Abstract
Partendo dal suo riconoscimento nella Carta dei diritti fondamentali dell’UE, si ricostruisce il peculiare statuto del diritto di sciopero nell’ordinamento euro-unitario, condizionato dalla riserva di competenza statale in materia sancita dall’art.153, par. 5 TFUE e dalla necessità di regolarne l’esercizio tenendo conto dei vincoli posti a presidio dell’integrazione del mercato unico; problema quest’ultimo, che è stato sollevato da una controversa giurisprudenza della Corte di giustizia e che non ha ancora trovato una pacifica soluzione.
Grazie al Trattato di Lisbona il diritto di sciopero è entrato definitivamente a far parte del bagaglio di diritti fondamentali riconosciuti dall’Unione europea. Lo afferma solennemente l’art. 28 della Carta dei diritti fondamentali dell’UE (CDFUE) alla quale, ai sensi dell’art. 6, par. 2 TUE, va oggi riconosciuto lo stesso valore giuridico dei Trattati.
La norma non si limita (come l’art. 40 Cost.) a riconoscere il diritto di sciopero, ma fornisce anche precisazioni in merito alle sue “condizioni d’uso”, finendo così per configurarne una precipua “nozione” euro-unitaria che si sovrappone a quelle nazionali. Come ricordano le Spiegazioni relative alla CDFUE, la formula contenuto nell’art. 28 si ispira sia all’art. 13 della Carta comunitaria dei diritti dei lavoratori dell’89, sia all’art. 6, par. 4 della Carta sociale europea, riveduta nel 1996 (CSE), fonte del Consiglio d’Europa. Ineludibile strumento interpretativo della norma è rappresentato anche dalla Convenzione OIL n. 87 del 1948 relativa alla libertà di associazione e di organizzazione sindacale la quale, grazie alla lettura che ne è stata data dagli organismi di controllo dell’OIL (Comitato di esperti sulla libertà di associazione/CFA e Comitato di esperti sull’applicazione delle convenzioni e delle raccomandazioni/CEACR), permette di identificare gli standard internazionali di protezione del diritto di sciopero. La Convezione in parola è stata firmata da tutti gli Stati membri e dunque concorre a determinare il livello di protezione minimo da assicurare ai diritti riconosciuti dalla CDFUE, come prescrive l’art. 53 della stessa.
I confini della nozione di sciopero adottata dalla CDFUE restano però incerti e con essi i limiti concettuali che condizionano l’esercizio del diritto all’azione collettiva. Ciò sia perché le stesse fonti internazionali indirettamente rilevanti non definiscono standard del tutto omogenei, sia perché la formula utilizzata nell’art. 28 CDFUE per riconoscere il diritto di sciopero non coincide esattamente con quella contenuta nell’art. 6, par. 4 CSE. Rispetto alla fonte del Consiglio d’Europa la CDFUE infatti, nel confermare che le azioni collettive sono esercitabili «in caso di conflitto di interessi», specifica che con esse i lavoratori «o le rispettive organizzazioni» perseguono il fine di «difesa dei loro interessi». Ne esce rafforzata la funzionalizzazione del conflitto sindacale all’attività negoziale ed alla stipula del contratto collettivo, con conseguente messa in discussione della legittimità non solo degli scioperi politici (cioè tesi a far pressione sulle autorità politiche), ma anche di quelli di solidarietà, orientati a sostenere l’azione di lavoratori dipendenti da altri datori di lavoro. Il riferimento alle «organizzazioni» come titolari del diritto (in alternativa ai lavoratori) segnala, rispetto alle altre fonti internazionali, una maggiore apertura ai cd. modelli organici di regolazione del conflitto collettivo (in merito si rinvia al classico saggio di Wedderburn Lord, Il diritto di sciopero: esiste uno standard europeo?, in Id, I diritti del lavoro, Milano, 1998, 137 ss.) ed in particolare al modello tedesco, caratterizzato dal monopolio sindacale dello sciopero. Echi di quel sistema si colgono anche nel recepimento del principio della parità delle armi, visto che il diritto di azione collettiva è attribuito anche ai «datori di lavoro»; il che comporta il riconoscimento della serrata quale diritto fondamentale di pari dignità rispetto allo sciopero.
Modellato su un sistema fortemente istituzionalizzato com’è quello tedesco, l’art. 28 legittima limiti più incisivi all’esercizio del diritto di sciopero rispetto a quelli ammessi nell’ordinamento italiano, per lo meno nell’ambito del settore privato, come noto privo di regolazione legislativa. Unico valore aggiunto rispetto allo statuto giuridico del conflitto sindacale configurato dalle corti italiane è rappresentato dalla qualificazione del diritto di sciopero come species del più ampio diritto di «azione collettiva»; nozione, quest’ultima, nella quale possono farsi rientrare le diverse manifestazioni della lotta sindacale non comportanti (come lo sciopero) un’astensione collettiva dal lavoro (sciopero bianco, non collaborazione, sciopero delle mansioni, picchettaggio, blocco delle merci ...), tradizionalmente escluse dall’ombrello protettivo dell’art. 40 Cost.
L’assunzione del diritto di sciopero tra i diritti fondamentali riconosciuti dall’UE non ha comportato il superamento dell’opzione astensionista in materia: l’art.157, par. 5 TFUE esclude infatti la possibilità di adottare norme di armonizzazione in relazione al diritto di sciopero (e di serrata). La portata di tale norma non è in alcun modo intaccata dalla CDFUE, dal momento che questa «non introduce competenze nuove o compiti nuovi» per l’UE, «né modifica le competenze ed i compiti definiti dai trattati» (art. 51, par. 2), ma è invocabile nei confronti degli Stati Membri e della stessa UE esclusivamente «nell’attuazione del diritto dell’Unione» (art. 51, par. 1).
Se l’art. 28 CDFUE non vincola gli Stati a rispettare determinati standard di tutela quando regolano l’esercizio del conflitto sindacale al di fuori dell’ambito di applicazione del diritto dell’UE, è evidente che la preclusione posta dal TFUE alle istituzioni europee di intervenire in materia riduce fortemente la portata giuridica della norma. Tale preclusione non garantisce però una piena immunità del diritto nazionale dall’ingerenza del diritto dell’Unione, pena la perdita di qualsiasi rilievo giuridico dell’art. 28 stesso, che (diversamente considerando) non troverebbe mai applicazione. Lo ha chiarito la Corte di giustizia nelle celeberrime sentenze Viking (C. giust., 11.12.2007, C-438/05, International Transport Workers' Federation, Finnish Seamen's Union c. Viking Line ABP, OÜ Viking Line Eesti) e Laval (C. giust, 18.12.2007, C-345/05,Laval un Partneri Ltd c. Svenska Byggnadsarbetareförbundet, Svenska Byggnadsarbetareförbundets avd. 1, Byggettan, Svenska Elektrikerförbundet), ribadendo (in linea con la propria consolidata giurisprudenza) che gli Stati membri non possono sottrarsi al rispetto del diritto dell’UE neppure quando regolano una materia di loro esclusiva competenza. Per tale ragione i giudici europei hanno fatto appello all’art. 28 (oltre che alle altre fonti internazionali) per valutare se l’esercizio dell’azione sindacale, nei casi di specie, fosse stato condotto nel rispetto dei principi posti a salvaguardia del funzionamento del mercato interno.
Ad oggi, il problema dello spazio di tutela da riconoscere all’esercizio del diritto di sciopero nell’ordinamento euro-unitario si è posto solo nell’ambito dei casi Viking e Laval. Il mercato unico si configura come il contesto privilegiato nel quale l’art. 28 può svolgere la sua funzione di “limite” all’applicazione del diritto dell’UE, ponendosi l’esercizio del diritto di sciopero in potenziale contrasto con l’esercizio delle libertà economiche fondamentali tutelate dal TFUE. L’art. 28 serve in questo caso a fondare il giudizio di giustificazione in merito agli ostacoli alla libertà di circolazione dei fattori produttivi determinati da azioni sindacali legittime per il diritto nazionale.
I casi Viking e Laval svelano come la questione centrale posta dal riconoscimento del diritto di sciopero nell’UE attiene alla determinazione del grado di protezione che gli Stati membri possono accordargli quando il suo esercizio “incrocia” principi e regole dell’ordinamento euro-unitario (ed in specie, del mercato interno). Letta in questa prospettiva, la nozione di sciopero e di azione collettiva adottata dalla CDFUE è funzionale a delimitare i confini oltre i quali il diritto al conflitto, pur riconosciuto in un ordinamento nazionale, non può legittimamente giustificare violazioni del diritto dell’UE. Vale a dire che, ad esempio, uno sciopero politico che ostacolasse la libera circolazione nell’ambito del mercato interno dovrebbe per ciò stesso considerarsi illegittimo, se è vero che la lettera dell’art. 28 non pare contemplarlo come manifestazione del diritto di azione collettiva.
La riconducibilità di un’azione collettiva alla nozione adottata dalla CDFUE non ne garantisce comunque la legittimità, posto che il suo esercizio potrebbe essere regolato in maniera non compatibile con il diritto dell’UE. In questo senso va letto l’inciso, non a caso inserito nell’art. 28, per il quale il diritto di azione collettiva è riconosciuto «conformemente al diritto dell’Unione». Un inciso che non contraddice quanto precisato dall’art. 52, par. 1 CDFUE in merito al fatto che i diritti e le libertà affermati dalla stessa CDFUE possono subire limitazioni «nel rispetto del principio di proporzionalità (…) solo laddove siano necessarie e rispondano effettivamente a finalità d’interesse generale riconosciute dall’Unione o all’esigenza di proteggere i diritti e le libertà altrui».
Le sentenze Viking e Laval si iscrivono in questo quadro di principi e forniscono una risposta alla questione dei limiti apponibili al diritto di azione collettiva funzionali a rendere il suo esercizio conforme al diritto dell’Unione (per tutti, Carabelli, U., Europa dei mercati e conflitto sociale, Bari, 2009). Nel caso Viking la questione si è posta con riferimento ad un’azione collettiva proclamata dal sindacato finlandese dei marittimi con il sostegno del sindacato internazionale (ITF), finalizzata a contrastare la registrazione in Estonia di un traghetto appartenente ad un’impresa navale finlandese. L’azione sindacale, pur legittima per il diritto finlandese, è stata sottoposta al vaglio del test di proporzionalità al fine di valutare se potesse configurare un ostacolo giustificato all’esercizio della libertà di stabilimento di cui all’art. 49 TFUE (già 43 TCE). Ciò in sintonia con la consolidata giurisprudenza che subordina l’ammissibilità di misure che limitano l’accesso al mercato nazionale al fatto di rispondere effettivamente ad esigenze imperative di interesse generale ed alla non configurabilità di mezzi alternativi, meno lesivi dell’altrui libertà economica (diffusamente, Barnard, C., The Substantive Law of the EU. The Four Freedoms, Oxford, 2010, 253 ss e 380 ss.). L’applicazione del test di proporzionalità al diritto di sciopero si traduce così in un sindacato sulle finalità perseguite col suo esercizio: lo sciopero comporta un’indebita compressione della libertà di stabilimento se non è giustificato dall’esigenza di tutelare interessi dei lavoratori (occupazionali o relativi alle condizioni di impiego) effettivamente messi a rischio dal cambio di sede dell’impresa. Neppure può considerarsi proporzionata un’azione collettiva se nell’ordinamento dove essa è realizzata esistono altre vie di composizione della controversia, che incidono in grado minore sulla libertà dell’impresa. La libertà di stabilimento si pone dunque come potenziale limite “esterno” del diritto di sciopero ed il principio di proporzionalità porta a configurare l’arma del conflitto come estrema risorsa (extrema ratio) a disposizione dei lavoratori per la soluzione delle controversie sindacali.
Alla luce degli stessi principi la Corte di giustizia ha risolto il caso Laval, nel quale il problema della compatibilità dell’esercizio del diritto di sciopero con il diritto dell’UE si è posto in relazione alla libertà di prestare servizi di cui all’art. 56 TFUE (già 59 TCE). La Corte di giustizia è stata chiamata a valutare la legittimità di azioni collettive (blocchi e azioni di solidarietà) organizzate dai sindacati svedesi per indurre un’impresa edile lettone ad applicare il contratto collettivo di categoria ai propri dipendenti distaccati in Svezia per eseguire un appalto. Il giudizio in merito alla giustificazione (e dunque alla legittimità) delle azioni sindacali è stato in questo caso condizionato dalla direttiva 96/71 relativa al distacco dei lavoratori nell’ambito di una prestazione di servizi. La direttiva identifica il quantum di tutele che gli Stati membri possono garantire ai lavoratori stranieri inviati sul territorio nazionale da un’impresa stabilita all’estero, ancorandolo agli standard minimi previsti dalle leggi e dai contratti collettivi di generale applicazione relativi ad un elenco tassativo di materia (tra le quali, le tariffe minime salariali; art. 3, par. 1). In tal modo il legislatore europeo traduce in disposizioni di diritto derivato il test di proporzionalità sul quale si fonda il giudizio di giustificazione in merito agli ostacoli apponibili alla libera prestazione di servizi.
Con la sentenza Laval la Corte di giustizia chiarisce che la direttiva 96/71 vale anche a limitare l’esercizio dell’azione collettiva, se questa è finalizzata alla negoziazione con l’impresa che distacca i lavoratori. Se ne ricavano ulteriori limiti all’esercizio del diritto di sciopero funzionali a garantire l’accesso al mercato nazionale ad imprese di servizi stabilite all’estero. In particolare è inibito il ricorso all’azione collettiva per estendere l’applicazione di un contratto collettivo, se questo è privo di efficacia generale e fissa standard di tutela superiori a quelli minimi ammessi dalla direttiva 96/71.
L’emersione di limiti all’esercizio del diritto di sciopero derivanti dal diritto dell’UE solleva il problema di valutarne la compatibilità con gli standard internazionali in materia deducibili dalle fonti OIL (in specie la Convenzione 87/48) e dall’art. 6, par. 4 CSE, considerando la loro indiretta rilevanza come fonti di interpretazione per determinare il contenuto dei diritti affermati dalla CDFUE.
Gli organi deputati a monitorare il rispetto di tali fonti internazionali sono stati sollecitati ad affrontare il problema dai sindacati nazionali. In particolare, il CEACR dell’OIL si è espresso in merito all’impatto della sentenza Viking su un’azione di sciopero proclamata dal sindacato dei lavoratori della British Airways (BALPA) per contestare l’apertura di una filiale all’estero della compagnia aerea che avrebbe avuto (a giudizio del sindacato) conseguenze negative sull’occupazione e sulle condizioni di lavoro; azione inibita dai giudici inglesi perchè potenzialmente lesiva della libertà di stabilimento garantita dal diritto dell’UE (International Labour Conference, 99th Session 2010, Report of the CEACR, Report III (part IA)- United Kingdom, Geneve, 2010). Gli esperti dell’OIL non si sono spinti a valutare nel merito la giurisprudenza della Corte di giustizia, ma hanno censurato gli effetti negativi che essa può produrre sul rispetto degli standard internazionali in un ordinamento dotato (come quello britannico) di strumenti processuali capaci di inibire il ricorso allo sciopero e tali da esporre il sindacato al rischio di insostenibili sanzioni economiche.
Il CEACR si è astenuto dal giudizio in merito alla giurisprudenza della Corte di giustizia anche nel valutare gli effetti prodotti dalla sentenza Laval nell’ordinamento svedese (International Labour Conference, 102nd Session 2013, Report of the CEACR, Report III (part IA)- Sweden, Geneve, 2013). La violazione della convenzione 87/48 è stata colta sia nelle sanzioni inflitte ai sindacati per un’azione considerata legittima dal diritto nazionale nel momento in cui è stata realizzata; sia nel fatto che la normativa svedese (modificata per adeguarsi ai dicta della Corte di giustizia) non tutela adeguatamente la libertà di organizzazione sindacale ed il diritto di azione collettiva dei lavoratori stranieri distaccati. Nessuna espressa censura è stata invece formulata in merito ai limiti posti all’esercizio del diritto di sciopero dei lavoratori svedesi (oggetto della sentenza Laval).
Sensibilmente diversa (e meno prudente) appare la posizione adottata dal Comitato europei dei diritti sociali (CEDS) in risposta al ricorso collettivo promosso dai sindacati svedesi (European Committe of Social Rights, 3.7.2013, Swedish Trade Union Confederation (LO) and Swedish Confederation of Professional Employees (TCO) v. Sweden). Rovesciando la prospettiva dei giudici di Lussemburgo, gli esperti del Consiglio d’Europa hanno sottolineato come l’apposizione di limiti all’esercizio del diritto di sciopero per tutelare la libertà economica dell’impresa (pur in astratto ammissibili) non debbano tradursi in una sproporzionata compressione di quel diritto (ai sensi dell’art. 31 CSE); il che accade se, come fa il legislatore svedese, viene precluso il ricorso al conflitto sindacale per ottenere standard di tutela più favorevoli rispetto a quelli minimi prescritti per legge. Lo scarto più evidente rispetto alla giurisprudenza della Corte di giustizia si coglie nell’affermazione per la quale i lavoratori stranieri distaccati all’estero godono (ai sensi dell’art. 19, par. 4 CSE) del diritto alla parità di trattamento rispetto ai lavoratori nazionali. Ciò contraddice quanto prescritto dalla direttiva 96/71 come interpretata dalla Corte di giustizia e sovverte l’argomento centrale utilizzato da quest’ultima per configurare i limiti di esercizio dello sciopero nell’ambito del mercato dei servizi.
Le decisioni del CEDS non vincolano i giudici europei; d’altra parte anche nei confronti degli Stati aderenti alla CSE queste hanno un rilievo soltanto politico, giusta la natura non giurisdizionale dell’organismo che le adotta. Resta il fatto che (come detto) la CSE costituisce un doveroso riferimento nell’interpretare l’art. 28 CDFUE. Per non leggere nella decisione degli esperti del Consiglio d’Europa una censura della giurisprudenza della Corte di Lussemburgo occorre considerare i principi da essi enunciati in merito al diritto di sciopero come riferiti esclusivamente ai lavoratori stranieri (sulla scia dell’approccio adottato dagli esperti OIL). Altrimenti non resta che riconoscere l’esistenza di un contrasto tra Corte di giustizia e CEDS nell’interpretazione degli standard deducibili dalla CSE, ricomponibile con un revirement da parte della prima.
Al contrario della CSE, la Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDU) è riconosciuta come fonte di diritto internazionale che definisce i diritti fondamentali facenti parte «del diritto dell’Unione in quanto principi generali» (art. 6, par. 3 TUE). Alla CEDU fa riferimento anche la CDFUE per riconoscere l’equivalenza (del “significato” e della “portata”) dei diritti fondamentali affermati nei due documenti (art. 52, par. 3). L’adesione dell’UE alla CEDU, prevista dall’art. 6, par. 2 TUE, sancirebbe poi la definitiva acquisizione della fonte del Consiglio d’Europa nell’ordinamento euro-unitario.
Tutto ciò spiega l’attenzione che è stata rivolta alle sentenze della Corte di Strasburgo con le quali il diritto di contrattazione collettiva (C. eur. dir. uomo, 12.11.2008, Demir e Baykara c. Turchia) e di sciopero (C. eur. dir. uomo, 21.4.2009, Enerij Japi- Yol Sen c. Turchia) sono stati (per la prima volta) attratti sotto l’ombrello protettivo dell’art. 11 CEDU, in quanto irrinunciabile espressione della libertà di associazione. In particolare, con la sentenza Enerij Japi è stata considerata in contrasto con l’art. 11 CEDU la regolazione dello sciopero che in Turchia rende possibile il divieto di esercitarlo per intere categorie di dipendenti pubblici.
La sentenza Eneryj Japi non collide però con i dicta della Corte di giustizia (contra Ewing, K.- Hendy, J., The Dramatic Implication of Demir and Baykara, in Ind. Law Jour., 2010, 2 ss.), visto che nulla dice in merito ai limiti apponibili allo sciopero per tutelare la libertà economica dell’impresa. La questione va risolta alla luce dell’art. 11, par. 2 CEDU, che giustifica limitazioni alla libertà di associazione se «necessarie (…) alla protezione dei diritti e delle libertà altrui». La giurisprudenza della Corte di Strasburgo (sia precedente che successiva alle cd. sentenze turche) mostra come questa non escluda che lo sciopero possa essere limitato per tutelare gli interessi economici dell’impresa, vuoi che consistano nel diritto di contrattare con soggetti terzi (C. eur. dir. uomo, 10.1.2002, UNISON c. Regno Unito) vuoi che attengano all’esigenza di evitare seri danni al processo produttivo (C. eur. dir. uomo, 28.1.2011, Trofimchuk c. Ucraina). Il che giustifica la conclusione per cui i limiti apposti dalla Corte di giustizia al diritto di sciopero (laddove una simile questione venisse sollevata) potrebbero passare il vaglio di un giudizio di compatibilità con l’art. 11 CEDU (Dorssemont, F., The Right to Take Collective Action under Article 11 ECHR, in Dorssemont, F.- Lörcher, K.-Schömann, I. (eds.), The European Convetion on Human Rights and the Employment Relation, Oxford and Portland, Oregon, 2013, 359).
È vero che nelle sentenze “turche” la Corte europea dei diritti dell’uomo, per giungere alle sue conclusioni, ha fatto propria un’inedita lettura evolutiva del diritto internazionale qualificando lo sciopero come diritto fondamentale alla luce delle altre fonti che lo riconoscono, ivi compresa la CSE. Se ne potrebbe dedurre l’implicita attrazione nell’alveo protettivo dell’art. 11 CEDU del diritto di sciopero nei termini configurati dal CEDS che, come detto, sembra non avallare i limiti che la Corte di giustizia ricava dai principi del mercato interno. Una simile prospettiva è però smentita dalla recente sentenza con la quale la Corte di Strasburgo ha negato di essere vincolata dalla giurisprudenza degli organi di controllo delle altre fonti internazionali (ivi compreso il CEDS) nel definire il contenuto dei diritti fondamentali; da ciò il riconoscimento che il divieto di sciopero di solidarietà (più volte censurato da quell’organismo) non costituisca di per sé una violazione dell’art. 11 CEDU (C. eur. dir. uomo, 8.4.2014, National Trade Union of Rail, Maritime and Transport Workers c. Regno Unito).
Il rigido riparto di competenze sancito dall’art. 153, par. 5 TFUE non ha impedito il prendere forma di un limite sovranazionale all’esercizio del diritto di sciopero, fondato direttamente sulle fonti primarie dell’UE. Ne escono ulteriormente ridotti i margini d’intervento del legislatore europeo in materia, visto che le fonti di diritto derivato devono tener conto sia della riserva di competenza statale sia dei principi sovraordinati ricavabili dal TFUE. Lo conferma la fallimentare sorte che è toccata alla proposta di regolamento cd. Monti II (COM(130)2012), con la quale la Commissione ha cercato di dare una risposta ai problemi causati dalle controverse sentenze della Corte di giustizia e ritirata a seguito dell’attivazione della cd. procedura “cartellino giallo”, posta a Lisbona a presidio del principio di sussidiarietà (protocollo n. 2 del Trattato di Lisbona). La proposta conteneva un inedito rinvio alle parti sociali a livello europeo per definire (per via negoziale) modalità di mediazione o conciliazione finalizzate a risolvere consensualmente controversie «transnazionali o a carattere transnazionale» (art. 3, par. 2), nonché un meccanismo di allerta comportante obblighi di reciproca informazione tra Stati membri in caso di azioni collettive capaci di creare turbamenti alla libera circolazione (art. 4), sul modello già sperimentato nell’ambito della libera circolazione delle merci con il Regolamento n. 2679/1998/CE. Il fallimento dell’iniziativa legislativa è imputabile al timore degli attori politici e sociali di molti Stati membri che con essa si finisse per amplificare i rischi d’ingerenza nei sistemi nazionali di relazioni industriali. La cd. clausola di salvaguardia inserita nella proposta ha paradossalmente rafforzato tali timori, confermando implicitamente quanto affermato dai giudici europei in merito al fatto che «l'esercizio del diritto fondamentale di promuovere azioni collettive, compreso il diritto o la libertà di sciopero, rispetta [le] libertà [economiche] fondamentali» (art. 2).
I principi ricavati dalla Corte di giustizia dalle fonti primarie dell’UE hanno evidentemente rappresentato un riferimento ineludibile per l’organo di governo dell’UE. Un diverso approccio è stato seguito dal legislatore europeo nelle altre fonti derivate nelle quali è stato affrontato il problema del potenziale impatto del diritto dell’UE sul conflitto sindacale.
Il primo esempio è fornito proprio dal regolamento n. 2679/1998/CE (cd. regolamento Monti) adottato sulla scia della sentenza C. giust., 9.12.1997, C-265/05, Commissione c. Francia, nella quale la Francia è stata ritenuta responsabile per gli intralci alla circolazione delle merci causati da azioni collettive (in questo caso, blocchi e danneggiamenti operati da gruppi organizzati di contadini per impedire l’importazione di prodotti ortofrutticoli dalla Spagna). Il regolamento Monti, nel confermare l’obbligo degli Stati membri di adottare provvedimenti per garantire la libertà di circolazione sul proprio territorio, prevede espressamente che tali provvedimenti non possano «pregiudicare in qualsiasi modo l'esercizio dei diritti fondamentali riconosciuti dagli Stati membri, compreso il diritto o la libertà di sciopero» (art.2).
La logica “immunitaria” (tesa cioè ad impedire l’infiltrazione del diritto dell’UE negli ordinamenti nazionali) è stata seguita anche nella direttiva n. 2006/123/CE relativa ai servizi nel mercato interno, il cui art. 1, par. 7 dispone che la «presente direttiva non pregiudica (…) il diritto di negoziare, concludere ed eseguire accordi collettivi e di intraprendere azioni sindacali in conformità del diritto e delle prassi nazionali che rispettano il diritto comunitario». La norma (fortemente voluta dalla Confederazione europea dei sindacati) in questo caso però solo apparentemente contraddice i dicta della Corte di giustizia in materia di sciopero. Ciò sia perché la tutela di quel diritto è comunque condizionata al rispetto del diritto dell’UE; sia (soprattutto) perché la direttiva non si occupa delle condizioni di lavoro dei lavoratori impiegati nell’ambito di prestazioni di servizi (art. 1, par. 6), che restano oggetto della direttiva 96/71 (art. 3, par. 1, lett. a). Ne consegue che l’immunità garantita dalla direttiva 2006/123/CE si riduce ad una precisazione dell’ambito di applicazione della stessa e non incide sui limiti che all’azione sindacale derivano dall’applicazione di altre fonti derivate e dei principi ricavabili direttamente dal TFUE. Lo stesso vale per l’analoga clausola di salvaguardia inserita nella direttiva n. 2014/67/UE di attuazione della direttiva 96/71 (art. 1, par. 2), finalizzata a garantire una più efficace applicazione di quest’ultima con misure di contrasto agli abusi nell’utilizzo del distacco e di coordinamento dell’attività ispettiva e di controllo.
Clausole di salvaguardia a tutela dell’autonomia collettiva e dell’azione sindacale sono infine previste nel regolamento n. 1176/2011/UE sulla prevenzione e la correzione degli squilibri macroeconomici, che si iscrive nell’ambito delle riforme della governance economica europea attuata per far fronte alla crisi economico-finanziaria. Le raccomandazioni rivolte agli Stati membri dal Consiglio e dalla Commissione per evitare squilibri eccessivi e per farvi fronte se questi si verificano, sono adottate «tenendo conto dell’art. 28 della Carta» (art. 6, par. 3) e pertanto non pregiudicano «il diritto di negoziare, concludere accordi collettivi e di intraprendere azioni collettive in conformità del diritto e delle prassi nazionali» (art. 1, par. 3). Le disposizioni in parola in questo caso servono ad escludere che le istituzioni dell’UE possano invitare gli Stati membri a porre limiti al conflitto sindacale ed all’autonomia collettiva degli attori sociali, come misura per risolvere i propri squilibri finanziari; il che non impedisce naturalmente agli Stati membri di agire comunque in tal senso.
La portata di ciascuna clausola di salvaguardia presente nelle fonti derivate dipende dallo specifico ambito di applicazione della stessa. Tutte però segnalano la volontà delle istituzioni politiche dell’UE di sottrarre la materia del conflitto sindacale dalle dinamiche dell’integrazione europea, secondo una logica immunitaria contraria alla “dottrina Laval”. L’adozione di un simile approccio deve però necessariamente fare i conti con tale dottrina, dal momento che la Corte di giustizia la ricava direttamente dalle fonti primarie. Ciò ridimensiona (si può dire, a priori) gli effetti delle stesse clausole di salvaguardia, esposte nella loro applicazione ad un’interpretazione conforme al diritto dell’UE. Ne è riprova il fatto che, seppur nell’ambito dei considerando, anche la direttiva 96/71 contiene una simile clausola, laddove assicura di lasciare «impregiudicato il diritto vigente degli Stati membri in materia di azioni collettive per la difesa degli interessi di categoria» (considerando 22). Una precisazione che non ha influito sull’esito del caso Laval.
L’opzione astensionista confermata dall’art. 153, par. 5 TFUE, oltre a non preservare il diritto di sciopero dai vincoli posti dall’ordinamento dell’UE, lascia senza risposta il problema della sua regolazione (e conseguente tutela) quando è esercitato a livello transnazionale. Tale problema presuppone infatti la definizione sul piano sovranazionale di regole comuni capaci di legittimare le azioni sindacali condotte in modo da coinvolgere attori sociali di più Stati membri. Né l’art. 28 CDFUE a quelle azioni può fornire un fondamento giuridico, posti i rigidi limiti del suo ambito di applicazione; lo confermano (per eliminare ogni dubbio in proposito) le Spiegazioni relative alla CDFUE, dove si legge che la soluzione del «problema di stabilire se le azioni sindacali possano essere condotte parallelamente in vari Stati membri» è rimessa «alle legislazioni e alle prassi nazionali». Inciso pilatesco, perché il problema non è affatto risolvibile dai singoli Stati membri, ognuno dei quali prevede specifiche regole (sostanziali o procedurali) in materia di conflitto sindacale, non coordinabili con quelle degli altri. Regole che per altro, in diversi ordinamenti, pongono limiti all’esercizio dello sciopero di solidarietà, strumento indispensabile per sostenere vertenze sindacali di lavoratori dipendenti da imprese straniere.
L’incerto statuto giuridico dello sciopero può rendere di fatto impraticabile il ricorso all’arma del conflitto nei confronti delle controparti datoriali (le imprese multinazionali) e delle loro organizzazioni di rappresentanza (Business Europe e sue federazioni) e privare così l’ordinamento dell’UE di un presupposto imprescindibile per lo sviluppo della contrattazione collettiva transnazionale ed europea, pur promossa dallo stesso TFUE (art. 152 e 153 TFUE) (Carrieri, M.-Treu, T., Le relazioni industriali italiane ed europee: innovazioni da completare e convergenze da affinare, in Id., a cura di, Verso nuove relazioni industriali, Bologna, 2013, 28 ss.). Si è invocato proprio l’art. 152 TFUE, come riformulato dal Trattato di Lisbona, per prospettare possibili accordi quadro tra le parti sociali europee sulle regole del conflitto sindacale (Veneziani, B., L’art.152 del Trattato di Lisbona: quale futuro per i “social partners”?, in Riv. giur. lav., 2011, 263); ipotesi in teoria plausibile, ma difficile nei fatti da realizzare. Simili prodotti negoziali solleverebbero poi complessi problemi relativi alla loro efficacia giuridica, giusta l’impossibilità di recepirli con atti vincolanti delle istituzioni europee (art. 155, par. 2 TFUE).
Lasciata com’è alla regolazione prevista nei singoli Stati membri, l’attuazione di un’azione transnazionale può dar luogo ad un conflitto di leggi. Ne è esempio il caso Tor Caledonia nel quale la Corte di giustizia è stata chiamata a risolvere (in base all’allora vigente Regolamento n. 44/2001/CE, c.d. Bruxelles I) un problema di giurisdizione sorto nell’ambito di una controversia tra una compagnia navale danese ed un sindacato svedese (C. giust., 5 febbraio 2004, C-18/02, Danmarks Rederiforening, DFDS Torline A/S c. LO Landsorganisationen i Sverige, SEKO Sjöfolk Facket för Service och Kommunikation). Quest’ultimo aveva proclamato uno sciopero e organizzato azioni di boicottaggio per indurre la prima ad applicare migliori condizioni di lavoro al proprio equipaggio (composto prevalentemente da marinai polacchi). La Corte di giustizia ha legittimato il ricorso al cd. criterio del locus damni (del luogo dove il danno è stato prodotto, ovvero, nel caso di specie, della nazionalità della nave) per selezionare il foro competente. Il caso Tor Caledonia ha preceduto di pochi mesi l’adozione del regolamento n. 864/2007/CE (cd. Roma II) relativo alla legge applicabile alle obbligazioni extracontrattuali ed ha influito sulla decisione del legislatore europeo di inserirvi una disposizione specifica sui criteri di collegamento da rispettare in caso di danno prodotto da azioni collettive (art. 9). La norma prevede che dell’eventuale responsabilità extracontrattuale per danni causata da un’attività sindacale, un lavoratore, un datore o un’organizzazione di rappresentanza risponda in base alla legge del paese dove questa «è destinata a svolgersi o si è svolta». Il criterio del locus actus è derogato solo nel caso in cui «il presunto responsabile e la parte lesa risiedano abitualmente nello stesso paese nel momento in cui il danno si verifica» (ex art. 4, par. 2). Non ha invece trovato spazio una norma analoga nel regolamento n. 1215/2012/UE (cd. Bruxelles I bis), destinato dal 2015 a sostituire il regolamento del 2001; con la conseguenza che il foro competente continuerà ad essere individuato in base ai principi enunciati dalla Corte di giustizia nella sentenza Tor Caledonia.
Il nuovo quadro normativo aumenta il grado di certezza e prevedibilità della legge applicabile ad azioni sindacali che presentino elementi di internazionalità, ciò a prescindere dal giudice chiamato a valutarne la legittimità. Il duplice criterio di collegamento (locus actus e residenza comune alle parti) non favorisce però una regolazione unitaria del conflitto quando l’azione coinvolge lavoratori di diversi Stati membri, specie nel caso di azioni di solidarietà: l’azione principale e quella che la sostiene sono destinate ad essere regolate da leggi diverse, anche nel caso in cui trovino esecuzione nel medesimo Stato membro.
I criteri dettati dall’art. 9 sono poi utilizzabili solo se è contestabile la responsabilità extracontrattuale di chi organizza o attua l’azione sindacale, laddove in molti Stati membri (specie se caratterizzati dalla titolarità individuale del diritto) lo sciopero illegittimo espone piuttosto i lavoratori a responsabilità contrattuale e disciplinare (com’è nell’ordinamento italiano). In questo caso la scelta della legge applicabile è rimessa all’incerta applicazione dei criteri indicati dall’art. 8 del Regolamento n. 593/2008/CE (cd. Roma I); in primis, quello della lex loci laboris, la cui declinazione per regolare i rapporti collettivi può variare considerevolmente nei diversi ordinamenti nazionali (cfr. su queste problematiche si rinvia a Dorssemont, F.-A.A.H. van Hoek, Collective action in Labour Conflict under the Rome II Regulation, in Ales, E.- Novitz, T., (eds), Collective Action and Fundamental Freedoms in Europe, Anwerp- Oxford- Portland, 2011, 213 ss.).
Anche con riferimento ai profili internazional-privatistici della materia emergono dunque lacune nell’ordinamento dell’UE che aggravano il vuoto normativo causato dall’opzione astensionista recepita nel corpo del TFUE. Un’opzione incompatibile con lo sviluppo di un più strutturato e maturo sistema di relazioni sindacali sovranazionali.
Art.153, par. 5 TFUE; art. 28 CDFUE; art.11 CEDU; art. 6.4 CSE; Convenzione OIL n. 87/1948; Cons. 22, direttiva 1996/71/CE; art. 2, regolamento n. 2679/1998/CE; art. 1.7, direttiva 2006/123/CE; art. 9, regolamento n. 864/2007/CE; artt. 1.3 e 6.3, regolamento n. 1176/2011/UE.
Ales, E.-Novitz, T. (eds), Collective Action and Fundamental Freedoms in Europe, Anwerp-Oxford-Portland, 2011; Andreoni, A.-Veneziani, B., a cura di, Libertà economiche e diritti sociali nell’Unione Europea, Roma, 2009; Carabelli, U., Europa dei mercati e conflitto sociale, Bari, 2009; Chiaromonte, W., Diritto di negoziazione e di azioni collettive, in Bisogni, G.-Bronzini, G.,-Piccone, V., a cura di, La Carta dei diritti dell’Unione europea, Taranto, 2009; Dorssemont, F.-Jaspers, T.-van Hoek, A. (eds.), Cross-Border Collective Actions in Europe: A Legal Challenge, Anwerp-Oxford, 2007; Giubboni, S.- Orlandini, G., Il conflitto collettivo nell’ordinamento comunitario, in Dem. e dir., 2004, 119; La Macchia, C., La tutela multilivello dell’azione collettiva. Comparazione tra nove paesi europei, in Ead., a cura di, Lo sciopero in Europa, Roma, 2013; Lo Faro, A., Diritto al conflitto e conflitto di diritti nel mercato unico: lo sciopero al tempo della libera circolazione, in Rass. dir. pub. eur., 2011, 419; Novitz, T., International and European Protection of the Right to Strike, Oxford, 2003; Orlandini, G., Sciopero e servizi pubblici essenziali nel processo d’integrazione europea, Torino, 2003; Sciarra, S., L’Europa e il lavoro. Solidarietà e conflitto in tempo di crisi, Bari, 2013; Vimercati, A., a cura di, Il conflitto sbilanciato, Bari, 2009; Wedderburn, Lord, Il diritto di sciopero: esiste uno standard europeo?, in Id, I diritti del lavoro, Milano, 1998.