Scoto Eriugena e l'inizio della filosofia cristiana
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Giovanni Scoto Eriugena raccoglie, nella sua produzione, gli stimoli culturali di tutto l’alto Medioevo. Attento lettore delle Scritture, conoscitore della letteratura patristica, tanto latina quanto greca, ed esperto nelle arti liberali, Giovanni Scoto produce l’ultima grande sintesi speculativa del primo millennio, frutto della lenta ma costante evoluzione del sapere teologico altomedievale.
Giovanni Scoto Eriugena
Su filosofia e religione
De praedestinatione liber
Cosa altro è la filosofia se non l’esporre i principi della vera religione, con la quale viene umilmente venerata e razionalmente investigata la somma e principale causa di tutte le cose, Dio? Bisogna dunque concludere che la vera filosofia è la vera religione, e, viceversa, che la vera religione è la vera filosofia.
Giovanni Scoto Eriugena, De praedestinatione liber, in Dialettica e teologia all’apogeo della rinascenza carolingia, trad. it. E. Mainoldi, Firenze, SISMEL, 2003
Giovanni Scoto Eriugena
Le quattro nature
Periphyseon, Libro I, 442 A
Mi sembra che la divisione della natura ammetta quattro differenze e quattro specie, delle quali la prima consiste nella natura che crea e non è creata, la seconda nella natura che crea ed è creata, la terza nella natura che è creata e non crea, la quarta nella natura che non crea e non è creata.
Giovanni Scoto Eriugena, Periphyseon, in Filosofia medievale, a cura di M. Bettetini, L. Bianchi, C. Marmo, P. Porro, Milano, Raffaello Cortina, 2004
Giovanni Scoto Eriugena
Bontà divina
Periphyseon
Sarei propenso a credere che con il nome nulla si possa indicare la brillantezza della bontà divina, ineffabile, incomprensibile ed inaccessibile, insondabile per ogni intelletto umano ed angelico – è infatti superiore all’essenza ed alla natura –; tale bontà mentre è pensata in se stessa, non è, non era e non sarà in quanto superando ogni realtà non può essere colta in nessuna delle cose che esistono.
Giovanni Scoto Eriugena, Periphyseon, in Filosofia medievale>, a cura di M. Bettetini, L. Bianchi, C. Marmo, P. Porro, Milano, Raffaello Cortina, 2004
Giovanni Scoto Eriugena
L’aquila spirituale
Omelia super Prologum Iohannis, I, 1-2
La voce dell’aquila spirituale risuona all’orecchio della chiesa. […] Voce del volatile delle altitudini, che vola non solo al di sopra dell’elemento fisico dell’aria, o dell’etere, o del limite stesso dell’universo sensibile nella sua totalità, ma arriva a trascendere ogni "teoria", al di là di tutte le cose che sono e che non sono, con le ali veloci della più inaccessibile teologia, con gli sguardi della contemplazione più luminosa ed elevata.
Giovanni Scoto Eriugena, Omelia sul Prologo di Giovanni, trad. it. M. Cristiani, Milano, Lorenzo Valla, 1987
Scarsissime sono le informazioni sulla vita del personaggio noto, secondo una imprecisa tradizione, come Giovanni Scoto Eriugena. L’aggettivo Scotus indica una chiara origine irlandese, legata cioè all’antica Scotia; lui stesso ama definirsi Eriugena, per ricordare il suo paese d’origine (Eriu indica infatti in lingua celtica l’Irlanda).
L’etimologia simile dei due termini rende dunque preferibile la dizione "Giovanni Scoto". Unica data certa nella frammentarietà dei suoi dati biografici è l’851, anno in cui viene chiesto il suo intervento nella disputa sulla predestinazione divina. Dopo la stesura, per l’occasione, del De praedestinatione liber, Giovanni Scoto si dedica alla traduzione dal greco in latino del corpus areopagiticum, per sostituire la versione incerta redatta da Ilduino di Saint Denis. L’opera di traduttore non si limita ai testi dello Pseudo Dionigi; negli anni successivi, Giovanni Scoto si dedica agli Ambigua ad Johannem e alle Quaestiones ad Thalassium di Massimo il Confessore, e al De opificio hominis di Gregorio di Nissa. Tutte le traduzioni, come i Carmina, vengono dedicate al nipote di Carlo Magno, il sovrano Carlo il Calvo, del quale Giovanni Scoto è maestro di palazzo; ben più impegnativa, sul versante teoretico e teologico, è la stesura dei cinque libri del Periphyseon, che costituisce la summa del pensiero eriugeniano. Negli ultimi anni prima della morte, che presumibilmente è da collocarsi tra l’870 e l’880, Giovanni Scoto si dedica alla stesura di opere esegetiche: commenta parte del corpus dionisiano che aveva tradotto (Expositiones in Hierarchiam caelestem), e dedica al Vangelo di Giovanni una Omelia (sul Prologo), e un Commentarius, pervenutoci incompleto, probabilmente interrotto dalla morte dell’autore.
Ciò che colpisce il lettore anche occasionale che si accosti alle opere di Giovanni Scoto è la grande plurivocità di stimoli rintracciabili nella sua formazione. È evidente, nello stile come nei contenuti dei suoi scritti, una forte influenza di tutta la tradizione patristica latina, in particolar modo agostiniana e, in piena armonia con il paradigma pedagogico comune a tutta l’età carolingia, una particolare attenzione per il Testo Sacro.
Giovanni Scoto, che spesso è stato isolato nella storia della filosofia medievale come unica voce originale e degna di nota nell’intero secolo nono, condivide invece con gli intellettuali che vivono nell’Europa governata da Carlo Magno e dai suoi eredi un comune bagaglio di competenze tecniche derivanti dalla tradizione greco-romana, una costante attenzione alla preservazione e alla diffusione della cultura patristica e un pervicace desiderio di affermare la centralità della lettura della pagina sacra su qualsivoglia altra attività e metodologia.
Come tutti i teologi carolingi, in subordine alla conoscenza della Bibbia, Giovanni Scoto studia dunque le opere dei più importanti Padri della Chiesa, dal già citato Agostino a Girolamo, da Ambrogio a Ilario di Poitiers, e al contempo si presenta come un retore elegante, conoscitore della grammatica e abile architetto di argomentazioni dialettiche, che rispecchiano, nel suo sistema, l’impalcatura al contempo logica e metafisica di tutto il creato. L’originalità speculativa di Giovanni Scoto risiede infatti non solo in una altissima cifra teoretica personale, ma anche nella capacità di unire questo bagaglio culturale, ereditato dal secolo carolingio che lo aveva preceduto, con il lessico di una tradizione che non aveva fatto il suo ingresso, sino ad allora, nell’Occidente latino: la speculazione teologica bizantina. Proprio dalla sua opera di traduzione dello Pseudo Dionigi e di altri scritti dei Padri greci, Giovanni Scoto trae un linguaggio e una prospettiva filosofica che rafforzano l’idea, già delineata da Agostino e ripresa dai Carolingi, che esista un ordine generale del creato, posto da Dio e parzialmente intelligibile dagli uomini impegnati nella ricerca della sapienza. L’universo viene così descritto, con sfumature diverse nelle diverse opere di Giovanni Scoto, come una macchina perfettamente coerente e ordinata al fine di congiungere il creato al Creatore, in un conclusivo ritorno all’unità.
La prima testimonianza dell’attività di Giovanni Scoto è, come detto, anche l’unica databile con certezza. Nell’851, Incmaro di Reims e Pardulo di Lione chiedono infatti a Giovanni Scoto di intervenire in una disputa che già da diversi anni impegnava i maggiori teologi del tempo.
Godescalco d’Orbais, monaco ribelle alla disciplina conventuale ma di grande ingegno e di ampia erudizione, aveva difeso in alcuni scritti la teoria della gemina praedestinatio divina: utilizzando la particolarità dell’aggettivo, di numero singolare ma di significato plurale, Godescalco vuole suggerire che, pur mantenendosi unica, la predestinazione divina fosse, negli effetti, duplice: dei buoni alla salvezza e dei malvagi alla perdizione.
L’intervento di Giovanni Scoto, sollecitato a contrastare queste tesi di Godescalco, non si limita a una elencazione di passi scritturali o di autorità patristiche dalla quale evincere l’infondatezza della tesi del suo avversario, come invece spesso accadrà nella letteratura apologetica d’età carolingia. L’impegno e le competenze profusi nella stesura dei diciannove capitoli del De praedestinatione liber, composto per l’occasione, rappresentano infatti una prima testimonianza delle capacità tecniche e speculative del teologo irlandese.
Sin dall’inizio dell’opera, e sulla scorta della riflessione di Agostino in materia, Giovanni Scoto chiarisce che non c’è differenza tra vera religio e vera philosophia: se infatti si crede che unica è la fonte di ogni verità, tutto ciò che di vero si ritrova nella propria ricerca non può che essere originato da Dio, purché si rispettino le regulae di ogni disciplina e in ogni esegesi. Ciò implica che, correttamente applicate, le norme del ragionamento indicate dallo studio delle arti liberali possono essere adoperate anche nel discorso teologico. Su questa assunzione di principio, Giovanni Scoto costruisce una duplice argomentazione contro Godescalco. In primo luogo, la razionalità umana rifiuta la doppia predestinazione perché essa implica la violazione del principio di non contraddizione: se Dio è uno e semplice, non può infatti ammettere nella sua sostanza la duplicità della predestinazione di cui parla Godescalco. In secondo luogo, la possibilità, concessa da Dio alla ragione umana, di indagare anche temi teologici mostra quanta sia la dignità di questa facoltà; ma, se Dio avesse già predestinato tutti, buoni e malvagi, l’uomo non potrebbe più scegliere secondo l’arbitrio, che invece è proprio il coronamento dell’attività razionale.
La particolarità di queste argomentazioni, condotte secondo un rigoroso procedimento argomentativo e non per semplice giustapposizione di autorità patristiche e scritturali, non ha permesso che il De Praedestinatione liber ricevesse la considerazione che avrebbe meritato. L’utilizzo della dialettica e la ricchezza dell’argomentazione eriugeniana inducono infatti anche coloro i quali l’avevano commissionata a ritenere che l’opera non solo fosse poco efficace nel contrastare le idee di Godescalco, ma rischiasse anche di tramutare un problema schiettamente teologico, da risolversi cioè con il semplice ausilio delle autorità patristiche e scritturali, in un tema di speculazione dialettico-razionale.
Lo scarso successo dell’opera non pregiudica però il prestigio di Giovanni Scoto a corte; pochi anni dopo, Carlo il Calvo gli affida infatti la nuova traduzione del corpus areopagiticum. Il padre del sovrano, Ludovico il Pio, aveva infatti ricevuto in dono nell’827 dall’imperatore di Bisanzio Michele Balbo un codice contenente opere attribuite a Dionigi, identificato come il greco che negli Atti degli Apostoli viene convertito dal discorso tenuto da san Paolo all’Areopago di Atene, simbolo dunque, nell’immaginario medievale, della razionalità filosofica ellenica piegatasi alla rivelazione. Ilduino, abate di Saint-Denis, si era assunto il compito di tradurre il corpus, anche per mostrare come Dionigi, attraverso un lungo e difficilmente credibile percorso, fosse diventato quel Denis fondatore del monastero alla guida del quale si trovava lo stesso Ilduino (solo in epoca moderna la presenza nel linguaggio dionisiano di temi procliani ha dimostrato che la datazione del corpus risale al V secolo). La traduzione di Ilduino non era però soddisfacente, così Carlo il Calvo chiede a Giovanni Scoto, noto per essere tra i pochi suoi contemporanei ad aver dimestichezza con il greco, una nuova versione latina. L’universo disegnato dal corpus areopagiticum ha connotazioni fortemente neoplatoniche: strutturato secondo gerarchie nelle quali a ogni grado corrisponde una diversa dignità gnoseologica e ontologica, il creato appare nel linguaggio dionisiano come una complessiva manifestazione ordinata di Dio (teofania).
Il corpus consta di cinque parti (nelle quali è compresa una raccolta di lettere), che affrontano l’analisi della gerarchia celeste (De coelesti hierarchia) e di quella ecclesiastica (De ecclesiastica hierarchia).
L’universo, così descritto, mostra chiaramente l’ordine impostogli da Dio, alla cui trascendenza non è possibile giungere con nomi affermativi e descrittivi (De divinis nominibus), ma attraverso un linguaggio apofatico (De mystica theologia), nel quale Dio è descritto negando gli attributi che comunemente indicano gli enti. La lettura e la traduzione del corpus di scritti attribuiti a Dionigi genera dunque in Giovanni Scoto e, per il suo tramite, nella cultura occidentale una precisa e rigorosa visione dei rapporti tra Creatore e creatura; la conoscenza delle altre fonti greche, come Massimo il Confessore e Gregorio di Nissa, corroborarono questa formazione. Giovanni Scoto rinsalda infatti grazie alle loro opere la convinzione che tanto la natura quanto la Parola sacra siano i due luoghi di manifestazione di Dio nel mondo, e che esse debbano essere ripercorse dagli uomini, in senso inverso, per ricostituire una unità semplice con Dio, una deificatio finale nella quale non fosse più possibile alcuna distinzione tra soggetto conoscente e oggetto conosciuto.
Questo complesso insieme di suggestioni e stimoli culturali si traduce, nella fase finale della produzione di Giovanni Scoto, nella stesura di opere pervase da un densissimo misticismo, ma non per questo prive del supporto di tutta la strumentazione logico dialettica che costituiva elemento imprescindibile dell’identità culturale eriugeniana. Il Periphyseon, termine greco che indicherebbe una discussione "sulle nature", costituisce in tal senso l’ambizioso progetto della ricerca di una nozione che possa tenere insieme tanto ciò che può essere colto con la mente, vale a dire le creature, quanto ciò che invece supera le capacità intellettive umane, vale a dire Dio.
L’opera si sviluppa in cinque libri, che contengono un serrato dialogo tra un maestro (nutritor) e un allievo (alumnus). L’indagine che ne caratterizza il confronto è volta a individuare i termini con i quali è possibile parlare, al contempo, di Dio e delle creature. Il nutritor, nell’esordio dell’opera, suggerisce che il termine "natura" appare l’unico in grado di assolvere a questa funzione. Il concetto di "natura", infatti, colto nell’immediatezza di tutto ciò che è compreso nel suo spettro semantico, ha le caratteristiche di una intuizione assunta nella sua evidenza indimostrata: senza ulteriori riflessioni, sembra infatti immediatamente riferito all’insieme di tutto ciò che esiste. Se invece si tenta di analizzarlo con un’argomentazione razionale, esso perde la sua semplicità, e deve essere analizzato puntualmente nei suoi elementi costitutivi. Da un punto di vista aristotelico, il termine "natura" è infatti un genere; come tale, può essere suddiviso in specie. Al credente viene in soccorso la Bibbia che, nel suo primo versetto, chiarisce immediatamente i termini della relazione (e dunque della differenziazione) tra il genere e la specie: Creatore e creature sono uniti (o, per un altro verso, sono divisi) proprio dal concetto di "creazione", talché la natura verrà distinta a seconda del suo essere parte attiva o passiva nel processo creativo.
Diviso secondo questo aspetto, il genere "natura" verrà quadripartito: una prima natura, che crea e non è creata; una seconda, che crea ed è creata; una terza, che non crea ed è creata; una quarta, infine, che non crea e non è creata. La natura che crea e non è creata è evidentemente Dio, a cui è dedicato il primo libro del Periphyseon. Mettendo a frutto la competenza linguistica e teologica acquisita nella traduzione degli scritti dello Pseudo Dionigi, Giovanni Scoto illustra le difficoltà che la parola umana incontra nel parlare di Dio: risulta infatti impossibile descriverlo in termini affermativi, ma, a ben vedere, appare improprio anche parlarne apofaticamente, perché negare un attributo di Dio sembra quasi volerne affermare un limite. È dunque necessario, conclude Giovanni Scoto, giungere a una terza teologia, né semplicemente affermativa, né soltanto negativa, ma superlativa: Dio è superiore a ogni umana attribuzione di senso, e dunque oltrepassa integralmente le possibilità descrittive del linguaggio.
L’uomo ha dunque dinanzi a sé due strade per parlare di Dio: o quella appena indicata, vale a dire seguire una teologia che superi ogni qualificazione positiva e negativa, o affidarsi ai segni che Dio ha lasciato nel mondo. La Scrittura e la natura, infatti, sono manifestazioni del Creatore, presente nelle prime come fonte di ispirazione, e nella seconda come teofania. L’universo creato è infatti manifestazione di Dio, pur essendo, nella sua materialità, frutto di una condizione di decadimento. La prima, vera creazione è infatti avvenuta, prima dei tempi, nell’Intelletto divino, nel Verbo, in quella seconda natura creata da Dio ma a sua volta creante, perché contenente le nozioni di tutte le cose. Anche l’uomo, prima del peccato originale, era una nozione nella mente divina; decaduto da questa condizione per non aver voluto rimanere fedele al suo creatore, ha implicitamente posto le condizioni per la nascita del mondo fisico, che appare a Giovanni Scoto, sulla scorta di Gregorio di Nissa, un teatro predisposto a tal scopo da Dio. Il fine dell’essere umano, terza natura che è creata e non crea, è dunque il ritorno (redditus) a quella condizione originaria di unità con Dio. Solo allora, nella perfezione di una unità ricomposta, avrà senso la quadripartizione eriugeniana, conclusa dalla quarta natura che coincide con Dio alla fine del processo descritto nella Genesi, ovviamente non creato ma non più creante.
La speculazione del Periphyseon appare così in tutto il suo valore, capace di tenere insieme e rendere omogenee tre istanze culturali diverse: la tradizione patristica latina, che nella prima età carolingia era stata risistematizzata ed eretta a colonna della formazione cristiana; la teologia greca, con la sua ricchezza di temi e di linguaggi; l’ambito delle Scritture, al cui interno, se pur con grande originalità, Giovanni Scoto si muove costantemente. Le competenze sviluppate dal teologo irlandese, infatti, si muovono sempre in un ambito delimitato dal Testo Sacro, che spesso, secondo un preciso riferimento al lessico dello Pseudo Dionigi, viene indicato come la vera teologia. Il corpus dionisiano costituisce per Giovanni Scoto una fonte di ispirazione e un ricchissimo repertorio di immagini originali e profane. Nello Pseudo Dionigi è fortissima la presenza dell’idea dell’infinità di Dio, dalla quale trae origine un linguaggio teologico che necessariamente non deve cedere alla tentazione di descrivere Dio in termini impropri. Ogni affermazione, infatti, è una negazione del suo contrario; ogni attributo che si può predicare di Dio, anche il più positivo, implica che si neghi il suo contrario: affermare che Dio è grande, significa implicitamente sostenere che non è non-grande, e dunque che in qualche misura la sua infinità è compromessa.
Acquisisce così nelle parole dello Pseudo Dionigi un valore particolare la tensione continua dell’uomo alla conoscenza di Dio, aspirazione inesaudibile ma necessaria, perché è implicita nella stessa struttura del creato, manifestazione e immagine della divinità. Ogni creatura, pur mostrandosi nell’umbratilità tipica della materia, ha infatti in sé qualcosa della luce del suo creatore, e dunque a esso rimanda. Per questo motivo, le gerarchie che costituiscono, nei cieli e sulla terra, l’ordinamento complessivo del creato, quella celeste e quella ecclesiastica, vengono descritte dallo Pseudo Dionigi, e colte nella traduzione da Giovanni Scoto, come l’immagine di quella manifestazione. Essa viene rappresentata impropriamente dal linguaggio umano, che, con i suoi limiti, riesce ad affermare per speculum qualcosa del Creatore solo meditando sulle parole scritturali da Lui ispirate. Così, nelle Expositiones in Hierarchiam coelestem, commentando cioè uno dei più alti trattati dello Pseudo Dionigi, Giovanni Scoto si riferisce alla pagina sacra, con le sue simbologie, le metafore, le immagini allegoriche, come a un supporto, utile agli uomini per sollevarsi oltre l’intelligenza letterale, e giungere a una fede purificata. Le Scritture rappresentano un viatico verso la conoscenza della Verità, che si è rivelata nelle parole dei profeti e degli evangelisti come nelle varie parti della natura, vestigia di Dio e sue manifestazioni.
Il rapporto con il Testo Sacro è dunque, in Giovanni Scoto come in tutta la tradizione medievale, di fondamentale importanza; lo mostra con evidenza la lettura di alcune tra le più belle pagine composte dal teologo carolingio, dedicate alla figura e all’opera dell’evangelista Giovanni, aquila spiritualis la cui voce risuona all’orecchio della comunità dei credenti, colpita tanto dal suono quanto dalla sostanza delle parole evangeliche.
Nel commento al Prologo di Giovanni, il pensiero eriugeniano coniuga le vette speculative del Periphyseon con l’opera esegetica, producendo alcune tra le più ardite e affascinanti immagini della mistica altomedievale. Giovanni Scoto segue infatti nella sua evoluzione il percorso di san Giovanni l’evangelista, descritto, sin dalle prime pagine dell’Omelia, come il simbolo di una conoscenza superiore, intellettiva, l’uomo al quale è stato concesso l’onore di giungere intuitivamente alla verità, senza passare per le argomentazioni tipiche della struttura razionale del pensiero. San Giovanni l’evangelista si innalza infatti oltre ogni cielo creato e oltre ogni intelletto umano, per giungere a quel grado di conoscenza ultimo nel quale non c’è più distinzione alcuna tra ciò che conosce e ciò che è conosciuto; il diventare Dio, la deificatio dell’evangelista ripercorre a ritroso ed in senso opposto il mistero dell’incarnazione di Cristo, e lo porta a un livello di conoscenza negato a qualsiasi altro essere umano. Così, nell’ Omelia, come sarà anche nel Commentarius al quarto Vangelo, Giovanni Scoto indica nella fede il primo livello attraverso il quale accostarsi al Testo Sacro e, di conseguenza, alla conoscenza teologica, che può dirsi compiuta solo nell’identificazione intellettuale con Dio.
Il sistema di Giovanni Scoto, complesso e affascinante, e proprio per questo spesso sospettato, nei secoli del Medioevo, di prossimità con l’eresia, è dunque una raffinata e ricchissima narrazione della storia del creato e dell’umanità, che muove dal momento della prima, vera creazione di tutto nel Verbo, giunge sino alla caduta di Adamo e alla nascita della corporalità, e prospetta, seguendo i gradi della gerarchia teofanica che Dio stesso ha posto nell’universo, il ritorno a quella originaria e semplice unità del principio.