sciopero
Astensione volontaria dal lavoro per protesta
«Fare sciopero» o «mettersi in sciopero» sono espressioni abbastanza comuni per dire che ci si rifiuta di fare una cosa o che si smette di farla. Proprio questo è infatti il significato della parola sciopero, una pratica che – nata con la prima rivoluzione industriale – per decenni ha avuto gli operai come soli protagonisti, e tuttora ha i sindacati come soli organizzatori
I termini scioperato e sciopero derivano entrambi dal verbo latino exoperare «smettere di lavorare», ma con un’accezione assai differente. Mentre nel primo caso, infatti, l’inattività si configura come un comportamento individuale dettato dalla pigrizia, nel secondo caso essa prende la forma di strumento di lotta sociale. Nell’Ottocento veniva avversato dai datori di lavoro e da molti benpensanti perché interrompeva la continuità della produzione e rompeva la fiducia sulla quale si basava il rapporto con i dipendenti. Nell’opinione comune l’astensione dal lavoro dovuta a uno sciopero veniva considerata un ‘colpo basso’, mentre per la legge rappresentava un atto di insubordinazione. Questa percezione dello sciopero come evento traumatico è testimoniata dalla lingua inglese e da quella tedesca, dove i termini strike e Streich (usati per indicare lo sciopero) significano «colpo, percossa, attacco». Una risonanza particolare hanno sempre avuto gli scioperi generali – con i quali, direttamente o indirettamente, i governi stessi vengono chiamati in causa – oppure gli scioperi di singole categorie capaci di fermare interi comparti strategici della produzione.
Nel primo caso rientrano sia il lungo sciopero effettuato in Belgio nell’inverno del 1961, sia quelli più recenti proclamati in Italia sotto i governi di centro-sinistra e di centro-destra. Nel secondo caso rientrano invece gli scioperi dei tessili russi nel 1905, dei minatori americani nel 1943-44, dei metallurgici italiani nel 1919-20 e nel 1968-69, dei minatori inglesi nel 1984 e dei ferrovieri francesi nel 2003 e nel 2005.
Perché piccoli gruppi o grandi masse di operai, impiegati, quadri e dirigenti interrompono, abbandonano o non si presentano neppure al lavoro? I motivi di oggi non sono molto diversi da quelli di ieri, quando uno dei primi studiosi disse che lo sciopero «esprime una protesta e rafforza una richiesta». Lo sciopero è difensivo quando reagisce ad azioni che danneggiano i lavoratori, come licenziamenti, infortuni, tagli salariali, punizioni ingiuste. È offensivo, invece, quando sostiene rivendicazioni avanzate dai lavoratori, per esempio aumenti salariali, riduzioni degli orari, rinnovo del contratto, investimenti produttivi. In tutti i casi, lo sciopero è promosso, proclamato e preparato da una o più organizzazioni sindacali. Chi arrestasse o abbandonasse il lavoro di propria iniziativa verrebbe punito perché nessuno può decidere da solo di mettersi in sciopero: benché sia un diritto individuale, lo sciopero è sempre un fatto collettivo. Da ricordare, infine, che naturalmente le ore di sciopero non vengono retribuite e che, dunque, scioperi prolungati sono molto onerosi anche per il lavoratore stesso.
Le forme di sciopero (definite comportamenti conflittuali) sono innumerevoli perché riflettono il settore economico interessato, le caratteristiche professionali dei lavoratori coinvolti, i rapporti di forza lavoratori-imprenditori e le tradizioni organizzative dei sindacati. Un esempio di questa varietà è la durata stessa degli scioperi, uno degli indicatori usati per confrontare la conflittualità dei vari paesi. In Italia le astensioni dal lavoro sono piuttosto frequenti e generalmente brevi, mentre in Inghilterra sono piuttosto rare e generalmente lunghe. Perché? I sindacati italiani non si sono mai dotati di quei fondi di resistenza che i sindacati inglesi costituirono fin dalla loro origine proprio per fronteggiare agitazioni prolungate.
Di conseguenza, in Italia non si proclamano quasi mai scioperi ‘a oltranza’, che nei paesi anglosassoni sono spesso la regola: non sarebbe possibile dare sussidi ai lavoratori per «resistere più del padrone». Non solo. I sindacati italiani, cercando di infliggere molti danni con pochi costi, ricorrevano a forme quali gli scioperi ‘a singhiozzo’ e ‘a scacchiera’, che spezzano la continuità produttiva al di là della durata dell’astensione. Tutto ciò era possibile in modo particolare nell’industria, dove sono nati sia gli scioperi sia i sindacati. Poi, con lo spostamento dell’occupazione dall’industria ai servizi, le forme dello sciopero sono mutate, così come sono mutati i soggetti.
Se in precedenza le lotte del lavoro erano sostenute soprattutto dagli operai che bloccavano le fabbriche, ora scendono in piazza anche i lavoratori dei servizi, i quali possono fermare il funzionamento di autobus, treni, aerei e uffici postali, e ridurre quello di radio e tv, giornali, banche, tribunali, ospedali. In Italia lo sciopero è consentito perfino ai vigili del fuoco e ai controllori di volo. Il conflitto ha dunque effetti anche su chi di quel conflitto ignora le cause. Talvolta il datore di lavoro – la controparte – è lo Stato, un ente pubblico, un’amministrazione locale. Non solo. Il malcontento per le politiche economico-sociali dei governi spinge talvolta i sindacati a proclamare scioperi generali che possono colpire sia la produzione sia i servizi.
Questo spostamento del conflitto sociale verso il settore terziario ha spinto l’Italia a porre limiti rigorosi all’esercizio del diritto di sciopero: dal 1990 è in vigore una legge che viene fatta rispettare da un’apposita Commissione di garanzia. Nel nostro paese, la tutela dei cittadini dalle conseguenze degli scioperi terziari è pertanto maggiore di quella riscontrabile in paesi pur avanzati come Francia, Belgio, Spagna, Australia.
D’altra parte, il ricorso allo sciopero è un mezzo, non un fine. Oggi più di ieri si cerca quindi di evitare che le vertenze sindacali si inaspriscano fino a provocare la rottura delle trattative e a sfociare in dichiarazioni di sciopero. Un po’ ovunque si ricorre a procedure di conciliazione che consentono di esplorare le possibilità di intesa, e a clausole di raffreddamento che tendono a dilazionare il passaggio alla lotta. Però, quando le parti in causa non riescono a trovare un’intesa perché non sono disposte al compromesso, lo sciopero diventa inevitabile. D’altra parte, anche se capitale e lavoro esprimono interessi non sempre conciliabili, la storia insegna che fra uno sciopero e l’altro la pace fra loro dura ben più del conflitto.
Lo sciopero è un fenomeno altamente complesso, studiato da sociologi e politologi, e ‘raccontato’
dai grandi romanzieri. Basti pensare ai francesi Émile Zola (Germinale, 1885) e Roger Martin du Gard (I Thibault, 1922-1940), ai tedeschi Gerhart Hauptmann (I tessitori, 1892) e Anna Seghers (La rivolta dei pescatori di Santa Barbara, 1928), ai russi Ilja Ehrenburg (Julio Jurenito, 1922) e Maxim Gorki (La madre, 1932), agli inglesi Archibald Cronin
(E le stelle stanno a guardare, 1935) e Richard Llewellyn (Com’era verde la mia vallata, 1939), agli americani John Steinbeck (La battaglia, 1936) e Howard Fast (Sciopero a Clarkton, 1947) e agli italiani Vasco Pratolini (Metello, 1955) e Ottiero Ottieri (Tempi stretti, 1957).