Scolastica
Questa trattazione può considerarsi un tentativo conoscitivo, analitico e sintetico di dar conto di quel complesso sistema o metodo culturale medievale che va sotto il nome di scolastica. Ciò allo scopo di inquadrare gli studiosi che hanno maggiormente contribuito alla costruzione di tale sistema e di chiarire i loro fondamenti teorici, ma anche di ricostruire quanto e in che modo sia stata determinante l’economia scolastica per il successivo sviluppo della scienza economica. Una visione che volesse cogliere le diverse impostazioni, le contrapposizioni e i contrasti di luci e ombre, rischierebbe di non delineare il profilo di fondo, tradendo l’impossibilità di una visione unitaria. Ci si è attenuti al criterio di offrire gli elementi fondamentali del modo particolare di fare filosofia e teologia della scolastica, unendoli al patrimonio di idee che da essa si è generato.
Della definizione di scolastica (dal latino medievale scholastica, femminile sostantivato dell’aggettivo scholasticus, nel significato di maestro che dirige o insegna nella scuola) gli studiosi hanno dato interpretazioni diverse. Si potrebbe dire che le divergenze dipendono da come di volta in volta viene inteso il termine scholasticus. Si rende quindi opportuno chiarire – seguendo l’analisi storico-critica – qual è il concetto che tale termine indica, per poi procedere a una verifica sulla base di alcune opere prodotte seguendo il metodo scolastico.
Nei primi decenni del secolo scorso, Maurice De Wulf (1927) sostenne che esistono differenze tra i grandi filosofi e teologi, ma tutti rigettano l’unità dell’Ente e delle creature, e professano il dualismo: «Deus et ens creatum». Anselmo d’Aosta, Tommaso d’Aquino e Giovanni Scoto Eriugena discordano sulle questioni secondarie, ma concordano su quelle essenziali, cioè sulla dottrina della materia e della forma, dell’essenza e dell’esistenza, della differenza tra senso e intelletto, e così via.
Questa posizione non trovò il favore degli altri studiosi, perché riduceva a un unico sistema il pensiero degli scolastici, trascurando di considerare il fatto che tra platonismo e aristotelismo esistono diversità tali che non è possibile ridurle all’unità. Secondo Étienne Gilson (1925, p. 8) non sono i grandi maestri che formano la scolastica, ma tutti i pensatori nel loro complesso.
Qualche anno dopo, Manuel Barbado (1928; trad. fr. 1931, p. 162) evidenziò nella scolastica il metodo sintetico deduttivo (dai principi generali alle complesse conclusioni) e il metodo analitico induttivo (dal particolare ai principi generali). Secondo Barbado, nello studio della natura i grandi scolastici percorrono quattro gradi di sviluppo logico: cogliere tutto ciò che cade sotto la nostra esperienza; studiarne i principi o leggi generali; dedurne le conclusioni, coniugando i principi generali con i dati dell’esperienza; esaminare se le conclusioni stesse concordano o meno con l’esperienza. Ma il metodo deduttivo e induttivo costituisce soltanto l’ossatura esterna attraverso la quale la scolastica si esprime per comprendere e spiegare la fede. Pertanto, se da un lato è impossibile raggiungere una definizione in senso stretto di scolastica, dall’altro appare opportuno tentarne una descrizione che tenga conto degli elementi caratteristici emersi.
D’altra parte, un’analisi della scolastica non può prescindere da una riflessione più ampia sul Medioevo, ossia una delle epoche più difficili da conoscere e interpretare oggettivamente, anche per il metodo di insegnamento che vi prevalse, dal momento che i maestri erano filosofi e teologi allo stesso tempo. Ma, al di là delle sue intrinseche difficoltà, delle sue contraddizioni e dei molteplici pregiudizi che lo riguardano anche dal punto di vista storico-sociale, non si può negare che il Medioevo presenta molti aspetti positivi, tra cui la libertà di pensiero, l’elaborazione di una grande sintesi di Dio, dell’uomo e del mondo, pur nella coesistenza di paradigmi filosofico-teologici paralleli, convergenti e opposti, come espressione culturale della loro ricchezza spirituale.
Il problema della scolastica consisteva nel rendere comprensibile all’essere umano la verità rivelata perché così potesse essere vissuta. L’auctoritas e la ratio, la tradizione e il sapere razionale che la chiarisce ne sono i pilastri.
Si può dunque definire la scolastica come quella particolare tendenza che, attraverso il metodo analitico-sintetico-didattico e cercando un connubio tra fede e ragione, raccoglie le verità naturali e soprannaturali, accettate dalla Rivelazione e dalla Chiesa, in vari sistemi, di cui i principali sono: quello aristotelico-tomista e quello platonico-agostiniano-francescano. In questo senso si può dire che la scolastica è la scienza della schola. Difatti, le forme di insegnamento erano due: la lectio (che consisteva nel commento di un testo) e la disputatio (che consisteva nell’esame e nella comprensione di un problema); e poi l’ordinamento in quaestiones, che sovrintendevano all’articolazione dei sistemi delle Summae. Ogni questione posta sul tappeto veniva tecnicamente sviscerata con argomenti a favore o contro (videtur quod non…; sed contra); seguiva la soluzione della questione (respondeo, solutio, dicendum) e si concludeva con la risposta alle obiezioni (ad primum respondeo, ad secundum ecc.).
La storiografia ha quasi unanimemente identificato, per quanto riguarda la scolastica medievale propriamente detta, la seguente periodizzazione.
Detto dell’alta scolastica o anche della prima scolastica, il primo periodo si apre con quel rifiorire della cultura, a partire dalla fine dell’8° sec., che è noto nella storia con il nome di rinascita carolingia, e che ha il suo maggiore rappresentante nel filosofo irlandese Giovanni Scoto Eriugena (810 ca.-880). Nella discussione filosofico-teologica medievale sul rapporto tra fede e ragione, egli si attesta su posizioni di stampo agostiniano: la vera filosofia non può che coincidere con la vera religione, la verità razionale con quella rivelata nella Bibbia; perciò, fede e ragione procedono dalla medesima fonte divina e sono elementi inscindibili per attingere la verità.
Il periodo prosegue con alcuni grandi maestri dei secc. 11° e 12°, che fanno ampio uso della logica e della dialettica nell’interpretazione della Bibbia.
Anselmo d’Aosta (1033/1034-1109), abate benedettino e successivamente vescovo di Canterbury, passato alla storia per aver affrontato il rapporto tra fede e ragione e per il suo noto aforisma credo ut intelligam (credo per capire).
Ugo di San Vittore (1096-1141), monaco nell’abbazia di Parigi, che rinnova e ripensa la filosofia agostiniana fondando la validità della ragione umana sul fatto della presenza, sia pure indiretta, di Dio nell’uomo.
Giovanni di Salisbury (nato tra il 1110 e il 1120 e morto nel 1180), che sostiene contemporaneamente la dottrina platonica delle idee e quella aristotelica dell’ilemorfismo (la teoria della materia e della forma), ed è il primo grande scrittore medievale di teoria politica.
Bernardo di Chiaravalle (1090/1091-1153), monaco cistercense, che nella civitas christiana inserisce due supreme autorità, quella del papa e quella dell’imperatore: entrambe devono concorrere a produrre frutti di pace e di salvezza, di giustizia e di carità, per rendere sempre più evidenti i segni del regno di Dio.
Pietro Abelardo (1079-1142), che ha legato il suo nome al problema degli universali, i quali non sono semplici flatus vocis, ma concetti ricavati dalle cose. Il suo nome è ricordato anche per il metodo sic et non, che raccoglie su diversi argomenti opposte tesi, lasciando al lettore il compito di decidere da che parte stia la verità.
Pietro Lombardo (fine 11° sec.-1160), che è passato alla storia per i suoi famosi Libri IV sententiarum, una delle primissime summae teologiche, così organica, chiara, ordinata, schematica, completa e ortodossa da diventare il manuale dei corsi teologici in tutte le scuole, abbazie e università dal 12° al 16° sec. incluso. Tutti i docenti, per i corsi fondamentali, dovevano servirsi di questo testo. Così avvenne che i grandi teologi del Medioevo (Alessandro di Hales, Alberto Magno, Bonaventura da Bagnoregio, Tommaso d’Aquino, Giovanni Duns Scoto ecc.) iniziarono la loro attività accademica e letteraria proprio commentando i Libri IV sententiarum.
Contemporaneamente alla prima scolastica cristiana europea, si svilupparono altri due sistemi filosofici: quello arabo, il cui centro dal 9° all’11° sec. fu Baghdād, e quello ebraico, il cui centro dall’11° al 12° sec. fu la Spagna.
Non si trattava di fenomeni disgiunti l’uno dall’altro né estranei tra loro, perché in una misura più o meno rilevante i massimi esponenti della scolastica musulmana ed ebraica furono conosciuti dai maggiori esponenti della scolastica cristiana e influirono sull’evoluzione del loro pensiero. Difatti, non è possibile comprendere lo sviluppo della filosofia nel Medioevo senza considerare che il pensiero di Aristotele venne acquisito dai pensatori medievali proprio attraverso la mediazione dei filosofi arabi, che non si limitarono a tradurre in latino le opere dello Stagirita, ma le accompagnarono con un intenso lavoro di commento e di interpretazione, in grado di influenzare significativamente il dibattito filosofico dell’epoca.
Se nella seconda metà del 12° sec. prevalse il pensiero di Avicenna (980-1037), prima grande sintesi di aristotelismo, neoplatonismo e religione islamica, nel 13° sec. ricevette maggiore attenzione Averroè (1126-1198), la cui influenza attraversò tutto il Medioevo e il Rinascimento, fino a giungere alle porte dell’epoca moderna. La sua dottrina più originale, e che ebbe il maggior impatto sul pensiero successivo, è certamente quella dell’unicità dell’intelletto, sia attivo (come era per Avicenna l’intelletto agente) sia passivo.
Grazie ai commenti aristotelici di entrambi, e al loro tentativo di servirsi della metafisica di Aristotele per l’interpretazione della religione islamica, nel 13° sec. gli studiosi cristiani si resero conto della possibilità di dare una nuova strutturazione alla loro fede, valendosi non più delle categorie filosofiche di Platone, bensì di quelle dello Stagirita.
Anche la scolastica ebraica medievale si trovò ad affrontare il problema dei rapporti tra fede (la Bibbia) e ragione (filosofia), costituendo un gruppo abbastanza nutrito e qualificato di pensatori, i più insigni e originali dei quali sono Avicebròn e Maimonide, che esercitarono un notevole influsso sulla scolastica cristiana.
L’impianto filosofico di Avicebròn (1020/1022-1058) è di stampo neoplatonico, ma con l’inserimento di qualche elemento aristotelico, in particolare la dottrina dell’ilemorfismo (materia e forma), che estende a tutti gli esseri del mondo fisico, spirituale e delle intelligenze. Assegnando, poi, alla volontà il primo posto tra gli attributi divini e affidando a essa l’origine e il governo delle cose, egli dà il via a un indirizzo – quello volontaristico – che troverà numerosi seguaci, soprattutto nella scolastica francescana.
L’obiettivo dell’analisi di Maimonide (1135-1204) è quello di trovare – come per i filosofi cristiani e musulmani – un accordo tra fede e ragione, tra rivelazione e filosofia. Egli è sicuro che sui problemi di fondo non può esistere contrasto tra filosofia e rivelazione, perché Dio è l’unica loro prima sorgente. La verità è una sola, ed è chiaramente quella rivelata, mentre quella dei filosofi (Aristotele) è solo una posizione opinabile; anche se in molti casi la verità sta dalla parte dei filosofi, in quanto il testo biblico, ricco di antropomorfismi, necessita di interpretazione allegorica.
Infine, due figure – Gioacchino da Fiore (1135 ca.-1202) e Francesco d’Assisi (1181/1182-1226) – concludono questo periodo e, in qualche modo, s’impongono nell’ambito del Medioevo, al punto che una certa storiografia ritiene che il cammino della modernità sia segnato dall’impronta del loro passaggio.
Secondo Gioacchino, la storia del mondo si sviluppa in tre grandi epoche: quella del Padre (Vecchio Testamento), quella del Figlio (Nuovo Testamento) e quella dello Spirito Santo (Terzo Testamento), che perfezionerà e spiritualizzerà la seconda.
Nell’epoca dello Spirito Santo, in itinere, il movimento francescano degli spirituali vide profetizzata la missione provvidenziale inaugurata da Francesco, distaccando in questo modo sempre più l’ideale francescano dalla realtà e dal mondo.
Il contesto storico (ripresa espansiva dell’islam, conflitto tra papato e impero sulla plenitudo potestatis, corruzione nella Chiesa) faceva presagire imminente l’attacco dell’Anticristo. E il pensiero gioachimita attrasse una gran varietà di pensatori. Sia Gioacchino da Fiore sia Francesco d’Assisi furono interpreti e testimoni di una nuova primavera dell’esistenza, l’uno proponendo l’età dello Spirito, l’altro testimoniandone la forza liberatoria. Entrambi propugnavano un cambiamento qualitativo in grado di riattivare nel flusso della storia (historia salutis) l’onda creativa e redentiva.
Considerato il periodo d’oro della scolastica, è la stagione dei nuovi saperi, segno di sorprendente vitalità culturale. Il passaggio dal 12° al 13° e 14° sec. comporta mutamenti significativi, compendiabili, sul piano sociopolitico, nell’affermazione dei Comuni sulla nobiltà feudale e, sul piano filosofico-teologico, nell’ingresso rivoluzionario di Aristotele nel pensiero cristiano occidentale. Al potere dei signori feudali (aristocratici e potenti abati) subentra quello di borghesi e uomini del popolo, creatori di nuovi spazi, che diventano presto luoghi di vita reale.
Di fronte alla tradizione dottrinale patristica e platonico-agostiniana si fa avanti la progressiva assimilazione dell’aristotelismo che, malgrado le condanne (Concilio di Parigi del 1210 e statuti dell’Università di Parigi del 1215, redatti da Roberto de Courçon, legato pontificio, che distingue espressamente fra i libri di logica permessi e quelli proibiti), entra rapidamente nelle facoltà delle Arti e si impone, con i suoi metodi, nell’insegnamento della teologia. È in questo momento, infatti, che inizia la costruzione di un nuovo sapere, il quale tiene conto della cultura greco-araba appena scoperta e in vari modi risolve il problema del rapporto tra questo nuovo sapere e la tradizione speculativa cristiana; in altre parole, la mediazione del rapporto tra la filosofia (in generale identificata con l’aristotelismo) e la teologia, fondata sul depositum fidei.
Tuttavia non mancarono incertezze, confusioni, incomprensioni e opposizioni sull’opportunità di introdurre l’aristotelismo nelle università. Così si delinearono tre posizioni.
La prima, rappresentata in prevalenza dai maestri delle arti e dai professori delle facoltà di Filosofia, idealmente capeggiati dai filosofi averroisti – Sigieri di Brabante, Boezio di Dacia e Giacomo da Pistoia – era favorevole alla conciliazione di Aristotele con la teologia cristiana.
Le altre due posizioni erano tipiche dei maestri di teologia, i quali ritenevano accettabili le dottrine aristoteliche solo nella misura in cui giovavano alla teologia; l’aristotelismo, cioè, doveva assumere valore strumentale, nel senso che poteva svolgere un ottimo servizio in rapporto alla ricerca teologica. Ma nel determinare questo valore strumentale, i teologi si distinsero in due grandi scuole: quella domenicana, guidata da Alberto Magno, colui che con maggior forza segnalò la radicale autonomia del sapere razionale, e da Tommaso d’Aquino, il quale sostenne che la filosofia aristotelica, ricondotta alla purezza delle sue linee generali, poteva offrire un insieme di preziosi strumenti ermeneutici e lessicali per l’elaborazione e l’analisi teologica; e quella francescana, guidata da Alessandro di Hales, primo magister theologiae all’Università di Parigi, e da Bonaventura da Bagnoregio, la quale, dopo una fase di cauto ottimismo, si oppose ad Aristotele, preoccupata dell’inconciliabilità con la dottrina cristiana di alcune tesi dello Stagirita: eternità del mondo, negazione della libertà divina, incertezza circa la natura, l’unità e l’immortalità dell’uomo.
Mentre la scuola aristotelico-tomista conquistò ben presto la posizione di migliore espressione della filosofia scolastica, soprattutto per aver contribuito alla rinascita e alla diffusione dell’aristotelismo averroista nell’Europa cristiana, la scuola agostiniano-francescana si rivolse al neoplatonismo per sviluppare il tema agostiniano dell’illuminazione divina, che costituisce la via, da una parte, per cogliere le essenze eterne e, dall’altra, per guidare l’azione umana, in quanto solo essa determina la disposizione pratica al bene.
Il confronto e la critica tra le due scuole avvennero, all’inizio, su un piano prevalentemente logico-metafisico; successivamente, a opera soprattutto dei francescani Giovanni Duns Scoto (1265/1266-1308), Alessandro Bonini, detto di Alessandria, e Guglielmo di Occam (fine 13° sec.-1349), la critica si incentrò su alcuni principi fondamentali della gnoseologia e della metafisica aristotelico-tomista. Contro la dottrina della conoscenza astrattiva dell’universale, essi sostennero il primato di quella intuitiva del particolare, esaltando in ogni individuo un principio interno, autonomo, di individualità.
In particolare, Scoto avviò la critica al tomismo con la sua dottrina dell’haecceitas, che costituisce il principio d’individuazione proprio di ciascun individuo. D’altra parte, la sua valorizzazione della volontà si contrapponeva al rigido intellettualismo aristotelico (dottrina del volontarismo).
Radicalizzando la posizione filosofica di Scoto, Guglielmo di Occam insistette sull’assoluta priorità dell’individuale, negando ogni valore metafisico e gnoseologico agli universali, da lui ridotti a schemi pratici per ordinare la realtà concreta, e – sul piano politico –, inserendosi nell’aspra controversia tra papato e impero sulla plenitudo potestatis, negò la teocrazia papale assoluta.
Alessandro di Alessandria sostenne che nella facoltà di Filosofia deve prevalere la ragione, mentre in quella di Teologia la fede, che costituisce una sorta di cono di luce entro cui collocare il territorio della filosofia. È la strada verso la laicizzazione francescana della filosofia, come pieno riconoscimento della sua autonomia: la logica rationis entro la logica fidei.
Con il 15° sec. si chiude il Medioevo e inizia un periodo di grandi trasformazioni: entrano in crisi due istituzioni, papato e impero, che si erano fronteggiate a lungo, e si sviluppa e si conclude in Europa il processo di formazione delle grandi monarchie nazionali (Francia, Spagna, Inghilterra). In Italia si svolge il consolidamento delle Signorie e dei principati regionali (Milano, Firenze, Repubblica di Venezia, Stato pontificio, Regno di Napoli).
Due eventi segnano profondamente il secolo: l’invenzione della stampa a caratteri mobili (1455) e la scoperta dell’America (1492); la prima incise sulla diffusione e sullo sviluppo della cultura, la seconda determinò lo spostamento del cuore degli interessi economici europei dal Mediterraneo all’Atlantico.
Ma, in realtà, la pretesa netta frattura con la scolastica non è mai esistita, anche se è in questo periodo che matura la svolta antropocentrica; c’è stata infatti una lunghissima evoluzione che ha visto una complessa trasformazione di realtà economiche, sociali, infrastrutturali e religiose prima che si arrivasse al formarsi della nuova mentalità. Tra il tramonto del Medioevo, la scolastica e l’inizio dell’età moderna esiste una continuità storica e filosofico-teologica, che passa attraverso la civiltà umanistico-rinascimentale. Un’analisi attenta su questo punto non può prescindere dalla constatazione della continuità e dell’influsso della teologia, con una visione e un atteggiamento verso le realtà terrene non puramente ed esclusivamente metafisico e contemplativo, ma teso a formare ed esprimere la nuova coscienza sociale.
Basti pensare alle opere dei francescani Bernardino da Siena, Alberto da Sarteano (1385-1450), Giovanni da Capestrano (1386-1456), Giacomo della Marca (1394-1476), Angelo Carletti da Chivasso (1410 ca.-1495), che nel 1486 pubblicò la Summa casuum conscientiae, Pacifico da Cerano (1426-1482), che nel 1473 scrisse la Somma morale (stampata nel 1475 e detta poi Somma pacifica), primo testo in lingua italiana su argomenti del genere, Bernardino da Feltre (1439-1494), promotore dei Monti di Pietà, Marco da Montegallo (1425-1496), che fondò diversi Monti di Pietà nelle Marche, Battista Trovamala di Sale (15° sec.), che nel 1484 pubblicò una sua Summa casuum conscientiae, destinata ad avere vastissima diffusione in tutta Europa.
Ma anche alle opere dei domenicani Antonino da Firenze (1389-1459), che pubblicò la Summa moralis, Annio da Viterbo (1432-1502), che scrisse un importante Consilium in difesa del prestito a interesse, e Tommaso De Vio, detto il cardinale Gaetano (o Caetano; 1468/1469-1533), che invece combatté decisamente ogni forma di prestito oneroso.
La tensione spirituale che percorre l’età medievale e la caratterizza continuò ancora oltre il 15° sec., ma sempre più in contrasto con le nuove forme di attività umana che si andavano affermando. Le nuove esperienze politiche, economiche, sociali, tecniche, finirono però per creare le condizioni del superamento della cultura medievale. È l’inizio di un’evoluzione che giungerà alla sua piena maturità nel 18° secolo. Se, dunque, l’Umanesimo fu, veramente, rinnovata fiducia nell’uomo e nelle sue possibilità, occorre dire che la cultura si rivolse in ogni direzione di attività, convergendo, pur in mezzo a tante oscillazioni e a tanti contrasti, verso una piena formazione umana, compiuta attraverso gli studia humanitatis.
Chi cercasse, in fondo, l’origine ideale di questa nuova vita civile integrale, basata sui motivi scotisti del primato della volontà sull’intelligenza, ripresi da Coluccio Salutati, che a essi aggiunge il valore dell’opera terrena, deve rifarsi alla scuola francescana. Emblematici, a questo riguardo, sono la lode e l’ossequio rivolti da Leonardo Bruni all’erede di Duns Scoto, Bernardino da Siena, per la sua stretta connessione fra cultura e vita sociale e morale.
Da qui nasce il valore del denaro per lo sviluppo della città, tanto che Poggio Bracciolini nel De avaritia (1428-29) ne elogia la brama. Se per Giordano Bruno (1548-1600) il lavoro è una benedizione (non una condanna), perché per suo tramite l’uomo rende umano se stesso e familiare il mondo, per Bracciolini la virtù umana, se è vera virtù, è sociale, è incremento socioeconomico della città. Sull’esaltazione del lavoro dell’uomo si esprime anche Leon Battista Alberti, il quale aggiunge che esso dà prosperità alle famiglie e alle città, e che il fiorire delle ricchezze e il prosperare dei beni terreni costituiscono un segno tangibile del favore di Dio.
Quindi, nella seconda metà del 15° sec. una nuova mentalità si affermò, prima in Italia, Paese allora più ricco e più colto del vecchio continente, e poi, più o meno, in tutta l’Europa. Anche se il Medioevo non si poteva ancora considerare del tutto terminato, questi cambiamenti nelle condizioni intellettuali e morali influirono profondamente sulla concezione politica ed economica della società.
Questa denominazione, che vuole indicare la scolastica dei secc. 16° e 17°, è più convenzionale che storico-critica. L’Umanesimo e il Rinascimento, infatti, non spengono la scolastica, semmai ne restringono il campo, specialmente alle scuole ecclesiastiche e teologiche. Il vero sgretolamento e smarrimento avverrà più tardi, alla fine del 18° secolo.
Il centro culturale teologico per eccellenza si sposta da Parigi a Salamanca: qui nasce la cosiddetta seconda scolastica, che ha anzitutto il merito della sistematizzazione dell’incontro tra i due filoni di pensiero differenti, il tomismo e il volontarismo francescano, a opera della scuola gesuitica. Nel 16° e 17° sec., infatti, la scolastica riceve nuovo vigore e rinnovato impulso grazie alla scuola gesuitica di Salamanca.
In particolare, Francisco Suárez (1548-1617), sulla scia della teoria di Guglielmo di Occam sull’indipendenza della filosofia dalla teologia, scrive il primo trattato di filosofia separato dalla teologia e interamente sganciato dalle tesi aristotelico-tomiste, le Disputationes metaphysicae (1597), che fu molto conosciuto anche oltre l’ambito delle nazioni cattoliche: lo studiarono René Descartes, Gottfried Wilhelm von Leibniz, Tommaso Campanella e Benedetto Spinoza.
Inoltre, la seconda scolastica contribuì a far nascere il diritto civile, il concetto dei diritti umani, il diritto internazionale, il concetto di bene comune – che un secolo più tardi darà voce al modello di economia civile in Italia – e alla teologia morale, che sfocerà poi nel primo trattato scritto da Alfonso Maria de’ Liguori.
Una ripresa e un rinnovamento della filosofia scolastica (neoscolastica), infine, si avranno alla fine del 19° sec. con la restaurazione del tomismo per opera di Leone XIII con l’enciclica Aeterni Patris (1879).
Fino a quando il sapere fu limitato alle sette arti liberali dell’alto Medioevo (grammatica, retorica, logica, aritmetica, astronomia, geometria e musica), insegnate, con diverse accentuazioni, nelle scuole delle cattedrali e nelle scuole monastiche, era difficile che potessero nascere università, perché non c’era nulla di nuovo da insegnare. Unica eccezione fu la scuola medica di Salerno, denominata città di Ippocrate, che dalla metà dell’11° sec. per duecento anni si impose come uno dei più attivi e rinomati centri di studi medici d’Europa.
L’incontro dell’epistemologia aristotelica con la filosofia e la teologia potenziò il sapere, facendo nascere nei primi decenni del 13° sec. le universitates, che rappresentarono un evento di trasformazione culturale unico dell’Occidente.
I centri ai quali si deve fare riferimento per comprendere l’origine delle università sono Bologna e Parigi. La prima si distinse come centro di rinascita del diritto romano. La seconda fu il centro degli studi di teologia più rinomati d’Europa, divenendo il modello delle altre università, Colonia, Oxford e Cambridge. Le università sorte nel corso del 13° sec. in Italia, in Francia e in Spagna si distinsero per l’insegnamento delle arti liberali, soprattutto il diritto (oltre a Bologna, vi furono Padova, Tolosa, Orléans, Salamanca) o la medicina (oltre a Salerno, vi fu Montpellier). L’università fondata a Napoli da Federico II nel 1244 si qualificò per lo studio delle opere di Aristotele, al cui pensiero, in questa facoltà, si formò il giovane Tommaso d’Aquino.
Solo a partire dalla seconda metà del 14° sec. la geografia dell’insegnamento teologico universitario si amplierà in tutta Europa. Così l’università di Praga nel 1347 accolse tra le facoltà quella di teologia; altrettanto fecero le università di Tolosa (1356), di Padova (1363), di Bologna (1364).
Negli studi di teologia fino al 12° sec. si faceva prevalentemente esegesi e la didattica era affidata alla lettura commentata dei testi, che venivano spiegati ricorrendo ad altri testi dello stesso autore o ad altre autorità riconosciute. Con l’ingresso del metodo scientifico proprio dell’aristotelismo si impose ai teologi la necessità di rendere scientifici anche gli studi teologici.
La nascita delle università, con l’ampliamento del campo del sapere e con il cambiamento del metodo di ricerca, veicolò il nuovo percorso didattico, ponendo subito il problema: utrum sacra doctrina sit scientia. Il dibattito divenne centrale per la teologia. E qui le alternative erano due: si poteva rispondere o in modo affermativo o in modo negativo. Se si rispondeva che la teologia non era scienza, perché basata sugli assunti della rivelazione e non su un sapere universale, si sarebbero messi i teologi in una posizione di inferiorità rispetto ai filosofi.
Il primo maestro a ritenere che il modello epistemologico di Aristotele potesse applicarsi anche alla teologia fu Alberto Magno, il quale sostenne che anche la teologia poteva assumere in gran parte il modello epistemico del sapere aristotelico, purché si tenesse separato il contenuto particolare della storia della salvezza dagli enunciati universali presenti nella Rivelazione, che possono, invece, essere formulati secondo il modello del sapere aristotelico.
Tommaso d’Aquino riprese e ampliò il discorso del suo maestro, affermando che la sacra dottrina può essere detta scienza perché lo stesso Aristotele prevede la possibilità che si dia il nome di scienza a un sapere le cui premesse sono state rese evidenti da una scienza superiore (gli enunciati immediatamente evidenti alla scienza di Dio, che li rivela a noi, e noi li assumiamo come principi). Si trattò di un ragionamento estremamente sottile e sofisticato, ma che comunque ebbe il merito di superare la situazione conflittuale che si era formata tra favorevoli e contrari ad Aristotele, e di evitare che la teologia, nell’ambito delle discipline universitarie, si venisse a trovare in una situazione di inferiorità.
Significativo esponente del cambiamento di paradigma culturale fu il francescano Roberto Grossatesta (1175-1253), considerato il fondatore dell’università di Oxford, che tradusse per primo dal greco in latino l’Etica Nicomachea di Aristotele. A lui si deve il tentativo originale di incontro tra la nuova filosofia aristotelica e la teologia cristiana, riguardante la teoria della luce, tema poi ripreso e ampliato da Bonaventura da Bagnoregio.
Un altro esponente dell’aristotelismo eclettico della prima metà del 13° sec. fu il francescano Ruggero Bacone (1214 ca.-dopo il 1292), che insegnò all’università di Parigi dal 1240 al 1247. Egli, tra l’altro, propose una sintesi tra la dottrina aristotelica dell’astrazione e la dottrina della tradizione platonico-agostiniana, nota come dottrina dell’illuminazione.
Nell’ambito dei libri di testo e della metodologia dell’insegnamento, che seguirono all’affermazione dell’università medievale, si assistette a un altro progresso rispetto al periodo precedente.
Il testo principale per le lezioni di teologia era la Bibbia glossata, che veniva spiegata in commenti e note riportati sulla stessa pagina: i primi vergati in caratteri più grandi, nella colonna al centro, le seconde ai margini, in corpo piccolo e in scrittura più abbreviata. In interlinea erano collocate le spiegazioni letterali di termini difficili.
Altri testi fondamentali, usati in tutta Europa, erano le Sententiae, antologie di pareri relativi a questioni dibattute, che venivano risolte attraverso il ricorso alle soluzioni date da autori riconosciuti da tutti. La raccolta più fortunata – come abbiamo già segnalato – fu quella di Pietro Lombardo.
Dalle Sententiae, nel 13° e 14° sec. si passò alle Summae, caratterizzate dallo sviluppo sistematico e non antologico. Nelle Summae, infatti, il parere espresso dal maestro offre una soluzione della quaestio non più fondata su un’autorità del passato ma sulla sua competenza scientifica, per cui al maestro viene riconosciuto il compito di dare la risposta alla questione senza ricorrere alle auctoritates.
Nelle facoltà di Diritto, invece, il testo principale era il commento alle Decretali di papa Clemente V, dette Clementine, una lettura obbligatoria per i canonisti in tutte le sedi universitarie.
Le basi dell’etica economica e sociale non vanno dunque ricercate presso i Greci e i Romani, ma nelle Summae e nei trattati dei dottori della scolastica, i quali spesso sono stati criticati per essere stati troppo speculativi e per non aver prestato sufficiente attenzione alla prassi. L’analisi delle loro opere dimostra però che questa critica non è giustificata.
Certamente non possiamo aspettarci di trovare nei loro scritti una penetrante analisi economica. Tuttavia, essi guardavano alle problematiche socioeconomiche da un punto di vista etico piuttosto che in termini meccanicistici; in ogni caso, dimostrano una concezione pratica della realtà, che derivava loro dall’osservazione diretta dell’evoluzione sociale: la prassi contrattuale, l’emptio e la venditio (compra-vendita), la determinazione del prezzo, il mutuum, il prestito a interesse, la remunerazione del capitale, la giustificazione della proprietà privata, la permutatio rerum (scambio di beni), il giusto salario, il cambium, il debito pubblico, l’usura.
Va subito precisato che con il termine usura gli scolastici intendevano qualsiasi forma di sovrapprezzo calcolato sul capitale prestato in un mutuum, richiesto in ragione del prestito stesso, o in virtù del contratto, o senza previo accordo.
Se, da un lato, gli storici del pensiero economico hanno generalmente ignorato tale indagine – forse anche perché troppo erudita e in lingua latina – è anche vero, per essere corretti e imparziali, che gli studiosi cattolici si sono lasciati sfuggire un’ottima occasione per sottolineare il contributo dell’economia scolastica alla successiva evoluzione della scienza economica.
Poiché è impossibile passare in rassegna l’innumerevole schiera dei filosofi, teologi e canonisti, tra il 13° e il 16° sec., che ha spinto verso un definito modello economico, citeremo soltanto le figure principali.
La prima di queste figure è quella di Tommaso d’Aquino, il quale definì alcune regole di giustizia che dovevano governare le transazioni economiche e le relazioni sociali.
La figura più importante è però quella del teologo Pietro di Giovanni Olivi (1248-1298), per le sue teorie sulla produttività del capitale, sull’interesse e sul giusto prezzo. Francescano di alto profilo, a cui la storiografia non ha ancora reso l’omaggio dovuto nel campo della dottrina sociale, riconduce il capitale a una somma di denaro che, destinata al processo produttivo, contiene in sé un ‘seme di lucro’; questa presenza seminale costituisce il valor superadiunctus o dell’interesse. Inoltre egli introduce la nozione di valore economico, che divide in tre proprietà: raritas (scarsità), virtuositas (qualità intrinseca del prodotto), complacibilitas (componente soggettiva da parte del fruitore).
Il pensiero di Giovanni Duns Scoto – primo e più acuto tra i filosofi e teologi francescani, tanto da meritarsi il nome di doctor subtilis – apre in campo economico nuove strade, introducendo, tra l’altro, due regole di giustizia mercantile: il mercante svolge un servizio utile alla società, e per questo ha diritto a ricevere un’adeguata remunerazione. I mercanti recano un servizio utile alla comunità a queste condizioni: se trasferiscono da un posto all’altro cose utili, se le conservano, se le migliorano, se aiutano la gente comune a giudicare rettamente il valore e il prezzo delle cose. Sulla base di questo servizio reso allo Stato e alla collettività, Scoto ammette e giustifica l’acquisto delle merci non per il bisogno, ma per la vendita da farsi con guadagno.
Un altro teologo francescano, Alessandro di Alessandria, successore di Duns Scoto nella cattedra di Parigi e ministro generale dell’ordine, coglie alcuni aspetti della dottrina creditizia e finanziaria che aprono la strada a uno sviluppo dell’uso della moneta negli scambi. Egli spiega come nasce il giusto profitto nel cambio delle monete, motivando il guadagno del permutante, ossia del campsor, che non è per nulla tenuto a prestare la sua opera gratuitamente, poiché svolge un servizio utile alla società. L’economia perciò diventa lo strumento del guadagno personale, che si sublima nell’essere utile al bene comune, alla società, in una sintesi mirabile tra particolare e universale, soggetto e collettività, individuo e società.
L’avvio di tale analisi economica, ampliata e accolta dalla scolastica francescana del 14° e 15° sec., proseguì ed ebbe larghissima diffusione grazie ai Sermones (e alla predicazione) di Bernardino da Siena e alla Summa moralis di Antonino da Firenze, opera che riassume mirabilmente lo stato del dibattito sul prestito a interesse, sul giusto prezzo, sul cambio e sul debito pubblico. Poi il compito passò alla scuola di Salamanca, fondata da Francisco de Vitoria (1480-1546) e portata avanti dai suoi principali seguaci, Domingo de Soto (1494-1560) e Martín de Azpilcueta (1492-1586), meglio noto come ‘dottor Navarro’. I materiali che furono prodotti da essi influenzarono il pensiero dei gesuiti Luis de Molina (1535-1600), Francisco Suárez e Leonardo Lessio (1554-1623), che si distinsero per la consapevolezza dei meccanismi di mercato nella determinazione dei prezzi.
L’economia scolastica raggiunse la piena maturità (e per questo fu chiamata seconda scolastica) negli scritti di Juan de Lugo (1583-1660), nel quale riaffiora l’idea oliviana della ‘seminalità’ del capitale, che contiene in sé il germe dell’interesse.
È appena il caso di ricordare che il sapere umano cresce per accumulo; e il pensiero scolastico, avendo influenzato teologi e giuristi come l’olandese Ugo Grozio (1583-1645), il sassone Samuel Pufendorf (1632-1694) e i due abati economisti della scuola soggettivista napoletana Antonio Genovesi (1713-1769) e Ferdinando Galiani (1728-1787), ha lasciato vestigia percorse dal filosofo e teologo Francis Hutcheson (1694-1746), maestro di filosofia morale di Adam Smith (1723-1790) all’università di Glasgow. L’ultimo anello della catena – l’approdo – è rappresentato, dunque, dalla scuola scozzese della Theory of moral sentiments (1759) di Smith.
Al centro delle loro analisi, questi pensatori pongono l’individuo e la sua aspirazione a realizzare il benessere personale come motore dell’agire economico. Il mercato, l’impresa, l’attività economica, sono in sé luoghi di amicizia, di fiducia, di relazione, di reciprocità, di giustizia, di ‘felicità pubblica’, perché legata al bene comune.
Non deve stupire, in fondo, che la scolastica francescana, in particolare, sincronizzando meravigliosamente la speculazione con la vita, il pensiero con l’azione, la mistica con il lavoro, l’economia con la felicità, il bene con il ben-essere, la teoria con la prassi, sia riuscita a proporre la tesi dell’utilità sociale della mercatura. La riflessione dei francescani, cioè, ha creato le condizioni per lo sviluppo dei principi etici insiti nel capitalismo, contribuendo alla formazione di una mentalità diffusa in cui il mercato ha trovato un valido appoggio per gli sviluppi successivi.
In tale prospettiva, il pensiero economico della scolastica francescana appare come la causa concretamente induttiva della nascita di istituzioni capitalistiche quali i Monti di Pietà – prodromi delle odierne Casse di risparmio e delle organizzazioni del credito cooperativo – e il trust.
Può sembrare paradossale che i teologi francescani del 13°, 14° e 15° sec., pur rigettando il denaro dalla propria vita si siano scoperti economisti, e di questa scienza abbiano saputo anticipare alcune acquisizioni teoriche fondamentali. Ma il paradosso risulta attenuato se si considera che l’impegno francescano per lo sviluppo di istituzioni precapitalistiche era finalizzato non solo a non rigettare l’economia, ma a viverla in un orizzonte di sobrietà e nella logica della promozione del bene comune.
Ed è proprio dall’analisi della parola paupertas che nasce nei pensatori francescani l’opportunità di occuparsi delle pratiche economiche e di contribuire alla formazione del vocabolario economico occidentale. Essi, attraverso un’azione molto efficace nei confronti del popolo, riuscirono brillantemente a dare una forte accelerazione al sistema sociale e allo sviluppo economico e civile, i cui fondamentali principi conservano ancora oggi, nell’epoca della globalizzazione, tutta la loro attualità.
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