Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Il Novecento è un’epoca di crisi del personaggio. Quasi tutti i principali romanzieri del secolo, infatti, si sono mostrati propensi a un superamento delle normali categorie psicologiche e realistiche associate a questa funzione narrativa. In particolare, durante la prima metà del secolo, grazie anche all’affermarsi di tecniche espressive come il monologo interiore, i personaggi subiscono una forte scomposizione della loro personalità psichica e della loro coscienza. In seguito, invece, si è affermato un netto prevalere dei puri dati visuali, degli oggetti e dei fenomeni linguistici sulla soggettività degli individui, ormai ridotti a figure anonime e assurde, per certi versi tendenti a scomparire dalla scena del racconto.
La tragedia del personaggio
Luigi Pirandello
Uno nessuno e centomila
“Che fai?” mia moglie mi domandò vedendomi insolitamente indugiare davanti allo specchio. “Niente” le risposi “mi guardo qua, dentro il naso, in questa narice. Premendo, avverto un certo dolorino”. Mia moglie sorrise e disse: “Credevo ti guardassi da che parte ti pende”. Mi voltai come un cane a cui qualcuno avesse pestato la coda. “Mi pende? A me? Il naso?” [...]
Ora, ritornando alla scoperta di quei lievi difetti, sprofondai tutto, subito, nella riflessione che dunque - possibile? - non conoscevo bene neppure il mio stesso corpo, le cose mie che più intimamente m’appartenevano: il naso, le orecchie, le mani, le gambe. E tornavo a guardarmele per rifarne l’esame. [...] Avrei potuto, è vero, consolarmi con la riflessione che, alla fin fine, era ovvio e comune il mio caso, il quale provava ancora una volta un fatto risaputissimo, cioè che notiamo facilmente i difetti altrui e non ci accorgiamo dei nostri. Ma il primo germe del male aveva cominciato a metter radice nel mio spirito e non potei consolarmi con questa riflessione. Mi si fissò invece il pensiero che io non ero per gli altri quel che finora, dentro di me, m’ero figurato d’essere.
L. Pirandello, Uno nessuno e centomila, Torino, Einaudi, 1994
“È mia vecchia abitudine dare udienza, ogni domenica mattina, ai personaggi delle mie future novelle. Cinque ore dalle otto alle tredici. M’accade quasi sempre di trovarmi in cattiva compagnia”. Così comincia un famoso racconto di Luigi Pirandello dove viene rappresentato il drammatico incontro fra un autore di romanzi e un personaggio a lui estraneo, il dottor Fileno, cacciatosi in mezzo agli altri seduti nell’astanteria. Fileno, una sorta di filosofo dilettante, era un personaggio creato da un altro scrittore che lo aveva introdotto come protagonista in un mediocre romanzo d’appendice, al termine del quale veniva condannato a morte. Deluso, in preda a una sorta di smania di onnipotenza, il personaggio si presenta a Pirandello, che aveva letto quel romanzo, chiedendogli di farlo rivivere, di resuscitarlo in un altro racconto o in una riscrittura del precedente, così da vedere esaudito il suo “diritto” a vivere un vita degna ed essere così consegnato all’immortalità della storia letteraria. “Noi personaggi siamo esseri vivi” – dichiara Fileno – “più vivi di quelli che respirano; forse meno reali ma più veri”. Anzi “chi nasce personaggio vivo, può infischiarsi anche della morte”, poiché per vivere in eterno deve solo trovare una fantasia che lo sappia “nutrire per l’eternità”. In questo caso, però, la disgrazia del personaggio è duplice visto che non solo è nato protagonista di una storia banale e artificiosa ma incontra anche un netto rifiuto da parte di Pirandello, che stupito dalla “stravagante ambizione” del dottor Fileno lo abbandona al suo destino, tornando a occuparsi dei suoi più umili personaggi.
Questo racconto, intitolato La tragedia di un personaggio, la cui idea originale risale addirittura al 1906, costituisce una sorta di appendice alla raccolta di novelle L’uomo solo (1922), e dunque rientra in quella che si può considerare una delle più straordinarie gallerie di personaggi narrativi del Novecento europeo, le Novelle per un anno, in cui Pirandello appare quasi impegnato a esaurire, con spirito insieme matematico e contrappuntistico, il calcolo delle possibili variazioni sul tema del personaggio. In realtà però, e il rifiuto dell’immortalità letteraria lo rende evidente, l’opera monumentale della narrativa pirandelliana testimonia di un’epoca che segna l’inizio di uno squilibrio profondo nella rappresentazione del personaggio, se non addirittura l’avvio del suo tramonto. Non a caso l’ultimo romanzo del maestro siciliano, Uno, nessuno e centomila (1926), teorizzerà fin dal titolo la scomposizione psicologica e narrativa del protagonista, Vitangelo Moscarda, disgregato in un numero infinito di sottoinsiemi, di modi di essere-per-l’altro fino al raggiungimento di una paradossale solitudine del soggetto, abbandonato a se stesso come uno specchio infranto.
A inizio secolo, anche molti altri autori europei avvertono il personaggio come un istituto in crisi e cercano di rinnovarne la costruzione: da una parte destrutturandolo, dall’altra ricomponendo i frantumi della sua personalità. Fra i primi si può citare il narratore francese André Gide , sia per l’invenzione dei due artificiosi personaggi di Lafcadio e Protos, protagonisti del grottesco I sotterranei del Vaticano (Les caves du Vatican, 1914), sia, soprattutto, per la sua spontanea tendenza alla vertigine speculare dell’io, che gli permette di sperimentare in un altro grande romanzo, I falsari (Les Faux-Monnayeurs, 1925), tutti i procedimenti tecnici del metaromanzo, attraverso i quali egli mette in scena il relativismo connaturato all’esperienza del soggetto, analizzato attraverso una pluralità di punti di vista. Fra i secondi spicca invece l’inglese Edward Morgan Forster , che tanto nei suoi romanzi, come Camera con vista (A Room with a View, 1908), Casa Howard (Howards End, 1910), e Passaggio in India (A Passage to India, 1924), quanto nel testo di riflessioni teoriche Aspetti del romanzo (Aspects of the Novel, 1927) propone una vera e propria pacificazione superiore dei conflitti interni ed esterni al personaggio uomo. In un senso più diretto, inoltre, la deformazione investe la consistenza visiva dei personaggi, il loro aspetto, la loro fisionomia e la loro gestualità, fino a renderli delle vere e proprie incarnazioni inquietanti. Questo espressionismo del personaggio si ritrova in molti narratori inclini a raffigurare il turpe e il degradato ma raggiunge vertici significativi nei racconti provinciali di Federigo Tozzi (Bestie, 1917, Tre croci, 1920), portato alla crudele fisicità dei parallelismi fra uomo e animale nell’orizzonte contadino di una Toscana cattolica e piccolo-borghese, e soprattutto nella Metamorfosi (1916) e in tutta l’opera di Franz Kafka. Lo sconcertante, enigmatico e irritante uomo insetto di Kafka, che al risveglio si scopre trasformato in scarafaggio, è sì un’allegoria traumatica dell’esistenza, ma è anche la rappresentazione di qualcosa di fisico, di un personaggio il cui corpo diventa preda della psiche e dei suoi incubi malati.
Nonostante questa radicale crisi d’identità, i personaggi (magari ribattezzati dramatis personae o attanti) rimarranno comunque agli occhi degli scrittori un mezzo di descrizione necessaria per la realizzazione concreta di un racconto, il centro intorno al quale ruota tutta la sfera delle azioni narrative. Il critico francese Roland Barthes ha osservato che dal Don Chisciotte di Cervantes all’Ulisse di James Joyce il personaggio gioca un ruolo di primo piano nella narrativa occidentale, mentre in seguito molte tendenze della narrativa moderna tendono ad attribuirgli funzioni secondarie, di pura esposizione del discorso. Nella gran parte della narrativa contemporanea, così, il personaggio non è più un “essere”, un “personaggio-persona”, ma un “partecipante”, descrivibile in base alle regole d’azione da lui introdotte all’interno della storia. Non a caso, per lungo tempo durante il Novecento, la “caratterizzazione” dei personaggi nel senso tradizionale del termine, fra psicologia, aspetto fisico ed estrazione sociale, rimane appannaggio quasi esclusivo della narrativa di genere che, dallo Sherlock Holmes di Conan Doyle, al Maigret di George Simenon, o in chiave più popolare dall’Arsenio Lupin di Maurice Leblanc al James Bond di Ian Fleming, produce veri e propri capolavori di immaginazione narrativa capaci di imporsi alla memoria collettiva come persone in carne e ossa, con i loro tic e le loro abitudini particolari.
Scomposizione verticale: dal flusso di coscienza ai momenti di essere
Per il semplice fatto che non appena si sceglie di utilizzare la parola come mezzo artistico o comunicativo si presuppone di fatto la presenza di qualcuno o di qualcosa in grado di intenderla, l’ombra del personaggio non può essere cancellata dal racconto. Anche se spesso il personaggio sembra uscito dalla scena del romanzo, ciò non significa che esso sia scomparso ma piuttosto che tende ormai a svestire i panni dell’eroe, ad abbandonare il ruolo del protagonista intorno al quale si raggruppano e concatenano tutti i motivi dell’intreccio. Il personaggio contribuisce così alla dimensione polifonica della narrazione moderna, incaricandosi di portare nel racconto una pluralità di punti di vista, di voci, di accenti linguistici, di stili di dialogo e di discorso. Come ha affermato il teorico russo Michail Bachtin, l’importante non è più “quello che il personaggio è nel mondo” ma “ciò che il mondo è per il personaggio e ciò che egli è per se stesso”. Si possono così indicare due tipologie generali di scomposizione del personaggio: una verticale, che osserva il personaggio penetrando nell’interiorità dei suoi stati di coscienza, riproducendo il dinamismo sfuggente, simultaneo ed eterogeneo delle sue sensazioni, dei suoi pensieri e dei suoi vissuti inconsci; un’altra orizzontale, che tende invece a ridurre il contatto psicologico con il personaggio fino a eliminare del tutto la rappresentazione della sua situazione psichica in favore di una sua raffigurazione volutamente meccanica, appiattita sulla superficie di un’esistenza anonima dominata da ciò che esiste, un po’ come avveniva con le grandi figure dell’epica, dove personaggi come Achille, Ettore od Odisseo, restavano immutabili dall’inizio alla fine della narrazione, sempre identici al loro tipo ideale; questa tendenza però nel Novecento si svolge tutta in una chiave più sconsolata e ironica, mescolando il comico col tragico. Leopold Bloom, il protagonista dell’Ulisse (1922) di James Joyce è qualcosa di più di un personaggio romanzesco. Già con il suo romanzo precedente, un Bildungsroman del 1916 tradotto in italiano con il titolo di Dedalus, Joyce aveva introdotto un personaggio, Stephen Dedalus, capace di forti suggestioni simbolico-allegoriche e riempito di risvolti autobiografici (l’infanzia, la fuga, l’esilio) ma nello stesso tempo oggettivato e distanziato. Con Leopold Bloom, tuttavia, lo scrittore irlandese compie un passo ulteriore, sia per l’innovazione narrativa dello stream of consciousness, il flusso di coscienza – tecnica espressiva che va al cuore della discontinuità e della molteplicità del personaggio osservando i risvolti profondi delle sollecitazioni esterne, multiple, dinamiche e simultanee – sia perché l’autore affida a Bloom, cioè all’esperienza di un qualunque ebreo dublinese un progetto immane, un’ambizione totalizzante, quella di esprimere “una specie di enciclopedia”, “l’epopea di due razze (Israele-Irlanda) e nel medesimo tempo il ciclo del corpo umano e anche la storiella di una giornata”. La quotidianità universale che costituisce il contenuto dell’epopea joyciana viene espressa in una giornata della vita di Mr Leopold Bloom, il 16 giugno 1905, quando lo seguiamo dalle nove del mattino alle tre di notte nel suo peregrinare fra una banale colazione domestica, un funerale, l’ingresso in un bordello e un caffè in una bettola per vetturini. Oltre a Bloom vi sono anche altri personaggi, il coprotagonista, ancora l’ozioso sventato intellettuale studente Stephen Dedalus, e poi la moglie Molly, sulla cui voce si chiude il romanzo, e molte altre comparse. Ma il lettore capisce ben presto che questi personaggi fluiscono incessantemente l’uno nell’altro e che, sebbene la loro vita personale esista, essi fanno parte tuttavia di una indissolubile totalità organica, rappresentata attraverso Bloom. Essa è Bloom-Ulisse e, al di là di Bloom, è l’uomo senza altre specificazioni.
L’opera di Joyce contribuisce a modificare radicalmente il modo di intendere il personaggio di romanzo, influenzando esperienze diverse come quella del narratore tedesco Alfred Döblin, con la sua idea di un montaggio che manda in pezzi il romanzo in opere di grandioso pathos postespressionista come Giganti (Giganten, 1924) e soprattutto Berlin Alexanderplatz (1929), ma anche di grandi americani come William Faulkner e Gertrude Stein, che fanno dei loro personaggi pure entità linguistiche o spazio-temporali. Particolarmente originale la scomposizione interiore del personaggio di Zeno messa in pratica da Italo Svevo, buon amico di Joyce nei suoi anni triestini, che nella Coscienza di Zeno (1923), fra monologo psicanalitico e flusso di coscienza, fa saltare completamente la coerenza cronologica dell’intreccio procedendo a una rappresentazione per temi del vissuto e delle esperienze del protagonista, il quale si trova così rappresentato attraverso una serie di sondaggi progressivi e parziali, e per di più fondati su una pratica arbitraria della menzogna narrativa. Il personaggio sveviano porta in sé il principio destabilizzante dell’inattendibilità.
Il grande esempio di Joyce però raccoglie i suoi migliori frutti nella tradizione inglese e in particolare nei romanzi di Virginia Woolf, che si confronta con spirito indipendente e propositivo con i modelli narrativi d’avanguardia. Dopo gli esordi modernisti, è a partire da La camera di Jacob (Jacob’s Room, 1922) che la Woolf avvia la sua fase più innovativa. Nei romanzi di questo periodo, e soprattutto in Gita al faro (To the Lighthouse, 1927), al personaggio tutto d’un pezzo, specchio di un narratore sicuro e onnisciente, si sostituisce una coscienza frammentaria e divisa. “Alla signoria dei dati oggettivi subentra il primato della coscienza che li ha registrati, la seduzione di momenti soggettivi, puri istanti privilegiati, epifanici”, come ha notato Giovanni Cianci. Questi istanti, che Woolf chiama “moments of being”, momenti di essere, si pongono come l’unica garanzia dell’autenticità con cui il personaggio può far luce, sia pure per un attimo, sull’enigmaticità del reale.
Scomposizione orizzontale: la superficie delle cose e l’esistenza del soggetto
L’esistenzialismo introduce un tipo ancora diverso di lavoro sul personaggio che trova la sua realizzazione più alta e caratteristica nella “rivolta morale” impersonata dalle figure umane narrate da Albert Camus . L’opera centrale di questa nuova linea di ricerca è Lo straniero (1943). Il romanzo raffigura un universo nel quale il non senso della realtà e l’alienazione dell’individuo si presentano subito come temi dominanti: il personaggio di Meursault, oscuro impiegato di Algeri, che rimane freddo ai funerali della madre e poi uccide senza motivo un arabo incontrato su una spiaggia di periferia, trovandosi poi condannato a morte, conferma quel processo di dissoluzione dell’individuo iniziato con Kafka. Camus opera un deliberato appiattimento del personaggio, che non soltanto appare svuotato di ogni prospettiva psicologica e ridotto alla somma meccanica dei suoi comportamenti, ma viene ridotto alla funzione di “pura coscienza traslucida”, di sguardo straniante posato sulla realtà. “L’uomo assurdo non spiega, descrive”, preciserà Jean-Paul Sartre in un celebre commento al romanzo spiegando ancora che “Camus interpone fra i personaggi e il lettore una parete di vetro che sembra lasciare vedere tutto impedendo solo di capire il senso dei gesti di coloro che stanno al di là di essa, come se fosse stata costruita in modo da risultare trasparente alle cose e opaca ai loro significati”.
La fenomenologia dell’assurdo incarnata nei personaggi esistenzialisti trova un interlocutore d’eccezione nell’irlandese Samuel Beckett, grande drammaturgo ma anche autori di romanzi come Watt (1942) e la Trilogia (Molloy, 1951, Malone meurt, 1952, L’innommable, 1953), popolati da figure umane sprofondate in una stasi incomprensibile, ridotte a marionette goffe e monotone, dai movimenti involontari e robotizzati, evidentemente collegate ai contemporanei personaggi del teatro beckettiano, come i clown di Aspettando Godot (En Attendant Godot, 1952). Ma la corrente narrativa che porterà alle estreme conseguenze il problema della descrizione e della trasparenza già introdotto da Camus sarà quella del nouveau roman non a caso subito ribattezzata dai lettori école du regard. I suoi principali esponenti (Alain Robbe-Grillet, Claude Simon, Nathalie Sarraute e, su un piano più indipendente, Michel Butor), rifiutano in modo programmatico e categorico le nozioni di personaggio e di analisi psicologica. In romanzi come La gelosia (La jalousie, 1957) – il titolo allude a un particolare tipo di imposta a battente – o Nel labirinto (Dans le labyrinthe, 1959) di Robbe-Grillet, caratterizzati dalla frequente ripetizione di cellule descrittive identiche fra loro, si afferma il primato dell’oggetto sulla coscienza del soggetto. Ma è soprattutto nei romanzi di Sarraute che dilaga un brusio verbale pressoché anonimo, o meglio, come ha spiegato la critica, per potere attribuire a volta a volta una sequenza verbale a un personaggio riconoscibile occorre che il lettore si alleni a uno sforzo di decifrazione e selezione costante. Il personaggio tradizionale è fortemente inviso a Sarraute, che mira appunto a demolire le difese superficiali, gli schemi caratteriali e i luoghi comuni dietro cui l’essere umano nasconde i suoi processi psichici elementari.
Su un livello ancora più estremo si pone la ricerca di Philippe Sollers e del gruppo di Tel Quel. In un romanzo esemplare come Dramma (Drame, 1965), Sollers rimane al di qua di una sia pure elementare rappresentazione identificabile. L’io narrante e l’io narrato coincidono nel soggetto scrivente e, secondo un altro suggerimento di Barthes, il soggetto di questa letteratura diventa semplicemente il linguaggio. La coscienza del personaggio, insomma, si perde ormai in quello che Italo Calvino non senza preoccupazione chiama nel 1959 il “mare dell’oggettività”.
Alcune proposte per superare questa fase di stallo dei personaggi davanti agli oggetti arrivano negli anni seguenti, oltre che dallo stesso Calvino (i processi combinatori di Se una notte d’inverno un viaggiatore, le esperienze sensoriali di Palomar), anche da narratori indipendenti come il tedesco Uwe Johnson, protagonista con Günter Grass e Ingeborg Bachmann del Gruppo 47, nella cui poetica congetturale il ricorso a descrizioni particolareggiate e il primo piano concesso alle cose non sono posti in opposizione ai personaggi ma funzionano come il loro unico specchio disponibile, tanto che il nome proprio dei protagonisti torna a comparire nei titoli delle storie (Congetture su Jakob, 1959; Il terzo libro su Achim, 1961). Infine, merita di essere segnalato il caso di Marguerite Duras che, con la sua poetica eversiva, contraria a qualunque ordine cogente, è riuscita a imporre anche presso il grande pubblico l’immagine di personaggi ridotti al minimo delle loro consistenze individuali e ciò nonostante partecipi di un’intersoggettività profonda, che alimenta una polifonia intesa nello stesso tempo come approssimazione a una realtà illusoria e apertura a una totalità impossibile.