MANZANO, Scipione di
Nacque a Cividale del Friuli il 14 nov. 1560 da Giovanni Battista e da Floria, figlia del nobile udinese Girolamo Florio.
La famiglia dei signori di Manzano - da cui discende anche il conte Francesco autore a fine Ottocento degli Annali del Friuli - era originaria del Trentino, e si stabilì in Friuli agli inizi del XII secolo. In seguito, ottenne dal patriarca d'Aquileia il castello di Manzano unitamente ai diritti di giurisdizione su alcuni villaggi circostanti e numerosi altri beni fondiari. A partire dal 1420, anno della dedizione del Friuli a Venezia, i Manzano si trasferirono definitivamente a Cividale - dove risultavano già presenti dalla seconda metà del secolo XIII -, divenendo una delle famiglie più importanti della città.
Il M. studiò nelle scuole pubbliche di Cividale e completò la sua formazione a Venezia, dove strinse duraturi legami con letterati veneziani e friulani, quali il poeta Vincenzo Giusti, Marcantonio Fiducio e Giovanni d'Attimis. Conoscitore dei classici e di Dante, il M. maturò rapidamente una predilezione per il poema eroico-cavalleresco e per il suo più illustre rappresentante, Torquato Tasso, oggetto di emulazione per tutta la vita.
Il 13 luglio 1579 sposò, di fronte al notaio e storico Marcantonio Nicoletti (imparentato a sua volta con la famiglia del M.), Elena di Giacomo di Mels di Cividale, dalla quale ebbe sei figlie e un figlio, Giovanni Battista. Agli impegni connessi al governo della città, il M., che gli storici descrivono come un giovane ambizioso, alternò gli esercizi cavallereschi. Il 17 apr. 1580 Federico Savorgnan, luogotenente della Patria del Friuli, organizzò una giostra rimasta poi celebre, alla quale il M. si presentò "tutto vestito di raso bianco ed impennacchiato di candide piume, sopra un cavallo turco dal mantello nerissimo" (Marchetti, p. 374).
La sua carriera di scrittore si concentrò in un arco assai limitato di anni, caratterizzati dalla sperimentazione e imitazione di forme e modelli, dalla riflessione sui generi e fenomeni letterari e dalla ricerca di uno stile il più possibile personale. Questo percorso, arrestatosi prima del raggiungimento di una piena maturità artistica, iniziò nel 1592, con la pubblicazione delle Lagrime di penitenza di David (Venezia, A. Salicato, 1592).
Introdotte da una dedicatoria di Nicoletti ad Agostino Valier, vescovo di Verona e cognato di Giorgio Gradenigo, le Lagrime sono una traduzione dei sette Salmi penitenziali in italiano, trasposti in ottava rima perché "si veggano anco pur nel verso per maggior gusto de' Christiani" (p. 5). In perfetta sintonia con il clima controriformistico, l'opera si colloca nell'ambito della poesia lagrimosa.
Pubblicate nel 1593 e collocate decisamente su un altro versante sono invece le annotazioni erudite a La caccia di Erasmo di Valvason (La caccia, dell'illustrissimo sig. Erasmo di Valvasone. Ricorretta e di molte stanze ampliata, con le annotationi di M. Olimpo Marcucci, Bergamo, Comin Ventura, 1593). Utilizzando lo pseudonimo di Olimpio Marcucci, il M. fornì un apparato esegetico completo all'opera ispirata ai Cynegetica di Nemesiano, mettendone in risalto le fonti classiche e illustrando in chiave didascalica i passi più oscuri.
Un filone ulteriore può essere individuato nei componimenti d'occasione, tra i quali si ricordano le Poesie di diversi volgari et latine per la morte dell'eccellentissimo… Alfonso Belgrado… (Venezia, G.A. Rampazetto, 1593), le Rime di diversi nobilissimi ingegni furlani composte ne l'occasione de la nova fortezza di Palma raccolte da Tomaso Sabbadini udinese (Udine, G.B. Natolini, 1594) e infine le Poesie nelle nozze de gli… sposi il signor conte Scipione Collalto e la signora Cara Brescia… (Udine, G. Natolini, 1595). Come provveditore della città, carica che ricoprì a più riprese, il M. tenne frequentemente pubblici discorsi. Tra i più celebri, l'orazione funebre del 1593 per il patriarca d'Aquileia Giovanni Grimani (Lagrime nelle esequie fatte da Cividale di Friuli per la morte di mons. patriarca Giovanni Grimani d'Aquileia, Padova, L. Pasquato, 1594) e il discorso letto il 15 apr. 1594 nella chiesa di Cividale di fronte al patriarca Francesco Barbaro.
Il primo esempio di poesia non occasionale e frutto di una personale rielaborazione delle auctoritates, pur chiaramente rintracciabili nella struttura e nello stile, furono i tre canti del Dandolo dati alle stampe nel 1594.
Dedicata al doge Pasquale Cicogna e a Giambattista Padavino, segretario del Senato veneziano, l'opera uscì a Venezia per i tipi di Francesco Bariletti, col titolo completo di I primi tre canti del Dandolo. Poema eroico dell'illustre signor Scipione da Manzano. Con le annotazioni del signor Nicolò Claricino, ai quali non fecero mai seguito i rimanenti canti annunciati dall'autore stesso nella premessa. Il poema celebra, attraverso la rievocazione della quarta crociata (1202-04) e del suo principale patrocinatore, il doge Enrico Dandolo, il prestigio raggiunto da Venezia sotto il dogato di Cicogna (1585-95). Modello di riferimento è la Gerusalemme liberata di Tasso, richiamata solennemente nell'incipit e nella scelta della materia, qui sviluppata in ottemperanza ai principî aristotelici dell'unità di azione e di luogo, ma con alcune concessioni alla varietas e allo spirito romanzesco, in un equilibrio ideale che sancisce la superiorità della poesia epica su quella cavalleresca.
Il M. approfondì questi temi nei Discorsi sopra l'Angeleida (Venezia, G.A. Somasco, 1595), in cui - commentando un'opera di Erasmo di Valvason per difenderlo dall'accusa di eccessiva libertà nei confronti delle regole aristoteliche - ribadì l'opinione che "l'epopea […] avanza in eccellenza ogn'altro genere di poesia, o narrativo o drammatico" (p. 9), aggiungendo che il poema eroico non ha solo il fine immediato del diletto, ma possiede anche un altro scopo, quello dell'utile e dell'insegnamento morale.
Gli ultimi anni di vita furono per il M. i più intensi e attivi. A. Zeno nelle Annotazioni alla Biblioteca di G. Fontanini dice di aver esaminato presso Stanislao Santinelli, chierico regolare somasco a Venezia, un codice in folio contenente appunti, carteggi e abbozzi del Manzano.
Il codice, di cui oggi non rimane traccia, conferma la particolare attenzione del M. verso i generi elevati dell'epica e della tragedia, come testimoniato dalle lettere che vi erano conservate, tra le quali, per esempio, quelle al poeta V. Giusti (cui il M. inviò le sue tragedie L'atleta e Alessandro Magno per averne un giudizio) e quelle a Fiducio, scritte in aperta polemica con Giason Denores circa il fine della tragedia. Il codice conservava poi un Dialogo sopra la tragedia, debitore in gran parte al Discorso di G.B. Giraldi sulla Canace di S. Speroni, e un altro Discorso sulla superiorità del poema eroico. Chiudevano questa silloge alcuni scritti, che esortavano il figlio alla lettura e allo studio del Pastor Fido e delle opere di Dante, e dai quali si ricava che il M. avesse progettato un poema epico sull'espugnazione di Granada.
È forse questo il codice che d'Attimis aveva intenzione di pubblicare, e mai pubblicò, col titolo di Discorsi poetici, come affermava in una Nota ai lettori nell'ultima e forse più importante opera del M., composta anch'essa probabilmente intorno al 1595, il poema mitologico Aci. Favola marina… sotto il velo della quale si loda la Serenissima Repubblica di Venetia (Venezia 1600).
L'Aci fu pubblicato postumo, in una versione non definitiva (l'autore non poté completare il finale) a cura del figlio Giovanni Battista. È una favola in cinque atti con prologo, in endecasillabi e settenari, senza un preciso schema rimico. Racconta l'amore della ninfa Galatea e del pastore Aci, osteggiato dal geloso Polifemo. Aci, gettato tra le onde dal ciclope, viene posto in salvo da Proteo e condotto di fronte a Nettuno, che lo eleva al rango di divinità e lo congiunge in matrimonio con l'amata Galatea, da cui "Proteo vaticina che debba nascer un giorno Adria, ninfa fondatrice dell'Imperio Venetiano" (p. 4). Dalle note autografe - come segnala d'Attimis, che poté vedere il manoscritto - si deduce, tuttavia, che il M. avrebbe desiderato applicare notevoli modifiche a questa struttura iniziale, introducendo per ciascun atto un coro sull'amore e inserendo la menzione delle famiglie patrizie veneziane, per conferire così all'opera un aspetto esplicitamente encomiastico e più consono ai dettami controriformistici.
Il M. morì a Cividale del Friuli il 26 febbr. 1596, per una ferita d'arma da fuoco riportata durante uno scontro tra le due fazioni rivali della città nei pressi del ponte sul Natisone.
Fonti e Bibl.: A. Zeno, Annotazioni, in G. Fontanini, Biblioteca dell'eloquenza italiana, I, Parma 1803, pp. 448 s.; G.G. Liruti, Notizie delle vite ed opere scritte da' letterati del Friuli, IV, Venezia 1830, pp. 149-152; F. di Manzano, Cenni biografici dei letterati ed artisti friulani dal secolo IV al XIX, Udine 1885, p. 125; V. Joppi, Un poeta friulano del secolo XVI: S. di M., in Archeografo triestino, s.2, XVI (1890), pp. IX-XV; A. Rieppi, "Il Dandolo" di S. di M., in Ateneo veneto, CXXVIII (1941), 1-2, pp. 56-59; G. Marchetti, Il Friuli. Uomini e tempi, Udine 1979, I, pp. 373-376; L. Gianni, La carriera ecclesiastica di un canonico friulano nel Trecento: Guido da Manzano, in Memorie storiche forogiuliesi, LXXXI (2001), pp. 239-263.