Scipione Maffei
Riformatore, polemista e trattatista, eclettico e collezionista, Scipione Maffei s’impegnò nell’opera di rinnovamento della cultura italiana con lo studio dell’antichità e il vaglio critico dei documenti. La sua ricerca pluridisciplinare si iscrisse in una riflessione politica e teologica di taglio riformista e antigiansenista, con effetti di straordinaria produttività e vigore. Il suo pensiero ebbe forza innovativa grazie alla capacità di criticare autorità e opinioni; rifiutò i condizionamenti nella ricerca o gli schematismi della storiografia simpatetica con l’assolutismo. Le sue opere storiche offrirono un’immagine articolata dell’Italia preromana; la scoperta dei codici greci della Biblioteca capitolare di Verona gli permise di formulare l’ipotesi della monogenesi delle scritture medievali. Ma al di là dei risultati, il suo contributo maggiore è di metodo.
Nato il 1° giugno 1675, Scipione Maffei era l’ultimo di otto fratelli, figlio del marchese Giovanni Francesco e di Silvia Pellegrini. Se Verona, la sua città natale, rappresenta un epicentro della sua vita – terreno di indagine, luogo di ritorno, rifugio e prigione nei momenti di crisi – molte città italiane (Firenze, Roma, Napoli, Torino, Venezia) e francesi, oltre Parigi, furono luogo di soggiorno del marchese, per pochi mesi o qualche anno. Seguì studi regolari, tra i quattordici e diciannove anni, nel collegio gesuita dei nobili di Parma. La lettura di filosofi e saggisti antichi, medievali e contemporanei fu accompagnata da esperienze dirette di ‘ricerca’ in archivi e biblioteche, scambio e polemica, viaggi, partecipazione a cenacoli e accademie. Tra il 1701 e il 1705 visse a contatto con la nobiltà in armi e combatté per un anno nell’armata franco-bavarese in Baviera. Con Apostolo Zeno (e il fratello Pier Caterino) e Antonio Vallisneri progettò e diresse il «Giornale de’ letterati d’Italia» dal 1710 al 1724. Fondò nel 1705 la colonia arcadica di Verona, scrivendo lui stesso in un italiano di scuola toscana. La scoperta nella Biblioteca capitolare di Verona di alcuni codici greci nel 1712 segnò l’avvio degli studi di paleografia e lingue antiche, per il quale ricevette l’aiuto, tra gli altri, di Benedetto Bacchini.
Tra il 1718 e il 1728, Maffei fu impegnato in un’intensa attività politica e di riforma. A Verona allestì il Museo Maffeiano, una collezione epigrafica aperta nel 1745. Dal 1720 visse a Firenze (due anni), Venezia e Torino dove sistemò le collezioni epigrafiche per il Museo di antichità greco-romane dell’Università.
Nel periodo tra il 1720 e il 1732 lavorò alla storia di Verona. In parallelo all’attività di studioso, Maffei si dedicò alla composizione di tragedie, drammi musicali e poesie che pubblicò anche per incrementare la propria fama. Visse e viaggiò per la Francia tra il 1732 e il 1736, divenendo amico di Jean-François Séguier e progettando la trascrizione delle iscrizioni antiche d’Europa, di cui pubblicò il commento alle epigrafi della Provenza. A Parigi rimase due anni, a contatto con Voltaire e Montesquieu; introdotto a Versailles, divenne socio dell’Accadémie des belles lettres. Nel 1736 riprese il suo percorso itinerante attraverso l’Inghilterra, i Paesi Bassi, il Belgio, la Germania e, infine, l’Austria.
Rientrò a Verona alla fine del 1736 per riprendere l’attività di studio, dedicandosi alla riflessione politica e alle scienze naturali. Tra il 1737 e il 1740 animò il giornale «Osservazioni letterarie», uno strumento di critica della cultura del tempo. Tra il 1737 e il 1739 viaggiò per l’Italia, Roma compresa, alla ricerca di epigrafi e antichità, e pubblicò quindi l’opera di confutazione della teologia giansenista, l’Istoria teologica. Tra il 1744 e il 1745, dopo il saggio sull’impiego del denaro, fu assorbito dalle polemiche con i fratelli Pietro e Girolamo Ballerini e il domenicano Daniele Concina. In questi anni, funestati anche dal confinamento comminato dall’Inquisizione di Venezia, Maffei entrò nel vivo di molte questioni legate alla riforma dei costumi e delle credenze, schierandosi con forza contro le mode e i vezzi linguistici ‘francesizzanti’. Partecipò al dibattito sulla riduzione dei giorni festivi di precetto e si schierò contro qualunque credenza nella stregoneria. Morì a Verona il 12 febbraio 1755.
Intorno al progetto di un catalogo commentato di tutti i manoscritti esistenti a Verona – la Bibliotheca Veronensis Manuscripta –, Maffei concepì un trattato di paleografia che dimostrasse gli errori delle venerate autorità precedenti, arrivando a formulare l’ipotesi che tutte le scritture medievali latine – romana, gotica, longobarda, sassone, franco-gallica – non fossero indipendenti, come aveva ipotizzato Jean Mabillon, ma avessero origine dalla scrittura romana maiuscola, minuscola e corsiva poi assunta e deformata dai popoli barbari in modi diversi. Il corpus veronese, scoperto nel 1712, permetteva di cogliere questa comune genesi. Successivamente all’istituzione del Museo Maffeiano di epigrafi, pubblicò il catalogo descrittivo Museum Veronense.
La Verona illustrata (scritto tra 1728 e 1732) superava le compilazioni coeve, caratterizzate da una dimensione classificatoria e dal gusto del particolare, per ampiezza di disegno e affermava l’autonomia della ragione e della ricerca storica che, pur basata sul rigoroso accertamento dei fatti, non si confondeva con la morta erudizione. L’opera parlava al, e polemizzava con, il presente: concentrata su Verona, trattava in realtà della storia «universale» d’Italia (cfr. lettera a F. Bourguet del 3 marzo 1731 e l’autorecensione, in T. Cavadini-Canonica, Le lettere di Scipione Maffei e la Bibliothèque Italique, 1970, p. 76, pp. 135-64). Il metodo, già applicato nel Supplementum Acacianum, consisteva nel ricostruire la fonte secondo l’ars critica teorizzata nel trattato Ars critica lapidaria del 1724, arrivando a un testo ricostruito filologicamente, o sulla base di considerazioni lessicali o linguistiche, per poi disegnare un quadro d’insieme che metteva in crisi le conoscenze acquisite. Ricostruiva secoli di storia della città e mostrava «l’utilità e l’esempio, col quale si può rimediar preventivamente ai mali che a nostri tempi possono nascere» (Cavadini-Canonica 1970, p. 138): pertanto Verona era piuttosto «pretesto» e «legatura» che finalità in sé. L’opera, che conteneva immagini e disegni di statue antiche, partiva dalla fondazione dei Veneti, Etruschi e Galli per affrontare poi il periodo repubblicano, imperiale e cristiano. Entrando nell’analisi puntuale dell’amministrazione, mostrava come Roma desse alle «città minori» «tanta partecipazione che basti a renderle vincolate al centro e ricevute in comunanza» (Cavadini-Canonica 1970, p. 141), attraverso un sistema di rappresentanza elettiva di due deputati per ogni città e la concessione della cittadinanza che consolidava una duplice appartenenza. Anche l’analisi delle origini cristiane di Verona e dei protovescovi non faceva sconti, rifiutando leggende costruite ad hoc per antedatare la fondazione dell’episcopato o supportare l’appartenenza di Verona alla provincia ecclesiastica di Aquileia o Milano, in funzione dei diritti giurisdizionali dell’una o dell’altra metropolia. Opera pluridisciplinare (geografia storica, storia delle provincie romane ed ecclesiastiche, epigrafia, filologia e studio dell’antichità, storia ecclesiastica), la Verona illustrata mostrava la continuità della ‘presenza’ romana nel periodo postimperiale, attraverso la lingua e la cultura latine, le antiche famiglie romane, l’esiguità degli apporti demografici, artistici e architettonici dei Longobardi.
Il confronto tra l’antico e il presente, cifra dell’interpretazione del periodo romano, era un’implicita critica all’immobilismo di Venezia: l’allargamento della partecipazione politica aveva consolidato lo Stato romano e avrebbe potuto coinvolgere i maggiorenti nella res publica veneziana. Queste idee sono riprese in Suggerimento per la perpetua preservazione della Repubblica di Venezia atteso il presente Stato d’Italia e dell’Europa, pubblicato postumo come Consiglio politico finora inedito presentato al governo veneto nell’anno 1736 (1797), in cui Maffei, fingendosi un compilatore delle sue stesse opere, raccoglieva «tutti quei luoghi, ne’ quali pare che dalla Storia de’ tempi antichi egli [scil. Maffei] abbia voluto dedur documenti per i tempi nostri» (Introduzione, in Il Consiglio politico, 1955, p. 33) per mostrare come «i sudditi nel Dominio [veneto], sua prima Patria stimi Venezia, e la propria città abbia per seconda, e ciascheduno si renda pronto a sacrificar tutto per difesa della Repubblica, come di cosa anche propria» (Cavadini-Canonica 1970, p. 79).
La riflessione confluita nel Suggerimento per la perpetua preservazione della Repubblica di Venezia atteso il presente Stato d’Italia e dell’Europa fu redatta tra la fine del 1736 e le prime settimane del 1737, al ritorno dal lungo soggiorno in Francia e dal viaggio in Europa. Raccolse la densa riflessione politica dell’autore maturata nel viaggio, ma anche grazie agli scavi storici (confluiti nel Governo de’ Romani nelle provincie composto negli anni Venti, nell’Istoria diplomatica edito nel 1727 e nella Verona illustrata). Il Consiglio ebbe una circolazione manoscritta ristretta. La proposta consisteva nell’ampliamento della rappresentanza delle città suddite – non «una moltitudine indeterminata» ma una «moltitudine scelta», precisava – per favorire una maggiore corresponsabilità. Un testo agile e militante che evocava i documenti più che mostrarli e aveva l’obiettivo di consentire l’accesso alla politica a un gruppo di cittadini da considerare consociati e non sudditi, nel rispetto del privilegio nobiliare.
L’originalità dello scritto, il cui contesto era la riflessione sulla riforma del governo intesa come questione interna alle parti sociali della Dominante, consisteva nel proporre la soluzione dall’esterno, dalle provincie della Repubblica, e nel rinnovare il rapporto tra le componenti territoriali dello Stato. Rivendicava, dunque, spazio politico per sé e per i nobili delle provincie, per favorire la costruzione del consenso e ispirare un principio aggregante. Il successo politico di uno Stato consisteva, per Maffei, non solo nella forza militare, ma soprattutto nella capacità di aggregare gli interessi dei cittadini-sudditi che costituiscono, essi stessi, la forza dello Stato. Modello di questo progetto di «interessare tutti al governo» è una Repubblica romana pacificata e prospera, alla quale era vicino il costituzionalismo inglese. L’elezione dei rappresentanti in Parlamento, scelti con il «consenso comune» e secondo il principio che «pochi rappresentino i molti» favoriva l’espressione dell’«utile-interesse» dei cittadini disciplinandolo.
Ogni opera maffeiana fu seguita da testi polemici pubblicati anche sotto pseudonimo. Rispetto alla stagione di inizio Novecento che ha riscoperto Maffei campione dell’Illuminismo italiano, le ultime due decadi di studi hanno messo in evidenza alcuni limiti dell’impostazione e dei tratti del marchese. Convinto della propria superiorità, Maffei non accettò di essere criticato per le sue analisi dagli studiosi del suo tempo. È il caso della Lettera ammonitoria del signor Giulio Cesare Becelli – scritto in realtà da Maffei e poi ripreso nel De Joannis Veronensis historia (e pubblicato in appendice alla Istoria teologica). Il marchese non rispose direttamente, ma smontò la critica (fondata) che Giovanni Tartarotti, suo più giovane amico e ammiratore, aveva rivolto alla Verona illustrata sulla base del ritrovato codice dell’Historia imperialis di Giovanni Mansionario, che toccava importanti punti della storia medievale veronese. Inoltre, Maffei diffuse la propria opera con metodi spregiudicati e si attribuì l’esclusivo merito di iniziative realizzate con altri. Grazie all’amicizia con il fondatore della «Bibliothèque italique», lui stesso scrisse due recensioni al Supplementum Acacianum e alla Verona illustrata per divulgare la propria opera all’estero.
La cultura come luogo di associazione tra realtà politica e costumi è il filo rosso che unifica i diversi generi letterari e ambiti di studio ai quali Maffei si è applicato. Seppure alcune opere hanno per oggetto specifico la riforma degli studi e dei costumi, in tutte si può riconoscere una concezione della cultura che il marchese vede incarnata perfettamente nella capacità di «comunicare» della Roma antica: estendere la cittadinanza a tutta l’Italia aveva significato, per Maffei, oltre che associare i vinti a Roma, anche unire tutti in una lingua, nella passione per le armi, in un modo di sentire e comportarsi. La cultura cementava i popoli e Maffei, come Cassiodoro, coltivava, diffondeva e trasmetteva cultura.
In La vanità della scienza cavalleresca (1704) e Della scienza chiamata cavalleresca (1710) combatté il duello, ma difese il predominio della nobiltà alla quale era riservata la professione militare, intesa come comando degli eserciti. Egli all’inizio del Settecento intravvedeva negli eserciti permanenti e nella carriera ufficiale la possibilità per i nobili di impegnarsi a favore dei principi d’Europa, opinione che mutò nei decenni successivi di fronte al predominio europeo sulla penisola. Il trattato De fabula equestris ordinis constantiniani (pubblicato nel 1712, anonimo) demoliva la pretesa storica fondazione dell’ordine costantiniano, istituito dal duca Francesco Farnese e approvato da Clemente XI, e soprattutto affermava che il papa era da ritenersi giudice supremo e dottore infallibile solo in materia di fede e morale e non in materia filosofica, scientifica o storica. Per via di tali affermazioni l’opera fu messa all’Indice nel 1714.
Il Ragionamento sopra la regolazione dell’Adige (1719) e soprattutto il Trattato sopra la formazione dei fulmini (1747), formato da una raccolta di quindici lettere indirizzata ad alcuni dei personaggi più significativi dell’entourage del marchese, sono una professione di fede nella capacità operativa dell’uomo, in grado di recuperare, migliorare e far progredire. Il Trattato si concentrava su fenomeni naturali personalmente osservati nella propria regione, schierandosi contro una metafisica che pretendesse di ridurre a un’unica cifra interpretativa la straordinaria complessità e molteplicità delle strutture naturali. Da qui la critica di Maffei a René Descartes e Isaac Newton, incapaci di distinguere il piano divino, il solo in grado di conoscere le «intrinseche ragioni» dei fenomeni naturali, dal piano umano nel quale è possibile l’indagine sui fatti ma rinunciando a «fabbricar sistemi».
I due Pareri rispettivamente per le Università di Padova e di Torino, scritti a breve distanza l’uno dall’altro tra 1715 e 1718, rinnovavano il modello tomista, dando grande spazio alle discipline storiche, filologiche e alla filosofia sperimentale, ma senza inserire nel progetto, per altro, la parte più innovativa della cultura del suo tempo, come il giusnaturalismo e il newtonianesimo. Critico nei confronti della censura, che non avrebbe comunque eliminato ma posto al servizio dello Stato, Maffei si dichiarava convinto che la verità affermata dall’erudizione e dai fatti non danneggiasse «la Comunion Cattolica [che] non abbisogna punto né di falsità né di inganno» (Silvestri 1968, pp. 31-32). Nessuno dei due progetti trovò applicazione.
Nel 1742 il marchese pubblicò l’opera teologica frutto – come dichiara il Proemio (pp. V-VI) – del viaggio e del contatto con gli ambienti giansenisti e antigiansenisti di Francia. Opera di salda ortodossia cattolica (autorizzata dal papa), ma anche di decisa affermazione dell’assoluta libertà dell’agire umano da qualunque forma di predestinazione, l’Istoria teologica era costituita da un «tessuto di detti e sentenze» dell’Antico Testamento e dai Vangeli, spiegati alla luce dell’esegesi agostiniana, per poi affrontare la lettera ai Romani e altre epistole paoline; le dottrine e opinioni dei padri greci e latini del 3° e del 4° sec.; Agostino, Giovanni Crisostomo e Girolamo; le opinioni dei Pelagiani e la loro condanna, accennando infine alle dottrine successive del 4° e 5° secolo. La riflessione, che non manca di spiegare il «particolar linguaggio di S. Agostino», si conclude con la dimostrazione delle forzature esegetiche operate sul pensiero dell’Ipponate, nel contesto della polemica giansenista, mostrando uno «spoglio sistematico» dei testi di Agostino raffrontati agli «errori» giansenisti. Più che l’originalità dell’argomentazione, è interessante il metodo che riportava per esteso i passi sui quali si costruiva il ragionamento e sintetizzava in ordine cronologico la controversia. La scelta del volgare era giustificata dal programmatico intento didattico che si rivolgeva a un pubblico non perito in teologia e latino, ma in grado di intendere il francese, pertanto laico e in particolare femminile (Proemio, pp. IX-XI). L’opera terminava con l’edizione della costituzione Unigenitus e delle Proposizioni condannate nel 1713.
All’inizio Dell’impiego del danaro, Maffei fece professione di fede nella capacità della ragione umana di guidare la coscienza, intendendo, nello specifico, che l’uso del denaro fosse
faccenda umana […] intorno alla quale niun precetto ci fu dal Signore intimato che trascenda punto l’intendimento, o si allontani dal raziocinio nostro; anzi ne’ dubbi, che ad essa spettano, anche nel Foro della coscienza abbiam riguardo dell’equità, e supposti i precetti universali ci regoliamo secondo il lucido della mente, secondo le umane leggi, e secondo il sentimento de’ Giurisperiti (Introduzione, Dell’impiego del danaro, 1746, p. XXXVI).
Il trattato, scritto in italiano, era la risposta del marchese al dibattito teologico avviato negli anni Trenta in ambito giansenista, poi ripreso con taglio rigorista dai fratelli Ballerini (Praelectio de usura, 1740) e riproposto nella riedizione della Dottrina cristiana breve di Roberto Bellarmino del 1743. Il veronese accettava lo scontro sul terreno dell’interpretazione dei passi biblici che, letti secondo una ‘certa’ tradizione in modo formalistico ed estrapolati dal contesto, potevano alimentare la ripetitiva condanna del prestito a interesse, mentre invece gli stessi passi illuminati dal loro contesto e dal significato originario non rendevano illegittimo un moderato interesse. Dopo le autorità bibliche, il veronese passava in rassegna le autorità patristiche di lingua greca e latina, i canoni dei concili e la canonistica, la teologia scolastica e morale con lo stesso metodo: le singole frasi erano chiarite sulla base del contesto dell’opera di cui erano parte, con richiami allo specifico temporale. La lettura di Maffei era evolutiva e non solo ripetitiva dei limiti tradizionali in cui si muoveva l’argomentazione teologica. Soltanto nel terzo e ultimo libro, l’argomentazione dava ragioni razionali e ‘laiche’ a sostegno del prestito a interesse fruttifero, differente dall’usura. Maffei entrò nel 1748 nella disputa sulle feste e, in tre riprese (Arte magica dileguata, 1749; Arte magica distrutta, 1750; Arte magica annichilita, 1754), sulla controversia relativa alla stregoneria, negando che vi potessero essere interventi soprannaturali non provenienti da Dio e affermando che qualunque altra credenza era «superstizione», priva di vero sentimento religioso e dell’uso della ragione.
Da poco non più allievo dei gesuiti, il giovane Maffei stese opere teatrali di argomento biblico o mitologico (Sansone, Lo sdegno di Fineo, La passione di Maria nella passione di Gesù), guidato da un vivo interesse per la composizione musicale (le inedite Annotazioni). Dopo la pubblicazione in chiave autocelebrativa delle Rime e prose, in cui Maffei millantava la paternità della prefazione programmatica del «Giornale de’ letterati», vi fu una prima intensa stagione teatrale tra il 1711 e il 1714, e una seconda tra il 1723 e il 1732.
Tre le tragedie, la più amata dall’autore fu Merope scritta in due mesi nel 1711 e rappresentata a Modena nel 1713, con successo di pubblico. Dall’anno successivo il testo stampato iniziò a circolare in Italia e soprattutto all’estero e, fino alla morte dell’autore, ebbe oltre quaranta edizioni. Merope, oggetto di una polemica con Voltaire, fu, insieme alla commedia Le cerimonie (rappresentata nel 1728 a Venezia, dedicata alle «affettazioni formali»), gradita al pubblico. La fida Ninfa, scritta in età giovanile, fu rappresentata a Verona con musica di Antonio Vivaldi nel 1732 e pubblicata anonima. Nella Istoria del teatro e difesa di esso (confluita nel De’ teatri antichi e moderni), testo di storia e teoria del teatro, ma anche di autobiografia, il veronese rivendicava la ricchezza drammatica della letteratura di lingua italiana, sconosciuta alla cultura francese di cui era invece stata nutrimento.
Attento all’utile per il pubblico e per lo Stato, il teatro di Maffei, che pure contribuì alla riforma drammaturgica, fu da lui reputato subalterno alle scienze filologiche e storiche. La sua proposta di un’educazione professionale e morale del comico, la tardiva accettazione della censura di Stato e l’esclusione delle donne dalla scena puntavano a realizzare, attraverso una recitazione naturale, la creazione di un giudizio etico ed estetico da parte del volgo. Per l’inferiorità del genere teatrale o per incapacità di esprimere una lingua adeguata alla recita naturale, la seconda opera comica contro l’italiano gallicizzante del tempo, Il Raguet, rappresentata nel 1747 a Venezia, fu un clamoroso fiasco e La fida ninfa, l’opera più compromessa con la pratica spettacolare, fu abbandonata e rinnegata dall’anziano Maffei.
La vanità della scienza cavalleresca, s.l. 1704.
Della scienza chiamata cavalleresca libri tre. Alla Santità di N.S. papa Clemente XI, In Roma 1710; l’ed. pubblicata In Venezia 1712 ebbe un ricco indice; nella 4a ed. furono inserite le Aggiunte del conte G. Bellincini, in Trento 1717.
De fabula equestris ordinis Constantiniani, Tiguri 1712.
Dell’antica condizion di Verona ricerca istorica dedicata al […] vescovo di Brescia monsignor G.F. Barbarigo, in Venezia 1719.
Rime e prose. Aggiunto anche un saggio di poesia latina, in Venezia 1719.
Teatro italiano o sia Scelta di tragedie per uso della scena, tt. 3, in Verona 1723-1725.
Istoria diplomatica che serve d’introduzione all’arte critica in tal materia […] Ragionamento sopra gl’Itali primitivi in cui si scuopre l’origine degli Etrusci, e de’ Latini, in Mantova 1727.
Supplementum Acacianum, in Sacrosancta concilia ad regiam editionem exacta quae olim quarta parte prodiit auctior studio Ph. Labbei, et G. Cossartii, t. 5, Venetiis 1728, pp. 180-216.
Cassiodorii senatoris Complexiones in Epistolas et Acta Apostolorum et Apocalypsin e vetustissimis canonicorum Veronensium membranis nunc primum erutae, Florentiae 1721.
Verona illustrata, Parte prima contiene l’istoria della città e insieme dell’antica Venezia dall’origine fino alla venuta in Italia di Carlo Magno, in Verona 1732; Parte seconda contiene l’istoria letteraria o sia la notizia de’ scrittori veronesi, in Verona 1731; Parte terza contiene la notizia delle cose in questa città più osservabili, in Verona 1732; Parte quarta ed ultima contiene il Trattato in questa seconda edizione accresciuto anche di figure degli anfiteatri e singolarmente del veronese, in Verona 1731.
Galliae antiquitates, Veronae 1734.
Istoria teologica delle dottrine e delle opinioni corse ne’ cinque primi secoli della Chiesa in proposito della divina Grazia, del libero arbitrio, e della Predestinazione, in Trento 1742 (trad. latina del gesuita F. Reiffenbergius, Francofurti ad M. et Moguntiae 1756).
Graecorum siglae lapidariae, Veronae 1746.
Dell’impiego del danaro libri tre alla santità di nostro signore papa Benedetto XIV, in Verona 1744; in Roma 1746, con l’aggiunta di una lettera di Maffei al papa del 12 novembre 1745 e l’enciclica Vix pervenit di Benedetto XIV; rist. anast. a cura di G.P. Marchi, Verona 1975; s.l. 1989.
Jani Vincentii Gravinae Institutionum juris civilis receptioris libri IV, Neapoli 1746; ed. introdotta e annotata da G. de Martino, Napoli 1999.
Della formazione de’ fulmini […] anche degl’insetti rigenerantisi, e de’ pesci di mare su i monti, e più a lungo dell’elettricità, in Verona 1747.
Lettera del marchese Scipione Maffei sopra le feste de’ gentili, in Pesaro 1748.
Tre lettere del signor marchese Scipione Maffei la prima sopra il primo tomo di Dione novamente venuto in luce. La seconda sopra le nuove scoperte d’Ercolano. La terza sopra il principio della grand’iscrizione poco fa scavata nel Piacentino, in Verona 1748.
Museum Veronense hoc est Antiquarum inscriptionum atque anaglyphorum collectio cui Taurinensis adiungitur et Vindobonensis, Veronae 1749.
Arte magica dileguata lettera […] al padre I. Ansaldi dell’Ordine dei Predicatori, in Verona 1749; Arte magica distrutta risposta di don A. Fiorio veronese arciprete di Tignale, e Valvestino, vicario foraneo, in Trento 1750; Arte magica annichilata. Libri tre. Con un’appendice, in Verona 1754.
Poesie volgari e latine, tt. 2, Verona 1752.
De’ teatri antichi, e moderni trattato in cui diversi punti morali appartenenti a teatro si mettono del tutto in chiaro […] risponde al p. D. Concina, in Verona 1753; cfr. ed. De’ teatri antichi e moderni e altri scritti teatrali, a cura di L. Sannia Nowé, Modena 1988.
Artis criticae lapidariae quae extant ex ejusdem autographo ab […] I. F. Seguierio […] et a S. Donato, Lucae 1765.
Consiglio politico finora inedito presentato al governo veneto nell’anno 1736 dal marchese Scipione Maffei. Diviso in tre parti, in Venetia 1797; a cura di L. Messedaglia, Verona 1955; rist. anast. Napoli 1977; l’ed. curata da P. Ulvioni, in P. Ulvioni, Riformar il mondo: il pensiero civile di Scipione Maffei, Alessandria 2008.
Un parere intorno allo Studio di Padova sui principi del Settecento, a cura di G. Labus, Milano 1808.
Parere sul migliore ordinamento della R. Università di Torino, a cura di G.B.C. Giuliari, Torino 1871.
Lettere inedite di Scipione Maffei, a cura di G. Biadego, Verona 1881.
Undici lettere del marchese Scipione Maffei a Monsignore Mario Guarnacci, a cura di G. Giannini, Lucca 1895.
Epistolario (1700-1755), a cura di C. Garibotto, 2 voll., Milano 1955.
Del governo de’ Romani nelle provincie (1724), traduzione, trascrizione e note a cura di G. Ramilli, Verona 1977.
Annotazioni sull’arte di comporre in musica, a cura di L. Och, Verona 1989.
Miscellanea maffeiana pubblicata nel II centenario della morte di Scipione Maffei, Verona 1955.
G. Silvestri, Scipione Maffei, europeo del Settecento, con introduzione di L. Messedaglia, Vicenza 1968.
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