Abstract
Vengono illustrati i principi fondamentali della disciplina del diritto di sciopero nell'ordinamento italiano come emergono in base all’art 40 Cost. ed all’interpretazione della Corte costituzionale e della Corte di cassazione.
L’art. 40 Cost. riconosce il diritto di sciopero senza fornirne una definizione, ma rinviando alle «leggi che lo regolano» il compito di disciplinarne l’esercizio. Tuttavia, fatta eccezione per alcune discipline settoriali (l. 12.6.1990, n. 146 per i servizi pubblici essenziali; art. 4 l. 23.5.1980, n. 242 per gli addetti al controllo del traffico aereo; art. 48 d.lgs. 17.3.1995, n. 230 per gli addetti ad impianti nucleari) e per alcuni divieti di esercizio dello sciopero (militari: art. 1475 d.lgs. 15.3.2010, n. 66; Polizia di Stato: art. 84 l. 1.4.1981, n. 121; Polizia penitenziaria: art. 19 l. 15.12.1990, n. 395), non sono state emanate leggi sullo sciopero. In mancanza di una definizione e di una disciplina legislativa, è stata la giurisprudenza ad individuare la nozione ed i limiti dello sciopero.
Un vero e proprio “diritto” di sciopero si è configurato soltanto a partire dall’avvento della Costituzione del 1948, mentre in precedenza lo sciopero era illegittimo sia dal punto di vista civilistico sia da quello penalistico. Sul piano civilistico, esso costituiva non già una sospensione delle obbligazioni nascenti dal contratto di lavoro bensì un inadempimento e gli scioperanti potevano subire la reazione sul piano disciplinare del datore di lavoro. Sul piano penalistico, lo sciopero poteva integrare uno dei reati previsti dal Codice penale del 1931 (art. 502 e ss. c.p.). Della compatibilità di tali figure criminose con la nuova configurazione costituzionale dello sciopero come diritto si è occupata la Corte costituzionale, la quale, respingendo l’ipotesi di un’abrogazione implicita delle norme penali sullo sciopero (C. cost., 14.6.1956, n. 1), ne ha valutato la legittimità costituzionale in riferimento all’art. 40 Cost. La Corte ha operato in un clima di perdurante astensionismo del legislatore ordinario, dovuto essenzialmente al timore del movimento sindacale che eventuali interventi legislativi in materia potessero depotenziare considerevolmente l’effettività del nuovo diritto. D’altro canto, la mancanza di una disciplina legislativa sullo sciopero si collega in parte anche alla mancata attuazione della seconda parte dell’art. 39 Cost. relativa al riconoscimento giuridico dei sindacati ed all’efficacia erga omnes dei contratti collettivi. La perdurante assenza delle leggi regolatrici non ha tuttavia impedito agli interpreti di considerare comunque in senso precettivo il riconoscimento del diritto di sciopero effettuato dall’art. 40 Cost. (C. cost., 4.5.1960, n. 29 e C. cost., 18.12.1962, n. 123).
La valutazione della legittimità delle norme penali da parte della Corte costituzionale è approdata ad esiti diversi, rinvenendosi sentenze di totale o di parziale accoglimento dell’eccezione di incostituzionalità ovvero interpretative di rigetto.
Una dichiarazione di totale incostituzionalità, giustificata dalla radicale diversità fra l’ordinamento corporativo e quello costituzionale, ha riguardato l’art. 502 c.p., considerato illegittimo in riferimento all’art. 40 Cost. in combinazione con il principio di libertà di azione sindacale di cui all’art. 39 Cost., con la conseguente caducazione innanzitutto del reato di serrata per fini contrattuali (sebbene la Costituzione non riconosca un diritto di serrata) e, in via derivata, di quello di sciopero per gli stessi scopi. Pertanto, nonostante la sua illiceità civilistica (mora del creditore) e la sua possibile configurazione come comportamento antisindacale (art. 28 st. lav.), la serrata per fini contrattuali si configura come una libertà penalmente lecita. Costituiscono invece formalmente ancora reato la serrata per fini politici (art. 503 c.p.), quella di coazione sulla pubblica autorità (art. 504 c.p.) e quella per scopo di solidarietà o di protesta (art. 505 c.p.v.; C. cost., 15.12.1967, n. 141).
In un primo momento, tramite una sentenza interpretativa di rigetto relativa all’art. 504 c.p. (C. cost. n. 123/1962), la Corte ha affermato la legittimità dello sciopero di coazione sulla pubblica autorità ove sia volto a sollecitare l’emanazione di provvedimenti «suscettibili di incidere in modo diretto sul settore del lavoro subordinato». Come ribadito in seguito, lo sciopero è legittimo anche quando venga proclamato in funzione di tutte le rivendicazioni riguardanti il complesso degli interessi dei lavoratori disciplinati nelle norme del titolo terzo della parte prima della Costituzione, restando escluso dalla tutela costituzionale quello sciopero che, senza alcun collegamento con i suddetti interessi, venga effettuato allo scopo di incidere sull'indirizzo generale del Governo (C. cost., 14.1.1974, n. 1). Successivamente, affermando che lo sciopero è un mezzo idoneo a favorire il perseguimento dei fini di cui all’art. 3, co. 2, Cost., la Corte è giunta a dichiarare parzialmente incostituzionale l’art. 503 c.p., rilevando che se lo sciopero “politico-economico” – finalizzato all’emanazione di provvedimenti direttamente incidenti sugli interessi dei lavoratori – rientra a pieno titolo nell’ambito della garanzia costituzionale del diritto di sciopero, anche lo sciopero politico puro o in senso stretto – mediante il quale i lavoratori agiscono come gruppo organizzato con l’obiettivo di condizionare le politiche generali governative – è penalmente lecito, pur non costituendo esercizio di un diritto, bensì di una mera libertà (come tale astrattamente qualificabile come inadempimento contrattuale). La residua illiceità penale ex art. 503 c.p. di entrambi gli scioperi politici emerge qualora essi siano diretti a sovvertire l’ordinamento costituzionale ovvero ad impedire o ostacolare il libero esercizio dei poteri legittimi nei quali si esprime la sovranità popolare (C. cost., 27.12.1974, n. 290). Analogamente la Corte si è pronunciata per quanto concerne l’art. 504 c.p. (C. cost., 13.6.1983, n. 165). Fermi restando i suddetti limiti penali, la Corte di cassazione è giunta peraltro ad affermare la liceità dello sciopero politico puro anche sul piano civile (Cass., 21.8.2004, n. 16515).
Tramite una sentenza interpretativa di rigetto, la Corte ha sostanzialmente disinnescato le potenzialità repressive dell’art. 505 c.p., relativo allo sciopero di solidarietà o di protesta, ritenendolo lecito, mediante la tecnica dell’esimente dell’esercizio del diritto di cui all’art. 51 c.p., ove tra i due gruppi di scioperanti il giudice di merito rinvenga una comunanza di interessi (C. cost., 11.7.1969, n. 123).
L’assenza di regole legislative ha indotto la giurisprudenza ad occuparsi anche dei limiti all’esercizio del diritto di sciopero relativi alla sua incidenza sull’esercizio dell’iniziativa imprenditoriale (art. 41 Cost.) quando lo sciopero sia esercitato con modalità articolate o anomale (sciopero “a scacchiera”, parziale, “a singhiozzo”). Per lungo tempo, adottando la cd. “tecnica definitoria” – secondo cui lo sciopero consiste in un’astensione collettiva e concertata (e totale) dal lavoro per la tutela di un interesse economico-professionale – la giurisprudenza ha considerato illegittime tali forme di sciopero in quanto avrebbero arrecato al datore di lavoro un danno ulteriore ed ingiusto consistente nell’ammontare delle retribuzioni corrisposte a fronte di una prestazione difettosa e parziale (tesi della corrispettività dei sacrifici). Tuttavia, con la sentenza del 30.1.1980, n. 711 la Corte di Cassazione ha mutato orientamento, affermando che con la parola “sciopero” si intende nulla più che una astensione collettiva dal lavoro, disposta da una pluralità di lavoratori per il raggiungimento di un fine comune, restando estranea a tale nozione qualsiasi delimitazione attinente all’ampiezza dell’astensione o ai suoi effetti (limiti interni). Tale astensione è quindi illecita solo quando ad essa si accompagnino atti commissivi tali da ledere beni ed interessi autonomamente tutelati dall’ordinamento, superandosi i limiti rinvenibili solo in norme che tutelino posizioni soggettive concorrenti, su un piano prioritario o quanto meno paritario, con quel diritto (limiti esterni). Il limite alla legittimità dello sciopero è stato quindi individuato distinguendo il “danno alla produzione” e il “danno alla produttività” arrecati dallo sciopero: il primo, riguardante la possibilità di ricavare al momento dato dall’attività economica un risultato produttivo, è ritenuto ammissibile a prescindere dall’entità del sacrificio economico subito dal datore di lavoro; il secondo, che invece incide sulla capacità produttiva dell’impresa, vale a dire sulla possibilità di continuare (al termine dello sciopero) la propria iniziativa economica da parte del datore di lavoro, è qualificato come illegittimo.
Specifiche limitazioni dell’esercizio dello sciopero riscontrabili nella prassi si rinvengono negli impianti industriali a ciclo continuo in cui, mediante accordi sulle “comandate”, alcuni lavoratori continuano a prestare la propria opera durante lo sciopero per evitare i danni connessi al blocco dell’impianto.
Un’altra specifica limitazione vale per i lavoratori marittimi, il cui sciopero non è consentito durante la navigazione in ragione dell’esigenza di salvaguardare persone e cose imbarcate (C. cost., 28.12.1962, n. 124 relativamente all’art. 1105, n. 1, c. nav.).
Il diritto di sciopero non è riconosciuto solo ai lavoratori subordinati privati e pubblici. In considerazione della posizione di debolezza socio-economica degli esercenti i piccoli commerci ed industrie che non abbiano lavoratori alle proprie dipendenze, la Corte costituzionale ha ritenuto che la loro serrata per protesta (punita dall’art. 506 c.p.) sia da inquadrare come diritto di sciopero (C. cost., 17.7.1975, n. 222). Per la stessa ragione la giurisprudenza ha riconosciuto il diritto di sciopero anche ai lavoratori parasubordinati (Cass., 29.6.1978, n. 3278).
Diversamente, le astensioni collettive dal lavoro con finalità politico-economiche dei lavoratori autonomi e dei professionisti costituiscono espressione non del diritto di sciopero di cui all’art. 40 Cost., ma di diritti di libertà costituzionalmente garantite, come quella di associazione. In questo senso sono state inquadrate anche le astensioni dalle udienze degli avvocati (C. cost., 27.5.1996, n. 171), sebbene recenti pronunce le riconducano all’esercizio di un vero e proprio diritto (Cass. pen., S.U., 19.6.2013, n. 26711; Cass. pen., S.U., 29.9.2014, n. 40187; Cass. pen., S.U., 14.4.2014, n. 15232).
Inquadrando, come tradizionalmente è avvenuto, lo sciopero come diritto potestativo del lavoratore, esso risulterebbe esercitabile solo in funzione di una pretesa diretta contro il datore di lavoro (che ne abbia la disponibilità). Senonché lo sciopero costituisce uno strumento di tutela di interessi economico-professionali da intendere in senso ben più ampio: di qui la sua preferibile configurazione come diritto assoluto della persona o diritto di libertà, condizionato all’esistenza di un contratto di lavoro, ma non inerente necessariamente al rapporto girudico con il datore di lavoro.
Secondo l’opinione maggioritaria, lo sciopero costituisce un diritto a titolarità individuale, ma ad esercizio collettivo, spettando quindi ad ogni lavoratore, cosicché anche una coalizione spontanea o occasionale di lavoratori è legittimata a proclamare uno sciopero. Peraltro, anche chi sostiene invece che lo sciopero costituisca un diritto a titolarità collettiva ad esercizio individuale esclude che soltanto le associazioni sindacali possano proclamarlo, in ragione della previsione della libertà di organizzazione sindacale sancita dall’art. 39, co. 1, Cost.
Al di fuori dell’ambito della l. n. 146/1990, perché vi sia esercizio del diritto di sciopero non è necessaria la proclamazione dello sciopero, essendo sufficiente il “fatto giuridico” dell’astensione collettiva dal lavoro per la tutela di un interesse collettivo.
Nell’ordinamento italiano non esiste un dovere implicito di pace sindacale “relativo” e quindi non esistono limiti all’esercizio di uno sciopero che abbia ad oggetto questioni già trattate e risolte da un contratto collettivo in vigore (essendo quindi legittimo uno sciopero ante tempus). L’obbligo di pace sindacale può valere solo se sia stato esplicitamente pattuito (clausole di tregua), riguardando solo le materie su cui sia stato raggiunto l’accordo e non quelle estranee ad esso o le controversie future. Una corrente dottrinale minoritaria sostiene che il dovere di pace sindacale sia invece coessenziale alla stipulazione del contratto collettivo, poiché quest’ultimo, in un’ottica di scambio, mirerebbe a conseguire e conservare la pace sociale fino alla sua scadenza, gravando sul sindacato l’obbligo di non ricorrere allo sciopero durante la vigenza del contratto per il solo fatto di averlo stipulato; ciò tuttavia non vale per i casi in cui si verifichi un mutamento sostanziale della situazione di fatto. Un dovere di pace sindacale “assoluto” è ammissibile solo se risulti da esplicite clausole del contratto collettivo che espressamente prevedano l’estensione di tale dovere anche a materie non disciplinate dal contratto. Fermi restando i problemi di giustiziabilità delle clausole di tregua sindacale, ove il dovere di pace sindacale sia stato esplicitamente pattuito la sua esigibilità spetta senz’altro al datore di lavoro. Peraltro, alla luce di recenti esperienze negoziali, non può escludersi l’interesse al rispetto della clausola anche da parte delle altre organizzazioni sindacali che l’hanno stipulata. La maggior parte degli interpreti ritiene che, se è stato pattuito esplicitamente un obbligo di pace sindacale, tale obbligo vincoli soltanto l’organizzazione sindacale che l’ha stipulato e non anche i singoli lavoratori ad essa iscritti. Ciò deriva dalla concezione dello sciopero come diritto a titolarità individuale, anche se ad esercizio collettivo, in base alla quale nessuno (neppure i rappresentanti dei lavoratori) può disporre di tale diritto. La Cassazione ha tuttavia affermato l’efficacia della clausola di tregua sindacale anche nei riguardi dei singoli lavoratori, con le conseguenti responsabilità sul piano disciplinare nei confronti del datore di lavoro (Cass., 10.2.1971, n. 357). L’organizzazione sindacale che abbia stipulato una clausola di pace sindacale è obbligata a rispettare quanto è esplicitamente previsto in detta clausola: se questa lo prevede, il sindacato sarà quindi obbligato a non proclamare astensioni collettive dal lavoro e ad influire in tal senso sulle strutture ed articolazioni della propria organizzazione. La durata dell’obbligo di pace sindacale dipende da quanto è previsto nella clausola che esplicitamente lo contempla: in mancanza di indicazioni nella clausola, si deve ritenere che l’obbligo abbia una durata correlata a quella del contratto collettivo in cui è inserita.
L’esercizio del diritto di sciopero produce la temporanea sospensione degli effetti obbligatori del contratto individuale di lavoro e, quindi, sia dell’obbligo di prestare attività lavorativa sia dell’obbligo di corrispondere la retribuzione per i periodi di sciopero. Non si sospendono, invece, i diritti e gli obblighi non correlati all’interruzione della prestazione lavorativa e, tra questi, i diritti sindacali previsti dallo statuto dei lavoratori: ad esempio, durante lo sciopero i lavoratori conservano il diritto a riunirsi in assemblea sui luoghi di lavoro ed il corrispondente diritto a percepire la retribuzione per le ore trascorse in assemblea ai sensi dell’art. 20 st. lav. (Cass., 30.10.1995, n. 11352). L’obbligo retributivo viene meno con riguardo alla cosiddetta retribuzione corrente nonché in riferimento ad alcuni elementi accessori della retribuzione: è il caso delle mensilità aggiuntive (13a e 14a mensilità), quando queste maturino pro rata in rapporto all’effettivo servizio prestato nel corso dell’anno, e delle retribuzioni differite, come il trattamento di fine rapporto (Cass., 26.5.2001, n. 7196). La prevalente giurisprudenza ritiene inoltre che lo sciopero precluda la maturazione (pro rata) del diritto alle ferie, che sono corrispondentemente ridotte (Cass., 15.2.1985, n. 418). Un ulteriore problema concerne il diritto alla retribuzione per le prestazioni lavorative “residue”, che vengono cioè offerte dopo l’attuazione di uno sciopero parziale, negli intervalli dello sciopero a singhiozzo, ovvero dai lavoratori non scioperanti durante lo sciopero a scacchiera. Secondo la giurisprudenza maggioritaria, in caso di sciopero articolato o di sciopero parziale il datore di lavoro può legittimamente rifiutare le prestazioni residue sia quando esse appaiano oggettivamente impossibili, sia ove le stesse non siano utilizzabili in maniera utile e proficua all’interno dell’organizzazione aziendale, ovverosia quando l’imprenditore sia posto in condizione di affrontare maggiori oneri e spese, rispetto alle normali condizioni produttive, per poterle ricevere (Cass., 1.9.1997, n. 8723). Secondo alcune sentenze, il rifiuto delle prestazioni residue è ammissibile solo qualora il datore di lavoro dimostri la loro oggettiva impossibilità, o, in alternativa, la loro totale inutilizzabilità (Cass., 8.5.1990, n. 3780). L’onere probatorio sulla sussistenza del motivo di legittimità del rifiuto delle prestazioni residue ricade sul datore di lavoro, tenuto a dimostrare anche la non collocabilità delle prestazioni del lavoratore non scioperante all’interno di altri settori dell’organizzazione. Il rifiuto delle prestazioni residue, anche quando sia giustificato, deve essere tempestivamente manifestato; diversamente, l’accettazione della messa a disposizione delle energie lavorative da parte dei non scioperanti darà luogo, anche in caso di inutilizzabilità delle stesse, al mantenimento del diritto alla retribuzione.
Infine, in caso di “scioperi brevi” (di durata inferiore alla giornata lavorativa), si ritiene che al lavoratore debba essere trattenuta la retribuzione per l’intera giornata solo se la sua prestazione, in conseguenza dello sciopero breve, sia scesa al di sotto di quel livello di normalità tecnica mancando la quale essa viene a perdere la sua stessa identità originaria. La fattispecie delineata potrebbe riguardare il caso in cui, in uno sciopero a scacchiera, l’astensione di un gruppo di lavoratori impedisca ad altri di effettuare la propria prestazione: in tal caso potrebbe verificarsi una legittima sospensione dell’obbligo retributivo nei confronti dei lavoratori non scioperanti in quanto la loro prestazione si configuri come impossibile (Cass., 12.4.1979, n. 2179).
Fatta salva l’ipotesi dei servizi pubblici essenziali (in cui la l. n. 146/1990 esclude il licenziamento in caso di sciopero illegittimo), quest’ultimo può giustificare un licenziamento disciplinare (nei casi più gravi: danni alla produttività dell’impresa) o l’applicazione di sanzioni disciplinari conservative. Oltre a ciò, uno sciopero illegittimo può dar luogo ad una responsabilità civile dei lavoratori scioperanti. La controversia instaurata dal datore di lavoro per il risarcimento del danno prodotto da tali condotte concerne posizioni soggettive collegate al rapporto di lavoro subordinato e rientra, pertanto, nella competenza per materia del giudice del lavoro (Cass., 28.3.1986, n. 2214). Una responsabilità contrattuale del sindacato, che legittimi una richiesta di risarcimento dei danni, pare configurabile esclusivamente nel caso in cui un sindacato abbia proclamato uno sciopero in violazione di una clausola di pace sindacale di cui sia firmatario: in questo caso, peraltro, non si è necessariamente dinnanzi ad uno “sciopero illegittimo”, bensì ad una “illegittima proclamazione di sciopero”.
Per ridimensionare gli effetti dello sciopero il datore di lavoro può legittimamente ricorrere alle prestazioni di lavoro offerte dai suoi dipendenti non scioperanti (la cui libertà di lavoro è tutelata: C. cost. 17.3.1969, n. 31) (“crumiraggio interno”; Cass., 19.7.2011, n. 15782) purché ciò non comporti l’assegnazione di costoro a mansioni inferiori (Cass., 6.8.2012, n. 14157), fatti salvi i casi eccezionali per specifiche esigenze (Cass., 16.12.2009, n. 26368), o per evitare paralisi produttive (Cass., 4.7.2002, n. 9709), o ove tali mansioni siano marginali e funzionalmente accessorie e complementari rispetto a quelle proprie dei lavoratori adibiti alla sostituzione (Cass., 10.7.2015, n. 14444), potendo altrimenti configurarsi una condotta antisindacale (su cui potrebbero però sollevarsi dubbi dopo la modifica dell’art. 2103 c.c. ex art. 3 d.lgs. 15.6.2015, n. 81). Pur discutendosi se sussista un divieto generale di ricorso al “crumiraggio esterno”, è comunque vietato assumere lavoratori intermittenti, a tempo determinato (Contratti a termine (dir. lav.) 1. Rapporto di lavoro) o somministrati (Somministrazione di lavoro) per la sostituzione degli scioperanti (artt. 14, 20 e 32, d.lgs. n. 81/2015).
Non si configura come esercizio del diritto di sciopero, ricadendo sotto i principi civilistici relativi all’adempimento della prestazione, il “rallentamento della produzione”, o “sciopero di rendimento”. Tale forma di protesta può costituire inadempimento parziale della prestazione lavorativa in quanto i lavoratori prestano una diligenza inferiore a quella normale, legittimando l’adozione di rimedi come le sanzioni disciplinari e, nei casi più gravi, il licenziamento per giustificato motivo soggettivo. Si è ritenuta altresì applicabile la diminuzione della retribuzione proporzionale alla minore attività svolta (Cass., 13.12.1982, n. 6850), ma tale conclusione non è unanimemente condivisa.
La “non collaborazione” ricorre quando i lavoratori si sottraggono all’esecuzione delle direttive del datore di lavoro attenendosi strettamente alle sole norme legislative e regolamentari che disciplinano la loro prestazione: tale comportamento può costituire inadempimento ove violi gli obblighi di collaborazione, diligenza e correttezza che vincolano il lavoratore al rispetto delle istruzioni, le quali possono variare in relazione al concreto evolversi dell’attività produttiva (artt. 2094, 2104, 1175, 1176, 1375 c.c.).
Un’ipotesi analoga è quella dello “sciopero delle mansioni”, consistente nel rifiuto di adempiere alcuni degli obblighi che compongono la prestazione lavorativa. Una parte della giurisprudenza ritiene che tale azione conflittuale, pur se attuata per ragioni sindacali, sia estranea allo sciopero poiché quest’ultimo deve concretizzarsi in una sospensione totale dell’attività lavorativa (Cass., 2.9.1995, n. 9280; contra Cass., 6.10.1999, n. 11147). Si ritiene invece rientrante nell’area dello sciopero lo “sciopero dello straordinario”, vale a dire il rifiuto di prestare lavoro straordinario, che presenta la caratteristica di totalità dell’astensione (Cass., 13.3.1986, n. 1701).
Se la permanenza dei lavoratori in azienda integra gli estremi di una lesione del possesso, sul piano civilistico potranno essere esperite, in relazione all’intensità e alla natura della turbativa, l’azione di reintegrazione ovvero quella di manutenzione, eventualmente abbinate ad una richiesta di provvedimento giudiziario d’urgenza ai sensi dell’art. 700 c.p.c. Sul piano penalistico ai lavoratori potrà essere contestato il reato di cui all’art. 508, co. 1, c.p. (arbitraria invasione e occupazione di aziende agricole o industriali) che punisce chiunque, col solo scopo di impedire o turbare il normale svolgimento del lavoro, invada od occupi l’altrui azienda agricola o industriale, ovvero disponga di altrui macchine, scorte, apparecchi o strumenti destinati alla produzione agricola o industriale. Peraltro, tale reato ricorre esclusivamente quando l’occupazione dell’azienda avvenga allo scopo specifico di impedire la prosecuzione dell’attività lavorativa e non quando questa si trovi già sospesa per via di uno sciopero in corso (C. cost. 17.7.1975, n. 220).
Esistono altre due forme di protesta che implicano lo stazionamento dei lavoratori all’interno degli impianti: lo “sciopero bianco”, che consiste in una fermata temporanea dell’attività con permanenza sul posto di lavoro; lo “sciopero alla rovescia”, che si realizza con l’ingresso dei lavoratori all’interno dell’azienda in orari diversi da quelli stabiliti per lo svolgimento dell’attività produttiva al fine di eseguire le prestazioni lavorative anche contro la volontà del datore di lavoro, sino a giungere alla vera e propria occupazione d’azienda con estromissione del datore di lavoro. Anche per queste ipotesi valgono i principi poc’anzi enunciati in merito all’occupazione di azienda.
Quanto al “blocco delle merci” – che si realizza quando i lavoratori impediscono che le merci presenti in azienda siano portate al di fuori di essa, ovvero che vi siano introdotte quelle poste all’esterno – la giurisprudenza ne riscontra la legittimità quando i lavoratori si limitano a cercare di convincere i trasportatori a sospendere la loro attività; viceversa, se essi impediscono materialmente ai trasportatori di accedere in azienda il comportamento è illecito, potendosi applicare la tutela civilistica consistente nell’azione di manutenzione ex art. 1170 c.c., ferma restando l’incriminabilità ex art. 610 c.p. (reato di violenza privata) ove il blocco sia attuato mediante violenze o minacce (Trib. Milano, 6.11.1986, in Riv. pen., 1987, 574).
Per il “picchettaggio” valgono le stesse considerazioni svolte in relazione al blocco delle merci, risultandone l’illegittimità ove si traduca in comportamenti diretti ad impedire con violenza o minaccia l’esecuzione della prestazione da parte dei lavoratori non scioperanti (Cass., 10.3.1983, n. 1979).
L’art. 507 c.p. punisce il “boicottaggio”, vale a dire il comportamento di chi, per uno degli scopi considerati nelle norme penali incriminatrici dello sciopero, «mediante propaganda o valendosi della forza e autorità di partiti, leghe o associazioni, induce una o più persone a non stipulare patti di lavoro o a non somministrare materie o strumenti necessari al lavoro, ovvero a non acquistare gli altri prodotti agricoli o industriali». Tale disposizione è stata ritenuta costituzionalmente legittima, tranne nel caso in cui il boicottaggio avvenga mediante propaganda di puro pensiero e di pura opinione, con riferimento alla generale libertà di manifestazione del pensiero tutelata dall’art. 21 Cost. (C. cost., 17.4.1969, n. 84).
Infine, il “sabotaggio” è punito dall’art. 508, co. 2, c.p. dedicato al danneggiamento degli edifici adibiti ad azienda agricola o industriale: anche tale norma è stata ritenuta costituzionalmente legittima (C. cost. n. 220/1975).
Fonti normative
Art. 40 Cost.; artt. 502, 503, 504, 505, 506, 507, 508, 610 c.p; art. 1105, n. 1, c. nav.; art. 2103 c.c.; artt. 20 e 28 l. 20.5.1970, n. 300; l. 23.5.1980, n. 242; l. 1.4.1981, n. 121; l. 12.6.1990, n. 146; l. 15.12.1990, n. 395; d.lgs. 17.3.1995, n. 230; d.lgs. 15.3.2010, n. 66; artt. 14, 20 e 32, d.lgs. 15.6.2015, n. 81.
Bibliografia essenziale
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Attribuzione: Di Spi Cgil Emilia-Romagna (Spi Cgil Sciopero Regionale E-R 16 ott 2014 (051)) [CC BY 2.0 (https://creativecommons.org/licenses/by/2.0)], attraverso Wikimedia Commons