scripta
Con speciale riferimento all’Europa medievale romanza, si indica con il nome di scripta il sistema, diverso da una zona all’altra, con cui si rende nella scrittura la lingua: tali forme di realizzazione grafica sono composite (Remacle 1948: 150) sia a causa dell’intrinseca eterogeneità dei sistemi linguistici che riflettono, sia perché in esse si intersecano correnti linguistiche diverse, che producono ‘normali’ oscillazioni interne.
Più elaborata del parlato e non meccanicamente coincidente con questo, la scripta va esaminata con appropriate metodologie, che tengano conto del complesso di condizioni che vi agiscono. Spesso accostata alla ➔ koinè, la scripta se ne differenzia perché la spinta uniformante vi si esercita più per via negativa, cioè per sottrazione di tratti locali, che in positivo, mediante la creazione intenzionale di un modello comunicativo.
Negli ultimi sessant’anni, gli studi di scriptologia (così chiamiamo per convenzione la ricerca, variamente orientata, sulle scriptae medievali) si sono fondamentalmente concentrati sul territorio francese, interessando diverse regioni linguistiche, sia di lingua d’oïl sia di lingua d’oc. L’eccezionale abbondanza di studi ha consentito a Pfister (2002) di tracciare un quadro convincente, fondato sull’analisi di serie analitiche di tratti, della formazione e della vitalità delle varie scriptae regionali dell’area galloromanza; per carenza di documentazione e di studi, un’impresa analoga sarebbe ancora oggi impossibile per l’italoromanzo (come constatato già da Sabatini 1968, rist. 1996: 262, nota 96).
Nondimeno, pur nella obiettiva differenza di condizioni, anche l’area italiana presenta un numero non irrilevante di scritti sull’argomento, da cui deriva una conoscenza delle diverse situazioni storico-culturali da considerare nel complesso soddisfacente, pur se inegualmente distribuita sul territorio. Nello stesso tempo si possono ormai delineare con sufficiente chiarezza gli obiettivi che una auspicabile nuova stagione di studi permetterebbe di raggiungere.
Entrando nello specifico, ogni scripta italiana (amministrativa o letteraria) è un composto non omogeneo, dinamico e variabile nel tempo, in cui confluiscono e coesistono elementi di varia origine: (a) la tradizione locale; (b) tradizioni sovralocali, provenienti dall’area linguistica egemone (la Toscana) o da altri centri dotati di capacità irradiante; (c) tradizione culta e latineggiante. In qualche caso possono anche darsi varianti e forme miste prodotte da interferenza e osmosi tra i diversi filoni indicati ai punti precedenti, ma si tratta di coniazioni perlopiù effimere che non caratterizzano la scripta.
Nel sistema scrittorio di qualsiasi varietà linguistica storico-naturale la corrispondenza tra fonemi e grafemi non è biunivoca (➔ alfabeto). Questo accade solo nei sistemi di trascrizione fonetica artificialmente costruiti (l’IPA o altri), nei quali a un fonema corrisponde sempre un unico grafema di valore certo. Nei sistemi reali, per es., nell’italiano contemporaneo, da un lato un medesimo grafema può rappresentare due fonemi diversi: ‹c› rappresenta sia /k/ come in casa che /ʧ/ come in cena; dall’altro lato più ➔ allografi, cioè realizzazioni grafiche diverse, rappresentano graficamente il medesimo fonema: /k/ viene reso con ‹c› quando è seguito da vocale centrale o posteriore come in casa e in collo, con ‹ch› quando è seguito da vocale anteriore come in chi e in che. Analogamente, nelle scriptae medievali non è sempre chiaro quale fonema si celi dietro una determinata realizzazione scritta, in particolare quando si tratti della resa grafica dei fonemi romanzi innovanti rispetto all’inventario fonematico della lingua latina (come le consonanti ➔ palatali, ➔ fricative, ➔ affricate, ➔ nasali, ➔ laterali) e quindi non dotati di una rappresentazione grafica tradizionale, consolidata nel tempo e tendenzialmente stabile.
Misuriamo ora la portata di queste affermazioni nelle diverse aree in cui il territorio italiano è divisibile sotto il profilo scriptologico; la situazione, a nord e a sud, pare diversa da quella della Toscana.
Lo studio delle varietà medievali toscane inizia già alla fine dell’Ottocento e ha prodotto buone e numerose edizioni di testi documentari; gli studi del secolo successivo annoverano contributi fondamentali di Schiaffini, Castellani e degli allievi di quest’ultimo, che permettono una conoscenza molto analitica della Toscana, basata su esplorazioni approfondite anche delle periferie, circostanza che rende la regione una delle meglio conosciute dell’intera Romània (Serianni, in LRL 1989-2005, II, 2: 135-136). Il confronto tra la situazione francese e quella, «cristallina», della Toscana e in genere dell’Italia centrale ha permesso a Castellani (1991, rist. 2010: 27-28) di escludere la presenza in questa vasta area italiana di fenomeni scriptologici analoghi a quelli rilevati nel dominio galloromanzo; da noi inoltre, «data la quasi immobilità fonetica, attraverso i secoli, dei dialetti toscani e mediani, si hanno ottime basi per interpretare con sicurezza le grafie di tali testi».
Anche per la grafia, come per gli altri livelli della lingua, quello toscano è il modello dominante nel panorama nazionale e in linea di principio risulta poco esposto a influenze esterne. Di conseguenza, più che cercare nella tradizione scrittoria della regione singoli tratti o tracce che rinviino alla presenza di elementi non toscani, converrà rivolgere l’attenzione alle modalità di creazione e di strutturazione interna della scripta. Analizzando il duecentesco corpus dei Testi fiorentini di Schiaffini, Alinei (1984a) ha potuto chiarire la genesi del modello scrittorio adottato dai primi amanuensi fiorentini: questi scribi hanno saputo creare un sistema funzionale ed equilibrato tra le contrapposte esigenze, in grado di rappresentare appieno la nuova realtà fonologica romanza sulla base della preesistente tradizione grafica latina. Simili affermazioni non vanno interpretate troppo rigidamente. Ad es., se analizziamo la realizzazione scritta di un fonema come /ɲ/, ‘difficile’ per le ragioni che si chiariranno meglio nel § 5, si vedrà che una discreta variazione caratterizza anche la scripta toscana: un lemma come castagno risulta scritto, nei vari testi, anche come castagnio, castangnio, castangno, chastanio (cfr. per questo la voce del TLIO).
Nello stesso tempo non mancano in Toscana (in aree specifiche o in determinati momenti storici) tentativi non sporadici, e quindi significativi, di rappresentare graficamente distinzioni ortofoniche non travasate nel sistema grafico italiano, che pure è fondamentalmente ricalcato su quello toscano medievale; inoltre, talvolta in quest’ultimo affiorano grafie particolari, anch’esse non trasferite nel sistema nazionale, in grado di caratterizzare i testi geolinguisticamente e culturalmente. Si veda la consuetudine pisano-lucchese di ‹z› o ‹ç› per l’alveolare fricativa sonora /z/ di contro alla grafia ‹s› per la sorda, documentata a partire dal 1175 nelle didascalie delle formelle di Bonanno nella porta di S. Ranieri del Duomo di Pisa e copiosamente rappresentata nella sezione pisana del Canzoniere Laurenziano, il celebre codice guittoniano (Frosini 2001: 253-256); o anche la ricorrenza di ‹k› per l’occlusiva velare sonora /g/ nel primo testo volgare fiorentino, i Conti dei banchieri del 1211: Uki «Ughi», teckiaio «teghiaio» (Biffi & Maraschio 2009: 2817); o infine il particolare della ‹t› cedigliata (‹ţ›) per rendere la palatoalveolare affricata sorda /ʦ/ ricorrente in manoscritti due-quattrocenteschi (Coluccia 1975: 124) e l’adozione di ‹th› col medesimo valore di contro a ‹z› per la sonora /ʣ/, prima in area occidentale e successivamente anche in zona volterrana e pratese (Manni 1992). L’uso della grafia ‹h› per l’occlusiva velare sorda, rinvenuto in un testo grossetano-senese della seconda metà del XIV secolo e quindi passibile di essere interpretato come attestazione grafica della ➔ gorgia toscana, in realtà è documentato in manoscritti dal Duecento al Cinquecento (quasi sempre occultato nelle edizioni perché senza avvertire gli editori integrano la ‹c› supposta mancante) e inoltre in esempi epigrafici anche legati a contesti socio-culturali elevati e a committenza esigente, a conferma del fatto che non si tratti di grafia attribuibile a imperizia o a errore ma di tratto corrente nella scripta del tempo; più che con la gorgia toscana, potrebbe essere messo in relazione con esempi analoghi di area diversa o, forse più persuasivamente, potrebbe risultare dall’ipercorrezione di grafie come michi per mihi, nichil per nihil, largamente diffuse nel latino medievale (Coluccia 2002a: 116).
Come dimostra l’ultimo caso, trattando di documentazione remota bisogna stare attenti a non attribuire a una certa grafia un valore fonetico che in realtà essa non possiede, traendo conclusioni azzardate dal dato scorrettamente interpretato. Ad es., nel nome Anselmucho, documentato nel 1268-1278 a Lucca, il grafema ‹ch› non rappresenta (come è stato impropriamente sostenuto) l’occlusiva palatale sorda /ʧ/. Se l’interpretazione fosse esatta, in un documento autoctono toscano ricorrerebbe significativamente una scrizione non indigena, relativamente frequente negli antichi testi italiani settentrionali e ancora più usuale in quelli meridionali, siciliani e anche continentali. Ma la grafia rappresenta invece la pronuncia velare (Castellani 2000: 500, nota 55) ed è quindi del tutto consueta in zona.
La compresenza di modalità scrittorie di provenienza toscana e di tipo settentrionale, relativamente alla rappresentazione dei fonemi /ʧ/ e /ʤ/ nei testi lombardi, veneti e anche emiliani fino al Rinascimento è stata sottolineata da Ghinassi (1976), che rileva come l’affermazione del modello toscano nell’intera area sia avvenuta non in una sola fase, bensì attraverso progressivi incontri e compromessi con i sistemi locali già in uso.
All’illustrazione di alcuni aspetti del sistema grafico veneziano delle origini sulla scorta della più ampia raccolta documentale disponibile all’epoca, quella dei Testi veneziani editi da Stussi, è rivolto il lavoro di Alinei (1984b): gli scribi, particolarmente attenti alla realtà fonologica del proprio dialetto (in particolare nella resa delle consonanti degeminate, delle sorde intervocaliche lenite, degli sviluppi di /-li-/ primario e secondario), non esitano ad adottare proprie soluzioni grafiche anche in aperto contrasto con la tradizione latina (più di quanto non facciano i loro coevi colleghi fiorentini) e sembrano più interessati ad accogliere mode innovative provenienti dall’esterno che non a elaborare soluzioni all’interno del sistema ereditato.
Lo studio di Videsott (2009) costituisce il tentativo più coerente di analizzare la tradizione scrittoria di un’intera area geografica dalle prime attestazioni fino alla svolta rinascimentale, verificandone suddivisioni geolinguistiche e dinamiche storiche. Il lavoro ha l’obiettivo di delineare l’evoluzione della lingua scritta volgare non letteraria dell’Italia settentrionale fino al 1525, l’anno delle Prose di ➔ Pietro Bembo: a tale scopo vengono esaminati 2064 documenti, databili e localizzabili, dalla savonese Dichiarazione di Paxia del 1178-1182 alla Lettera di Federico Gonzaga a Francesco Gonzaga redatta a Mantova il 4 dicembre 1525. Si analizzano materiali provenienti da 31 diversi centri scrittori (da Genova a Udine), integrando con qualche documento paraletterario la scarsa documentazione disponibile per alcune località e, all’opposto, selezionando accortamente l’eccesso documentario proveniente da altri centri: viene così ricomposto un quadro testuale di grande estensione e di sicura affidabilità, esaminato sulla scorta di 320 differenti criteri grafici. Nel libro si censiscono le rappresentazioni grafiche dei diversi fenomeni latini ricorrenti nella intera documentazione scritta settentrionale e si paragonano le stesse alle soluzioni toscane:
(a) à lat. resa con ‹e› (sviluppo spontaneo), a fronte di tosc. ‹a› (per es., segra «sagra»);
(b) à lat. resa con ‹e› o ‹ae› (➔ metafonia), a fronte di tosc. ‹a› (per es., antiem «anziani»);
(c) -àtu / -àtae / -àtis lat. resi con ‹é›, ‹eda›, ‹ete›, a fronte di tosc. ‹ato›, ‹ata›, ‹ate› (per es., vardé «guardate»); ecc.
I risultati ottenuti possono essere analizzati nella loro evoluzione storica, area per area e fenomeno per fenomeno: si può misurare così la successione diacronica e la distribuzione geografica di ogni singola soluzione documentata nelle scriptae, accertandone vitalità ed estensione territoriale, e si possono operare prudenti raffronti con la situazione dialettale moderna.
A titolo esemplificativo, ecco il riepilogo di un unico fenomeno (Videsott 2009: 331-332):
In relazione alla resa di au lat. tonico nelle scriptae settentrionali è possibile distinguere tra grafie atopiche (‹au›, ‹o›, ‹ol›) e diatopicamente marcate (‹a›, ‹al›, [‹on› come in] ‹consa›), e inoltre tra arcaismi (‹au›, ‹a›: apice della frequenza nel I periodo) e innovazioni. In alcune scriptae sono presenti tutti gli esiti. Tra le innovazioni si afferma ‹o› [...], invece ‹al›, ‹ol›, [‹on› ...] raggiungono l’apice della loro frequenza nel III periodo e sono in seguito eliminate. La grafia ‹a› è invece documentata solo in modo marginale.
Parte integrante del lavoro, da consultare in maniera sinottica con il testo al quale si riferisce, è il consistente blocco, ragguardevole anche per la perizia tecnica di realizzazione, di cartine colorate variabili a seconda della cronologia e della distribuzione areale, che rappresentano efficacemente la fenomenologia della Padania scriptologica.
Se la zona napoletano-campana non presenta connotazioni particolari (a parte le consuete oscillazioni degli usi grafici che caratterizzano i testi di ogni regione d’Italia prima della standardizzazione o qualche grafema usato solo eccezionalmente), l’Italia meridionale estrema, continentale e insulare si caratterizza per la varietà molto accentuata di soluzioni grafiche che conferisce alle scriptae provenienti da queste regioni caratteristiche singolari.
La confluenza di tradizioni molteplici nel sistema grafico degli antichi testi meridionali trova un’efficace rappresentazione nella accentuata polimorfia nel quattrocentesco volgarizzamento salentino del Libro di Sidrac (Coluccia 1977), da cui emergono l’antieconomicità, la polivalenza e l’ambiguità strutturale del sistema. Segue la presentazione di pochi casi dal valore esemplare (altri se ne potrebbero aggiungere, ma non cambierebbe il risultato complessivo).
L’antieconomicità è misurabile dall’ampio numero di grafemi che concorrono a rappresentare un unico fonema (si considera solo la resa di /ʎ/, /ɲ/, /ʃ/):
fonema grafemi
/ʎ/ li / ly ll lly lgl lh lhy gl
/ɲ/ n ni / ny nn nni / nny ngn ngny gh ghi ghn ghny gn gni / gny
/ʃ/ s sc ss shi
La pluralità di grafemi, lungi dall’essere funzionale a una non equivoca resa grafica dei fonemi dell’antico salentino, si traduce invece in una certa ambiguità della lingua del testo, che non permette di definire esattamente il valore di alcuni segni grafici e rende insicura la lettura di alcuni lemmi. Ciò è illustrato da pichola, picholo, pichula, per cui non possiamo decidere a prima vista se ‹ch› rappresenti la velare o la palatale né in base ai suffragi forniti dalla fonetica storica né in forza di ragioni inerenti alla struttura grafematica del testo (possiamo, certo, ricorrere a raffronti con altri testi o altre situazioni, ma si tratta di ragionamenti per così dire ‘esterni’ al testo).
Tale situazione è tutt’altro che peculiare di quest’unico testimone. Come dimostrano studi più recenti, da un lato risultano confermate e meglio definite le tendenze strutturali che caratterizzano le scriptae delle regioni meridionali e dall’altro emergono particolari piuttosto interessanti. Tra questi ultimi merita di essere segnalato l’uso, eccezionale nel dominio italoromanzo, di ‹lh› per /ʎ/, documentato non sporadicamente in un nucleo di codici trascritti alla corte salentina di Angilberto del Balzo nell’ultimo quarto del XV secolo e dapprima considerato una sorta di stigma di quel periferico nucleo scrittorio aristocratico, che avrebbe tentato per tale via di elevare un fossile della prestigiosa tradizione provenzale a emblema della propria appartenenza politico-dinastica, filoangioina e antiaragonese. La presenza di questo grafema in un manoscritto del 1459 (agulha, colha «coglia, colga», terza persona del congiuntivo presente, folhe, pilhata, ecc.) geneticamente svincolato rispetto alla corte di Angilberto (Coluccia 2005: 151, nota 68) colloca questo reperto all’interno della gamma vasta di sperimentazioni grafiche che ebbero corso nelle regioni meridionali estreme fino alla standardizzazione cinquecentesca e posteriore.
A causa (o in virtù) della struttura marcatamente ‘autoctona’, ricca di tratti caratterizzanti, lo studio dei sistemi grafici meridionali è di grande importanza per la ricostruzione della storia linguistica. Nella grafia di protocolli e inventari notarili redatti in terra di Bari dalla metà del XV secolo in avanti, caratterizzata da consuetudini specifiche della zona apulo-barese con qualche propagginazione lucana, si individua la presenza di usi irradiati dal Salento; inversamente, in testi salentini quattrocenteschi abbiamo tratti che sottolineano la discesa di correnti grafiche dal nord della regione. Si registrano inoltre abitudini scrittorie comuni ai testi delle altre regioni meridionali estreme, indicative di collegamenti per così dire ‘orizzontali’, cioè diversamente orientati rispetto ai rapporti ‘verticali’ (tradizione locale ~ tradizione egemone) che si è soliti disegnare trattando di storia linguistica meridionale (Coluccia 1993: 75-81). Questo complesso di elementi dinamici testimonia il lento riorganizzarsi dei rapporti reciproci tra le diverse zone del territorio meridionale verso forme progressive di integrazione e configura l’esistenza di specificità autonome di fronte alla pressione del napoletano e, sullo sfondo, del toscano.
Nonostante la presenza di una documentazione abbondante e bene edita (fondamentalmente per merito della Collezione di testi siciliani dei secoli XIV e XV), non possediamo ancora uno studio sistematico sulle peculiarità grafiche del siciliano scritto, sulla sua periodizzazione e sulla variazione diatopica; va almeno ricordata la grafia ‹ch› per [ʧ], vera e propria bandiera delle scritture siciliane fino al Cinquecento avanzato, che ricorre anche – ma in percentuali più contenute e per periodi meno estesi – nei testi del Mezzogiorno continentale. La mancanza di uno studio così impostato (non solo per il sistema grafico ma per ogni livello della lingua) comporta che:
malgrado alcune speculazioni finora azzardate, specie in riferimento alla provenienza messinese di diverse opere letterarie, non siamo ancora in condizione di distinguere fondatamente tra varietà locali all’interno dell’area [...], senza che da ciò si debba dedurre che tali varietà non esistessero (Vàrvaro, in LRL 1988-2005, II, 2: 236).
Un catalogo ragionato della documentazione datata e localizzata, controllata direttamente sui manoscritti, è presupposto indispensabile perché possa delinearsi per l’intero dominio italoromanzo una sintesi che orienti sulla strutturazione interna e sulla fluttuazione delle grafie fino alla standardizzazione rinascimentale.
Perché l’obiettivo possa essere raggiunto sono necessarie due condizioni tra loro collegate:
(a) per alcune zone del nostro paese ancora carenti di adeguate affidabili edizioni di testi di un certo peso servono edizioni critiche, sia di singoli testi sufficientemente estesi sia di raccolte omogenee di testi;
(b) la veste grafica dei testi va integralmente rispettata, senza che l’editore ceda a illusorie sirene modernizzanti e uniformanti.
Una pratica editoriale rigorosamente rispettosa delle particolarità grafiche dei testi non risponde solo a criteri di maggiore consapevolezza ecdotica; per tale via, se diverrà regola normalmente praticata, potremo acquisire i materiali su cui costruire quella storia delle grafie italiane nel medioevo da più parti invocata ma allo stato delle cose ancora di difficile realizzazione proprio per insufficienza delle informazioni di base.
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