GOZZADINI, Scipione
Figlio di Gabione di Nanne e di Chiara di Bartolomeo Bolognini, nacque nel 1398, probabilmente a Roma, dove il padre si era trasferito da Bologna per sovrintendere al banco che la famiglia vi aveva avviato.
Ebbe un fratello, Carlo, con cui condivise a lungo affari e residenza, e altri due fratelli più giovani. Insieme con la madre in avanzato stato di gravidanza e i fratelli, alla fine del 1403, venne rinchiuso in carcere a Roma, quale ritorsione per il tentativo di sedizione nella città di Bologna di cui era stato accusato il padre. La loro prigionia ebbe breve durata: dopo che Gabione fu giustiziato il 9 febbr. 1404, Chiara e i figli ritornarono a Bologna, ove il padre di Chiara, ricchissimo mercante di seta, godeva della fiducia del cardinale legato Baldassarre Cossa.
Scarse le tracce della prima parte della vita del G.; sporadiche notizie sono rimaste solo a partire dal 1416, quando furono annullati i provvedimenti di bando e confisca dei beni emessi in precedenza dai vari governanti della città nei confronti di tutti i membri maggiorenni della famiglia Gozzadini. La solidarietà degli zii paterni si manifestò allora con una certa continuità e uno di essi, Castellano, agì anche come curatore dei nipoti nella gestione del patrimonio che si stava faticosamente ricomponendo. Nel maggio 1424 Chiara morì, lasciando ai figli diversi appezzamenti di terra, che poco dopo essi vendettero per 200 lire di bolognini, e alcuni crediti, sia quale residuo della dote non ancora resale, sia per piccoli prestiti da lei concessi.
Alla scomparsa della madre il G. aveva già dato un preciso indirizzo alla propria vita frequentando i corsi di diritto civile nello Studio bolognese. Qui il 23 apr. 1425 superò l'examen privatum, bruciando quindi in brevissimo tempo tutte le successive tappe della carriera. Due giorni dopo, il 25 aprile, ricevette le insegne di dottore nella sacrestia della cattedrale, che un'apposita delibera di Collegio aveva appena riconosciuto luogo adatto a tale cerimonia. Il giorno seguente chiese di essere aggregato al Collegio dei dottori di diritto civile, presentando le necessarie attestazioni di cittadinanza e la domanda di dispensa dal requisito di avere preventivamente insegnato per tre anni.
La concessione del dottorato nella ristretta sacrestia non era avvenuta nel contesto della costosa cerimonia pubblica del conventus e, per dare assicurazioni che entro due mesi il G. vi si sarebbe sottoposto, il 30 aprile lo zio Tommaso prestò idonea garanzia. Nel frattempo la carriera del G. procedeva: il 17 maggio la sua richiesta di aggregazione al Collegio venne accolta, il 25 giugno aveva luogo con la tradizionale pompa il conventus ed egli vi ricevette nuovamente le insegne di dottore.
Non vi è motivo per dubitare che questa eccezionale rapidità non sia derivata dalle reali doti di preparazione e capacità del G., ma non si può al tempo stesso sottovalutare il fatto che i due dottori che lo avevano presentato all'examen privatum, e che si erano alternati nel conferirgli le insegne di dottore, erano Giovanni Guasconi e Marco Canetoli; di quest'ultimo il G. aveva poco prima sposato la figlia, Diamante, che gli aveva portato in dote la somma di 1500 fiorini d'oro. Nel novembre 1428 il Canetoli moriva e i suoi libri e le sue lecturae vennero acquisiti dal G., quali strumenti di un'attività di docente che aveva fatto immediato seguito alla aggregazione al Collegio.
Nel 1425 gli era stato attribuito l'incarico dell'insegnamento straordinario del Digestum vetus e fino al 1469 alternò, anno dopo anno, le lecturae di ciascuna delle tre parti del Digesto e del Codice, ma sempre come insegnamento straordinario. Questa lunga attività di docente non sembra sia stata peraltro accompagnata da una significativa produzione scientifica o, se vi fu, di essa non sono rimaste tracce certe.
Molto numerose e sicure sono invece le testimonianze della sua ininterrotta partecipazione all'attività del Collegio dei dottori di diritto civile e alle varie commissioni in esso create per l'esame delle richieste di deroghe, di concessione di incarichi straordinari, di aggregazione di nuovi membri, in misura crescente con il trascorrere del tempo - che ne fece uno degli antiquiores doctores - e anche con la presentazione di studenti all'examen privatum e con l'intervento alle cerimonie del conventus. Del Collegio fu priore per la prima volta nel terzo bimestre del 1430 e successivamente assunse, a turno con i colleghi, questo incarico in altre venti circostanze, fino al secondo bimestre del 1479. Sostituì anche a volte il priore in carica, come avvenne ancora nel maggio del 1481.
Tra i componenti del Collegio il G. si segnalò come uno dei più tenaci assertori di una rigida applicazione delle norme e delle consuetudini che ne regolavano l'attività, disposto a contrastare insieme con i colleghi sia l'ingerenza delle autorità romane - come nel 1451, durante un suo priorato, quando una bolla pontificia intervenne a regolamentare la figura del rettore degli studenti -, sia le decisioni del governatore pontificio di Bologna, Angelo Capranica, che nel 1459 aveva avocato a sé il giudizio in merito al requisito di cittadinanza di un lettore dello Studio. Ma il G. era pronto a opporsi anche a tutti gli altri dottori di Collegio; lo fece in diverse occasioni, fino al febbraio 1481, in quella che fu una delle sue ultime partecipazioni alle attività del Collegio.
Questa rigidità di comportamento può spiegare perché, nonostante la sua lunga permanenza nel Collegio, egli non abbia mai goduto di un forte ascendente nei confronti dei colleghi, a eccezione forse di Nicolò Ghislardi, il solo che gli si proclamasse amico. Ma quando nel 1452 il G., in carica quale priore, propose che Ghislardo, il figlio di Nicolò, fosse aggregato al Collegio, ne ebbe un rifiuto così netto da indurre il giovane ad astenersi per altri sei anni dal ripresentare la domanda.
In realtà più che nell'ambito dello Studio, il G. fu figura di rilievo nel contesto politico e istituzionale della città, occupando via via una serie di uffici e di incarichi, tutti di alto prestigio. Fu membro del Collegio dei riformatori dello Stato di libertà, il massimo organo di governo cittadino, nel 1428 e nel 1429, anni nei quali aveva assunto prevalenza in città la fazione che faceva capo ai Canetoli con i quali il G. era imparentato. Fu ancora membro del Collegio dei riformatori nel 1435; ma in questo periodo era già maturata la sua adesione ai Bentivoglio, dei quali restò per tutto il resto della sua vita un convinto sostenitore. Durante l'eclisse di potere che fece seguito all'assassinio di Antonio Bentivoglio nel dicembre del 1435, il G. accettò incarichi esterni alla città e fu podestà a Rimini nel 1437 e a Borgo San Sepolcro l'anno seguente. Quando nel 1446 Sante Bentivoglio ridette vigore al potere della famiglia e della fazione, il G. fu di nuovo tra i Riformatori ad agevolarne l'opera.
Sicuro e fidato sostenitore di Sante, ricoprì anche in seguito la carica di riformatore, esibendo accanto alla qualifica di doctor iuris quella di miles auratus, concessagli da Leonello d'Este il 10 apr. 1447. Seguirono altri incarichi di alto livello, come quello di capitano del Popolo a Firenze nel 1448, di ambasciatore a Mantova nel 1449 e, a partire dal 1451, di gonfaloniere di Giustizia, il primo nel Collegio degli anziani, la più antica magistratura cittadina. Durante i cinque anni in cui, dal 1450, il cardinale Bessarione fu legato pontificio in Bologna, e spesso per sua espressa designazione, il G. sostenne diversi uffici nell'amministrazione del territorio bolognese, come podestà a San Giovanni in Persiceto nel 1452 e capitano della Montagna nel 1455, ma soprattutto come esperto di diritto. Fu infatti giudice del foro dei mercanti nel 1451 - ufficio poi ripetutamente confermatogli - e componente della commissione di esperti che nel 1454 rinnovò il testo degli statuti cittadini, che rimase in vigore fino al termine del sec. XVIII.
Nell'aprile 1455 fu uno dei quattro rappresentanti inviati a Roma per portare l'omaggio di Bologna al nuovo papa, Callisto III, e nel 1458 accompagnò con Nicolò Sanuti il legato pontificio, richiamato a Roma dall'aggravarsi delle condizioni di salute del papa. Nel gennaio del 1466 la sua integrazione nell'oligarchia dominante la città, in accordo e a sostegno della preminenza dei Bentivoglio, ottenne un definitivo riconoscimento. Un breve di Paolo II portò da 16 a 21 il numero dei componenti il Collegio dei riformatori dello Stato di libertà e, dando sanzione a quanto già da tempo di fatto accadeva, rese vitalizio il loro incarico; riconobbe altresì agli stessi Riformatori il diritto di nominare, con l'avallo del rappresentante papale, i loro successori. Nominò Giovanni Bentivoglio presidente del Collegio dei riformatori, riconoscendogli un'autorità che lo avvicinava alla signoria e nominò anche gli altri componenti del Collegio. Il G., che già faceva parte dei Riformatori in carica, venne confermato e fu anzi il primo designato, subito dopo il Bentivoglio.
L'alto incarico non gli impedì di assumere di volta in volta altri uffici - capitano della Montagna nel 1462, podestà di Castel Bolognese nel 1463, gonfaloniere di Giustizia in diverse occasioni tra il 1470 e il 1479 - e compiti di alta rappresentanza istituzionale, quali la missione a Milano nel 1464, per la celebrazione del matrimonio di Giulio Malvezzi con Camilla Sforza (Malvezzi. Storia…), e l'ambasceria a Venezia nel novembre del 1471, inviata formalmente per festeggiare l'elezione del nuovo doge, Nicolò Tron, ma destinata soprattutto a controllare le iniziative del duca di Ferrara Ercole I d'Este, che aveva sollecitato l'appoggio della Serenissima per una questione di confini tra i territori di Bologna e di Modena.
Il 27 maggio 1478 il G. redigeva il suo testamento, un lungo documento che era anche una sorta di bilancio della sua vicenda familiare e patrimoniale. Nominava erede il figlio Giovanni Antonio, natogli da Smeralda Lambertini che, morta Diamante Canetoli, il G. aveva sposato in seconde nozze. Da Smeralda aveva avuto anche due figlie: Lucia, monaca nel monastero bolognese di S. Chiara col nome di suor Elena, e Maddalena, moglie del modenese Cesare Valentini. Di altri figli, maschi e femmine, il testamento ricorda solo che erano scomparsi in tenera età. Nominava tra gli esecutori testamentari Beatrice Pepoli, che l'anno precedente egli aveva sposato in terze nozze. Beatrice era sua cugina, poiché era figlia di Giacomo Pepoli e di Margherita di Tommaso Gozzadini e le nozze erano potute avvenire solo a seguito di un'apposita dispensa pontificia. A Beatrice il G. lasciava l'usufrutto dei suoi beni e la possibilità di abitare nella casa che egli aveva costruito nella "cappella" di S. Michele dei Leprosetti, nello stesso luogo, sembra, in cui un tempo sorgeva il palazzo di Nanne Gozzadini. Disponeva inoltre che questa casa, parte dell'asse ereditario, fosse oggetto di un fedecommesso, vincolata agli eredi diretti, di generazione in generazione.
Traspare da questa e da diverse altre disposizioni, concernenti altrettante possibili sostituzioni d'erede, l'intenzione di un recupero integrale della memoria della famiglia, che il G. aveva perseguito anche attraverso la ricomposizione del patrimonio già appartenuto ai suoi ascendenti. A questo scopo avevano contribuito non solo le varie, successive acquisizioni dei beni ereditati dal nonno Nanne (nel 1435) e dagli zii paterni Giacomo (nello stesso 1435), e Tommaso (nel 1442), ma anche particolari iniziative del Gozzadini. Nel dicembre del 1442 egli aveva infatti acquistato dagli eredi di Giovanni Monterenzoli alcuni beni già appartenuti a Bonifacio Gozzadini, che questi, quarant'anni prima, impossibilitato a restituire il denaro ricevuto in deposito dal Monterenzoli, era stato costretto a cedergli. Il G. aveva anche curato un'accorta valorizzazione delle proprietà immobiliari man mano acquisite a Prunaro, tra le quali il mulino riedificatovi da Nanne e Bonifacio Gozzadini, con la costruzione in questa località, in cui da oltre un secolo la famiglia aveva posseduto terreni, di un castello e relativa rocca e con l'esercizio dei diritti di signoria sul territorio, come dichiarava un'apposita concessione del legato pontificio Bessarione del 22 ott. 1451.
Ma quella rigidità di cui il G. dava numerose prove nelle sedute del Collegio dei dottori di diritto civile non mancò di manifestarsi in diverse occasioni anche nei rapporti familiari. Ne subì le conseguenze più pesanti il fratello Carlo, specialmente in occasione dei contrasti sorti tra loro per la divisione dell'eredità paterna, trascinatasi dal 1455 al 1459 attraverso vari compromessi e arbitrati. La sua conclusione doveva peraltro aver lasciato ampi strascichi di risentimento se Carlo, morendo nel 1470, nominava erede universale il cugino Testa, senza neppure ricordare il G. e offrendo così a questo l'occasione di dare vita a una nuova questione con lo stesso Testa, alimentata dagli inevitabili ricorsi ai tribunali e da suppliche al papa.
Fu questo comunque soltanto un episodio, sgradevole, ma di scarso rilievo, nella vicenda del G., ricca anche nell'ultimo periodo di quei prestigiosi riconoscimenti dei quali si è già fatto cenno, ma non allietata, come aveva ripetutamente dichiarato di sperare nel suo testamento, dalla nascita di altri figli.
Il G. morì a Bologna il 17 marzo 1482 e, come aveva disposto, ebbe sepoltura nell'arca di famiglia nella chiesa di S. Maria dei Servi.
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