Scoperta e invenzione della cucina regionale
Prima del 1860 la cucina regionale contrassegna la società di un piccolo Stato come il Granducato di Toscana, oppure si diversifica ed è ligure o piemontese all’interno del Regno sabaudo, ovvero lombarda o veneta, sotto la tutela austriaca, e infine può far capo a un mosaico di territori meridionali, con una capitale, Napoli, nel Regno delle Due Sicilie. È più difficile ritrovarla nelle corti dove si parla francese, mentre in famiglia la praticano aristocratici e borghesi piccoli e grandi nelle città capoluogo, nei centri urbani e nelle campagne, e viene descritta in libricini stampati, quaderni manoscritti o brogliacci. I ricettari a stampa per cuochi di professione, insegnavano, di preferenza, lo stile alto, la cuisine française, e molti piatti poveri e popolari erano trasmessi per via orale.
Nel Regno d’Italia, le regioni sono ben note allo scolaro e al buon borghese, ma non altrettanto diffusa è la conoscenza del modo con cui ci si alimenta nelle varie regioni, dalle più povere alle più ricche, da Sud a Nord, e il problema della circolazione dei modelli culinari, di Milano o di Genova o di Napoli, comincia a porsi in un’ottica patriottica. A Pellegrino Artusi va il merito di avere rivelato l’esistenza di piatti di famiglia localizzati con ricette ripetibili in tutta Italia. Nato a Forlimpopoli nel 1820, trasferitosi a Firenze dal 1851, commerciante, nel 1861 all’età di settantun’anni pubblica La scienza in cucina che alla sua morte, nel 1911, tocca la tiratura complessiva di 58.000 copie. La Romagna, la Toscana e la città di Bologna sono il nucleo originario della sua ricerca che acquisirà via via pietanze del Piemonte, della Lombardia, del Veneto, di Roma e di Napoli e, nel Meridione, della sola Sicilia. Per Artusi, la regione sta tutta nel suo capoluogo e Milano vale la Lombardia così come Torino il Piemonte, secondo un modello che ha nello sviluppo delle attività produttive e della rete ferroviaria, nel Centro e nel Nord del Paese, il suo referente principale, e considera in subordine province e campagne.
Accanto a pietanze con una precisa connotazione geografica, dal risotto alla milanese ai cappelletti all’uso di Romagna, figuravano preparazioni di origine francese fra cui alcune salse calde (besciamella) e fredde (maionese). Poco presenti erano invece i piatti denominati italiani o all’italiana (tre soli in Artusi: i tortellini, il lesso rifatto e un dolce, il quattro quarti) anteponendo all’identificazione delle singole ricette nel territorio nazionale, le varianti territoriali ed eventualmente il titolo dialettale italianizzato. La questione della terminologia culinaria è fondamentale nella nascita del modello regionale e a essa concorrono diversi fattori. Anzitutto l’esistenza di un francese nazionale-internazionale, la cui diffusione in Italia veniva considerata antipatriottica: esso stimolava, per reazione, la crescita di un lessico italiano che, laddove non toscanizzava i dialetti, accettava i sinonimi e l’onomastica locale (per i pesci) e creava neologia. A questo si aggiunse l’esigenza di concordare nomi di prodotti e di piatti utili al loro scambio sia nelle regioni d’origine sia in quelle d’adozione, creando un unico mercato nazionale per erbe come l’origano o il basilico, e più tardi, per i formati di pasta secca. In terzo luogo, si trattava di restituire alle singole città, province o regioni, una sorta di proprietà culturale dei piatti, favorendone in questa veste la circolazione nazionale e internazionale. I tortellini alla bolognese rispetto a quelli all’italiana, comportavano, in Artusi, tre ingredienti regionali: il prosciutto, la mortadella e il parmigiano. Questo ne motivava il nome e li autenticava.
Con tali filtri geografici, linguistici, merceologici e gastronomici, l’assegnazione all’Italia di cucine diverse, per facilità designate con nomi di città o province o regioni, diventava un progetto culturale che altri, cuochi, casalinghe, gastronomi, faranno proprio, e le autorità politiche e amministrative finiranno per favorire. Il successo duraturo di Artusi, l’esigenza di ricettari nazionali e regionali caratterizzarono, dopo la Prima guerra mondiale, la politica culturale fascista. In contraddizione con il culto di Roma, con il centralismo politico, con l’esistenza di un modello nazionalista totalitario, in cucina vigeva il relativismo, la libertà operativa, il culto della famiglia; il fascismo incoraggiava il regionalismo culinario nelle fiere e nelle manifestazioni, nella stampa e nell’editoria. Ad assicurare un solido impianto a tale assetto, sarà la Guida gastronomica d’Italia edita nel 1931 dal Touring Club Italiano. Frutto di una ricerca incrociata di fonti associative e istituzionali, con una redazione milanese diretta da Guido Ruata, varava una nuova immagine dell’Italia fondata sulla sua ripartizione in regioni, province, città e paesi, sul turismo ferroviario e automobilistico, sui prodotti locali, anche modesti come broccoli e rape, sulle preparazioni culinarie con nomi dialettali (e italiani) e sui vini personalmente curati da Arturo Marescalchi, sottosegretario all’Agricoltura. Escludendo ragguagli sulla ristorazione, si mettevano i mercati in primo piano e si sollecitava il consumatore a una conoscenza economica e strutturale del territorio.
La Guida gastronomica d’Italia venne ristampata durante gli anni Cinquanta e confermò il favore del modello nazional-regionale, anche se le priorità del Paese furono, dopo la Seconda guerra mondiale, la ricostruzione, un nuovo assetto della proprietà terriera, il varo di industrie nazionali e, a partire dal 1957 con l’inizio del boom, il rilancio dell’economia e l’apertura di nuovi mercati. In questa fase di crescita, la scelta di un modello culinario stava nell’alternativa fra piatti ereditati e riproposti nelle famiglie e nuovi consumi nazionali favoriti dalla crescita economica, come la carne bovina e la pasta secca. Con il risultato di innovare anche l’arredamento della cucina e di adeguare gli acquisti al frigorifero, riempiendolo di carne, pesce e verdura.
Un chiaro segnale di questi conflitti d’interpretazione venne fornito dal ricettario il Cucchiaio d’argento edito nel 1950 dalla Domus di Milano, casa editrice di architettura e interni che nel 1931 aveva pubblicato Il quattrova illustrato, con disegni di Giò Ponti, in controtendenza con le cucine regionali fasciste, facendo numerose concessioni a uno stile filofrancese e filoinglese. Il Cucchiaio prende le distanze dal passato recente e prevede piatti della cucina internazionale e francese, termini anglosassoni (cakes, dumplings, muffins e scones) e linee-guida dietetiche; mostra un’Italia gastronomica che si riapre all’Europa e all’America, senza rinunciare a qualche specialità, e propone di sé un’immagine anzitutto nazionale: la foto a colori della pasta è un piatto di spaghetti su cui da un pentolino una mano femminile versa il ragù. Si trattava di una scelta importante, che faceva tutt’uno con una cucina pratica, semplificata, elegante, tre aggettivi che accompagneranno la modernizzazione delle infrastrutture domestiche.
La reazione delle lettrici sarà immediatamente negativa. Caso unico nell’editoria gastronomica, viene stampato il 15 giugno 1951 un supplemento di 98 pagine alla 1a e 2a edizione che aggiunge «un capitolo di ricette regionali, già passate al vaglio dell’esperienza famigliare». Le regioni sono quattordici, ogni nuova ricetta è firmata dall’autrice-esecutrice e un registro dei piatti appena descritti figura alla fine di ogni capitoletto, a testimonianza che si trattava di una integrazione riparatoria. Fu questo uno dei tanti esempi di una tensione provocata dalla programmazione economica e culturale – a Milano nel 1951 la ripresa è alle porte – e dal retaggio gastronomico, ripartito in voci e capitoli regionali, provinciali e locali. Nessuno contesta i passatelli e i fagioli all’uccelletto, ma la maggior parte dei milanesi ignora come si nutre una famiglia calabrese, che cosa sono orecchiette e mocetta, e si domanda se si va verso una cucina interregionale, verso un modello italiano con esiti locali limitati, o verso una crescita esponenziale di specialità, ognuna rivendicata da un paesello sotto l’egida di una regione.
Quest’ultima ipotesi, contro ogni evidenza, finirà per prevalere, con modalità impensabili anche da parte dei più conservatori. Tre fattori, all’origine di infiniti dibattiti e conflitti, vanno qui considerati: l’importanza dell’industrializzazione e del risultante benessere, a partire dagli anni Sessanta, nella definizione qualitativa dei consumi; la messa a punto e la comunicazione di ricette regionali, provinciali, locali, con circolazione e commercio di prodotti e di piatti in Italia e nel mondo; la convergenza sugli alimenti di nuovi valori culturali, dalla memoria familiare alla loro tutela, dal mercato all’ambiente, dalla tradizione all’orto, con la conseguenza di fare della cucina l’epicentro di una visione critica del mondo.
Le cucine regionali italiane affermatesi a partire dagli anni Settanta sono figlie della crescita economica e del benessere. Si tratta, tuttavia, di ‘figlie ribelli’, che cercano nel passato una cultura indispensabile per contrastare, riequilibrare, la modernità. La ‘tradizione’ interrotta da emigrazioni e stili di vita urbani divenne la chiave per difendere il cibo della famiglia, mentre la campagna, designata come ‘territorio’ con i suoi buoni prodotti, fu oggetto di un culto, sempre più evocato nelle città del lavoro. A differenza di un passato in cui la cucina regionale e interregionale veniva coltivata non da braccianti e mezzadri ma dai borghesi, il più noto dei quali era stato Artusi, nell’Italia industrializzata saranno i nipoti dei contadini, i cui padri erano divenuti muratori, operai, piccoli imprenditori, che rivendicheranno i cibi di una volta. All’inizio degli anni Settanta il ritorno alle origini, più che alla terra, iniziò a contagiare tutte le classi sociali e concentrò sempre di più l’attenzione verso una geografia diversificata, luoghi identificabili in un paese, in un mercatino, in un rito festivo. Le cucine regionali rinacquero nel postmoderno. Sarà sempre più difficile dar loro un contenuto alimentare, senza condirlo con ricordi e nostalgia.
Il boom economico, negli anni 1956-63, ha promosso, con elettrodomestici e prodotti industriali, una nuova cucina, rapida e urbana, rinata dal frigorifero, dal gas, dai negozi di generi alimentari, dai tempi di lavoro e di riposo. L’industria, ristrutturando il regime di operai ex contadini e di un ceto medio sempre più libero di consacrare la parte minore del reddito a nutrirsi, riportava alcuni cibi, conosciuti solo dalle classi più abbienti, al centro della dieta. La carne bovina, in particolare, promossa dalla cucina francese ma concessa solo nelle feste e con tagli poco pregiati in molte regioni, si affermava come realtà quotidiana, con il nome, di origine straniera, bistecca, a seguito o a spese dei carboidrati. Oltre alla bistecca alla griglia, i cibi del boom furono gli spaghetti alla carbonara e un numero incredibile di piatti di pasta, dai tortellini alle tagliatelle, conditi con la panna. La panna veniva usata ovunque e il suo parente ricco, il mascarpone, le faceva concorrenza persino nella cucina romanesca adusa al guanciale: Aldo Fabrizi, in La pastasciutta. Ricette e considerazioni in versi (1970), dava la sua ricetta delle pappardelle ‘ar mascarpone’.
La tendenza era duplice, al regime grasso o magro, in una società che non conosceva ancora la dieta mediterranea, credeva nel mito americano, e praticava nuovi prodotti industriali, sostituendo, per la forma fisica, il pane con le fette biscottate e con i crackers. La carne cruda, in carpaccio come suggeriva il ristoratore veneziano Giuseppe Cipriani, e la pasta fresca corrispondevano a uno stile italiano ricco e leggero, sganciato dalla fame e dalla scorpacciata ripetibile in ogni città del Centro-Nord, in ogni famiglia. I nuovi valori regionali erano gli spaghetti alla carbonara a Roma, i tortellini alla panna a Bologna, e nelle Langhe la carne bovina cruda ‘battuta al coltello’ in macelleria. Lo pseudoregionalismo era un fenomeno già noto negli anni Trenta quando si era dovuta inventare una cucina meridionale e caratterizzarla regione per regione. Ada Bonfiglio Krassich, in La cucina delle specialità italiane del 1939, inseriva fra i piatti lucani le orecchiette (assenti nel capitolo dedicato alla Puglia) o le sogliole fritte (presenti in tutto l’Adriatico). Inventare nomi di piatti trasferendoli da una regione all’altra, oppure assegnando alle aringhe, alla melanzana, ai fichi un nome calabrese era stato facile in assenza di riscontri precisi e di una letteratura locale e nazionale. Il passo avanti costituito dalla carbonara configurava l’invenzione di una tradizione con spaghetti o bucatini ben radicati a Roma, con guanciale e pecorino laziali e con un nome che vagheggiava, contro ogni verosimiglianza nutritiva, gli ultimi boscaioli che producevano carbone nell’Appennino. L’emergere di pseudopiatti regionali mostrava, contro la bistecca alla griglia, il desiderio di incrociare tradizioni povere e grassi ricchi, di restituire a piatti del passato valori calorici degni di una modernità esplosiva, e soprattutto di non sganciarsi completamente da un sistema geogastronomico di valori.
Per comprendere le prime avvisaglie del bisogno di autentiche tradizioni culinarie e di cibi e di ricette certificati nel passato anche recente bisogna porsi alla fine degli anni del boom economico, anni che, dal punto di vista alimentare, comportavano ogni sorta di innovazioni e, contraddittoriamente, facevano emergere i nodi irrisolti della civiltà industriale. La demarcazione fra passato e futuro, all’insegna di una economia vincente e di un cibo sano e copioso, è sempre meno un dogma, come osserva Luigi Veronelli: «L’industria ha ormai pronti tutti i migliori ritrovati per riorganizzare la cucina degli alberghi e dei ristoranti italiani, con nastri trasportatori, centrali di cottura automatizzate, macchine per lavatura dei piatti rapidissime e sicure; ci sono persino distributori di cibi e di bevande che possono sfornare, in pochi istanti, centinaia di tazzine di ottimo caffè espresso, centinaia di porzioni di pollo arrosto. Buon Dio, siamo già a questo punto? Si possono scrivere senza vergogna simili baggianate?» (1966, p. 97).
Si può considerare questo suo rifiuto, provocato dalla razionalità dell’industria, dalla sua determinazione a organizzare e programmare i consumi, omologandoli, come il gesto istintivo che fa scattare la memoria, i ricordi, per comparare, per poter scegliere fra passato, presente e futuro. Non c’è niente di strano nel timore del nuovo, anzi è strano il contrario: cercare rifugio nella tradizione in un passato povero, contadino, tormentato dalla fame. Verso la metà degli anni Sessanta, quando il processo di industrializzazione si era consolidato e cominciava a redistribuire benefici a tutti, il titolo dell’opera di Marcel Proust la Recherche du temps perdu, appena tradotta in Italia, venne parafrasato, nella cultura alimentare, Alla ricerca dei cibi perduti. Veronelli ne ebbe l’intuizione titolando così un libro che combina astrologia, ricette, vino e facsimili di etichette, e nel quale procede a modo suo, senza ordine apparente, là dove lo guida l’istinto e lo portano i ricordi. L’astrologia gli fornisce il calendario, un ciclo previsionale che serve da oroscopo, a intuire ipotetici piaceri o molti dispiaceri, ognuno legato a un piatto. Ma chi dice calendario dice anche stagioni, e ingredienti richiamati da lontano, le ostriche, o da vicino, per un lombardo, le rane. Le ricette si riempiono di ricordi, alla volta della minestra di ceci, che i milanesi servivano il 2 novembre, giorno dei morti, della cazzoeula ordinata all’osteria della Pesa, dei rann pien pienisc, le rane ripiene, scoperte «nell’album manoscritto della nonna, milanese davvero» (Veronelli 1966, p. 199).
La presa di distanza dall’industria agroalimentare non deve far dimenticare che essa, in Italia, aveva origini locali: il prosciutto e il formaggio nascevano a Parma, per non dire il pomodoro, così come il cioccolato a Torino e a Perugia, e il burro a Milano. Dai piccoli pastifici napoletani verso una concentrazione del settore, anche la pasta, prima Buitoni poi Barilla, stava cambiando sede di produzione. Il sistema alimentare italiano, coltivando sogni di egemonia, era prigioniero e insofferente del modello americano, che gli conferì un ruolo, ma anche un’identità commerciale e pubblicitaria. Come spiegare altrimenti, in piena crescita economica, i cibi perduti e ritrovati? I primi sintomi di una crisi culturale erano avvertibili negli anelli deboli della catena, in particolare quello rappresentato dal lavoro domestico e dalla cucina di casa. Sul primo pesava il costo della servitù, sottratta dalla fabbrica alle famiglie borghesi; sulla seconda, una minore disponibilità femminile a lavorare a maglia, a mondare il riso, a sbucciare i piselli e a sorvegliare le cotture, sorretta da elettrodomestici, fonti d’energia, formule rapide promosse dalla radio, dalla televisione e da tutta la stampa femminile. Il gioco di combinare ingredienti poveri e sapori ricchi, nel mercato del boom crollava davanti ad apporti proteici garantiti con preparazioni elementari (come la pastasciutta o la bistecca); ma questo era insufficiente, come un diritto acquisito non ripaga delle giustizie sofferte e non fa necessariamente presagire un futuro migliore.
Nella perdita delle tradizioni si imparerà a riconoscere, uno dopo l’altro, i prodotti, cominciando da quelli da forno non più disponibili, o alterati, o surrogati, interrogandosi sulla panificazione senza lievitazione naturale e senza cottura a legna, volgendo poi lo sguardo alle farine e all’acqua, agli elementi che il lavoro manuale trasforma e, a quel punto, si avrà la sensazione che tutto un mondo stia tramontando, anzi sia ormai rimasto dietro alle spalle. Ma questo verrà in seguito. Negli anni del boom, la produzione di cibo cerca di adeguarsi a quella delle automobili, ed entrambi puntano a una società che integra il passato, monumenti e pentoloni di minestra.
Una sorta di opposizione affiorava contro la cultura industriale, senza mai rompere con essa, per le vie dirette o indirette che rivestono d’antico un prodotto ripensato e rinnovato, che danno valore simultaneamente a un vino e a un cocktail. Questo ritorno nostalgico al passato, ancora controverso, crescerà nel tempo e lo ritroveremo trent’anni dopo, nei nemici del fast food e degli organismi geneticamente modificati (OGM), determinati a invertire definitivamente la rotta.
Nel 1960, dopo Veronelli, un altro testimone, Mario Soldati, tornando con la penna sui suoi passi in una miscellanea dal titolo suggestivo Lo stivale allo spiedo, radicalizzava i termini del processo di crescita/decrescita e inventava la fine della cucina a fronte della sopravvivenza della vigna piemontese: «Lo spaventevole e fulmineo decadimento della cucina torinese è dovuto, come ognuno sa benissimo, allo sviluppo industriale e a tutti i fenomeni sociali che lo hanno accompagnato» (p. 25); a suo confronto «il vigore e la qualità della produzione vinicola piemontese sono ancora eccelsi, il gusto dei bevitori torinesi ancora incorrotto» (p. 25). Il vino salva dunque il Piemonte? Oppure a salvarlo sono l’automobile e i meridionali che lavorano per la sua produzione? Paradossalmente entrambi questi postulati son veri e reversibili, e Soldati, richiesto di qualche consiglio su ristoranti e trattorie, se la caverà con una pilatesca sentenza: «A Torino, mettendo in opera gli accorgimenti che ho detto, e altri consimili, si beve bene quasi dappertutto. Ma anche, quasi dappertutto, si mangia male. Si tratta ora, di intendersi sulla portata effettiva di questo quasi». Detto fatto, con un gessetto in mano e il suo accento pedante e snob scrive sulla lavagna e pronuncia il nome di due trattorie caratterizzate «dallo stile della cucina torinese di cinquant’anni fa» (p. 28). Torino, il Piemonte sono, per Soldati, se non l’Italia la sua sola concretizzazione plausibile.
Parlare a caldo di tradizioni, di ricette di una volta sovverte l’ordine temporale, e i piatti della memoria diventano un obiettivo da realizzare, al di là dei bilanci positivi della grande industria automobilistica. I cibi distribuiti nelle mense o forniti dai negozi restano, per molti operai ex contadini, un rebus indecifrabile oppure godono di un favore effimero, rimossi all’atto stesso del consumo. Questo gioco, fra storia passata e presente, contamina tutte le classi sociali, a partire dall’intellettuale borghese, Cesare Pavese o Veronelli o Soldati, e suscita la nostalgia per un mondo in cui si moriva (anche) di fame. A designare simbolicamente questo processo vengono chiamati prodotti spontanei dell’ambiente come le rane in Milano, introvabili in una rete idrica padana sempre più inquinata.
Parole magiche come tradizione, danno sostanza a strategie risolutive che liberano il campo dall’immagine greve dell’industria meccanica e permettono applicazioni tecnologiche minori, dette in seguito sostenibili, per salvare un valore antico. Ma negli anni che seguono il boom e vedono la nascita politico-amministrativa delle regioni, il lavoratore italiano è ancora diviso fra passato e presente, e solo in alcuni prodotti, in alcune specialità della propria terra si riconosce. Quale soluzione transitoria si può immaginare nel deserto ristorativo torinese? «Formaggio e vino: l’essenziale è salvo» (p. 30), ma Soldati non nomina più il pane. Sarà la strada del vino, dell’enologia in termine dotto, che Veronelli e Soldati batteranno per il riscatto della cucina con un successo senza precedenti. A esso dovranno adeguarsi molti prodotti nella definizione di un codice della qualità. Con vino e ingredienti tipici si riformuleranno le nuove cucine regionali italiane, una per una, disgiuntamente.
Alla fine degli anni Sessanta, durante la contestazione giovanile al regime democristiano, al centrosinistra e alla società capitalista, fiorisce anche un dibattito sulla modernità e sulla tradizione in cucina. In questo clima vennero promulgate, a partire dal 1967, le leggi che regolano e promuovono il sistema regionale italiano. La regione cessò di essere una sovrastruttura culturale di un territorio ripartito in comuni, province e prefetture, e diventò una realtà amministrativa autonoma con una propria politica culturale. La sua concretizzazione favorì, con un assetto territoriale garantito dallo Stato italiano, un nuovo modo di valorizzare passato e presente. Era un’esigenza particolarmente sentita in ambito gastronomico per le ragioni già dette, per la ricerca di un quadro in cui proiettare lo sviluppo recuperando la memoria, condizionare il benessere con valori tali da ricucire la lacerazione prodotta dal boom con l’abbandono dei campi e delle montagne, con il rifiuto dei lavori rurali e con l’emigrazione nelle città del Nord.
Da un punto di vista cronologico, guide e ricettari considerati fondamentali nella storia della cucina italiana odierna, di poco anticipano o seguono le leggi di attuazione. La cultura gastronomica italiana aveva da tempo avvertito l’esigenza di procedere a un nuovo inventario delle risorse naturali e umane e la coincidenza con la creazione di un quadro politico-amministrativo rappresentava una premessa in vista di un futuro diverso. Il boom era stato la molla, ma aveva favorito una inversione di tendenza e una voglia di conoscenza che poteva essere soddisfatta solo dal lavoro paziente e decennale di cultori di cucina e di prodotti tipici, di frequentatori di mercati e di ristoranti. A differenza del ventennio fascista in cui lo Stato decideva la promozione dei cibi, nella Repubblica italiana le forze in campo erano libere di scegliere la propria strategia, senza assoggettarsi a un’unica politica, e così si poteva procedere a raccogliere pazientemente delle ricette e servirsene contro quelle che l’industria faceva stampare per vendere meglio.
A conferma dell’esigenza di una descrizione del patrimonio culinario italiano, concorsero diverse pubblicazioni sincrone con quel processo legislativo che venne riavviato nel 1968 con la legge elettorale regionale (l. 17 febbr. 1968 nr. 108), ed ebbe un punto saldo nei Provvedimenti finanziari per l’attuazione delle regioni a statuto ordinario del 1970. Nello stesso anno si tennero le elezioni dei Consigli regionali, ma già nel 1969 veniva riedita a cura di Felice Cunsolo, per il Touring Club Italiano, la Guida gastronomica d’Italia. La pubblicazione faceva seguito a una monografia, Gli Italiani e la tavola, dello stesso autore, di mestiere pubblicitario, pubblicata da Görlich nel 1959 e ristampata da Mursia nel 1965, con 778 ricette riunite in capitoli, dal Piemonte alla Sardegna. Nella nuova guida del Touring il nome e il numero delle regioni è ovviamente lo stesso dell’epoca fascista, e quelle ancipiti rimangono tali (Trentino-Alto Adige, Friuli Venezia Giulia, Emilia-Romagna, Abruzzo e Molise), ma scompaiono le province e l’elenco dei toponimi scorre in ordine alfabetico, più lungo e suggestivo: da Accettura in Lucania, con le sue mozzarelle, a Vietri di Potenza con olio e olive. È cambiata, con le autostrade, la viabilità di uomini e prodotti, è cresciuta l’offerta ristorativa e le campagne hanno un vago ricordo della mezzadria. La vigna, in particolare, comporta una nota informativa regionale con ragguagli sui vitigni e sulla loro diffusione, e il vino è integrato, località per località, a tutte le altre specialità culinarie. Contribuisce, per primo, a definire la tipicità e le tradizioni di un territorio, pur essendo una bevanda che attira il contributo della chimica con l’anidride solforosa e molte tecnologie. Alcune aziende (Ruffino, Mastrobernadino, Rivera, Corvo, Ghemme, Marchesi di Barolo) lo pubblicizzano e si appresta ad avere un ruolo cardine nella gastronomia italiana.
Anche i ricettari risentirono del clima di riassetto geografico, di meticoloso inventario e di rilancio del territorio, e si procedette a un’analisi complessiva e comparata delle cucine ripartendo dalle cuoche, dalle ricette, dai piatti di casa. Nel 1967 uscì Le ricette regionali italiane di Anna Gosetti della Salda, dal 1952 direttrice del mensile «La cucina italiana». L’opera, tutt’ora richiesta e ristampata nella stessa veste e dallo stesso editore, costituiva un punto di riferimento importante e attendibile per la verifica di ogni ricetta della cucina sperimentale de «La cucina italiana», per l’analisi preliminare e comparata degli ingredienti, con riferimenti sia al peperone quadrato di Asti, in Piemonte, sia alle puntarelle laziali e ai mesi di produzione del loro germoglio (febbraio e marzo). Gosetti inaugurò un metodo di viaggiare e documentarsi e investì il Bel Paese con varianti e puntualizzazioni che fecero scuola, insegnando agli autori ad addentrarsi in un paesaggio diversificato dall’apporto delle singole comunità e delle stesse famiglie. L’immagine di una Italia campanilista e orgogliosa, sbriciolata e coesa, dopo i viaggi radiofonici e televisivi di Guido Piovene e Soldati, appare ancor più nitida in quest’opera austera e durevole.
I prodotti editoriali, in questo preciso campo, non si assomigliano. Il metodo di raccolta dei dati varia da Cunsolo a Gosetti, per non dire dei ricettari compilati sulla base di una letteratura disponibile a stampa, eventualmente d’autore. Fra questi, verso la fine degli anni Sessanta, Le cucine regionali italiane di Ada Boni. L’autrice del Talismano della felicità, riedito dal 1925, aveva nel 1969 ottantotto anni ed è lecito supporre che l’ultima opera da lei firmata si avvalesse della sua fama, di alcune ricette da lei pubblicate e della penna di un redattore. Prendendo, per es., le Marche e raffrontando i titoli dei piatti, si rilevano discrepanze notevoli fra questi autori, fra Gosetti (53 menzioni e ricette), Cunsolo (70 menzioni) e Boni (10 ricette). Quest’ultima, o chi per essa, accorpa Umbria e Marche, e ascrive a queste ultime alcuni piatti della cucina internazionale come il risotto e i medaglioni alla Rossini. Anche il raffronto fra Gosetti e Cunsolo permette di rilevare approcci divergenti: per la prima la cucina marchigiana è di pesce (15 ricette) più che di carne (14 ricette); per il secondo il contrario (11 menzioni di pesce e 24 di carne). Il numero di piatti che li trovano concordi sono solo 17 (olive all’ascolana, pizza al formaggio, passatelli, stoccafisso all’anconetana, triglie al prosciutto, ciarimboli, coniglio in porchetta, porchetta, quaglie al risotto, spuntature, testina d’agnello, trippa alla canepina, beccute, calcioni, ciambelline di Pasqua, frustenga e scroccafusi). L’analisi comparata apre un dibattito sulla documentazione, sulla notorietà dei piatti, sulla loro fattibilità fuori dal rispettivo territorio. Gli stessi gastrotoponimi lasciano qua è là perplessi, come ‘alla marchigiana’, riferito a merluzzi, naselli e sarde, in una costa che moltiplica di tratto in tratto le varianti locali del brodetto.
La letteratura del decennio seguente rimedierà a lacune e licenze, consolidando il quadro d’insieme, con collane quali Cucina e vini d’Italia inaugurata dal 1971 da volumi dedicati alla Lombardia, al Piemonte, alle Tre Venezie, alla Liguria e al Lazio, e con La cucina rustica regionale di Luigi Carnacina e Veronelli varata nel 1974 e suddivisa nelle grandi aree, settentrionale, centrale, meridionale e insulare. Di fronte a queste novità, nella capitale del boom economico e librario, Milano, resisteva la fama rapidamente acquisita da Le ricette regionali italiane della sconosciuta casa editrice Solares. L’autorità di Gosetti rientra in un particolare aspetto della pubblicistica italiana che con La scienza in cucina di Artusi, Il talismano della felicità di Boni e Il cucchiaio d’argento, aveva dato spazio a ristampe ininterrrotte e aveva creato un sistema referenziale che apparentemente non invecchiava, anzi sembrava (e sembra) eterno. Se Artusi aveva privilegiato il triangolo Bologna, Firenze e la Romagna, e Boni Roma e il Lazio, il loro approccio alle cucine regionali italiane appariva, da un punto di vista metodologico, equilibrato, durevole ed estensibile, almeno agli occhi delle famiglie centro-settentrionali. Si fondava su raccolta, prova, riprova e stampa delle ricette, e sulla trasmissione generazionale e affettiva dei piatti.
A modificare il quadro nazionale introducendo l’esigenza di approfondimenti, furono le monografie centrate su una provincia, su una città, inaugurate da Boni nel 1929 con La cucina romana. Un ricettario particolarmente riuscito è La cucina napoletana (1965) di Jeanne Carola Francesconi che si avvale di referenti soggettivi e ambientali: una illustre famiglia, un patrimonio culturale e librario, un’attenzione rivolta alla vita alimentare e ai mercati della città e una cuoca di casa, Maria Milone. Il desiderio di ridisegnare i singoli territori nella carta geografica è indubbiamente all’origine di questo fenomeno, ma non spiega tutto, perché la trasmissione delle formule, l’avvicendarsi delle generazioni, l’autorevolezza delle ‘tradizioni’, aggiungono un fattore sociologico a quello spaziale. L’idea gastronomica di regione ereditata dal passato, modificata dall’Unità d’Italia e filtrata da nuove configurazioni politico-amministrative, deve essere aggiornata con prodotti, fonti di calore, vite di cuoche, fotografie in bianco e nero, storie di piatti, analizzabili nella loro trasmissione e tracciabilità, quindi inattuali e attuali insieme. C’è poi la passione che dà enfasi al territorio e il mito della ‘paciada’, termine lombardo per abbuffata, che in un fortunato libro di Gianni Brera e Veronelli indicava nella Lombardia la terra per eccellenza del miracolo economico (Brera, Veronelli 1973).
L’Italia da mangiare, regione per regione, è un corpo in movimento, alla ricerca di radici. Ripetuta lontano dalla terra di origine, la ricetta ha bisogno di tutte le suggestioni per essere credibile, e l’esistenza di un precedente, di una memoria, la rende autentica moltiplicandone la credibilità. Grazie agli uomini che viaggiano, si spostano, si fermano per poi ripartire, e hanno una storia che non è solo quella del loro ‘focolare’, la geografia alimentare è anzitutto umana. Alla fine degli anni Sessanta, venne messo a punto un osservatorio delle cucine italiane fondato sul principio che si reputa italiano il cibo locale, titolato eventualmente in dialetto, mentre si considerano roba da turisti e stranieri i cosiddetti piatti italiani.
Le grandi città che avevano ospitato esperienze di altre cucine – la napoletana a Roma, la toscana a Milano e quella bolognese dappertutto – diventarono laboratori del trapianto delle culture regionali e con la crescente ricchezza, frutto anche dell’immigrazione, promotrici della multiculturalità italiana. L’insediamento dei negozi, delle taverne e dei ristoranti di Giuseppe Strippoli a Milano, fece conoscere olii e cibi della Puglia in una città che ne aveva conosciuto solo i peggiori vini; arrivato nel 1959 e aperto il suo primo ristorante A le frasche nel 1964, alla fine degli anni Sessanta era a capo di una rete di punti vendita nei quali si serviva il vino in bottiglia o sfuso e, con il panzerotto, si offriva, a modico prezzo, un fast food ante litteram. Capofila gastronomico della comunità pugliese a Milano è il giornalista Vincenzo Buonassisi, un’autorità che promuove le cucine regionali italiane e quelle della sua terra in particolare, e che redige la prefazione del ricettario di Alfredo Giovine, U sgranatorie de le barìse, uscito nel 1968 in italiano e in dialetto barese, e distribuito nell’osteria di Strippoli a via Foldi, dove ‘strascenate’ o ‘recchietedde’ sono di casa. Ristoranti, negozi, ricettari e periodici contribuiscono a trapiantare stili di approvvigionamento e di consumo da Sud a Nord, favorendo non il miscuglio, ma l’identità di ogni singola cucina, anche nella sua versione commerciale. Così il milanese fa il primo passo in un’alimentazione di una ricchezza orticola incredibile, vicino a casa propria, prima di andarla a gustare al sole, in vacanza, in Puglia. È questa l’altra faccia del regionalismo, perfettamente sincronica con l’approccio a una geogastronomia italiana scandita dalle singole culture locali, ma capace, nello stesso tempo, di operarne la sintesi in un piatto come la pizza napoletana, proponendo varianti con ingredienti che vanno dal würstel al salame piccante.
Nel 1900 i pneumatici Michelin inventarono la ‘madre’ di tutte le guide europee, con l’idea di raccordare automobili, garage, alberghi e ristoranti. In Francia la guida divenne presto lo strumento per ravvicinare Parigi alle sue province mediterranee o atlantiche segnalando il letto e la tavola. Anche in Italia, per decenni, fino al secondo dopoguerra, l’albergo restò il punto di riferimento principale del viaggiatore e del turista, con enti statali promotori di guide, come la Federazione nazionale fascista pubblici esercizi e l’Ente nazionale industrie turistiche e con associazioni, di cui la più importante era il Touring Club Italiano, dotato di strumenti e di convenzioni per scegliere bene e a un prezzo conveniente. Osterie, trattorie e ristoranti avevano anche altri canali, le une facendo parte di un genere fra storia e folclore, gli altri formando una categoria promiscua, italiana (le trattorie) o internazionale (i ristoranti) legata alla ferrovia oltre che alla strada, al sito termale oppure all’arte, con una rilevante presenza nelle città, nei capoluoghi. Dal mare ai monti, le tipologie variavano all’infinito.
Le guide hanno una presa sul territorio e forniscono con toponimi, insegne, servizi, una carta che può essere urbana, provinciale, regionale o nazionale. A differenza dei ricettari, permettono di osservare l’alimentazione di scorcio, limitandola ai luoghi di ristoro, facendone emergere i tratti distintivi (prodotti, vecchi e nuovi piatti) e le annesse utilità, di servizio e di comfort. Segnalano gli avamposti di una certa idea di cucina, scollata, ma non interamente, da quella delle case circostanti, ed etichettata da una funzione commerciale e sociale, da cui sono esclusi i non abbienti. Leggendole criticamente, e non al solo scopo di individuare un’insegna e un indirizzo, rivelano l’importanza della cucina nella programmazione economica di un territorio.
Dei numerosi strumenti per comunicare viaggio e soste le carte geografiche sono il più ovvio. Di queste, alcune sono destinate non a guidare il viaggiatore per le strade, ma ad attirare la sua attenzione suggerendogli delle mete e delle buone ragioni per una sosta. L’Atlante delle regioni d’Italia, del 1951, venne progettato con questo intento, pensando all’arte, e in subordine ad altri beni culturali. Per l’Umbria, oltre alla basilica d’Assisi e le industrie di Terni, figurano i marroni di Umbertide, i pesci del Trasimeno, i tartufi di Norcia, il vino d’Orvieto. Nel Trentino-Alto Adige si scorgono disseminati fagiani, mucche pezzate, grappoli d’uva (San Michele all’Adige) e, sopra Dobbiaco, un gran piatto fumante di palle dorate, i canederli. Esistono altre carte con una vocazione gastronomica esclusiva che si prefiggono di segnalare prodotti, piatti e luoghi di ristoro (fra le prime in Italia quella di Umberto Zimelli del 1931) con un semplice principio: sulla carta con etichette e simboli a colori si registrano vini, prodotti, piatti che fungono da richiamo all’eccellenza del territorio. La Sardegna è coperta da vernaccia, malvasia e moscato, dalla caccia, con teste di cinghiale, di lepre e uccellame, dalle aragoste e dal ‘porceddu’.
Negli anni Cinquanta questi strumenti sono sponsorizzati non più da enti statali, ma da industrie. I laboratori farmaceutici Bouty scelgono, quale materiale di propaganda, una serie di cartine gastronomiche regionali, stessa formula e medesimi obiettivi. Toponimi e icone colorate, semplici, accattivanti. Se prendiamo la Romagna, parte meridionale di una regione, sono iscritte le quattro principali città, Ravenna, Forlì, Cesena e Rimini, e segnalata la piè (piadina), la tritura (minestra di pangrattato, uovo e formaggio), il formaggio squaquaròn, gli asparagi, il brodetto, due botti di albana e una sogliola persa nell’Adriatico. Ci sono anche tre pomodori e un barattolo per non dimenticare l’industria conserviera. Il Molise presenta città e prodotti a grappolo, Isernia con olio, pesche e agli, Campobasso con finocchi, uve e vincotto, Larino con taralli e paste alimentari. Due pecore brucano a Capracotta e una lumaca arranca nel Venafro.
La formula non consentiva estensioni, per una questione di spazio e di leggibilità, in quanto troppi richiami e stemmi rendevano l’immagine decifrabile solo al prezzo di molta pazienza. Un passo ulteriore verrà fatto in direzione non dei prodotti, ma dei ristoranti. Nella carta sono disegnate strade e autostrade e i toponimi ricevono etichettati i nomi dei ristoranti e qua e là negli interstizi affiorano icone di prodotti di territorio. Questi ultimi sono in subordine perché nel menù della trattoria visitata ci saranno tutte le specialità locali e il turista cerca prioritariamente un indirizzo e una sosta che ritrova in elenchi fuori della carta. A mettere a punto tali strumenti concorrono diverse competenze: per la carta gastronomica del Vicentino (1964) riuniscono le loro forze l’Ente provinciale del turismo, l’Automobile Club d’Italia (ACI), l’Accademia italiana della cucina e il Centro veronese di relazioni pubbliche. Vicenza è al centro con il suo monumento palladiano, attorno ruotano, a distanza variabile e stradale, gli esercizi segnalati e, ai margini, appaiono i piatti tipici (dal baccalà al cappone, alla polenta e osei). Il singolo toponimo può esser graziato da una immaginetta: Lonigo cattura il mandorlato e Marostica le ciliegie marostegane. Questi ultimi due non erano segnalati dalla Guida gastronomica d’Italia del 1931, mentre le ciliegie, riconosciute tra le migliori del Veneto, lo saranno nella edizione del 1969. Sul retro della carta sono indicati i ristoranti di Vicenza e provincia, con indirizzo, piatti tipici e vini. Così alla Riviera di Ponte Castegnero, si dovevano ordinare bigoli fatti in casa o risotto ai funghi o al carciofo, con vini ‘nostrani’. Segno dei tempi, nei 58 ristoranti, qua e là spuntano pasticci di lasagne, tortellini e tagliatelle, mentre non si contano i vini tipici, nostrani e locali.
Il ruolo dell’Accademia italiana della cucina nel fornire ai due partner, l’ente turistico e l’ACI, una documentazione risulta decisivo ed è possibile configurarne non solo l’estensione ma anche gli obiettivi. In una Italia in cui il turismo è un retaggio, e l’automobile il futuro, il cibo rappresenta, oltre che un consumo, un valore concorrenziale con l’arte, il lusso e la velocità. Per questo nella Carta gastronomica della riviera dei fiori della fine anni Sessanta alla città di Sanremo e all’icona del suo Casinò fa riscontro un’aragosta, simbolo d’altrettanto pregio commestibile. Per l’Accademia è una strategia fondamentale contrapporre al gioco e al denaro la ricchezza del mare, anche se quest’ultima è più ipotizzabile che certificata. Con tale obiettivo, la cucina diventa il nodo di strategie molteplici in cui arte, economia, commercio si intrecciano, per non dire della pesca e dell’agricoltura, favorendo, più che conoscenze puntuali e locali, una rappresentazione della realtà italiana utile a quello che dagli anni Ottanta si chiamerà made in Italy.
Non tutti questi pieghevoli rivelano impegno e serietà. Spesso sono contenitori pubblicitari senza alcun vaglio critico, che nel caso citato in precedenza era esercitato dall’Accademia italiana della cucina. La carta turistica gastronomica di Modena e provincia del 1970 rientra fra questi ultimi, ma permette egualmente un’analisi che può portare a un piccolo bilancio. Gli esercizi menzionati sulla carta geografica sono 52, mentre gli inserzionisti sul verso sono 45 e parzialmente diversi dai primi, con 24 hotel ristoranti e 5 pizzerie. Al centro del pieghevole figura Fini, un impero di 8 grill e 3 punti vendita autostradali, 2 salumerie, 1 cantina, 1 ristorante, 1 hotel. La modernità entra nella carta sconvolgendo la gerarchia dell’eccellenza e registrando offerte modestissime accanto alle icone del territorio. In quello stesso anno le guide vere e proprie sfrondano e cercano il meglio. Giorgio Mistretta, nel 1970, per la provincia di Modena individua sei ristoranti a Modena città, Carpi, Castelfranco Emilia, Nonantola, Serramazzoni e Vignola. I tortellini alla panna, gloria di Fini, figurano in quattro di essi, ma solo La Torre di Nonantola osa servire «arancini di riso, lasagne tagliatelle ai funghi e tortellini al ragù tutto in un unico piatto».
Le carte gastronomiche che si moltiplicano in tutte le città e province in grado di richiamare turisti rappresentano, più che il patrimonio locale, la sua immagine seduttiva e servono a creare nell’automobilista l’idea che qualunque strada porta a un cibo tipico e in qualsiasi paesaggio si possono scovare buoni prodotti, ciliegi in campagna, vigneti sulle colline, pesci in mare, ognuno con una ben definita identità. Essendo queste carte figlie di quelle che promuovono i luoghi d’arte, equiparano cibo e bene culturale, vantando un’Italia godibile in tutti i suoi aspetti, dal clima ai ruderi, e tutta da scoprire, sito per sito. La cucina e i suoi piatti più rappresentativi rientrano in questa segnaletica favorendo la credenza in consuetudini e riti alimentari durevoli e trasmessi. Il viaggiatore in automobile su strade e autostrade con una carta geogastronomica prende contatto con prodotti tipici, specialità locali, una cultura conservatrice e gelosa delle proprie eccellenze, e a sua volta, se italiano, farà di questa esperienza una ragion d’essere.
Visitare una provincia o una regione, seduto alla tavola di un ristorante, non è facile. Eppure, l’insegna del locale, i nomi scritti sulla carta, il cibo servito, l’accento del cameriere ed eventualmente i vini sono elementi importanti per avere un’idea gastronomica del paesaggio. Ma se, dopo aver fruito di una segnalazione, si rilegge la guida che lo ha registrato e si approfondisce con piccole monografie – sulle osterie locali, sullo chef, sui mercati della tal città – allora quel pranzo diventa una lettura dei linguaggi e dei modi in cui si mangia, acquisendo lessico e termini dialettali, nomi e provenienza di prodotti, ragguagli personali sui gestori. Una lezione di geogastronomia può cominciare davanti a un piatto di sarde a Palermo, o a un bicchiere di Barolo nelle Langhe e continuare, un boccone, un sorso dopo l’altro. Le guide conducono al cibo e da questo parte una rete fitta di valori economici, sociali, artistici, salutisti, sensoriali.
Vi sono molte tipologie di guide che aiutano in questi passi: quelle che segnalano la diversificazione dell’offerta senza valutarne la qualità, oppure classificano con un punteggio i cuochi italiani, o ancora considerano i locali in funzione del costo e/o dei prodotti, e quelle ritagliate in un piccolo territorio oppure redatte senza tener conto delle specificità regionali per insegnare, in una città, a mangiare etnico o a nutrirsi di notte. Ci sono guide gratuite, altre care come il conto di un solo pranzo, e limitate a una provincia, a un particolare tipo di dieta. Tenendo presente che il luogo di consumo deve permettere una conoscenza approfondita di un territorio più vasto di quello intravisto oltre una finestra, è opportuno procedere secondo una scala cronologica che dagli anni Cinquanta arriva ai nostri giorni distinguendo tre fasi: la prima, di guide fornite dagli enti turistici e da alcuni rari outsider con lo scopo precipuo di attestare l’esistenza di un’offerta diversificata e di confrontare le culture regionali alla loro modernizzazione; la seconda, di guide commerciali sempre più precise e calendarizzate con ricorrenza annuale, fortemente contrassegnate dal prestigio dei cuochi, e con mire competitive, le più interessanti delle quali ideate dal gastronomo Veronelli. È un approccio derivato dal turismo gastronomico internazionale, adattato all’Italia e, in alcuni casi, condizionato da una nuova visione della campagna e della tipicità. La terza fase, che è ancora all’inizio, vede la comunicazione globale e locale caratterizzata da guide istituzionali e da informazioni non convenzionali in una rete in cui si naviga con navigatori satellitari, siti e app. In tutte e tre le fasi, il modo più facile per abbordare un territorio è quello di ritagliarlo in unità socioculturali, e le regioni rappresentano il modo più comodo per farlo, poiché ereditato e immutevole.
Dal 1952 l’Agenzia nazionale del turismo (ENIT) pubblica guide in italiano, francese, inglese e tedesco, dal titolo Turismo gastronomico, suddivise per regioni, con una doppia appendice consacrata alle specialità e ricette, ordinate per città in misura di una o due, e ai vini, ripartiti per regioni. Nel 1954 i ristoranti sono oggetto di una segnalazione precisa e di una valutazione generica con etichette quali cucina italiana, cucina locale, specialità romagnole, sarde e così via. A queste si aggiungono inserzioni commerciali a pagamento con eventuali ulteriori ragguagli sul piatto della casa o sulla pasta o sul pesce. Più di dieci anni dopo, nel 1962-1963, persa per via qualche ricettina e quasi raddoppiate le pagine, lessico ed etichette sono sempre gli stessi, con una maggiore cura nel precisare i piatti dell’esercizio commerciale, pur senza badare alla loro pertinenza territoriale. Milano ospita la cucina toscana (Giannino), romana (Giggi Fazzi), milanese (Brasera) e soprattutto quelle ibride: nella pizzeria di via Camperio si serve la pizza alla napoletana e il risotto con gulasch, e al roof garden tutti i piatti regionali. Non diversamente al Rost bar di Cosenza si offre cucina bolognese e calabrese, pizza napoletana. Se si aggiungono i piatti d’albergo, della casa, d’autostrada e l’onnipresente griglia, la gastronomia regionale sembra arrivata a connubi sempre più dubbi, a una rinuncia ai prodotti di territorio, a una varietà metropolitana e commerciale, con le dovute eccezioni rappresentate dai poli di successo (Emilia e Toscana) o dalle culture conservatrici come la piemontese, tutelate da vini fortemente identitari. Fra emigrazione, vacanze, week-ends e mobilità lavorativa, la ristorazione riflette una crisi domestica e configura un desiderio di rinnovamento, senza altri obiettivi che riordinare la geografia gastronomica secondo la classifica del momentaneo gradimento.
A mettere in dubbio la bontà di questo metodo introducendo classifica e comparazione dei locali è, nel 1957, la Guida Michelin. La versione italiana, ispirata al modello francese, dà spazio alla gastronomia con una carta dei vini e dei formaggi, con alcune specialità regionali, dalla fonduta alla cassata siciliana, e con un giudizio sul comfort del ristorante espresso con il simbolo di forchetta e cucchiaio incrociati (da 1 a 5). È questa la grande novità che permette a Milano di cenare con cinque forchette e cucchiai al Savini, e a Torino con soli quattro a Villa Sassi e al Cambio. Si trattava di locali ben noti, cari, intorno alle 1500 lire, senza sorprese. Ma chi a Rimini aveva consultato le guide dell’ENIT, non riuscendo a scegliere fra i 22 ristoranti indicati, e si era lasciato sedurre dal Grand hotel, incerto davanti alla carta se ordinare le tagliatelle alla bolognese, le lasagne al forno o i cappelletti alla romagnola, con la Michelin si sarebbe visto ridurre la scelta a soli tre, al Giardino da Bruno, alla Vecchia Rimini, e al San Michele da Gnaf. Al Grand hotel era meglio andarci a dormire, perché la Guida Michelin intendeva premiare i migliori cuochi e San Michele da Gnaf era stato aperto negli anni Trenta da Salvatore Ghinelli, gloria (defunta) della ristorazione riminese.
La Guida Michelin aveva una lacuna: non anticipava un solo piatto del menù, e i suoi giudizi simbolici dicevano tutto e niente. L’Accademia italiana della cucina tentò il compromesso rompendo, nel 1961, con la logica degli uffici del turismo e smarcandosi con una selezione motivata. Con la Guida ai ristoranti e trattorie d’Italia si propone di ricostruire un repertorio della cucina italiana, secondo le regioni, nei suoi piatti tradizionali, in qualche caso anche dimenticati. Si trattava non solo di scegliere alcuni locali e non altri, ma di promuoverli per alcune precise scelte, tutte univoche e territoriali. È stato un indirizzo che l’Accademia non ha mutato nel cinquantennio successivo, contribuendo a consolidare tale assetto. I ristoranti riminesi segnalati dall’ENIT da 22 scendono a 9, e dei 3 prescelti dalla Guida Michelin è presente solo San Michele, con la menzione «elegante»; nessuno, tuttavia, ha ricevuto il diploma dell’Accademia di cucina «eccellente», quello con il massimo punteggio associativo. Tutto questo non ha evitato l’omologazione nelle province e regioni con minor numero di accademici, e ritenute di prestigio gastronomico inferiore, con la conseguenza che degli otto ristoranti di Bari, di cui uno la Piccola zi’ Teresa faceva cucina napoletana, sei offrono e raccomandano le stesse orecchiette.
La svolta che ha permesso di focalizzare a un tempo le regioni, i prodotti, l’arte e la ristorazione, viene promossa dalle guide Garzanti curate da Veronelli a partire dal 1968. Sono gli anni degli ordinamenti regionali che trovano i migliori interpreti della gastronomia occupati a fornire degli strumenti di lettura a un tempo locali e nazionali, fornendo ai futuri consigli politico-amministrativi elementi per una nuova pianificazione che riguardi l’agricoltura e il turismo (di ambiente ancora non se ne parla). Ogni località viene analizzata con particolare attenzione ai beni artistici, ai prodotti, ai vini, agli oli, ad alberghi e ristoranti. Macellai, salumieri, pasticceri e panettieri sono segnalati per la loro specialità, qualche ricettina in disuso completa la documentazione. È un primo passo verso un censimento a tutto campo.
Liguria e Piemonte inaugurano la collana e ogni volumetto è accompagnato da una nota manoscritta ai lettori in cui Veronelli precisa le ragioni critiche dell’opera, e la volontà di censire, dopo gli anni del boom, terre e coste rimaste intatte, partendo da un assunto: la decadenza delle culture, la perdita delle radici produttive e culinarie e una rinascita affidata a qualche personaggio singolare.
Nulla, in Italia, è così permanente come il mutare delle osterie, e più continuo dell’abbandono – stupido e gratuito – d’un patrimonio e d’una tradizione (L. Veronelli, Guide Veronelli all’Italia piacevole. Piemonte Valle d’Aosta, 1968).
Conseguenza del boom e dell’emigrazione dalle campagne, della crescita dell’agroalimentare e della grande distribuzione, questo fenomeno trova in Veronelli un osservatore critico che ha enunciato alcune idee-guida dei futuri decenni, e ha mostrato gli eroi, le eroine della tavola. Nella guida della Sardegna del 1969 eccone alcune: a Santa Teresa di Gallura, a Capo Testa, Colomba, la cuoca-pescatrice che «si annoda sotto le gambe la gonna, prende rete e va a pesca (i pesci, dice, non tocchino il frigorifero)» (p. 100); al Lido di Bosa, da Chelo al Lido, Tonina – «stazzata» come si conviene a una seria cuoca –, moglie in cucina, prepara «spaghetti con i ricci, zuppa di pesce, aragosta assoluti» (p. 33). In una lingua studiatamente ruvida, Veronelli mette la firma ai suoi giudizi, e prepara gli scenari futuri della tipicità fondati, anzitutto, sulla terra e sul mare, sui pascoli e sugli orti, su vini, oli e formaggi, su uomini e donne.
Le guide sono un successo. Possono nascere da confraternite e da associazioni (Accademia italiana della cucina), da club (il Club del buongustaio), da piccoli editori associati a reti commerciali (La Navicella), da periodici femminili come «Gioia», da un promotore food and wine, Antonio Piccinardi, al servizio dell’editore Giorgio Mondadori con I ristoranti di Bell’Italia, e, dalla fine degli anni Ottanta, dal supplemento di un quotidiano, «Il Manifesto», e dalla rivista «Il gambero rosso». Hanno in comune la descrizione e l’inventario del sistema ristorativo con i suoi addentellati commerciali, offrono pagine pubblicitarie, si appoggiano a enti pubblici quali l’ACI. La loro diffusione conferma l’esistenza di un mercato del cibo e di una editoria specializzata, per turisti, cultori e neofiti, con un crescente interesse per il vino e per le manifestazioni enogastronomiche, e servono a coordinare e a integrare una formazione promossa dalla stampa, alimentata dalla conoscenza e dal raffronto di indirizzi di prestigio, considerato un vero capitale personale. Per questa ultima ragione, l’aggiornamento delle guide e la loro cadenza annuale, e quello degli indicatori della qualità alimentare, con referenze geografiche, merceologiche e culinarie, diventa fattore irrinunciabile, favorendo la sopravvivenza di alcune e il declino di altre, promuovendo personaggi come lo chef o il gestore, segnalando la brava cuoca di preferenza alla figura del maître che impallidisce sempre più e sta scomparendo. A essere premiato è in misura crescente il tessuto produttivo e lavorativo di un territorio – secondo la formula: Alba = tartufo + vino + carne – su cui poggia la ristorazione, e i rappresentanti di professioni alimentari a un tempo tradizionali e attuali.
La guida porta direttamente agli attori del territorio, ai laboratori artigiani, alle filiere di produzione e serve a convertire valori consolidati in nuova moneta gastronomica. Di una provincia, di una cittadina, mette a fuoco i cibi tradotti in offerte commerciali, prezzi, servizi, rappresentandone la capacità competitiva e comparativa, sino a un punteggio che sintetizza il tutto. In questa prospezione, chi ha più idee, chi vede più lontano, si ritaglierà un’immagine lungimirante, innovativa, dando lezioni ai concorrenti. Veronelli, con la serie di guide edite da Rizzoli dalla fine degli anni Settanta, I ristoranti di Veronelli, è stato il maestro. Recepisce l’importanza dei punteggi, distintamente di cibi e di vini, ma dà voce, in un settore in cui «la stragrande maggioranza delle mie case è a conduzione familiare» (I ristoranti di Veronelli, 1978, p. 7), ai diretti responsabili. Elimina le vecchie glorie, a Milano Savini e a Torino Il cambio, e cerca segnali di novità che non vengono necessariamente da un giovane cuoco e da una carta creativa e promettente. Nella sua visione critica, non esente da tentazioni anarchiche, per esaminare un locale non va perso di vista il sistema alimentare e le sue propaggini. Nel 1978, avverte nella fragilità delle campagne, nel destino dei contadini una risorsa, e riserva al signor Brancaccio, anzi a Brancaccio, proprietario del ristorante Canne al vento a Santa Teresa di Gallura, un ritrattino esemplare: «dodicesimo figlio di una famiglia contadina, dopo aver lavorato vent’anni in campagna col padre, ha aperto la locanda alla bella età di 53 anni». Mille altri ritratti, istantanee, microbiografie a sorpresa, sono disseminati nelle sue guide, ricordo di una cena e di un cuoco di nuova cucina, del vecchio proprietario e della sua consorte, di una famiglia che, dai fornelli al tavolo alla cassa, si è ripartita tutte le incombenze.
Un ulteriore passo verso una integrazione di contadini e produttori, dei mercati e del vino nella cucina, con attenzione ai valori ambientali, etici, salutistici, e a un investimento critico nel ristorante, sarà compiuto da Osterie d’Italia. Nasce nel 1990 all’alba di DOP (Denominazione di Origine Protetta) e IGP (Indicazione Geografica Tipica) e di un orientamento dell’associazione Slow food verso la salvaguardia e la tutela dei prodotti tradizionali, verso indagini sul territorio al fine di evidenziarne le eccellenze e destinarle a una cucina nuova in quanto dimenticata. Ai termini trattoria e ristorante, gli ideatori, fra cui Folco Portinari che firma la prefazione della prima uscita, e la ventennale direttrice, Paola Gho, preferiscono osteria che sintetizza uno stile popolare, domestico, di mercato, egualmente presente in città e in campagna, appartenente al passato ma attuale, non fosse che per distinguerlo dalle forme della ristorazione con prezzi astronomici ed elucubrazioni d’alta cucina. Anche nelle grandi città, importando i prodotti giusti, offrendo una carta dai titoli orecchiati in passato, e talora desueti, l’osteria che era scomparsa rinasce, ed è inutile designarla altrimenti: senza il folclore, senza trani, bacari, taverne, crotti, vecchie terminologie che indicavano la mescita con il piatto di minestra, offre un cibo tranquillo, scoperto nella memoria di famiglia e di casa e di ristoro, aggiustato con parsimonia. Delle regioni, le Osterie d’Italia sono l’immagine passata, presente e prospettica, vi si acquista tutto quanto è tipico e tradizionale di un luogo, lo si mangia e lo si paga un prezzo ragionevole. È la guida stessa che fissa quest’ultimo, aggiornandolo: non si dovranno superare le 50.000 lire, poi 50 euro, senza vino, escludendo puntualmente chi travalica. Tradizione significa costi ragionevoli o perlomeno calmierati.
Le guide sembrano orientare il viaggiatore e condurlo solo a tavola. In realtà creano le cucine e le impongono al turista, al mercato, facendo sì che la ripetizione domestica dei piatti si avvalga anche di modelli ristorativi. La loro affermazione è andata di pari passo con la conoscenza diretta del territorio, con l’identità di cuochi e cuoche, con la condivisione di criteri di gusto. Anello di congiunzione tra politiche alimentari e piccola imprenditoria, sono indispensabili a chi pianifica risorse e servizi, permettono a tutti di accedere a una conoscenza mediata e concreta delle cucine regionali, mediata da un artista, concretizzata dai prodotti serviti e dalle procedure di preparazione. Solo la cucina di casa non ha guide per riconoscerla e premiarla; per questo, trasferita nelle ‘case a conduzione familiare’ di Veronelli e nelle osterie di Slow food, può essere apprezzata e condivisa, sempre riconoscibile nei nomi dei piatti, nel loro aspetto, e talora nello stesso sapore. Fra gli innovatori, in questo campo, capaci di indicare una via puntualmente seguita, il primo è stato Veronelli, e la seconda, paziente, meticolosa e cauta, Gho.
La trasmissione dei saperi è avvenuta nelle case italiane per via orale, con ricettine manoscritte e qualche libro, dono nuziale affidato da una generazione alla seguente sino agli anni Sessanta. Informazione e scambio restano tali, anche quando si diffonde, senza trasmissioni di cucina, la televisione. L’esistenza di consumi nell’ambito di un’editoria gastronomica diversificata in supporti (quotidiani, riviste, libri) e in tipologie distinte (guide, ricettari, repertori di prodotti) è un fenomeno recente. La catalogazione dei prodotti e dei piatti ha richiesto, per l’estensione stessa della materia e per la necessità di farla circolare da un città all’altra, un forte contributo editoriale, che si traduce in centinaia di titoli annui in un settore popolare. Muta la conoscenza approfondita del libro, unico o quasi unico in casa, in una consultazione onnivora alla ricerca di una ricetta, ovvero nell’indifferenza per i volumi che, ricevuti in regalo, mai aperti, mai sfogliati, perdono a poco a poco la loro identità. Lo scaffale di culinaria cresce o decresce, in senso inversamente proporzionale, per l’inerzia che i volumi inducono nelle aspiranti cuoche o per l’interesse che essi suscitano.
Il proliferare dei ricettari regionali segue le sorti di tutta l’editoria, risponde a una forte richiesta di comunicazione in un ambito quotidiano, e rappresenta un indicatore di un ‘consumismo’ che investe nella cultura materiale. Molte sono le ragioni per l’acquisto o il dono di ricette valdostane o leccesi, sarde o liguri: una vacanza, un’amicizia, una novità, una recensione, la foto o il capriccio. La loro esecuzione è altra cosa e più difficile da accertare. In un quadro sinottico, i singoli piatti regionali rientrano in un ordine di conoscenze raramente quantificato sia perché fanno parte di un’abitudine sia perché, tranne per pochi specialisti, non sono mai stati oggetto di attenzione critica. Esiste, in questo campo in cui gli analfabeti s’alternano ai curiosi e ai professionisti, un approccio ancora diverso, quando i cibi di una regione entrano in un circuito intensissimo di prestiti e scambi, e finiscono per rappresentare un modo di mangiare, lontano chilometri dalla terra d’origine, vicinissimo per consuetudine. Da questo punto di vista la stampa e ristampa di ricette regionali costituisce una prova della loro promiscuità, del fatto che esse sono non solo patrimonio di una delimitata terra ma dell’Italia tutta, e circolano in essa alla stessa velocità che nel mondo intero.
Questo fenomeno si è manifestato, con particolare intensità, a partire dagli anni Settanta, e non ha subito rallentamenti, ma ha comportato mutazioni profonde nei metodi di prospezione, nella fortuna dei modelli culinari, nel rapporto fra territorio, prodotti e piatti. Capita che una cucina sia sulla cresta dell’onda, quella bolognese negli anni Cinquanta e quella piemontese con o senza tartufo da più di un ventennio; che un piatto, spaghetti cacio e pepe, penetri nelle terre risicole lombarde e piemontesi con un certo successo; e così pure che un nuovo grasso, il lardo di Colonnata, si riproponga con vera o finta etichetta all’acquisto, quindi a un esame critico, tagliato sottile come antipasto. Gli aggettivi stessi con cui l’oggetto culinario era designato, tipico o tradizionale o contadino, hanno mutato senso, ora sin troppo generico, ora terminologico. È sempre difficile per lo specialista studiare un corpus di ricette riprodotte con la fotocopiatrice, o viceversa prive di una genealogia, di un pedigree, mentre l’amateur si accontenta dell’origine medioevale di un piatto e cita beato, di Maestro Martino da Como, i ravioli in tempo di carne. La crescita di tale patrimonio comporta non solo l’individuazione di microculture e di microterritori, ma l’attenzione alla loro variabilità nel tempo, in quello generazionale della tradizione, in quello cronologico della letteratura gastronomica, in quello secolare in cui cucina medioevale o rinascimentale cominciano a divenire ambiti in cui misurarsi. Spazio e tempo sono gli assi di un cibo ripetibile nell’attualità, ma il secondo, di più difficile determinazione, comincia a pesare sui consumi, successivamente giocando un ruolo prima di valore aggiunto quindi di certificazione.
Manoscritti anonimi, brutte o belle copie, raccolte cartacee di ricette domestiche, particolarmente numerose a partire dal Settecento quando negli Stati italiani era evidente la necessità di aggiornare le consuetudini nobiliari e borghesi con qualche piatto di origine francese, la cucina di una famiglia e delle sue terre riceve l’attenzione crescente di quanti ridisegnano le singole parcelle del mosaico regionale. È una focalizzazione con quella lente di ingrandimento che permette di vedere il passato, anche remoto, incrociando i catasti d’archivio con le formule più antiche di piatti giunti sino a noi con una o mille varianti. L’afferenza a una cultura gastronomica degli anni Ottanta, a partire dai quali si moltiplicarono le edizioni di ‘libri di casa’, non deve essere dimostrata perché i piatti proposti ed espunti ai fini di una storia delle tradizioni locali parlano da soli e sono ripetibili. Così nel 1986 uscì a Reggio Emilia il Libro contenente la maniera di cucinare e vari segreti e rimedi per malatie ed altro, nuova edizione del libro redatto nel Settecento per la casa dei conti Cassoli, con coteghini, mortadella e mistocchine che andranno ad arricchire le notizie dei ricettari d’area reggiana e dell’Emilia degli anni successivi alla pubblicazione; nello stesso anno l’editore Forni, specializzato in anastatiche, pubblicò l’Arte della cucina. Ricette di cibi e di dolci di don Felice Libera, manoscritto settecentesco trentino di un arciprete con le sue polente gialle, verdi e nere, o i suoi quindici canederli diversi. Il documento storico si presta a diversi obiettivi, dalla ricostituzione dei banchetti alla messa a punto delle invarianti culinarie di un territorio, alla datazione di pietanze attualizzate da una secolare e pressoché ininterrotta ripetizione. Dagli anni Ottanta, questi valori della bibliofilia, della storia e della gastronomia si moltiplicarono fornendo alla distribuzione geografica dei prodotti e dei piatti locali una misura temporale non più riducibile ai soli parametri della tradizione.
Queste premesse permettono di valutare le dimensioni editoriali e culturali che la conoscenza della vita materiale sta acquisendo e di misurare la letteratura culinaria partendo non dal libro migliore, ma dalle difficoltà di individuarlo e di riuscire a interpretarlo. Nell’opinione corrente non c’è nulla di più solido e insostituibile di un voluminoso ricettario regionale italiano. Da Le ricette regionali italiane di Gosetti al Grande libro della cucina italiana di Alessandro Molinari Pradelli a La cucina del Bel Paese dell’Accademia italiana della cucina non ne sono mancati e non ne mancano, assomigliando essi, con il nuovo millennio, più a database che a raccolte d’autore. Pochissimi studi sono stati loro consacrati, soprattutto da un punto di vista comparativo o funzionale, chiedendosi in che misura i singoli volumi orientino il saper fare. Lo stesso si può dire per quei libri che, circoscritto un territorio, e talora una sola famiglia, ne indagano le scelte di ingredienti, le attrezzature, la perizia manuale e sensoriale, partendo non dall’idea di catalogare le ricette, ma di documentare le pratiche. Le competenze per l’analisi di un tale testo richiedono, oltre a quelle di una cuoca brava o esordiente, lo storico che dati le ricette, il linguista che ne qualifichi la terminologia, il dietologo che le traduca in valori nutrizionali, il gastronomo che le corredi con indicatori sociali di gusto. Tutte queste competenze sono ingredienti più o meno variamente dosati dei ricettari e, nella letteratura attuale, presenti, ma, in più di un caso totalmente assenti: a tal punto un ricettario può essere, senza che il comune lettore se ne avveda, la fotocopia di uno precedente. Il plagio, dai tempi di Artusi, è stata la vera piaga di tale letteratura; ma non bisogna considerare la pratica e la cultura orale che la trasmette come il solo fondamento autentico di questa cucina della fine del 20° secolo.
Se è esistita in passato un’alimentazione traducibile in ricette di città e di campagna, di famiglia e d’osteria, d’autore e d’anonimo, la si può raccogliere in un volume con un titolo che inizia con ‘cucina’ seguito dall’aggettivo geografico che, fra l’altro, potrebbe restrittivamente corrispondere a una provincia, una valle, un altopiano e persino al luogo di residenza di una famiglia. Invece, fissato un territorio, l’etichetta della sua cucina raramente lo ricopre nel modo giusto, e varia in funzione del suo sviluppo turistico o industriale, o semplicemente – dato un punto d’osservazione, per es. a cavallo di due regioni, come la Val Marecchia, pesarese e romagnola, o la Romagna toscana, cosiddetta per una storica afferenza ora all’una ora all’altra regione – in funzione di un’indagine non basata sui confini ma sulle culture che quei confini hanno sempre ignorato. Di qui a considerare una cucina di territorio un corpo vivo, in movimento, da osservare nelle sue continue variazioni, il passo è breve.
Nel 1968 vi erano regioni che non avevano ricevuto una descrizione puntuale ed esaustiva in termini di prodotti-ricette o vini-ricette come la Calabria e la Basilicata, e altre, come la Liguria, che dal 1863 attorno al capoluogo avevano costruito un modello (La cuciniera genovese, successivamente ampliato e reinterpretato nel corso dell’Ottocento). Questo divario verrà colmato dopo il 1970, anche se in alcune terre, la Romagna in particolare, una forte autonomia gastronomica di fatto non si accompagnava a rivendicazioni scissioniste nei confronti dell’Emilia. Esisteva una buona bibliografia a supporto di una cucina sapida, nota agli italiani dal 1891, dalla Scienza in cucina di Artusi, e la vocazione turistica della costa adriatica ne avrebbe ulteriormente divulgato e imbastardito alcune preparazioni, imponendo a tutti la piadina. La necessità di far fronte all’urbanizzazione della spiaggia, di controbilanciare l’egemonia dell’industria agroalimentare che declinava il tipico a grandissimi numeri, portava a recensire i territori, i prodotti, tentando un bilancio fra passato e presente. In questa terra multiforme, minacciata dalla omologazione industriale e segnata più di altre dalla fine di un mondo contadino e pastorale e pescatore e salinaro, si moltiplicarono gli studi di prodotti tradizionali.
Nelle regioni del Sud che non avevano un mercato editoriale interno né una letteratura culinaria a diffusione nazionale, lanciare un ricettario rappresentativo e autorevole era cosa tutt’altro che facile. Bisognava trovare un editore, quasi sempre al Nord, in grado di distribuire il libro in tutta Italia; quindi, sulla base di ricerche antropologiche e storiche, costruire il modello culinario tenendo conto del dialetto, dei prodotti freschi e delle conserve, dei piatti tradizionali e di quelli modificati e portati in auge dall’industria turistica. Stupisce, nel 1979, vedere ancora associate dall’editore milanese Mursia Basilicata e Calabria, territori diversissimi fra loro, e, pensando alla Calabria, poliformi al loro interno, in un medesimo ricettario.
Tuttavia Ottavio Cavalcanti, antropologo calabro di una scuola che Vito Teti imporrà all’attenzione, procedette accogliendo un vecchio pregiudizio che accorpava due poverissime entità in un unico destino (O. Cavalcanti, Il libro d’oro della cucina e dei vini di Calabria e Basilicata, 1979). Dopo di che cominciarono i grattacapi per l’autore che avrebbe dovuto spiegare avunu e maccarruni, ovvero carne d’agnellone e fili di pasta fatti in casa, al lettore del Nord, che si sarebbe domandato che agnellone scegliere e se servire bigoli o fusilli. Passando in Basilicata i maccarruni diventavano fusiddi o maccaron’ lasciando a monte un lavoro di decifrazione e di nomenclatura e a valle la speranza di aver lumi da qualche nativa.
Là dove la rivendicazione autonomistica era più sentita, pensiamo al Molise che dal 1970 si separò dall’Abruzzo, avveniva il contrario e i testi di cucina dovevano rendere chiara una divisione territoriale profondamente sentita dagli abitanti. Nel 1986 Anna Maria Lombardi e Rita Mastropaolo pubblicarono La cucina molisana. È interessante il loro approccio al problema che non nasce da un piatto qualsiasi, un ragù d’agnello nella sua versione di famiglia, ma dalla domanda preliminare «Esiste una cucina molisana?» seguita immediatamente da una seconda «Ma dov’è il Molise?».
La compilazione in due volumi di oltre trecento pagine sembrerà cancellare i due punti interrogativi, ma la loro costruzione procede dalla messa a fuoco delle aziende, il pastificio La Molisana, fondato nel 1912 da Michele Carlone, e Lupacchioli, con i suoi liquori Poncio e Milk, sponsor del libro e motori di sviluppo di una regione che, nel 1987, credeva nella piccola industria, il solo antidoto all’emigrazione. Inoltre vi è la mappa di un labirinto in cui ai piatti di confine, le orecchiette con le cime di rape, si alternano quelli viscerali, le pantacce, rombi di pasta fresca, sostituibili con le menuzze «vari tipi di pasta industriale mescolati fra loro (detti anche pasta ammischia)». Arrivare da fuori in una nuova regione, è dannarsi a una ricerca impossibile; riunire ricette e farle ripetere a distanza costituisce un’impresa titanica, e solo sciorinarne i titoli mette il dubbio sulle capacità d’udito e d’intelletto non solo di un lombardo, ma anche di un napoletano.
Non uscire allora dal seminato sembra essere la parola d’ordine e ripartire dalle terre antiche, certe: il Piemonte, la Toscana o la Sicilia o la Sardegna. Nulla di meno facile, perché, in ognuna esistono zone franche, zone di confine ed enclave, la più famosa d’Italia, l’isoletta di Carloforte, con la sua cucina ligure in Sardegna. La collana dedicata alla cucina regionale che Franco Muzzio, editore con sede a Padova, inaugurò nel 1980 partiva da questo presupposto, e dalla volontà di tentare tutte le prove di una segmentazione territoriale ora per via d’acqua, ora per via di terra, arrivando a una mappatura italiana ‘completa’, anche con sovrapposizioni e duplicati. I primi dodici titoli avevano epicentro in Veneto, fra di essi La cucina vicentina, La cucina del pesce dal Po a Trieste e La polenta nella cucina veneta, poi, a misura del consenso, questo spazio si allargherà a tutta Italia. Giuseppe Maffioli e poi Marco Guarnaschelli Gotti che hanno diretto la collana, appartenevano a quelle generazioni che, nell’Italia repubblicana, avevano conosciuto lo sviluppo economico, senza perdere la speranza di riequilibrarlo con la salvaguardia un patrimonio che, da un punto di vista culinario, giaceva ancora nelle case e in qualche osteria. Il risultato fu una doppia accelerazione verso microterritori ancora ricchi, descritti in modo esaustivo con documenti eterogenei che andavano dalle ricettine di casa orali e scritte, alla descrizione dei rari punti di ristoro gestiti in famiglia, a qualche fonte a stampa, verso un quadro generale coerente solo nella sua totale eterogeneità. La scelta, nel 1980, della polenta ‘veneta’ aveva proprio la funzione di indicare segni e simboli e parole di grande potere federatore, in quella che era stata la grande campagna del Nord e si apprestava a divenire un polo delle piccole medie imprese industriali. Naturalmente non tutta l’Italia sarebbe stata conforme a questo modello, ma esso segnava un orientamento con lo sguardo rivolto alla polenta e al passato. Dalle guide dei prodotti, ai ricettari di territorio, tutto cospirava a rendere l’offerta gastronomica diversissima, proprio mentre i pastifici artigianali scomparivano riassorbiti in marchi di grandi aziende come Barilla, e l’ortofrutta trovava nei supermercati un’unica rete di distribuzione nazionale.
Gli anni Ottanta, con la nascente collana di Muzzio, e con La grande enciclopedia illustrata della gastronomia di Guarnaschelli Gotti, voluta dal Reader’s digest nel 1990, rappresentano le prove generali di configurazione di un sistema locale-nazionale dagli esiti infiniti, che poteva essere piegato a una visione analitica della cucina, così come al made in Italy. Il conflitto fra due modelli profondamente diversi e poco compatibili, agroalimentare e contadino, sarebbe emerso proprio in quel torno di tempo, cambiando le strategie, e soprattutto facendo delle regioni, interessate alla propria multiforme identità e nello stesso tempo a un ruolo di mediazione delle politiche agricole e turistiche nazionali, il perno di una nuova carta gastronomica. La grande enciclopedia illustrata della gastronomia era uno strumento atteso il quale consacrava a ogni regione una scheda (per il Nord-Est: Veneto, Friuli Venezia Giulia, Trentino-Alto Adige assieme) ripartita secondo la geografia fisica (per il Veneto: costa e laguna, pianura, montagna) o secondo la tipologia dei piatti che a essa pertengono. La coesistenza dei cibi nell’ordine alfabetico, o la loro fusione in voci tematiche, polenta appunto, o maccheroni, favoriva la percezione nella cucina italiana di un sincretismo, di una capacità d’aggregazione, assolutamente particolari (e diversi da quelli di un modello francese che Guarnaschelli Gotti ben conosceva).
Nel 1990, tali strumenti non facevano presagire mutazioni epocali, né nel sistema europeo che controllava le grandi produzioni, né, a lungo andare, nella qualità stagionale o sensoriale degli ingredienti necessari a fare una buona cucina. Avevano semmai una funzione di ordine temporale, integrando al cibo il passato, formulato in termini di ‘tradizione’, e la storia alimentare, che si sviluppava in quegli anni, alla cultura gastronomica. Fra i valori, quello storico ebbe un indice di gradimento sempre più alto, persino con l’epiteto medioevale, difficile, per molte derrate, da documentare nella continuità. Quanto allo spazio, poiché i modelli antichi e moderni, attestavano fenomeni di localizzazione frequentissimi, e sistemi di comunicazione tutt’altro che assenti, esso si adattava a una ricerca a ritroso. Con queste analisi e in barba a esse, si preparava, senza che lo si avvedesse, un profondo sovvertimento.
Il mercato di fine millennio è iniziato rimettendo in questione non i piatti regionali o locali, ma gli ingredienti che servivano a prepararli e le conserve che figuravano sulla tavola. Nel 1989 e 1990, l’uscita e l’immediata ristampa di due atlanti compilati dall’Istituto nazionale di sociologia rurale (INSOR) diretto da Corrado Barberis, avvierà l’inventario, la descrizione e la ricerca di salumi e formaggi italiani. Ogni volume poteva esser letto come un’indagine che comporta analisi metodologiche ed esame dei disciplinari, oltre che schede di prodotto; queste ultime potevano essere oggetto di esclusiva consultazione, costruite con informazioni succinte sulle materie prime, le tecnologie, l’area geografica, la quantità e il valore in lire, e portare a una degustazione nella quale si esauriva la vera lettura dell’alimento. Gli atlanti, dei formaggi, dei salumi, del pane, fungeranno da indicatori di una tipicità da conoscere e tutelare, nei nuovi ambiti dell’agriturismo e del commercio di qualità.
I primi due repertori hanno il pregio di anticipare e facilitare sia l’entrata in vigore, nel 1992, di una legislazione europea sui marchi di tutela DOP e IGP (regolamento CEE nr. 2081/1992), sia una cultura sempre più diffusa e condivisa della tipicità alimentare promossa da associazioni quali l’Accademia italiana della cucina e soprattutto Slow food. Quest’ultima, in un progetto dal nome significativo di Arca del gusto, dal 1996, ha proposto prodotti da salvare con una tutela pubblico-privata, chiamata presidio. Gli scenari da cui sono emersi, accanto ai grandi marchi nazionali – quali il Grana padano o il Prosciutto di Parma, fra i primi a ottenere i riconoscimenti europei –, formaggi e salumi meno noti, quindi di maggior interesse, hanno alcuni elementi comuni. Per sedurre l’affiliato bisogna far leva sulla rarità, sul declino dei piccoli produttori, sulla necessità di salvare un’economia rurale minacciata dalla omologazione. Con questi obiettivi, la degustazione diventa una forma di cultura che tocca non solo il prodotto ma la comunità che lo crea, una civiltà rurale o montana che l’ha salvato e trasmesso, e il paesaggio stesso che abbraccia entrambi (anch’esso da valorizzare e salvare).
Il nuovo approccio si fonda su una geografia declinata da alcuni in termini socioeconomici e da altri con una particolare attenzione all’uomo, all’ambiente e al paesaggio. Punto di riferimento sono i gastrotoponimi – il pecorino abruzzese di Atri o il burrino di Capracotta – che ereditano rilevazioni e inventari messi a punto dalla Guida gastronomica d’Italia del Touring del 1931 aggiornati sino al 1984 e mai dismessi. L’abbinamento prodotti, piatti e vini ne era la conseguenza immediata, ricomponendo le sfaccettature di un territorio, e verrà riproposto come modello funzionale a ogni interrogativo sulla qualità conviviale. Non trascurabile era il ruolo del vino che aveva già vinto le sue battaglie commerciali e integrava terra e tecnologie in perfetta autonomia. La sua collocazione rispetto ai cibi, era stata studiata, per primo, da Veronelli. Dietro questo equilibrio di forze, del mercato e della cucina, stava sempre la stessa immagine dell’Italia articolata nelle regioni, nelle province, nelle città e, sull’etichetta del prodotto, potevano figurare piccoli centri rurali o montani. Così, grazie al lardo, il paese di Colonnata (provincia di Massa Carrara) veniva conosciuto dagli Italiani, e il comune di Moena (Trentino-Alto Adige), in virtù di un formaggio dal forte epiteto commerciale, Puzzone, diventava celeberrimo. La priorità dello spazio rispetto al tempo è netta e solo nella riedizione del 2008 i formaggi riceveranno le prime note storiche con ragguagli sia su qualche attestazione antica ,sia sui riconoscimenti legislativi.
Tutti gli ingredienti di cucina, basti pensare agli olii e ai grassi animali, vengono riesaminati con questa nuova lente territoriale e una terminologia in cui la razza suina o il cultivar d’olivo, la filiera di produzione e i marchi, diventano indicatori di una qualità che nasce nella terra, nei prati, e deve essere avvertibile nel piatto. Di qui a rovesciare il giudizio gastronomico a favore di un’arte delle provviste e di una selezione accuratissima della materia prima, principale obiettivo del cuoco, il passo è breve, e viene incoraggiato dalle grandi fiere di Slow food come il salone del gusto di Torino, Slow fish di Genova e Cheese di Bra. L’anello di congiunzione fra un prodotto e un piatto è ovvio quando a preparare la cucina siciliana si usa un olio dell’isola, e possibilmente gli ortaggi della stessa che reggono l’abbinamento. Il discorso appare più complesso quando l’ingrediente, un formaggio, viene assegnato a un piatto alle cui spalle stava un modello di cucina ‘povera’ o di recente formulazione. È il caso di due specialità valtellinesi, ben note durante la stagione sciistica, chiamate rispettivamente pizzoccheri e polenta taragna. Entrambi hanno come base la farina di grano saraceno (non coltivato più in quantità significative in Valtellina) e ‘un’ formaggio. Quale formaggio, data la ricchezza casearia della valle? Le descrizioni sino agli inizi del Novecento escludono che i contadini disponessero di formaggi grassi (che vendevano per sopravvivere nel Milanese). È quindi probabile che si usassero sottoprodotti con latte parzialmente scremato del tipo casera. Ma l’Atlante dei prodotti tipici: i formaggi, del 1991 insinua che è il Bitto, a latte intero con 10% di aggiunta di latte caprino a essere ingrediente principale per la polenta taragna e i pizzoccheri. Se pure i pizzoccheri erano conditi con burro e con formaggi ‘ordinari’, verranno ripetuti, in nome del profilo sensoriale e del valore di un Bitto, con quest’ultimo. L’eccellenza casearia diventa eccellenza culinaria e connota anche i prestiti: nella guida Osterie d’Italia 1999, figurano, all’Adalgisa di Bormio, le crespelle al Bitto, all’Osteria del crotto di Morbegno, gli gnocchi con fonduta di Bitto: né gnocchetti né crespelle sono piatti valtellinesi, ma lo diventano con il più rinomato formaggio della valle.
Questa rivoluzione partita dalle materie prime volge anzitutto a una scala mobile della qualità con nuovi marchi che, ridefinendo aree geografiche e riformulando le filiere, rialzano il valore. Il Bitto DOP si vede scavalcato dal Bitto valli del Bitto, tutelato dal presidio Slow food; la cicerchia buona per gli animali e triste biada per gli umani, viene nobilitata nelle Marche con il toponimo di Serra dei Conti e le è dedicata a novembre una festa. Quindi si assiste a un’invenzione sistematica della tradizione, a copertura di prodotti che, se nuovi non sono, sono stati sottoposti a regolamenti di produzione sconosciuti nel passato, e godono di punti di vendita privilegiati. Tradizione significa, per formaggi e salumi, la garanzia della continuità ambientale, umana e sensoriale, e va di pari passo con una cucina trasmessa di generazione in generazione, secondo un modello idealizzato con ogni espediente, dai finti manoscritti alle ricette della nonna. Nella comunicazione ingredienti e cucina contribuiscono a riannodare le fila con il passato, come se l’industria agroalimentare e la grande distribuzione non esistessero; queste ultime a loro volta entrano nel gioco con prodotti copiati a milioni di esemplari, e una piadina confezionata con marchio IGP, delle dimensioni e dell’aspetto di una ‘autentica’, prenderà posto in tutti i banchi del pane di una catena di supermercati. Il commercio del tipico, non diverso da quello dello spettacolo, presenta infinite sfumature e si aggiorna di continuo nel commercio.
Quando si entra nel vivo della cucina, si possono misurare le diverse tensioni in campo. I cultori della qualità della materia prima minimizzano i processi di trasformazione o li calibrano sulle competenze delle vecchie cuoche per le quali la pentola bolle adagio, da sola, come sempre. Gli chef, invece, che hanno dovuto adeguarsi ai nuovi indicatori di eccellenza, se ne servono per moltiplicare il credito del proprio talento e il valore globale del piatto. La cucina tradizionale, rappresentando una soglia e non un traguardo, è minimizzata da una ricerca sulle combinazioni e sulle tecnologie. Riso, oro e zafferano, o il raviolo aperto di Gualtiero Marchesi, costituiscono il superamento del risotto alla milanese e dei ravioli, con un’unica localizzazione, il ristorante di via Bonvesin della Riva o dell’Albereta. In una osteria segnalata dalla guida di Slow food avviene il contrario: prodotto e piatto appartengono non allo chef ma al territorio o ai territori, e la qualità è ascritta al contadino, all’orto, alla filiera, al mediatore che li ha resi possibili.
Le conseguenze di quest’ultimo approccio sono molteplici. Esso contribuisce a rafforzare il quadro geografico-alimentare, in Italia e nel mondo. «Valtellina pizzoccheri, orecchiette with broccoli, genoese pansotti, maccheroni alla chitarra» questi ultimi «with a chitarra, a special utensil that consist of steel wires on a wooden frame» sono presenti nell’edizione inglese del 2011 del Cucchiaio d’argento (De Silver spoon, London 2011, p. 319). I gastrotoponimi fanno parte di un’immagine dell’Italia campanilista e pulviscolare, mentre la ripartizione in regioni e province, nella sua fissità, attende non semplificazioni ma solo nuove località e nuovi prodotti, ben accolti da stampa ed editoria culinaria. Se attualmente sono molto più rare le carte gastronomiche con i simboli degli alimenti o le insegne delle osterie, è solo perché il loro numero è cresciuto a tal misura da rendere troppo ricco il paniere dell’offerta e difficile l’arte del grafico. Non si reinventa la geografia, ma tutto quanto la sostanzia: ambiente e paesaggio vengono sanati dalla buona agricoltura; dopo l’abbandono della montagna, le comunità stesse che la ripopolano, ringiovanite, assolvono a un compito di continuità con il passato; i prodotti tipici bonificano il suolo preservandolo dalle insidie agroalimentari. Fra mito e realtà spesso la distanza è risibile.
Dall’uscita dei primi atlanti dell’INSOR e dai regolamenti europei che istituivano DOP e IGP sono passati vent’anni, caratterizzati da un sistema alimentare bifronte, sempre più tipico da un lato e investito, per ogni parcella di terreno, di valori affettivi, ambientali ed etici, sempre più atipico dall’altro e in grado di soddisfare, con biotecnologie e importazioni, i bisogni nutritivi della popolazione mondiale. Per una sorta di bisticcio semantico tipico e atipico si sovrappongono e oppongono continuamente, in una visione locale-globale degli alimenti e della qualità. Le politiche regionali fungono da baricentro, tutelano l’industria agroalimentare e ne accettano l’uso della tipicità, finanziano sagre, fiere gastronomiche e i dossier da presentare per l’ottenimento di una DOP, operando una sorta di capitalizzazione della qualità locale. Raggiunto l’obiettivo di mettere il prodotto all’inizio e alla fine del processo gastronomico, e questo non solo per l’olio italiano, ma per un caffè o un cacao americani, si apre sempre più urgente lo scenario globale, con la crescita della popolazione e del fabbisogno, con la necessità di immaginare nuovi sistemi produttivi, con i calcoli del rischio climatico e ambientale. Macro e micro sono le due facce del problema, e il ruolo della cucina è di mediare risorse e consumi, fornendo un linguaggio e un fare in cui si riconoscano la propria cultura e le proprie origini.
Un esempio concreto della cucina attuale figlia di questa rivoluzione giunge dall’osservazione dell’atteggiamento del degustatore ecologico e del recensore di grido, che davanti a un risotto alla milanese si domandano quale riso sarà stato scelto, se un vialone nano o un carnaroli, e quale provenienza – toscana o romagnola o aquilana – abbia lo zafferano che l’ha colorato. A queste domande se ne potrebbero aggiungere altre che vengono dai nuovi orientamenti degli chef, niente brodo, o dei dietologi, pochissimo burro e invece olio. Intanto il midollo bovino è sparito e, presso alcuni, i più aggiornati, anche la cipolla. Sul piatto milanese convergono aggiornamenti, innovazioni, mode e tecnologie, oppure, con riso, brodo e zafferano, una vecchia ricetta e una consuetudine familiare. Quale sarà il prossimo futuro del risotto? Lo stesso della città da cui ha preso il nome e dei suoi abitanti, pur continuando a essere considerato come l’ultimo esito di una tradizione continuamente interrotta, prontamente rimessa in auge, con documenti alla mano. I punti fermi della gastronomia degli anni 1990-2010, prodotti e qualità, rimarranno probabilmente tali, e a nessuno verrà la tentazione di scegliere curcuma e risi d’oriente, ma sul piatto figureranno tutte le ipoteche culturali che sempre pesano su chi compra e prepara e su chi degusta.
Al termine di questa corsa verso un presente che sembrerebbe appartenere al nostro passato, la cucina, rispetto ai suoi ingredienti e alle conserve artigianali e industriali che figurano in tavola, ha un ruolo di mediatore spazio-temporale. Declinata con ogni mercato, a partire da quello ‘iper’ o ‘super’, alle bancarelle, ai gruppi di acquisto solidale, alla cessione diretta del contadino o del pastore, proponendo giornalmente, dal primo piatto al secondo, formule di origine territoriale diversa, incrociando semilavorati e surgelati, essa rappresenta lo snodo di tutte le scelte che a monte potrebbero condizionarla e invece la facilitano. La tendenza recente è stata quella di rafforzare le formule a partire dalla qualità e dalla combinazione degli ingredienti, con tutte le variabili che l’origine di un pesce o di un pomodoro può comportare. La difficoltà di cucinare con prodotti ottimali, resta temperata da facilitazioni di approvvigionamento, con ingredienti sempre disponibili e altri meno, e dalla semplificazione delle marinature e delle cotture, con tutto l’aiuto che il precotto o il preparato-conservato – la pasta sfoglia pronta – possono dare. Se le variabili sono cucina, la struttura della ricetta lo è a maggior ragione e la qualifica regionale e locale resta quella considerata più autorevole.
Esistono piatti nazionali di incerta datazione, e comunque di recente conio, come gli spaghetti alla carbonara o la carne cruda battuta al coltello, ma essi stessi sono stati recuperati dalle cucine romane e piemontesi come se fossero sempre esistiti. La pseudotradizione è una variabile della tradizione. Un numero consistente di piatti regionali sono invece presenti nei grandi ricettari nazionali e come tali condivisi ovunque in Italia, costituendo la base di un repertorio conosciuto e ripetuto in Europa e nei Paesi extraeuropei. Su questo corpus che nasce da emigrazioni, matrimoni, vacanze, passioni e sperimentazioni, e ha una solida letteratura cartacea, poggia attualmente quella che viene definita cucina italiana. Le sue origini sono prevalentemente casalinghe, con apporti da quelle osterie e quelle trattorie che erano a loro volta a conduzione familiare, e il suo futuro in qualsiasi contesto individuale o commerciale, come il piatto di spaghetti o la pizza hanno ben dimostrato, può essere globale. Questo quadro fondato su un patrimonio e su una eredità, con tutte le variabili occasionali e future, nelle lingue in cui verrà tradotto, è destinato a mutare poco.
Si parla di fusion pensando a incroci fra cotture asiatiche e grani d’arborio, o a pizze dagli ingredienti più disparati (il würstel in Trentino-Alto Adige e l’ananas negli Stati Uniti), ma se si utilizza il termine fusione in un’accezione limitata a piatti identificabili, da vicino o da lontano, come italiani, considerandolo un effetto di scambi o cessioni gastronomiche e della ricerca di nuovi valori, una fusione è in corso, è già parzialmente avvenuta nelle case, e la cucina ha preso questa strada, assemblando di tutto, a partire dal territorio nazionale. Un risotto alla marinara o un piatto di spaghetti allo scoglio, privi di autenticazioni territoriali, sono microfusioni che farine di grano duro d’oltreoceano e pesce o crostacei surgelati, provenienti dall’Atlantico, rendono possibile; la stessa cosa si può dire, a maggior ragione, per un minestrone che saccheggia orti e serre, metodi di conservazione eterogenei e grassi ad libitum. Questa seconda faccia della cucina regionale italiana è imprevedibile e porterà squilibri verso l’alto e verso il basso, fondendo prodotti di eccelso o risibile valore, tentando contaminazioni alla giornata dettate dall’acquisto nel supermercato o dalla trasmissione televisiva. Anche i nomi dei piatti sono destinati a mutare, ad arricchirsi con i termini di prodotti sconosciuti in passato, come il salmone, o di artefatti di origine straniera, nella nuova moda del consumo del pesce crudo, rimodellati dagli chef, con il nome, per es., di sushi all’italiana.
Va osservato che la fusione non è effetto della lontananza dall’Italia, ma di altri fattori in cui gioca ancora un ruolo critico l’identità territoriale di prodotti e ricette. La comparazione tra l’edizione italiana del Cucchiaio d’argento e quella inglese dello stesso 2011, Silver spoon, dà sorprendenti esiti: possiamo osservare una maggiore attenzione a preparazioni tipiche nella seconda, la prima essendo più vocata a una definizione nazionale e borghese della cucina italiana. Le puntarelle, germogli della cicoria particolarmente apprezzati a Roma in insalata, poco note fuori del Lazio, sono presenti nell’edizione in lingua italiana (insalata di puntarelle romane) mentre figurano in inglese la ‘puntarelle salad with skate and anchovy sauce’ (insalata di puntarelle con arzilla e salsa d’acciughe) di Benjamin Hirst, cuoco inglese a Roma, gestore dell’osteria Necci dal 1924, e una ‘finely diced raw lamb with trufle puntarelle and parmigiano reggiano’ (carne cruda di agnello con tartufo e insalata di puntarelle con scaglie di parmigiano) di Tony Mantuano, alla carta nel ristorante Spiaggia di Chicago. In una prospezione globale, le puntarelle sono salvate da un’arca in cui si parla italiano e inglese e si mangia romano o alla romana, e da un’attenzione meticolosa all’identità internazionale dei prodotti e dei piatti. La carne cruda e i tartufi di Mantuano sono un vezzo da chef, comprensibile ovunque, anche a Roma.
Agli effetti della mobilità e della replica a distanza si sommano quelli generati dai supporti di comunicazione. È possibile identificare un prodotto, leggere una ricetta in rete, affidandosi a un testo finanziato da una regione o a un blog accreditato da un portale, scegliendo la lingua, l’inglese o l’italiano, esaminando le foto a colori, intervenendo con quesiti o ragguagli, passando da un sito all’altro sino a completa soddisfazione. È presumibile che questa nuova cultura, acquisendo, per facilità d’uso e varietà di offerte, una priorità, rispetto alla stampa, influisca su di essa e ne limiti l’autorevolezza. Quale cucina regionale costruiranno i siti on-line, che, per usare le parole del sociologo Zygmunt Bauman, si possono definire ‘liquidi’ e ubiqui? Le ipotesi sono tutte aperte sia nella direzione di un irrigidimento del modello di cucina di tale o talaltra regione, autentico e autoreferenziale, conservatore e tradizionalista, sia verso una ibridazione favorita dalla variabilità dei cibi nel tempo e dalla loro infinita ricomposizione in uno spazio lontano migliaia di chilometri. La ristorazione ‘italiana’ in America ha sempre provato che la qualità viaggia e si radica benissimo.
Il futuro delle cucine regionali è dunque affidato non a una conservazione gelosa, a un territorio chiuso da terrazze e muretti, a un culto della tradizione e magari a una lingua pronunciata con accento locale e infarcita di dialettismi, ma a una ripetizione critica dei singoli piatti, tenendo conto che gli ingredienti possono viaggiare sicuri, attecchire a grande distanza, come fece il pomodoro in Europa, e trovare dei cuochi accorti sia alle formule canoniche sia alle varianti originali. I ricettari, finora cartacei, domani digitali, conserveranno una loro funzione normativa e, costantemente comparati o aggiornati, permetteranno di verificare lo stato di una cultura domestica e ristorativa in costante mutazione, sia nelle pratiche e negli utensili sia nel desiderio di piatti ‘nuovi’. L’esistenza di una letteratura importante fuori dall’Italia, destinata a crescere e ad acquistare prestigio, fa pensare che, se il baricentro culturale rimane, per ora, nel nostro Paese, la polarizzazione degli interessi per gli oggetti alimentari e lo stile italiano produrranno effetti di diaspora e di crescente interesse nella conservazione di alcuni piatti, nel rinnovamento di formule e abbinamenti, e nell’invenzione di altri oggetti alimentari.
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