SCLOPIS, Federigo, conte di Salerano
SCLOPIS, Federigo, conte di Salerano. – Nacque a Torino il 10 gennaio 1798 dal conte Alessandro e da Gabriella Pejretti di Condove.
Istruito privatamente in periodo francese, si laureò nel 1818 nella facoltà di giurisprudenza di Torino; dal 1819 vi fu aggregato al collegio dei dottori, ma senza mai svolgervi la funzione di docente. Collaboratore del ministero degli Interni con Prospero Balbo nel 1819-21, nel 1822 entrò in magistratura, ove nel 1829 fu nominato membro del Senato di Piemonte. Nel 1828 fu chiamato a far parte dell’Accademia delle scienze di Torino, presieduta dallo stesso Balbo. Sposato con Isabella Avogadro, non ebbe figli.
Con l’avvio dei codici deciso nel 1831 dal nuovo re Carlo Alberto, Sclopis entrò nella ristretta commissione per la redazione del codice civile, di modello francese. Ai codici erano peraltro contrari sia gran parte della magistratura sia il potente ambiente tradizionalista. All’interno dell’Accademia delle scienze Sclopis ne sostenne l’assoluta opportunità, alla presenza del re; vi pubblicò poi nelle Memorie quattro discorsi, inserendosi nell’ormai tardo dibattito europeo sulla codificazione (Della legislazione civile. Discorsi di Federigo Sclopis, Torino 1835). Anche per il suo impegno, il codice albertino del 1837 fu adeguato ad alcune caratteristiche tradizionali piemontesi, ma presentò pure innovazioni rispetto al code civil. Esso migliorava senza dubbio il diritto sabaudo precodificato: di fronte ad alcune critiche apparse nel 1838 in una nota rivista parigina, giustamente Sclopis, su richiesta del re ma in modo anonimo, lo difese nello stesso ambiente giuridico della capitale francese con un saggio apposito (Remarques sur le nouveau code civil pour les états de S. M. sarde, et sur quelques critiques dont il a été l’objet, Paris 1838, p. 54). In armonia con la codificazione, sostenne la limitazione dell’eccessiva discrezionalità della magistratura (Dell’autorità giudiziaria, Torino 1842).
Dopo la medievale Storia della antica legislazione in Piemonte (Torino 1833), Sclopis concepì (fin dall’inizio in tre volumi) e avviò la Storia della legislazione italiana, la cui parte iniziale (Origini, dal diritto giustinianeo al XIII secolo) uscì a Torino nel 1840; il primo tomo della seconda (Progressi, dal XIII al XV secolo) la seguì nel 1844. Gli impegni politici sopravvenuti ritardarono il lavoro: il secondo tomo dei Progressi (dal XVI al XVIII secolo) uscì nel 1857, il terzo e ultimo volume (dal 1789 al 1847) nel 1864, con una revisione generale dell’opera, presto molto apprezzata e diffusa in Italia per il suo carattere scientifico ma discorsivo, tradotta ben presto in francese, inglese, tedesco.
La nostra storiografia giuridica vede generalmente in questi tre volumi (di quattro tomi) l’inizio del primo studio metodologicamente moderno della storia del diritto italiano, condotto secondo le più attuali tendenze del tempo, con un ampio sguardo secolare alle varie zone e istituzioni italiane, dal diritto giustinianeo fino a quello preunitario. L’impostazione di allargare dallo studio delle fonti l’analisi della condizione politica e giuridica delle diverse terre italiane è quella ancora in uso in numerosi manuali universitari. La valutazione di sintesi, ancor oggi più equilibrata, sembra quella di Bruno Paradisi (1973): «il grande significato era quello di aver tentato di abbracciare per la prima volta in un solo sguardo sintetico la storia del diritto in Italia, in corrispondenza delle aspirazioni politiche di allora», secondo una «intuizione felice, animata dall’interesse attuale ed espressa in uno stile fluente e piacevole» (pp. 108 s.).
In quel periodo Sclopis era pure alla ricerca, non concretizzatasi, di una soluzione politica ‘rappresentativa’ ma non costituzionale, ispirata da precedenti storici sabaudi, limitatrice dell’assolutismo sovrano. Nel 1848 fu poi direttamente coinvolto nella vita politica, senza trovarne particolare gratificazione. Chiamato dal re, con alcuni altri notabili, a partecipare il 7 febbraio a un Consiglio di conferenza (vale a dire dei ministri) eccezionalmente allargato per fronteggiare le agitazioni filocostituzionali, Sclopis si espresse – con il guardasigilli Giacinto Borelli – per un’ormai necessitata concessione di una Costituzione minimale, nella prospettiva di un nuovo ‘patto’ fra re e popolo.
Emanato lo Statuto, il sovrano gli propose la presidenza del Consiglio: preferì però rinunciare, sentendosi più uomo di studio che statista lanciato nell’agone politico. Accettò però il ministero della Giustizia, con Cesare Balbo presidente del Consiglio. Si trovò peraltro in difficoltà perché le vicende della prima guerra d’indipendenza portarono ben presto il presidente del Consiglio accanto al re sui campi di battaglia: il ministro della Giustizia dovette rappresentare – e difendere – il governo di fronte a una Camera dei deputati spesso eccitata e antigovernativa, favorevole a un più stretto legame politico con la Lombardia, poco gradito dal governo, ma soprattutto da Sclopis stesso. Profuse ogni sforzo per sostenere la posizione più moderata, governativa e sua personale: dopo pochi mesi il gabinetto Balbo si dimise e Sclopis considerò chiusa la sua esperienza nella politica attiva. Incarichi ministeriali, pur proposti, furono in seguito declinati. Restò peraltro in politica dopo la nomina al Senato (1849): in quell’aula più elevata, ristretta e gradita si fece più volte sentire.
Superata la grave crisi politica del 1849, Sclopis pronunciò nel 1850 all’Accademia delle scienze di Torino un discorso, trasformato poi in una lunga memoria, in cui ricordava come, in alcuni periodi, l’assolutismo principesco fosse stato limitato a favore delle autonomie locali da parte dei ‘tre Stati’, secondo un modello sabaudo che intendeva richiamare più la tradizione costituzionale inglese che quella ‘rivoluzionaria’ di matrice francese. Prospettive in tal senso avevano però ormai soltanto valore storico, data l’impostazione filoparlamentare cavouriana ormai prevalente. Nel 1853 Sclopis fu eletto presidente a vita della Deputazione di storia patria, di cui rianimò gli studi e le pubblicazioni. Nel frattempo curava con rinnovata attenzione i rapporti con gli studiosi europei, anche tramite una diretta frequentazione nei viaggi periodici con la consorte oltre le Alpi. Nel 1859 iniziava quel Diario segreto destinato alla sola lettura riservata della moglie, oggi ormai edito.
Convinto dell’unità culturale italiana, ma in prospettiva europea senza una particolare visione nazionalista, profondo cattolico, non apprezzò la politica antiecclesiastica di Camillo Benso di Cavour, considerato fin dal 1854 troppo avventuroso. Cauto fautore dell’unità politica italiana, a suo giudizio rischiosa per le differenti tradizioni locali (in primo luogo quella piemontese, a lui molto cara), propendeva per un sistema confederativo, che salvasse la sovranità pontificia in Roma, secondo un’impostazione che nel 1860-61 condivideva con Massimo d’Azeglio. Non volle partecipare alla riunione del Senato per approvare le annessioni dell’Italia centrale (14 aprile 1860) e votò contro quelle dell’Italia meridionale (19 ottobre 1860). Presiedette poi il primo Senato del Regno d’Italia dalla prima riunione (19 febbraio 1861) alla fine di settembre del 1864, quando si dimise per contestare modalità e contenuto della Convenzione di settembre con la Francia, che spostava la capitale da Torino a Firenze.
Aveva nel frattempo presieduto la seduta del 26 febbraio 1861 dedicata alla legge di attribuzione a Vittorio Emanuele II del titolo di re d’Italia (votando a favore), ma pure quella di poco successiva che prevedeva Roma come capitale definitiva (contro). Dimessosi nel settembre 1864 dalla presidenza, partecipò ancora ad alcune sedute del Senato, ma deluso si estraniò dalla politica nazionale. Fu uno dei principali esponenti del ‘partito municipale’ a difesa di Torino capitale, tanto che il suo rivale Angelo Brofferio gli riconobbe con ammirazione una coerenza unica rispetto agli altri piemontesi riguardo ai fatti di Torino del 1864. Da monarchico convinto, restò comunque in ottimi rapporti con il re.
Lasciata definitivamente la politica, Sclopis poté dedicarsi con maggiore impegno agli studi, ma soprattutto ai contatti culturali con la più aggiornata scienza europea, giovandosi di rapporti diretti intessuti nei viaggi transalpini annuali e della presidenza della Deputazione di storia patria (dal 1853) e dell’Accademia delle scienze di Torino (dall’inizio del 1864). Mentre la recente politica italiana deluse sempre più le sue attese, poté sembrargli che l’incivilimento e il progresso culturale della nazione potessero essere raggiunti ormai solo grazie all’interconnessione con i dotti e con i notabili dell’Europa, con i quali intesseva una vasta rete di rapporti sia diretti sia epistolari. Per circa un ventennio fu protagonista dell’apertura della cultura piemontese e nazionale verso l’esterno.
Studioso ormai inserito nella vita culturale europea, Sclopis fu chiamato nel 1871-72 a presiedere direttamente a Ginevra un importante arbitrato internazionale fra Stati Uniti e Inghilterra, per cercare di scongiurare una guerra fra queste due grandi potenze.
La prima accusava la seconda di indebito appoggio ai sudisti e alle loro navi corsare (di cui la più importante era l’Alabama, che diede nome al contenzioso), con notevoli danni diretti e indiretti per i commerci nordamericani. La forte tensione avrebbe potuto portare anche a un conflitto armato, se non risolta con un arbitrato internazionale, ritornato in auge da poco tempo nel clima più aperto delle relazioni internazionali dell’epoca. Ormai settantenne, Sclopis fu prescelto rispetto ad altri pretendenti; contro la prassi della direzione in capo al membro dello Stato ospitante, fu inoltre designato a sua insaputa e unanimemente quale presidente, in base al prestigio riconosciutogli. Le vicende dell’arbitrato non furono facili: le parti riconobbero che esso riuscì a concludersi solo grazie alle capacità giuridiche, d’impostazione processuale e sostanziale, nonché di perspicace mediazione, di Sclopis. Entrambe (anche l’Inghilterra, largamente soccombente) vollero esprimergli in modo palese la loro gratitudine e stima.
Il successo dell’arbitrato, gratuito, giovò ulteriormente sia al prestigio di Sclopis, sia all’utilizzazione di questo strumento di composizione internazionale delle controversie, sia alla formazione di alcuni principi arbitrali di rilievo, sia allo stesso Regno d’Italia ancora alle prese con la ‘questione romana’ dopo la recente conquista di Roma.
Chiusa quella vicenda Sclopis riprese la sua normale vita torinese: continuò a indirizzare la politica delle istituzioni culturali da lui presiedute, sovente dedicandosi pure a commemorare di persona con impegnativi necrologi i soci scomparsi, fino alla propria morte, quasi improvvisa, avvenuta a Torino, l’8 marzo 1878.
Opere. Oltre ai testi citati si segnalano: Della legislazione civile. Discorsi, Torino 1835; Degli Stati generali e d’altre istituzioni politiche del Piemonte e della Savoia. Saggio storico corredato di documenti, in Memorie della R. Accademia delle Scienze di Torino, s. 2, XIII (1852), pp. 1-423; Recherches historiques et critiques sur l’Esprit des lois de Montesquieu, ibid., s. 2, XXII (1858), pp. 165-271; Diario segreto (1859-1878), a cura di P. Pirri, Torino 1959.
Fonti e Bibl.: Le carte dell’Archivio Sclopis sono conservate, con i suoi libri, all’Accademia delle scienze di Torino per legato della vedova. Altri documenti si trovano presso la stessa Accademia e presso la Deputazione di storia patria di Torino; altri sono nell’Archivio di Stato di Torino e nella Biblioteca apostolica Vaticana (Fondo Patetta). Una bibliografia pressoché completa delle opere è in A. Manno, Bibliografia dei lavori a stampa di F. S., in Miscellanea di storia italiana, s. 2, XVIII (1879), pp. 25-60, ripresa in L’opera cinquantenaria della R. Deputazione di storia patria di Torino, a cura di A. Manno, Torino 1884, pp. 377-384. Inoltre: A. Manno, Carattere e religiosità del conte F. S., Torino 1880; V. Sclopis, Della vita e delle opere del conte F. S. di Salerano, con cenni storici sulla sua famiglia, Torino 1905; A. Erba, L’azione politica di F. S. Dalla giovinezza alla codificazione albertina (1798-1837), Torino 1960; G. Cansacchi, L’opera del conte F. S. di Salerano nell’arbitrato dell’Alabama, in Atti dell’Accademia delle Scienze di Torino, classe di scienze morali, 1972, vol. 106, pp. 735-751; B. Paradisi, Apologia della storia giuridica, Bologna 1973, pp. 108-112; G.S. Pene Vidari, F. S. (1798-1878), in Studi piemontesi, VII (1978), 1, pp. 160-172; L. Moscati, F. S. storico dei Longobardi, in Rassegna storica del Risorgimento, LXVI (1979), 3, pp. 259-276; F. Ranieri, Savigny e il dibattito italiano sulla codificazione nell’età del Risorgimento. Alcune prospettive di ricerca, in Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico moderno, 1980, vol. 9, pp. 358-362; L. Moscati, Da Savigny al Piemonte, Roma 1984, ad ind.; Ead., Modelli costituzionali nel pensiero di F. S., in Clio, XXI (1985), 4, pp. 563-581; G.P. Romagnani, Storiografia e politica culturale nel Piemonte di Carlo Alberto, Torino 1985, pp. 189-234; G.S. Pene Vidari, Premessa a F. Sclopis, Della legislazione civile. Discorsi, nuova ed. Torino 1996, pp. IX-XXX; L. Moscati, Un’inedita vita d’Irnerio, in Rivista di storia del diritto italiano, 2000, vol. 73, pp. 5-17; L. Moscati, Federico Paolo Sclopis, in Il contributo italiano alla storia del pensiero. Diritto, Roma 2012, pp. 286-289; G.S.Pene Vidari, S. F., in Dizionario biografico dei giuristi italiani, a cura di I. Birocchi et al., II, Bologna 2013, pp. 1839-1842; C. Bonzo, La personalità di F. S. nell’affaire de l’Alabama, in Rivista di storia del diritto italiano, 2016, vol. 99, pp. 273-353; A. Spinosa, «Civili in diversissimo modo». Modello napoleonico e culture giuridiche nazionali nell’Italia dell’Ottocento, Milano 2017, pp. 213-226; Archivio storico del Senato, Banca dati multimediale I senatori d’Italia, I, Senatori del Regno di Sardegna, sub voce, http://notes9.senato. it/Web/ senregno.NSF/ S_l?OpenPage.