AMMIRATO, Scipione
Nacque a Lecce il 7 ott. 1531 da distinta famiglia, che vantava nobili origini toscane. Dopo essere stato a Brindisi, da giovinetto (1545), per studiar retorica, si condusse (15471) per conseguire il (non raggiunto) dottorato in diritto, a Napoli, dove, lungo un quadriennio, preferì agli interessi giuridici quelli umanistici. Frequentò colà, difatti, elevati circoli intellettuali contraendo durevoli amicizie con Bernardino Rota (al nome del quale intitolò il dialogo Delle Imprese, più volte ristampato), con Angiolo Di Costanzo (cui dedicò più tardi un capitolo autobiografico in terza rima) e con altre autorevoli personalità del mondo culturale partenopeo. Si portò successivamente a Roma. dove, avendo vestito l'abito ecclesiastico, sollecitò senza fortuna presso Giulio III la porpora cardinalizia per il vescovo di Lecce Braccio Martelli, da lui sempre rammentato con profonda venerazione; poi a Venezia, nonché a Padova, col proposito, non realizzato, di riprendere e ultimare in quest'ultima città gli interrotti studi giuridici. Al soggiorno veneziano è connessa sia la partecipazione dell'A. alla stampa, patrocinata dal Ruscelli, dell'Orlando Furioso, cui egli prepose gli Argomenti in rima, sia la stesura di un'opera, oggi perduta, Il Trionfo d'Apollo, forse concernente lo stesso tema poi sviluppato nel Dedalione o Dialogo del Poeta (Napoli 1560). Nel 1558 lo ritroviamo a Lecce, dove fonda l'Accademia dei Trasformati (motto: "Melior saeclorum nascitur ordo"), della quale si fece "Principe", col nome di "Proteo". E a tale fase di vita va ragionevolmente riferita la composizione della commedia I Trasformati, alquanto frivola e scurrile, secondo la moda del tempo, dedicata a Ferrante Monsorio, e rimasta inedita fino ai nostri giorni (Trani 1900). Al periodo veneziano va pure assegnata la composizione di altre scritture, quale il Dialogo delle Ingiurie, o Maremonte (ove contro il vezzo dei duelli si distinguono le ingiurie, a seconda che colpiscano la roba, la persona, l'onore, con graduazioni inerenti al luogo, al tempo, al modo, alla causa, concludendosi che l'ingiuria fa torto a chi la esercita, non a chi la subisce; e che "chi non si vendica delle ingiurie non è né debole né vile"), e quali le Mescolanze, che radunano una varietà di notazioni storico-letterarie.
Ritornato a Napoli, l'A., pur non restando affatto alieno dalla vita di società, dà alla propria attività intellettuale un più disciplinato e metodico indirizzo, volgendosi, oltre che alla poesia, anche alla scienza delle "Imprese", allora di moda, alla genealogia, e alla storia, iniziandosi così alla paziente ricerca di archivio. Rimonta a tale epoca la fruttifera raccolta di materiali di studio che verranno più tardi in parte utilizzati. Se è rimasta incompiuta un'opera, che si possiede in manoscritto, Delle antiquità del Regno di Napoli, vedrà a suo tempo la luce una serie di Famiglie nobili napoletane, una Vita di Giovanna Regina di Napoli, una Vita di Re Ladislao.
Ma è col suo trasferimento a Firenze (1569) che l'A., messosi sotto la protezione della corte medicea, sviluppa un più maturo e serrato piano di lavoro, durato fino alla morte. Da Cosimo, al quale aveva offerto una galleria di Ritratti di casa Medici, l'A. riceve l'incarico di scrivere una storia della Toscana, con l'autorizzazione di giovarsi dell'Archivio pubblico, istituito nel 1570. Ne risulterà un'opera di largo respiro, di cui l'A. poté vedere pubblicata, prima di morire, già una grossa sezione: Dell'Istorie Fiorentine libri venti, dal principio della Città infino all'anno MCCCCXXXIV, nel quale Cosimo de Medici il vecchio fu restituito alla patria (Firenze 1600).
In essa viene manifestato fin dal Proemio il proposito ambizioso di far qualcosa di più controllato e particolareggiato degli stotici precedenti: "Seguirò io con tanta accuratezza la ragione del tempi, e così con quella m'ingegnerò far rispondere le cose, che potrà ciascuno spacciatamente conoscere e quando e come quelle cose che si raccontano furon fatte, al che niuna oscurità, niun dubbio ne rimanga nell'animo suo. Solo, infra tutti coloro i quali infino a questo, tempo hanno scritto, ho procacciato di cavar dalle tenebre i nomi de' Gonfalonieri di giustizia...". Nell'intendimento dell'autore, che aveva compiuto faticose indagini, e anche atteso ad altre sezioni, raccogliendo la necessaria documentazione, la trattazione avrebbe dovuto proseguire, e pervenire non solo fino alla morte di Cosimo (1574), ma addirittura sino alla morte del granduca Francesco, cioè all'anno 1578. Sorte non propriamente felice ebbe, dopo la sua morte, la pubblicazione integrale dell'opera, a cura di Scipione Ammirato il Giovane: venne data la precedenza, nel 1641, alla stampa della seconda parte, inedita; mentre la prima parte venne ripresentata, nel 1647, in due tomi, con modifiche e aggiunte di dubbia opportunità e con stile manifestamente diverso. Vari tentativi sono stati eseguiti successivamente, ai fini di una più conveniente riedizione del testo, con adeguati chiarimenti per il lettore: a tutt'oggi, lo sforzo più apprezzabile si è palesato quello di Luciano Scarabelli, cui si deve la ristampa delle Istorie Fiorentine di S.A., ridotte all'originale e annotate, in 7 voll. (Torino 1853).
Opera, questa, che al suo tempo procacciò all'A. fama di esperto storiografo, e che gli valse anche posteriormente vari encomi: benché recentemente essa non si sia sottratta a un giudizio assai severo (forse, troppo severo) dei Fueter, secondo il quale la trattazione dell'A., oscillando "in modo fastidioso" fra la ricerca erudita e l'esposizione storica, non avrebbe saputo appagare né l'una né l'altra esigenza. Ma può, forse, onestamente concludersi, che, a parte taluni difetti, cioè ingenuità e anche apriorismi (rintracciabili, del resto, nella maggior parte di consimili trattazioni), si deve riconoscere nell'A. lo sforzo di tener presenti sia le fonti sia le altrui interpretazioni degli accadimenti, nonché il merito di essere pervenuto a un vasto quadro d'insieme, col vantaggio, per gli storici moderni, di un importante possesso di copiosi elementi di giudizio, quanto meno ai fini comparativi.
A Firenze, intanto, l'A. poteva dare comodo corso a un'attività a lui propriamente congeniale: quella della ricerca genealogica. Dal 1577 al 1580, egli trova modo di riordinare la congerie di appunti presi, e di carte ricevute in esame, al tempo del suo soggiorno in Napoli, in merito a un folto gruppo di casate magnatizie partenopee; e ne verrà fuori l'opera sulle Famiglie nobili napoletane (Firenze 1580), che dedicherà a Ferdinando de' Medici. Illustrazione, questa, di quarantacinque ceppi nobiliari, che dovette richiedere non poca fatica, se, condottala a termine, l'A. rinunziò a proseguirla nei riguardi di altre settantaquattro casate, sulle quali lasciò parecchi frammenti, parzialmente utilizzati, dopo la sua morte, nel 1651, da Scipione Ammirato il Giovane. L'intenzione di tale lavoro può magari riconnettersi al suo proposito di dedicarsi con maggior cura alla stesura delle Istorie Fiorentine; ma non èaffatto da escludere che egli preferisse altresì mettere la sua indubbia esperienza di sagace genealogista a servizio delle casate toscane, avendo a immediata portata di mano i necessari elementi di studio. Certo, dal 1580 al 1582, egli si diede a raccogliere abbondanti materiali concernenti la nobiltà toscana, agevolato a tal fine da una larga esibizione di quei documenti domestici, di cui a Napoli, in verità, gli era stata alquanto lesinata la visione. Ispezione, la sua, condotta con quella serietà diligente che gli ha consentito di smascherare talun impudente genealogista da strapazzo, falsificatore di diplomi e pergamene: ma anche stavolta l'opera integrale non verrà pubblicata se non dopo la sua morte (Delle famiglie nobili fiorentine, Firenze 1615).
Il credito che egli ha ormai raggiunto per la sua posizione ufficiale (sull'architrave superstite della sua modesta casa fiesolana si legge ancora: "Scipio Admiratus Rer. Flor. Scriptor"), se non davvero la tranquillità economica (non di rado egli lamenta la propria indigenza), consente all'A. un'attiva partecipazione alla vita culturale cittadina: è assiduo, infatti, alle tornate dell'Accademia degli Alterati, fondata a Firenze nel 1569, ove gli accade di prendere le difese dell'Ariosto, e di intervenire nei certami eruditi del giorno. Nel 1583, dà alle stampe a Firenze un libretto, Opuscoli, di vari ragionamenti ora di carattere occasionale ora di sapore moralistico (Della Ospitalità; Della Diligenza; Se gli onori si debbono procurare; La vita del Re Ladislao; La vita della Regina Giovanna; Orazione in morte del Gran Duca Cosimo; Lettera alla Signora Donna Eleonora di Toledo in materia di un'Impresa; I Paralleli).
Assai maggiore e specifico impegno manifestano, però, quei Discorsi sopra Cornelio Tacito ai quali l'A. dovette cominciare a dedicarsi non meno di una diecina d'anni prima della pubblicazione dell'opera (Fiorenza 1594), da lui offerta a Madama Cristina di Lorena. Partendo dal presupposto che la storia deve giovare all'istruzione attuale, gli sembra opportuno (secondo un'opinione, del resto, corrente) che, volgendo ormai tempi orientati politicamente verso il principato, convenga studiare casi e concetti prospettati dallo storico dell'Impero: e nei centoquarantatré Discorsi di cui consta la sua trattazione, egli ricava dagli Annali e dalle Istorie dello scrittore latino altrettanti spunti per dissertare su numerose, spicciole questioni politiche, militari, economiche.
L'A. si inserisce, quindi, di pieno diritto in quella tendenza dottrinale cui è stato dato il nome di "tacitismo", e della quale, anzi, egli èuno degli esponenti primi e più autorevoli, nonché più significativi, per lo meno a motivo della sua presa di posizione. In questo senso: mentre il Botero, con la sua Ragion di Stato (1589), aveva denunziato il tacitismo quale maschera del machiavellismo, l'A., scrivendo dopo di lui, quasi deliberatamente s'industria di sfruttare i passi di Tacito ai fini di un suo permanente atteggiamento antimachiavellico.
L'A. dichiara di essersi volto allo studio di Tacito per non mettersi in concorrenza col Machiavelli commentatore di Livio (e meno si darà occasione a, mormoratori, se, non entrando io per altre vie che altri prima di me calpestò, il quale fece Discorsi sopra autore che scrisse di Republica, sarommi posto a scrivere sopra uno il quale abbia trattato di Principi": Proemio); ma è impossibile non rilevare come egli non abbia perduto alcuna occasione per confutare e rettificare quel Segretario Fiorentino che non viene mai nominato e al quale vien fatto riferimento allusivo sempre con locuzioni indirette, quali "alcuno", e altri", "l'autor presupposto" e simili. Sicché, nella storia dell'antimachiavellismo del Cinquecento, l'A. si aggiudica un posto irrefutabile, ma anche tutto a sé: giacché sarà necessario convenire che-a differenza di certo antimachiavellismo dozzinale e superficiale, comune ai più-la polemica di lui, se pur programmatica, si mantiene abitualmente su un corretto piano di critica erudita, pacata e non volgare.
Polemica antimachiavellica, quella dell'A., che continuerà in sede di altri ragionamenti, non inclusi fra i Discorsi sopra C. Tacito, e solo molti anni dopo la sua morte raccolti da S. Ammirato il Giovane nel tomo I I di una ampia edizione di Opuscoli (Firenze 1637). Cioè, allorché verranno svolti i seguenti quesiti: Se è vero che la Sede Apostolica tenga l'Italia divisa; Onde proceda che l'Italia si mantenga tuttavia divisa; Se è vero che l'Italia fusse in miglior condizione quando fusse governata da un solo Principe. Nelle quali dissertazioni, l'A., respingendo la nota accusa rivolta dal Machiavelli (Disc.,I, 12) alla Chiesa - non esser pervenuta all'unificazione d'Italia, e averla tuttavia impedita, sostiene, non senza stringati argomenti, sia che il mancato risultato unitario non è affatto addebitabile ai pontefici sia che l'unificazione - ove pur fosse stata realizzabile - avrebbe arrecato all'Italia più svantaggi che benefici. A suo avviso, fra l'altro, la molteplicità di principati, con relativi centri fortificati distribuiti lungo la penisola, avrebbe funzionato e funzionerebbe da valido argine contro un eventuale invasore, cui sarebbe stato, e sarebbe, più facile, avendo ragione di un unico reggitore d'Italia, l'impadronirsi dell'intero stato italiano.
Né soltanto a motivo della polemica antimachiavellica i Discorsi sopra C. Tacito palesano un particolare interesse. là in quest'opera che, con apposito e disteso indugio (I. XII Ann., Disc. I, Della Ragione di Stato), l'A. interviene in quello che indubbiamente fu il più acceso dibattito del tempo, fornendo una sua prospettiva, e una sua definizione, di "Ragion di Stato". Premesso che un pacifico dottrinarismo ha ormai individuato l'esistenza di varie "ragioni" (naturale, civile, militare, delle genti), ciascuna di esse limitatrice e correttrice dell'altra, nulla si oppone a che si faccia luogo a una ulteriore "ragione" - appunto, la e Ragion di Stato" - che implicherà una deroga ad altre leggi, escluse quelle naturali e divine. Donde, la sua definizione: "Ragion di Stato altro non essere che contravvenzione di legge ordinaria, per rispetto di publico beneficio, ovvero per rispetto di maggiore e più universale ragione". Definizione non priva di rigore e di acume, e, del resto, poi variamente riprodotta, sviluppata (e anche criticata) in Italia e all'estero. L'A. è, certamente, ligio alla concezione di un reggitore provvisto di una plenitudo potestatis, ma saggio, pio, esemplare, consapevole dei suoi. doveri, specie nei riguardi delle classi umili (eloquenti, alcuni accenti: e favoriscansi, dunque, i contadini, se non altro perché son quelli che dànno mangiare a "nobili"; "dir che uno era un buon lavoratore era [presso i Romani] sommamente voler lodare una persona"; ecc.). E più ampia e coordinata cognizione avremmo avuto del pensiero politico dell'A., se egli avesse potuto ultimare quel trattato sul Principe, che, iniziato nel 1599, è rimasto in tronco, e di cui possediamo solo la parte pubblicata anch'essa, dopo la morte dell'autore, da Scipione Ammirato il Giovane nel terzo tomo degli Opuscoli (Fiorenza 1642).
Ma nell'A. la vocazione erudita non si disgiunge da uno spirito particolarmente sensibile agli avvenimenti politici del suo tempo. L'inquietitudine generale, cui sinceramente partecipa, per la minaccia musulmana incombente sulla frontiera orientale dell'Europa, gli è di stimolo alla composizione di varie Orazioni che egli viene indirizzando, con animo fremente, a Sisto V (1594), a Clemente VIII (le tre Clementine: 1594, 1595, 1596), a Filippo II e a Filippo III. di Spagna (le tre Filippiche: 1594, 1598), a Enrico, re di Francia e di Navarra (1598), alla nobiltà napoletana. Apparendogli chiaro che "il fine e l'intendimento del Turco si è d'occupar l'Italia" (Oraz. a Sisto V) - preoccupazione manifestata nel suo ulteriore discorso recante per titolo Che da' progressi del Turco si vede che vuol farsi signore d'Italia - vibra nei suoi sermoni un'appassionata, patriottica commozione, che gli detta anche proposte pratiche ai fini degli apprestamenti militari e finanziari necessari a fronteggiare il grosso pericolo che gravava sulla sua terra e sulla intera cristianità.
Il suo canto del cigno può essere, forse, rappresentato dalle Rime spirituali sopra salmi, composte nel 1597, e solo assai più tardi (Venezia 1634) date alla luce da Scipione Ammirato il Giovane. Rime atte a testimoniare - a prescindere dal merito letterario - un più profondo accostamento ai valori religiosi da parte dell'infaticabile scrittore, che, quasi sessantacinquenne, si laureava in teologia (23 genn. 1595) Per divenire canonico in duomo. Ormai malfermo in salute, l'A. non era più in grado di ultimare o revisionare altri lavori, su taluni dei quali si applicò più tardi l'attenta cura dell'erede delle sue carte (cfr. ad es.: Vescovi di Fiesole, di Volterra e d'Arezzo, con l'aggiunte di S. Ammirato il Giovane, Firenze 1637). Dopo aver fatto testamento, l'A. si spegneva l'11 genn. 1600 (stile fiorentino) e veniva sepolto in duomo.
Successive alla sua morte, sia le edizioni tedesche (Helenopoli, 1609, 1618) e francesi (Paris 1618; Lyon 1628; Rouen 1633, 1642) dei suoi Discorsi sopra C. Tacito, sia le stampe o ristampe di vari scritti storici o letterari.
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