Scopritori e viaggiatori del Cinquecento - Introduzione
«lo ho perduti molti sonni e ho abreviato la vita mia 10 anni; e tutto tengo per bene speso, perché spero venire in fama lungo secolo, se io torno con salute di questo viaggio: Iddio non me lo reputi in superbia, ché ogni mio travaglio è adirizzato al Suo santo servizio». Così scriveva Amerigo Vespucci a Lorenzo di Pierfrancesco de' Medici dalle Isole del Capo Verde nel giugno 1501, quando si preparava ad attraversare per la seconda volta l'Atlantico. Cosciente dei pericoli che avrebbe dovuto affrontare, era entusiasta di proseguire le sue esplorazioni «con franco animo per servire a Dio e al mondo» e per lasciare dopo la morte - come avrebbe scritto al ritorno da quel viaggio - «qualche fama» di sé. Amerigo Vespucci può essere considerato il prototipo del viaggiatore italiano del Cinquecento. Come tanti altri dopo di lui, fiero delle sue origini e della sua piccola patria, lontana ma non dimenticata, si sentiva nello stesso tempo cittadino di un mondo più vasto, nel quale gli interessi mercantili e la sete di conoscenza erano in grado di superare le barriere nazionali. Il desiderio di emergere dalla mediocrità e il bisogno di affermare la propria personalità lo portarono ad accettare di vivere l'esaltante ma difficile esperienza dei viaggi esplorativi, passando dal servizio della Spagna a quello del Portogallo e poi di nuovo della Spagna, senza per questo lasciarsi coinvolgere nelle rivalità delle due nazioni.
È ben noto il contributo essenziale dato dagli Italiani alle scoperte geografiche tra la fine del XV secolo e i primi decenni del XVI. La loro partecipazione al grande processo esplorativo di quei secoli non costituisce però un fenomeno limitato nel tempo, e la loro avventura non comincia con Colombo, né si esaurisce così rapidamente come spesso si dice. Se consideriamo il Rinascimento secondo l'interpretazione più ampia di Jacques Le Goff come «quella lenta trasformazione attraverso la quale la civiltà occidentale passa dalle forme tradizionali del Medioevo alle forme nuove, già attuali, della prima modernità», essa appare piuttosto come la fase più brillante di un lungo processo che, ricollegandosi alla cosiddetta «rivoluzione commerciale» e alle sue conseguenze, ha le sue radici, come quella, nell'evoluzione sociale ed economica dell'Italia dei primi secoli dopo il Mille, e continua nel corso del Seicento e Settecento fino ai primi viaggi 'scientifici' di stampo illuminista.
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Per comprendere il significato culturale del contributo italiano alle grandi scoperte geografiche bisogna quindi risalire indietro nel tempo, almeno a quando, tra il 1100 e il 1250, si instaura nel Mediterraneo il predominio commerciale degli Italiani. Dopo la frantumazione dell'Impero Romano e la parentesi altomedievale, questo mare riacquistò allora la funzione di principale cerniera dei movimenti mercantili tra l'Europa e i paesi dell'Oriente fornitori di oro e di merci pregiate. Le antiche vie delle Indie furono riattivate, in parte utilizzando i vecchi itinerari, in parte altri nuovi; tutti però facevano capo agli scali del Mediterraneo orientale, direttamente o indirettamente controllati dagli Italiani.
All'instaurarsi del monopolio commerciale italiano nel Mediterraneo orientale contribuirono molto le crociate, a cui le repubbliche marinare fornivano i mezzi di trasporto; la migliore conoscenza delle rotte e degli approdi determinata da quelle guerre si tradusse infatti in tempo di pace in un incentivo alla creazione di linee commerciali regolari e di punti d'appoggio, aprendo così la strada alla penetrazione e all'insediamento nei paesi del Levante. Dai porti dei crociati, Genovesi, Pisani e Veneziani riannodarono i legami con le città-mercato dell'Arabia e della Siria, facendo rifiorire il traffico delle spezie e dei tessuti pregiati, e si inserirono negli ampi circuiti commerciali dei due maggiori empori del Mediterraneo orientale: Costantinopoli e Alessandria. Qui già all'inizio del XII secolo i Genovesi erano presenti con i loro fondachi. Nel secolo seguente, pur ostacolati di tanto in tanto dalle alterne vicende della politica locale, essi si insediarono saldamente sulle coste dell'Egeo e del Mar Nero, dando origine ad un solido impero marittimo, molto simile a quello che due secoli più tardi i Portoghesi stabilirono nell'Oceano Indiano. Sulla sponda settentrionale del Mar Nero la colonia genovese di Caffa controllava l'accesso al Mare d'Azov e alle vie commerciali dell'Asia centrale; altrettanto facevano i Veneziani dal loro avamposto a La Tana.
La fine delle crociate e la riconquista islamica non fermarono l'espansione commerciale italiana in Medio Oriente; anzi l'ostacolo rappresentato dalla più forte presenza degli Arabi nei porti dell'Egitto e della Siria incoraggiò i tentativi di penetrazione diretta in Asia e la ricerca di vie alternative a quelle tradizionali. Così i mercanti italiani, genovesi e veneziani soprattutto, si spinsero nella Russia meridionale e in Persia, da dove qualcuno più coraggioso tentò di raggiungere l'Asia centrale, l'India e la Cina. A partire dalla metà del Duecento divengono numerose, anche se sono purtroppo frammentarie, le notizie di viaggi compiuti verso queste regioni. Ma già nel 1247, quando il francescano Giovanni da Pian del Carpine, di ritorno dalla sua missione diplomatica in Mongolia, fece sosta a Kiev, vi trovò diversi mercanti provenienti da Costantinopoli, per la maggior parte italiani.
La ricerca di una via alle Indie alternativa a quella che faceva capo ai porti del Medio Oriente in mano agli Arabi fu favorita dalla formazione del grande impero dei Mongoli, nel quale la cristianità sperò di trovare un alleato contro l'Islam. Con questa speranza, tra il 1245 e il 1246, per volere del pontefice Innocenza IV - non a caso un genovese - furono inviate ben quattro spedizioni diplomatiche al Gran Can, di cui però solo due riuscirono a raggiungere la corte del sovrano mongolo. Sebbene nessuna delle due portasse ai risultati sperati sul piano diplomatico, entrambe fornirono una massa notevole di informazioni sui paesi visitati, accentuandone l'interesse agli occhi dell'Europa. In particolare quella dell'italiano fra Giovanni da Pian del Carpine (1245-47) ebbe una eco notevole, anche se limitata agli ambienti dotti. L' Historia Mongalorum, scritta dal frate al ritorno dal viaggio, fu infatti inclusa qualche anno più tardi nello Speculum Historiale di Vincenzo di Beauvais; essa può essere considerata il più antico trattato storico-geografico sull'Asia centrale compilato da un europeo. La sua fortuna letteraria non è paragonabile a quella che ebbe nel secolo successivo il Milione di Marco Polo, che non solo era il frutto delle esperienze compiute in più di trent'anni di viaggi, ma che assai più dell'Historia andava incontro al gusto dei tempi; si può dire però che è proprio con l' Historia Mongalorum prima ancora che con il Milione che la letteratura odeporica italiana, fino a quel momento dominata dalle relazioni dei pellegrini in Terrasanta, numerose ma monotone e culturalmente assai povere, compie un salto di qualità.
Non è il caso di soffermarsi sulla influenza esercitata dal Milione sulla cultura europea e sui successivi sviluppi delle esplorazioni geografiche. Vale la pena di sottolineare invece che proprio l'esperienza poliana, momento culminante dei rapporti culturali tra Europa e Estremo Oriente, aprì le porte a contatti più regolari. Nei primi anni del Trecento essi facevano capo da una parte alla corte pontificia, sempre desiderosa di continuare il dialogo con i sovrani mongoli ma fermamente decisa a non cedere ad alcun compromesso, e dall'altra alla Cina, dove l'interesse per l'Occidente cristiano era ugualmente forte e altrettanto carico di sospetti. E forse proprio a causa della reciproca diffidenza, più ancora che delle enormi distanze, nonostante che dall'una e dall'altra parte si continuasse a inviare ambascerie, non si raggiunse alcun accordo, se non quello che portò alla nomina del primo vescovo di Pechino, Giovanni da Montecorvino (1247-1328), anch'egli figura di grande rilievo nella storia delle relazioni dell'Europa con l'Estremo Oriente. Ma che sulla via delle Indie gli Italiani avessero stabilito contatti più frequenti e consistenti è dimostrato dal numero e dalla qualità delle relazioni !asciateci dai nostri viaggiatori che negli ultimi anni del Duecento e nella prima metà del Trecento visitarono l'Asia centrale e orientale. Molti sono i nomi che si potrebbero citare; tra tutti domina la figura di un altro francescano, Odorico da Pordenone, autore di una Descriptio Orientalis Partis. Un'idea di quanto ampia fosse in questo periodo la penetrazione commerciale degli Italiani in Asia si può avere anche dalla Pratica della Mercatura del fiorentino Francesco Balducci Pegolotti, agente dei Bardi: una vera e propria guida per i mercanti, scritta nel 1340 e ricchissima di informazioni sull'Asia.
Nel 1368 la caduta dei Mongoli e la nascita dell'impero di Tamerlano segnarono però una brusca battuta d'arresto. Tuttavia il blocco delle vie dell'Asia centrale non bastò ad interrompere del tutto l'attività dei mercanti italiani; piuttosto li indusse a cercare nuove strade - come quella percorsa tra il 1414 e il 1439 dal veneziano Niccolò de' Conti dalla Persia all'India, all'Indocina e a Giava - e a creare una diversa rete di rapporti. Del resto anche dopo la caduta di Costantinopoli, se Genova e Venezia furono costrette a complicati giochi di equilibrio per tentare di mantenere la loro sempre più precaria presenza nell'Egeo, l'iniziativa personale di non pochi mercanti continuò: la seconda metà del XV secolo è ancora ricca di testimonianze in proposito.
Mentre si stabiliva il monopolio commerciale italiano nel Mediterraneo orientale, una analoga espansione aveva inizio anche verso quello occidentale, dove già prima del 1100 le repubbliche marinare del Tirreno avevano la supremazia navale. Fin dai primi anni del XII secolo esse intrapresero una metodica politica di penetrazione nei paesi del Maghreb e della penisola iberica. In seguito, nel corso delXII e XIII secolo, i rapporti commerciali con la Barberia divennero più frequenti; dopo Pisa, Genova e più tardi Venezia fecero a gara per negoziare accordi commerciali e per ottenere il permesso di stabilire fondachi o consolati nei principali porti della costa nordafricana, frequentati allora anche dalle navi di Amalfi, Gaeta, Napoli e Salerno. I Fiorentini arrivarono per ultimi, dopo la metàdel Duecento, ma nei secoli successivi finirono per imporsi. Nel Quattrocento le loro galere formavano convogli regolari per Tunisi, Tripoli, Bona e Orano.
Nel Duecento le principali merci importate erano tessuti, prodotti alimentari e spezie; quelle esportate pellami, lana greggia e allume. Importanza crescente assunse in seguito l'oro proveniente dal Sudan. Alla ricerca di una via diretta verso le regioni produttrici del prezioso metallo, anche qui, come in Oriente, alcuni mercanti più intraprendenti si spinsero verso l'interno dell'Africa, compiendo delle vere e proprie esplorazioni. Qualcuno di loro ne ha lasciato testimonianza. Così per esempio Benedetto Dei, un fiorentino che arrivò fino a Timbuctù, o il genovese Antonio Malfante, che percorse le coste dell'Africa fino al Marocco e di qui si spinse all'oasi di Tuat.
Analoghi rapporti commerciali furono instaurati dagli Italiani con la Spagna musulmana e le Baleari. Ai tentativi di conquista diretta seguì la concessione di privilegi commerciali e la creazione di colonie. La reconquista cristiana della penisola iberica favorì i mercanti italiani, che poterono stabilire leloro filiali nei principali centri del commercio spagnolo e portoghese, incrementando i contatti con il resto dell'Europa.
Il monopolio commerciale del Mediterraneo fu reso più stabile con la creazione di una rete efficiente di collegamenti con i mercati dell'Europa continentale. Tali collegamenti furono tenuti in un primo momento dalle città della «Lombardia» - termine con cui si indicava molto genericamente tutta la Padania -, che ne trassero notevoli vantaggi, assicurandosi il controllo delle vie terrestri e fluviali dell'Italia centro-settentrionale e dando inizio al loro sviluppo industriale. Già negli ultimi anni del XII secolo alcune città del Piemonte, fra le quali soprattutto Asti, mediavano l'intenso movimento mercantile stabilitosi tra Genova e le celebri fiere della Champagne. Con l'inizio del secolo successivo entrarono in gioco anche i mercanti di Piacenza, Milano, Bologna, Cremona e di altre città della Pianura Padana; più tardi arrivarono i Fiorentini. Il loro successo oltralpe fu dovuto in buona parte all'uso di tecniche commerciali più moderne, come la partita doppia nella contabilità, la lettera di cambio e le assicurazioni, nonché ad una organizzazione molto efficiente.
La consistente presenza di mercanti provenienti dalle città italiane dell'interno non impedì a quelle marinare di arrivare a instaurare anch'esse rapporti con i centri commerciali dell'Europa nord-occidentale. I Genovesi furono i primi. In alternativa alle vie terrestri e seguendo la loro tradizione marittima, a partire dagli ultimi decenni del XIII secolo organizzarono convogli di galere, che raggiungevano i porti della Francia, dell'Inghilterra e delle Fiandre navigando lungo le coste della penisola iberica. La rotta da loro inaugurata è assai importante per la storia delle esplorazioni. Su di essa infatti si perfezionò gradualmente la loro esperienza nautica, adattando le tecniche mediterranee alla navigazione nell'Atlantico; da essa prese le mosse l'espansione marittima dei popoli della penisola iberica. Quando le navi genovesi, attraversato lo Stretto di Gibilterra, si spinsero fino al Mare del Nord, le fiere della Champagne entrarono in crisi. Si rafforzò invece la vocazione marittima e mercantile delle città costiere della penisola iberica, in particolare Siviglia e Lisbona, capisaldi essenziali della rotta dei Genovesi. In queste città si insediò una borghesia mercantile, in parte proveniente anch'essa dall'Italia, in particolare dai centri commerciali della Pianura Padana e della Toscana.
Alla fine del XIII secolo gli Italiani si erano perfettamente integrati nei circuiti commerciali dell'Europa continentale. Rispetto al Mediterraneo, quest'area presentava qualche svantaggio, come la più agguerrita concorrenza dei mercanti locali e di quelli del Baltico. In compenso le loro colonie si inserivano più facilmente nel tessuto sociale dei paesi ospiti, mantenendo la loro autonomia soprattutto grazie ai privilegi acquisiti tramite i prestiti che gli Italiani erano in grado di concedere anche ai sovrani. L'attività finanziaria procedeva di pari passo con quella mercantile. Dopo i «Lombardi», furono le compagnie fiorentine che si imposero, tanto che la moneta aurea di Firenze - il fiorino - divenne la più solida e ricercata.
L'esperienza maturata dai navigatori italiani si riflette nella contemporanea produzione di carte nautiche. Abbandonati gli itinerari costieri, a partire perlomeno dalla fine del XII secolo, con l'introduzione dell'uso della bussola, gli Italiani avevano imparato a navigare nel Mediterraneo secondo rotte d'altura. Oltre allabussola essi disponevano di altri sussidi, come i portolani -in cui erano indicate le distanze tra i vari porti e descritte le coste, i fondali e le principali rotte - e le carte nautiche, che rappresentavano con mirabile precisione i contorni costieri, rilevati facendo riferimento alla rosa dei venti. Le prime carte nautiche giunte fino a noi risalgono alla seconda metà del XIII secolo e tutte, come la maggior parte di quelle del secolo successivo, sono italiane. Il disegno di queste carte, progressivamente esteso dal Mediterraneo, dal Mar Nero e dalle coste occidentali dell'Europa (portolano normale) a quelle atlantiche dell'Africa e delle isole antistanti, permette di ricostruire, almeno a grandi linee, la storia dell'esplorazione di quest'ultime da parte dei Genovesi.
Le prime ad essere visitate furono le Canarie, dove Lanzarotto Malocello giunse prima del 1339, poiché a questa data risale una carta di Angelino Dalorto nella quale sono rappresentate per la prima volta quelle isole, su una delle quali compare lo stemma della Superba e il nome del Malocello. È stato ipotizzato che egli fosse uno dei venti «sabedores de mar» che un altro genovese, Emanuele Pessagno, nominato nel 1317 ammiraglio del re Diniz del Portogallo, si era impegnato a portare con sé. Il Malocello avrebbe compiuto il viaggio per conto del Portogallo. Ma si tratta di una semplice ipotesi, non confortata da prove documentarie e difficile da sostenere anche per ragioni cronologiche. Certo la carica affidata al Pessagno, come quelle analoghe che per la Spagna ebbero altri genovesi, quali Ugo Vento, Benedetto Zaccaria, Egidio e Ambrogio Boccanegra, dimostra che la supremazia genovese sul mare era riconosciuta non solo da un punto di vista puramente commerciale, ma anche per quel che riguarda la perizia nautica. Tanto il Pessagno e i suoi discendentiche per eredità tennero la stessa carica per quasi due secoli - quanto gli ammiragli genovesi al servizio della Spagna erano anche mercanti e nella maggior parte dei casi proprietari delle navi che mettevano a disposizione dei sovrani iberici. È importante notare che oltre a comandare la flotta delle galere reali destinate alla difesa, Emanuele Pessagno armava anche navi a vela destinate al commercio, simili a quelle che i suoi concittadini usavano per i loro traffici nel Mediterraneo orientale e sulle coste della Barberia. Di conseguenza è probabile che il Pessagno e i suoi discendenti abbiano avuto una parte anche nell'evoluzione della flotta mercantile portoghese, ponendo le basi per l'eccezionale sviluppo del secolo successivo.
Mentre ancora continuava l'esplorazione delle Canarie, tra il 1339 e la metà del secolo i navigatori genovesi giunsero anche a Madera, che è chiaramente rappresentata col nome di «Isola del legname» nell'Atlante Mediceo (di poco posteriore al 1350). Più difficile invece è stabilire se siano arrivati anche alle Azzorre. Queste ultime sono raffigurate, anche se in modo molto impreciso, in carte nautiche italiane della fine del XIV secolo; ma per raggiungerle sarebbero state necessarie delle conoscenze nautiche di cui si pensa che i Genovesi non disponessero ancora. Si può forse ipotizzare un approdo casuale, tale da lasciar traccia nella cartografia senza però essere seguito dalla scoperta di una vera e propria rotta.
La supremazia nautica dei Genovesi è testimoniata anche da una eccezionale impresa della fine del XIII secolo, che fece molto discutere i contemporanei e sulla quale non è stato mai possibile fare piena luce. È la spedizione dei fratelli Ugolino e Vadino Vivaldi, partiti da Genova nel 1291 su due galee, dirette - come riferiscono i contemporanei - «ad partes lndiae» e mai più ritornate. C'è chi ha ipotizzato che i Vivaldi si proponessero di attraversare l'Atlantico, anticipando così di due secoli il progetto del loro concittadino Cristoforo Colombo; altri pensano che volessero circumnavigare l'Africa, precedendo i Portoghesi sulla via orientale alle Indie; altri infine che fossero diretti solo alle coste occidentali dell'Africa. Comunque, dopo il passaggio del Capo Noun di loro non si seppe più nulla, anche se documenti dei secoli successivi riferiscono che furono trovati loro discendenti sulle coste dell'Africa, tra il Senegal e il Gambia.
Anche tra i navigatori al servizio del Principe Enrico di Portogallo troviamo degli italiani, come Alvise Cadamosto e Antoniotto Usodimare, che tra il 1455 e il 1456 compirono due viaggi lungo la costa occidentale dell'Africa, raggiungendo probabilmente le Isole del Capo Verde, la cui scoperta è però attribuita da documenti ufficiali portoghesi al genovese Antonio da Noli, che dopo il I46o visitò le isole più orientali dell'arcipelago.
Da queste premesse tra la fine del XV secolo e l'inizio del XVI prese le mosse la breve e pur tanto intensa stagione dei grandi navigatori italiani. Al di là dei risultati pratici da loro conseguiti, naturalmente diversi da caso a caso, la loro attività ebbe un peso determinante sulla storia della cultura e della civiltà dell'Occidente, anche perché, nonostante la posizione marginale in cui l'Italia fu relegata dall'apertura delle vie transoceaniche, alcune particolari circostanze le permisero di conservare un ruolo di primo piano. Nonostante la diffusione che i racconti di viaggio avevano avuto nei secoli precedenti infatti, l'Europa era culturalmente impreparata a ricevere l'enorme massa di novità che la scoperta della via orientale alle Indie e quella del Nuovo Mondo le fornirono nel giro di pochissimi anni. I primi ad accoglierle con entusiasmo furono i mercanti, che intravidero subito le possibilità di ampliamento dei loro traffici. Ora, come s'è visto, in tutta l'Europa occidentale la presenza dei mercanti e banchieri italiani era preponderante. La rete di rapporti di cui potevano usufruire permetteva una circolazione rapida delle informazioni, e perfino l'acquisizione di notizie che avrebbero dovuto restare segrete. I mercanti italiani di Lisbona e di Siviglia, finanziatori delle prime spedizioni transoceaniche, erano anche gli amici e i sostenitori dei loro connazionali che si erano posti al servizio della Spagna e del Portogallo. In un secondo tempo, i loro agenti viaggiarono frequentemente al seguito dei conquistatori.Dati gli stretti rapporti che univano le case commerciali italiane alle loro filiali nella penisola iberica, era naturale che le notizie rimbalzassero rapidamente in Italia, tanto più quando riguardavano i nostri connazionali.
Così proprio l'Italia divenne in breve tempo la cassa di risonanza delle imprese esplorative e il centro di distribuzione delle relative notizie. Firenze ebbe un ruolo predominante, in conseguenza della funzione che aveva svolto e continuava a svolgere come centro culturale della penisola. Ma in Italia le notizie relative alle esplorazioni transoceaniche arrivavano anche per un'altra via: quella che faceva capo alla corte pontificia. Già all'indomani del primo viaggio di Colombo, il Papa - che era allora lo spagnolo Alessandro VI - fu chiamato a dirimere con un suo verdetto la spinosa questione della spartizione dell'oceano tra Portogallo e Spagna.
È vero che poco più tardi il Trattato di Tordesillas (1494), con il quale tale questione fu almeno temporaneamente risolta, venne stipulato direttamente tra le due nazioni contendenti, senza l'intervento del papa, ma il suo sacro diritto a essere puntualmente informato dei progressi delle esplorazioni non fu per questo messo in dubbio. Anche perché una delle ragioni a cui più di frequente si ricorreva per giustificare la conquista territoriale nei continenti extraeuropei era la conversione dei pagani e la distruzione dei musulmani infedeli; nel caso in cui fosse sorta una contestazione tra due potenze colonizzatrici poi, il ricorso all'autorità del papa poteva costituire ancora una buona mossa politica. Perciò i sovrani europei si davano cura di tenere sempre informato il pontefice. La diplomazia romana o comunque quella legata alla corte pontificia divenne così nel Cinquecento un'importante fonte di notizie sulle esplorazioni geografiche. I dispacci diplomatici giunti fino a noi, oggi documenti preziosi, ci permettono spesso di seguire la diffusione di tali informazioni da una corte all'altra della penisola, e di constatare le reazioni che suscitavano.
Sollecitato da questi stimoli, l'ambiente culturale italiano era il più adatto a recepire tutto ciò che di nuovo, in ogni campo dello scibile, apportavano le relazioni dei suoi viaggiatori, che di conseguenza riscossero un eccezionale successo. La rivoluzione culturale determinata dalle grandi scoperte geografiche dei secoli XV e XVI ebbe un primo punto d'appoggio proprio in queste relazioni che, sfuggite alle maglie della censura, venivano frequentemente divulgate dalla stampa. A solo un mese di distanza dal ritorno di Colombo dal suo primo viaggio, la lettera con cui egli annunciava la scoperta veniva pubblicata a Roma, tradotta in latino, da Leandro del Cosco, mentre nel 1504 appariva il Libretto di tutta la navigatione del Re di Spagna, libera traduzione di Angelo Trevisan della prima Decade di Pietro Martire d'Anghiera, che in Spagna fu data alla stampa solo nel 1511, a Siviglia; quasi contemporaneamente si aveva la prima edizione del Mundus Novus pseudovespucciano, la cui fortuna letteraria fu superiore a qualsiasi altro resoconto di viaggio.
Ma in Italia circolavano liberamente anche le copie manoscritte delle relazioni di altri viaggiatori. Mentre il Portogallo tentava di mantenere il segreto su tutto ciò che riguardava la via marittima alle Indie, già alla fine di luglio del 1514 Giovanni da Empoli faceva sapere a suo padre - e quindi a Firenze - i particolari delle imprese di Afonso de Albuquerque, e nell'ottobre 1517 Andrea Corsali poteva narrare a Lorenzo de' Medici, duca d'Urbino, la disastrosa spedizione di Lopo Soares de Albergaria nel Mar Rosso, su cui i cronisti ufficiali portoghesi avrebbero steso più tardi un pietoso velo di silenzio. Solo a partire dal 1552 invece fu pubblicata l' Historia do descobrimento e conquista da India pelos Portugueses di Fernao Lopez de Castanheda e solo nel 1552 la Primeira Decada da Asia di Joao de Barros.
Almeno agli inizi, la Spagna si dimostrò meno prudente, sicché le prime notizie relative alle scoperte realizzate sotto la sua bandiera poterono filtrare più facilmente. Ma anche in questo caso il pubblico italiano ebbe il privilegio d'essere informato in anticipo, come dimostra il caso già ricordato della prima Decade di Pietro Martire. Si pensi che la prima parte dell'Historia general y natural de las Indias di Gonzalo Fernandez de Oviedo, cronista ufficiale della conquista, fu pubblicata solo nel 1535.
La letteratura odeporica italiana del Cinquecento è stata piuttosto trascurata in passato. Solo da pochi decenni, sotto lo stimolo di interessi linguistici più che storici o filologici, ha avuto inizio uno studio più approfondito. Oltre a rivestireun enorme interesse storico-geografico, essa ha la caratteristica di presentarsi in forme più varie rispetto alla letteratura di viaggio dei secoli precedenti e dei successivi. Tali forme possono ricondursi essenzialmente ad alcune categorie. La prima, molto diffusa, è la lettera familiare, scritta quasi sempre al ritorno o durante la fase terminale di un viaggio. Ancora carica di emozioni, appare in genere poco curata nella forma e rivela perciò facilmente i limiti della cultura dell'autore. I ricordi vi si affollano in maniera disordinata, spesso senza seguire un ordine cronologico. Ciò può creare qualche problema di interpretazione, ma in compenso il racconto acquista spesso vivacità espressiva. Il destinatario della lettera gioca un ruolo importante: il contenuto tiene conto dei suoi interessi e risente del tipo di rapporto che intercorre tra lui e chi scrive. Così la già ricordata lettera di Giovanni da Empoli a suo padre ha un tono colloquiale, mentre quella, sempre al padre, di Raffaello Barberini appare meno spontanea, dominata da un rispetto che sembra sconfinare nel timore.
Tra la lettera familiare e quella ufficiale - qual è per esempio la lettera di Colombo a Luis de Santangel o ancor più quella di Giovanni da Verrazzano a Francesco I - si collocano le tre lettere manoscritte del Vespucci a Lorenzo di Pierfrancesco de' Medici, e quelle del Corsali a Giuliano e Lorenzo di Piero, dove il destinatario è un signore, col quale però chi scriveha avuto o ha rapporti amichevoli. La forma epistolare ebbe una certa fortuna per tutto il Cinquecento e versola fine del secolo trovò l'espressione più perfetta nelle lettere dall'India di Filippo Sassetti.
Un'altra forma di relazione di viaggio è il diario. Il suo prototipo è il Giornale di bordo colombiano. Anche se non ci sono pervenuti altri esempi di diari di bordo prima di questo, non v'è dubbio che essi erano una consuetudine per i naviganti. La novità del Giornale di Colombo sta nel fatto che essonon è solo un diario di navigazione, ma esteso a tutto il periodo della permanenza nel Nuovo Mondo, registra con immediatezza gli avvenimentiche seguirono la scoperta e i mutevoli stati d'animo del suo autore. Anche Antonio Pigafetta, criado di Magellano, racconta la prima circumnavigazione del globo in forma di diario.
Infine viè la relazione di viaggio vera e propria, scritta cioè espressamente per essere divulgata. Per molti aspetti essa si ricollega alla letteratura odeporica medievale, spesso rifacendosi ancora al modello poliano. Questa è la forma che si presta alle maggiori varianti, come dimostra per esempio l'Itinerario del Vartema, le cui avventure riecheggiano talvolta quelle della novellistica islamica, o il Viaggio del Federici e quello del Balbi, in cui la relazione diventa uno strumento pratico di informazione. Secondo il catalogo dell'Amat di San Filippo, sarebbero poco meno di un centinaio - ma il numero è certamento sottostimato - gli Italiani che viaggiarono in diverse parti del mondo tra il 1492 e la fine del Cinquecento eche hanno lasciato una traccia scritta della loro esperienza. Anche se escludiamo i grandi esploratori, resta perciò sempre una folta schiera di viaggiatori, autori di interessanti relazioni. Si comprende dunque come la scelta per questa antologia non sia stata facile. Il criterio a cui mi sono attenuta è stato quello di dare una visione panoramica abbastanza ampia della attività, e insieme degli interessi e delle capacità narrative dei viaggiatori italiani del Cinquecento. Compaiono così accanto ai nomi di Colombo, Vespucci, Verrazzano - i tre grandi navigatori che assieme a Giovanni Caboto, del quale purtroppo non c'è pervenuto alcuno scritto, scoprirono quasi per intero le coste orientali del Nuovo Mondo - e accanto a quelli di coloro che, per lo più per motivi di commercio, visitarono l'Asia prima o dopo i Portoghesi, da Ludovico de Vartema al Federici e al Balbi, anche quelli di parecchi personaggi di secondo piano, tuttora poco noti. Mi auguro che proprio questi possano costituire una piacevole sorpresa per il lettore.