scisma Nelle Chiese cristiane (e per analogia in altre religioni), separazione volontaria di un gruppo di fedeli dalla comunità ecclesiale di appartenenza per motivi in prevalenza disciplinari.
La parola s. è usata nel Nuovo Testamento da s. Paolo, nel senso di «rottura, divisione» sia materiale sia morale. Ma ancora in s. Paolo non appare la netta distinzione di significato fra s. ed eresia, introdotta successivamente, quando si ravvisò nello s. la scissione di carattere disciplinare e nell’eresia il dissidio di natura dottrinale. Secondo l’opinione oggi prevalente, ogni dissenso interno nella Chiesa, anche se di origine puramente disciplinare, di solito ha già dall’inizio anche un aspetto dottrinale, o comunque finisce prima o poi per assumerlo. Nel Codex iuris canonici, can. 751, lo s. è definito «il rifiuto della sottomissione al sommo pontefice o della comunione con i membri della Chiesa a lui soggetti».
Nella storia del cristianesimo e della Chiesa gli s. sono numerosissimi. Tra i più noti si possono ricordare quelli romani di s. Ippolito, di Novaziano, di Felice e Ursino; in Africa lo s. di Novato e quello donatista; in Egitto quello dei meleziani; in varie regioni (fra cui l’Italia del Nord-Est) quello dei Tre Capitoli; il grande s. d’Occidente; lo s. dei giansenisti di Utrecht, quello dei Vecchi cattolici, ribelli al Concilio Vaticano I, e altri minori, tra cui quello di M. Lefebvre, che si oppose al Concilio Vaticano II. Lo s. più grave di tutti, per le sue conseguenze, è stato lo s. d’Oriente o greco. 1.1 Grande s. d’Occidente. Rappresenta uno degli aspetti, forse il più imponente, della crisi con cui si conclude il Medioevo. Riguardò in primo luogo la Chiesa, perché fu di natura prettamente ecclesiastica, soprattutto agli inizi, e fu il più deciso tentativo mai avvenuto per sostituire al sistema assoluto e centralizzato del primato papale un sistema di tipo collegiale. Ma vi si manifestarono anche motivi più propriamente politici e anche economico-sociali: il sentimento nazionale degli Stati che ne furono toccati, un vasto sistema di interessi connesso alla collocazione dei benefici e allo sfruttamento del patrimonio ecclesiastico, intense manifestazioni della religiosità ‘laica’, per cui popoli e sovrani si sentirono in diritto, anzi in obbligo, di interferire nella grande contesa ecclesiastica. Non ebbe invece carattere di dissidio dottrinale.
La crisi scoppiò poco dopo la morte dell’ultimo papa avignonese, Gregorio XI. Nel tumultuoso conclave del 7-8 aprile 1378 fu eletto Urbano VI, che volle, riconducendo il papato a una forma assoluta, reagire alla soverchia importanza assunta dai cardinali nel governo della Chiesa e si alienò rapidamente le simpatie della Curia, senz’altro malcontenta di aver dovuto abbandonare Avignone. Pertanto, il 20 settembre 1378, i cardinali francesi, rifugiati ad Anagni, elessero a Fondi un nuovo papa, Clemente VII (Roberto conte di Ginevra), protestando che l’elezione di Urbano era da ritenersi nulla perché avvenuta in clima di violenza. La cristianità si divise in due due ‘obbedienze’, la ‘urbanista’ e la ‘clementina’: a Urbano VI successero Bonifacio IX, Innocenzo VII e Gregorio XII; a Clemente VII, Benedetto XIII. Nel 1409 a Pisa si riunirono in concilio i cardinali, i vescovi e i prelati di entrambe le obbedienze con lo scopo di ripristinare l’unità della Chiesa; i due pontefici Benedetto XIII e Gregorio XII furono dichiarati scismatici ed eretici e quindi deposti. Risultata così vacante la sede papale, fu eletto (1410) un nuovo pontefice, il cardinale Pietro Filargis arcivescovo di Milano, con il nome di Alessandro V. Ma, non avendo i due pontefici riconosciuto il Concilio pisano come legittimo e di conseguenza non avendo rinunciato al papato, lo s. risultò aggravato dall’elezione del terzo pontefice, situazione proseguita alla morte di Alessandro V con la nomina a suo successore del cardinale Baldassarre Cossa con il nome di Giovanni XXIII. Nel 1414 venne convocata una nuova assemblea ecclesiastica a Costanza, voluta dallo stesso imperatore Sigismondo, anche per affrontare il movimento degli hussiti e la riforma della Chiesa. Il concilio depose Giovanni XXIII, Gregorio XII rinunciò alla carica e venne nominato cardinale e legato della marca anconitana; Benedetto XIII rifiutò invece di sottomettersi alle volontà conciliari e, colpito da scomunica e deposto, si ritirò nel castello di Peniscola (Valencia) dove i suoi due successori (Benedetto XIV e Clemente VIII) mantennero fino al 1429 questo nucleo di opposizione. Nel 1417 al Concilio di Costanza il collegio dei cardinali, quasi all’unanimità, elesse pontefice il cardinale Ottone Colonna con il nome di Martino V. Lo s. venne così ricomposto, anche se ebbe un’appendice nel 1439 quando il Concilio di Basilea si arrogò il diritto di deporre il papa Eugenio IV per sostituirlo con Felice V; lo s. di Basilea terminò nel 1449. 1.2 S. d’Oriente. Noto anche come s. greco o bizantino, è la separazione verificatasi fra la Chiesa romana di lingua e rito latino e il Patriarcato di Costantinopoli, con tutte le diocesi a esso sottoposte o collegate, dopo il 1054, per contrasti fra il papa Leone IX e il patriarca di Costantinopoli, Michele Cerulario. La scomunica, da parte del papa, a Michele Cerulario, lanciata solennemente in S. Sofia, a Costantinopoli, dai tre legati pontifici il 15 luglio 1054, che ai contemporanei sembrò un episodio di non grande rilievo e non irreparabile, come poi fu in realtà, va collocata in una serie di contrasti fra la Chiesa latina e la Chiesa greca che trovano la loro origine storica nel progressivo declinare dell’importanza politica di Roma, dopo le invasioni barbariche, di fronte a Bisanzio, sede dell’Impero e ben cosciente della sua superiorità politica, culturale ed economica di ‘nuova’ o ‘seconda’ Roma. Nonostante la scomunica, Michele riuscì a mantenere l’unità del suo patriarcato, rivolgendo ogni suo sforzo per accattivarsi quelle diocesi che per motivi diversi non lo avevano subito seguito nello s., come Antiochia e poi Cipro, il Sinai, il Monte Àthos. A lui si unirono poi anche le Chiese dei popoli che avevano avuto il cristianesimo da Bisanzio, come i Romeni, i Bulgari, i Serbi e i Russi.
Dopo lo s. numerosi tentativi furono fatti per eliminarlo e sembrò anzi, al tempo dell’Impero latino di Costantinopoli (1204-54), che si fosse realizzata di nuovo, sia pure con la forza delle armi, l’unità della Chiesa. Ma la riscossa dei Paleologi, acuendo l’ostilità contro i Latini, riaprì lo s.; né ebbe un più duraturo risultato l’accordo raggiunto (1439 per Greci e Armeni; 1442 per i copti) con il Concilio di Firenze.
Solo a partire dalla metà del 19° sec. fra le due Chiese si è iniziato un non facile dialogo e confronto, con impegno sempre maggiore dalle due parti al chiarimento e accostamento delle reciproche posizioni dottrinali dogmatiche e liturgiche. Questi sviluppi si sono accentuati soprattutto dai primi del 20° sec. in poi, con Benedetto XV, e hanno trovato ampia prospettiva, attraverso Giovanni XXIII e Paolo VI, con il Concilio Vaticano II e successivamente con Giovanni Paolo II e Benedetto XVI.
Al di fuori del cristianesimo si può parlare di s. in un senso meno rigorosamente definito. Lo s. presuppone tuttavia sempre l’esistenza di una ‘chiesa’ o comunità religiosa organizzata; è da questa che una parte dei fedeli si distacca, non riconoscendone più l’autorità. La ragione degli s. è generalmente in un nuovo orientamento nei riguardi delle norme di condotta invalse nella comunità, o anche della dottrina (ciò che per il cristianesimo sarebbe eresia e non s.), di modo che lo s. porta alla formazione di una setta o di una nuova ‘chiesa’ indipendente. Mentre tutti questi fenomeni sono ignoti nell’ambito delle religioni nazionali che non conoscono chiese, sono frequenti nelle religioni di tipo sovranazionale e soteriologiche, fondate su una dottrina. Così, per es., il buddhismo ebbe il suo primo s. durante la vita stessa del Buddha, a opera di Devadatta che esigeva un maggior rigorismo.