scoraggiamento
Fenomeno che si verifica sul mercato del lavoro, soprattutto in corrispondenza di fasi di contrazione della domanda, che porta alcuni individui disoccupati a interrompere l’attività di ricerca dell’impiego. In periodi recessivi, infatti, i posti disponibili sono probabilmente poco attraenti, sia per aspetti retributivi sia per condizioni lavorative, e il loro ottenimento richiede lunghi e costosi processi di ricerca (➔ anche lavoro, teoria della ricerca di). Ciò potrebbe indurre una parte dei disoccupati, detti lavoratori scoraggiati, a smettere di cercare un’occupazione. Lo s. trova diffusione soprattutto tra i giovani, che possono decidere di continuare a studiare anziché cercare occupazione, e le donne, che scelgono di svolgere solo il lavoro domestico.
Il fenomeno ha rilevanti implicazioni sul calcolo del tasso di disoccupazione (➔ disoccupazione, tasso di), che viene misurato considerando disoccupati solo gli individui attivamente in cerca di occupazione. I lavoratori scoraggiati risultano pertanto esclusi dal computo. Poiché il fenomeno dello s. è più rilevante in fasi recessive, la disoccupazione sembra diminuire in tali periodi proprio perché aumenta il numero di persone che rinunciano a cercare lavoro (e, uscendo dal mercato, non vengono contabilizzate come disoccupati), nutrendo ridotte speranze nella possibilità di trovarlo. Per questo motivo, l’ufficio statistico dell’Unione Europea (➔ Eurostat) ha recentemente concordato con i Paesi membri la diffusione di alcuni indicatori complementari al classico tasso di disoccupazione, in particolare riferiti a due segmenti di inattivi (chiamati forze di lavoro potenziali, ➔ non forze di lavoro): gli individui che non cercano attivamente un’occupazione, ma sono disponibili a lavorare, e le persone che cercano lavoro ma non sono subito disponibili. Nell’ambito del primo gruppo, si definiscono scoraggiati coloro che non cercano un impiego perché convinti di non poterlo trovare. L’analisi congiunta dei tassi di disoccupazione e di inattività consente di fare emergere l’importanza della connessione tra i due indicatori nell’analisi del mercato del lavoro. È difatti molto labile il confine tra coloro che, in accordo con le convenzioni statistiche internazionali, vengono classificati come disoccupati e gli inattivi, in particolare quelli più vicini alle forze di lavoro. Di conseguenza, livelli più contenuti del tasso di disoccupazione possono associarsi a incidenze più elevate dell’inattività, sostenuta dall’espansione di fenomeni di scoraggiamento.
In Italia, gli individui che non cercano un lavoro con sufficiente intensità da poter essere classificati come disoccupati (facendo almeno un’azione attiva nelle 4 settimane precedenti quella di riferimento dell’indagine) ma sono comunque disponibili a lavorare entro due settimane erano pari, nella media del 2010, a 2.764.000 unità, l’11,1% delle forze di lavoro (la media europea è pari al 3,5%, con valori molto più contenuti per Paesi quali la Francia, 1,1%, o la Germania, 1,3%). Di essi, il 42% non cercava lavoro perché convinto di non potere trovare un impiego, era cioè scoraggiato. La quota degli individui disponibili a lavorare ma in cerca di occupazione risultava particolarmente elevata tra le donne (nella media del 2010, il 16,6% delle forze lavoro femminili, a fronte del 7,2% degli uomini), i giovani tra i 15 e i 24 anni (30,9% delle forze lavoro di età corrispondente), nel Mezzogiorno (26,6%, contro il 4,1% del Nord) e tra i meno istruiti (17,3% per titoli fino alla licenza media, contro il 4,8% fra i laureati).