto riguarda la scelta dell'italiano, si tratta di un'operazione ragionata, giustificata civilmente, rispondente a criteri di rispetto per il contenuto scientifico e per il decoro della nazione, tipici del nuovo secolo.
Dal punto di vista metodologico, però, Vallisneri è ancorato al Seicento; per quanto sperimentalista, egli non rinuncia al modello interpretativo «geometrico». Crede nelle costruzioni mentali; il suo amore per i fatti, per le osservazioni lascia largo spazio all'analogia (di cui poi Spallanzani diffiderà) e non basta a salvaguardarlo dal «sistema». La scala degli esseri viene risalita da Vallisneri fino ai «limiti dell'impossibile»!
Gaspari è una presenza che ha ben tre giustificazioni: prima di tutto è un «minore» e quindi rappresenta quella folta schiera di scienziati che, normalmente, vengono inghiottiti dalla storia. Facendogli spazio, almeno nei limiti consentiti dalla rigida economia del volume, abbiamo recuperato uno di quei «fantasmi» che, pure, lavorarono per la diffusione e per l'ampliamento delle idee scientifiche. Inoltre Gaspari, assieme a Cogrossi, a Moro, serve a ricostruire una «scuola» vallisneriana che, nella sua tendenza centripeta rispetto al maestro, riproduce le «scuole» del Seicento: quella galileiana, quella rediana, soprattutto. Il personaggio di Vallisneri appare insomma ancora fornito di quel carisma, di quella autoritarietà (oltre che autorevolezza) che sono propri dell'organizzazione della cultura secentesca, più che di quella settecentesca. Gli scienziati del Settecento ci appaiono più isolati: segno del venir meno della «setta» e di una maggiore individualizzazione della ricerca. Spallanzani sembra combattere da solo le sue battaglie e godere da solo delle sue vittorie. Le sue lettere agli scolari contengono suggerimenti, ammonimenti, correggono terminologia, ma non danno l'impressione di una collaborazione intima.
La terza ragione che milita a favore dell'inclusione di Gaspari è l'argomento da lui trattato: istituendo un confronto fra Redi e Vallisneri, il suo scritto individua la coerenza fra le due esperienze e, al tempo stesso, ne segnala la diversità.
Vale per Cogrossi la giustificazione già data per Gaspari, quella cioè della sua appartenenza alla galassia vallisneriana. Certo è che Cogrossi non è un fantasma. L'importanza della sua Idea, nell'àmbito delle ricerche sul «contagium vivum», gli avrebbe comunque assicurato un posto, in questo volume.
La collocazione di Spallanzani, dopo Vallisneri e i vallisneriani, è ovviamente determinata da ragioni cronologiche e disciplinari.
Abbiamo già detto che Spallanzani si immette consapevolmente, come quarto, sulla linea Redi-Malpighi-Vallisneri. Fra questi, Malpighi è certamente lo scienziato che dà più soggezione a Spallanzani, quello a cui si accosterebbe più volentieri per altezza speculativa, per fama internazionale, per interessi tematici. Però il gali-leismo di Malpighi, la sua valorizzazione delle ipotesi a priori, insomma il modello geometrico-matematico sotteso alla sua ricerca, come a quella di Borelli e di Bellini, dovevano creare delle diffidenze in uno Spallanzani così sospettoso nei confronti di tutto ciò che, non solo non si può vedere con gli occhi, ma che non si può «toccare con il dito». Malpighi, insomma, è ancora lo scienziato dell'occhio, della vista interiore; Spallanzani è il filosofo del tatto, di quel senso che - sicuramente per suggestione del sensismo inglese - diventa il più significativo e potente del Settecento. E il senso a cui Locke aveva dedicato un'attenzione particolare, proprio perché capace di rivelare le proprietà essenziali della materia; il senso che Diderot giudicava il «più profondo e filosofico»; il senso di cui Jean-Antoine Nollet fa l'apologia, come rivelatore della verità, nelle sue Legons de physique expérimentale (1775).
Quanto al rapporto Spallanzani-Vallisneri,. esso è intimo anche per ragioni biografiche; anch'egli emiliano, Spallanzani guarda al suo predecessore con un'ammirazione non disgiunta da competizione. In un certo senso è lui il vero figlio ed erede del primo Antonio, visto che Antonio iunior tradisce con il suo comportamento scientifico la parentela di sangue. L'ammirazione per il naturalista «osservatore» si associa però ad una certa diffidenza per il filosofo: non dovevano piacere, a Spallanzani, in Vallisneri, l'uso ardito dell'analogia, l'audacia nel contrapporre «fantasia a fantasia», la capacità di «schermirsi» dal fallimento sperimentale ricorrendo a concetti di infinitesimi e di atomi, ammettendo la divisione all'infinito della materia.
Sicché il Redi, con il suo sano sperimentalismo, con il suo replicare gli esperimenti, con il suo non credere al di là di ciò che i sensi gli mostrano, doveva essere lo scienziato con cui Spallanzani più congenialmente si confrontava. Non bisogna poi sottovalutare il fascino linguistico e letterario che il Redi doveva esercitare sullo scrittore settentrionale. Il fatto che, agli inizi, Spallanzani scriva in modo più simile a Vallisneri che a Redi non deve fare velo: Spallanzani non ha quella disinvoltura innata, quella facilità di scrittura che era propria dei toscani e che lui ammirava moltissimo, considerandola loro «privativa» (purché non scadesse nel trasandato e nel popolare, come giudica avvenga in Targioni Tozzetti). Sicché la pesantezza, l'involuzione, la ridondanza, la patina arcaica e latineggiante iniziali sono condizionamenti linguistici da cui poi Spallanzani cercherà di liberarsi; e in parte vi riuscirà, come si può vedere dalle lettere contro lo Scopoli e dai Viaggi. Concorrono, a produrre questa progressiva semplificazione, parecchi motivi: la maturazione stilistica nel corso di una intensa attività di scrittura; le critiche - da non sottovalutare - di un Bonnet che gli rimproverava l'eccessiva frondosità e la ridondanza lessicale, la previsione della traduzione delle sue opere in una lingua essenziale e logicamente strutturata come il francese, infine l'imitazione non pedissequa, originalmente rivissuta, proprio degli scrittori toscani, di Redi in particolare. È sintomatica, a questo proposito, una frase di Spallanzani, in una lettera a Senebier:
Voi sentite troppo amichevolmente [. . .]. Quanto allo stile, io non vi so negare di aver letto i classici che hanno scritto nella bella nostra lingua, ed in certi momenti d'ozio non lascio di leggerli anche adesso, senza essermi però prefisso d'imitare nessuno, ma formandomi in quello stile, ove la natura pare avermi chiamato [...]. La chiarezza e la proprietà dei vocaboli tra l'altre sono due cose che impegnano sempre la mia attenzione.16
Tanta coerenza di intenti e di stile non toglie però che, dal punto di vista metodologico, Spallanzani sia più allievo di Réaumur, di Haller, di Zimmermann, di Senebier e di altri suoi corrispondenti svizzeri, piuttosto che dei predecessori italiani. Fra questi ultimi il più vicino a lui, ripetiamo, doveva essere Redi; il più lontano, Borelli.
Un personaggio come Marsili non poteva mancare per varie ragioni. Fedeli a un criterio di scelta che, pur non accettando divulgatori superficiali e dilettanti, non si limiti ai grandi nomi e non sacrifichi del tutto organizzatori della cultura e autodidatti di alta levatura, abbiamo ritenuto che Marsili rientrasse nella prima categoria senza essere escluso dalla seconda.
Alla categoria degli autodidatti di alta levatura appartiene anche il Ginanni, un personaggo in cui la condizione di nobile amatore della scienza collabora al rifiuto di tutte le pastoie accademiche, Spallanzani cercava di procurarsi le sue opere; Réaumur lo stimò moltissimo: sono due credenziali attendibilissime.
Ancora nell'ambito della scuola vallisneriana è il personaggio appartato e scontroso di Moro, con quella sua lingua cavernosa e difficile, spesso involuta: interessante anche per questo, proprio a dare un'idea della varietà stilistica che continua a esistere nel Settecento, non essendosi ancora imposti sottocodici disciplinari vincolanti. Forse non è piacevole, la sua prosa, ma il saggio De' crostacei e degli altri marini corpi che si truovano su' monti è un «capodopera», come avrebbero detto gli uomini del Settecento.
Rimaniamo agli inizi del secolo, passando dalla ricerca geologica a quella medica. Se Ramazzini svela la sua età, non solo con l'uso del latino (del resto protrattosi per tutto il secolo, nella letteratura medica) ma anche e soprattutto con il suo amore per le citazioni classiche, la sua opera è - per comune giudizio - proiettata verso il futuro, nel suo interesse per quella che oggi chiameremmo «medicina del lavoro». Essa è il sintomo precoce di una attenzione al sociale, a un mondo del lavoro in cui Ramazzini include, significativamente, anche gli intellettuali. In questa straordinaria galleria di uomini, accanto ai cavafosse con gli occhi compromessi dalle esalazioni delle fogne, accanto ai lavoratori del cuoio, del vetro, del tabacco, ecc., le figurine dei professori di lettere, dei poeti, dei matematici («quasi tutti [. . .] sbalorditi, pigri, sonnolenti e come forestieri delle cose del mondo») sono sorprendenti per penetrazione psicologica, oltre che «medica». E infatti sorpresero perché - nella lunga tradizione della patologia associata al mestiere letterario - mancavano certe attenzioni realistiche agli «incomodi» suscitati dal lavoro mentale.
Eustachio Manfredi: ancora uno scienziato della prima metà del secolo, visto che è proprio questa metà la più lacunosa, dal punto di vista delle nostre conoscenze; o - per lo meno - quella su cui più ha pesato l'ipoteca «arcadica», falsando le reali dimensioni della ricerca scientifica impegnata. L'osservazione è particolarmente pertinente in rapporto al Manfredi, noto più per i suoi sonetti che per i suoi lavori scientifici. Anche noi abbiamo fatto una concessione al «gusto letterario», scegliendo Eustachio invece del fratello Gabriele. Ma Gabriele, almeno, non è conosciuto; Eustachio è frainteso e dunque merita di essere riscattato da una prospettiva adulterante. Inoltre la sua funzione di organizzatore della cultura, di sostegno dell'Accademia, di punto di riferimento europeo, è, sotto il profilo storico-culturale, bilanciante la minore altezza speculativa sul terreno specificamente matematico.
L'inserzione di Boscovich non ha bisogno di essere giustificata: si tratta del newtoniano più originale, in Italia. Inoltre la sua presenza è anche testimonianza di quella scienza gesuitica a cui pure volevamo dare un certo spazio (certamente inferiore a quello che essa meriterebbe). Certo è che non abbiamo fatto una scelta letterariamente molto favorevole al Boscovich, che si sarebbe più avvantaggiato nella stima del lettore per qualche brano della Philosophiae naturalis theoria redacta ad unicam legem vìrium in natura existentium; ma l'arduo contenuto e l'arduo latino giustificano la rinuncia a quel testo. D'altra parte, se non ci si lascia impressionare dalla sua prosa prolissa, involuta, stucchevole (la prosa di chi ha lasciato il Saggiatore per la Fiammetta, avrebbe detto Algarotti), è interessante vedere come lo scienziato affronti il problema fisico, riscattandolo dalla superstizione e dalla favola e utilizzando per la sua soluzione gli strumenti della scienza europea più avanzata.
Un discorso particolare va fatto per i tre matematici: l'Agnesi, Riccati e Mascheroni. Sappiamo che questa presenza, insufficiente (per numero di autori, per scelta di opere, per avarizia di pagine) a caratterizzare la ricerca matematica, può esporci alle critiche dei matematici, consapevoli dell'importanza di questo settore e quindi delusi nel vederlo così scarsamente rappresentato; d'altra parte prevediamo anche la reazione del lettore colto, ma non specialista, che - nonostante il commento - troverà qualche difficoltà nel leggere le pagine dell'Agnesi o di Mascheroni. Occorre dunque una giustificazione del nostro operato che non si sottragga alla duplice critica, ma che chiarisca i motivi dell'inserimento e quelli della nostra parsimonia nell'inserire.
Abbiamo scelto tre matematici di valore perché volevamo segnalare l'importanza di questo settore della ricerca nella cultura del Settecento. Le note introduttive, le parole dedicate ad essi in questa introduzione generale, collaborano ad additarli all'attenzione dei lettori come presenze molto significative, nella storia del periodo. Al di là di questo gesto emblematico non potevamo andare, sia per la difficoltà del commento a testi così specialistici, sia per la previsione di un'analoga difficoltà di lettura da parte di lettori non matematici. Ci siamo dunque limitati a presentare un esempio, anche di lingua e di stile, dato l'innegabile fascino di queste pagine così scarne, così essenziali, così logicamente strutturate.
Non avrebbe avuto senso, d'altra parte, ampliare il frammento: si tratta di opere che, proprio per la loro essenzialità, vanno lette integralmente, se appena si possiedono gli strumenti tecnici per farlo. Se, con la nostra scelta, avremo salvato dall'anonimato queste figure, se avremo potuto aprire un varco alla conoscenza di esse presso un largo pubblico, la nostra decisione non sarà stata inutile.
Di Sguario abbiamo già parlato. Non avendo potuto ospitare Algarotti (che ha già il suo spazio in altro volume della collana), il medico veneziano è stato scelto come rappresentante della folta schiera di nobili divulgatori, innamorati della scienza e dediti alla sua propaganda. L'avvertimento è quello di non consentire che la parte romanzesca del trattatello comprometta, nel giudizio dei lettori, gli aspetti scientifici dell'opera stessa, che testimoniano di una cultura non comune e di una competenza non disprezzabile. Ci è sembrato inoltre importante documentare come, da questo exploit di metà secolo, l'elettrologia passi rapidamente, nel giro di pochi anni, ad una sua definizione tecnica e scientifica. L'anello di congiunzione, rappresentato dal serissimo Giambattista Beccaria, è purtroppo saltato, nella vendemmia di pagine imposta da esigenze editoriali; ma, a testimoniare della rapida tecnicizzazione e della felicità euristica di questa branca scientifica, sono presenti i due grandi nomi di Galvani e di Volta. Questa coppia di rivali famosi conchiude degnamente - a nostro avviso - un secolo così pieno di contrasti, così ricco di premesse; così solidale con la lezione galileiana e così liberamente proiettato verso l'Europa e oltre l'Europa.
Il sedentario Galvani e il mobilissimo Volta, l'uomo schivo e l'abile stratega culturale di sé stesso, lo scrittore che tutela il latino e l'uomo insofferente di esso, rappresentano bene, con i loro risultati geniali, le due facce di questo secolo: quella orientata verso un passato da sviluppare con originalità senza soggezioni, e quella protesa verso l'Europa e il nuovo mondo.
Ringraziamo Carlo Cedema, prezioso collaboratore, acuto revisore e - possiamo dirlo, dopo anni di lavoro comune e di fitto dialogo - caro amico.
Il volume degli Scienziati del Seicento ha potuto avvalersi di un precedente, costituito dall'omonimo volume della collana Rizzoli, i cui materiali sono stati generosamente concessi dal direttore della collana stessa, il collega Maurizio Vitale dell'Università di Milano, a cui esprimiamo la nostra riconoscenza. Questo volume settecentesco è invece frutto di un lavoro del tutto originale; per questo abbiamo avuto ancor più bisogno di ricorrere alla consulenza di colleghi universitari: Francesco Speranza della Facoltà di Scienze dell'Università di Parma; Giorgio Dragoni della Facoltà di Scienze dell'Università di Bologna; Giorgio Fulco della Facoltà di Lettere dell'Università di Napoli. A tutti va il nostro grazie.
I due curatori si assumono eguale responsabilità per quanto riguarda la scelta, il commento, la fermatura filologica dei testi. Le note bio-bibliografiche, introduttive ai singoli autori, la nota critica ai testi e l'indice dei nomi sono invece opera personale di Bruno Basile.
1 G. Andrés, Dell'origine, progressi e stato attuale di ogni letteratura, Parma, Stamperia Reale, 1782-1799 (in 7 voll.), da noi consultata nell'edizione ottocentesca: Napoli, Borei e Bompard, 1836-1838, vol. 1, p. 346.
2 Id., Dissertazione sopra le cagioni della scarsezza de' progressi delle scienze in questo tempo, Ferrara, Rinaldi, 1799, p. 34.
3 Nel volume di recente pubblicazione: Newton e la coscienza europea, Bologna, Il Mulino, 1983; ma, dello stesso autore, si ricordi la Introduzione all'Illuminismo. Da Newton a Rousseau, Bari, Laterza, 1973: due libri a cui siamo largamente debitori, per questa introduzione.
4 In particolare: G. Prodi, Cambiamenti e direzione nell'epistemologia, in Lazzaro Spallanzani e la biologia del Settecento. Teorie, esperimenti, istituzioni scientifiche, a cura di G. Montalenti e P. Rossi, redazione di W. Bernardi e A. La Vergata, «Atti del convegno di studi. Reggio Emilia, Modena, Scandiano, Pavia 23-27 marzo 1981», Firenze, Leo S. Olschki, 1982, pp. 465 sgg.
5 L. Spallanzani, Opere, Milano, Hoepli, 1932-1936, vol. 11, p. 505. 2.
6 Ivi, vol. 1, p. 6. 3. L. Spallanzani, Epistolario, a cura dì B. Biagi, Fi
7 enze, Sansoni Antiquariato, 1958-1964, vol. I, p. 250.
8 Ivi, vol. in, p. 154. 2. L. Spallanzani, Opere, cit., vol. 11, p. 488.
9 Ivi, vol. I, p. 441.
10 Ringraziamo W. Tega, che ha messo a nostra disposizione il testo di un suo intervento al convegno bolognese su «Scienza e letteratura nella cultura italiana del Settecento» (31 marzo - 3 aprile 1982) i cui Atti sono in via di pubblicazione. Da questo intervento dipendono le nostre citazioni (qui e a pagina seguente) da lettere di Zanotti e di Manfredi. In particolare, la lettera di Zanotti a cui qui si fa riferimento è indirizzata ad Antonio Leprotti, ed è datata novembre 1729. Il carteggio fra lo Zanotti e il Leprotti è conservato presso la Biblioteca Ambrosiana di Milano (Cod. Y 107).
11 1. Nella relazione (presentata al convegno bolognese di cui alla nota precedente) su La scienza italiana vista dalla Royal Society.
12 P. Casini, Newton e la coscienza europea, cit., p. 225.
13 S. Maffei, Epistolario, a cura di C. Garibotto, Milano, Giuffrè, 1955, vol. II, pp. 775-6. 2. In un saggio su Uso e diffusione del latino che comparirà, per le edizioni de II Mulino, nel volume curato da L. Formigari: Teorie e pratiche linguistiche nell'Italia del Settecento.ì
14 1. In un articolo comparso su «Intersezioni», 3 (1981) con il titolo: L'episteme stilistica di Lazzaro Spallanzani.
15 V. Riccati, Dialogo dove ne' congressi di più giornate delle forze vive e dell' azione delle forze morte si tien discorso, In Bologna, Nella Stamperia di Lelio dalla Volpe, 1749, p. 9.
16 L. Spallanzani, Epistolario, cit., vol. v, p. 146.