Scritti storico-politici
Le dottrine politiche dei primi decenni del Trecento sono segnate a Venezia da due personaggi, che finora non hanno ricevuto tutta l'attenzione che meritano. Due personaggi dalle vite parallele, che spesso si intrecciano e intersecano, quasi in un ricorrente gioco dei fatti e della sorte. Mi riferisco, ovviamente, a fra Paolino Minorita, autore di testi storici ma anche di un trattatello politico, e a Marin Sanudo Torsello il vecchio, che si fece banditore non tanto e non soltanto di una crociata, ma piuttosto di un vasto progetto di riassetto generale del Levante mediterraneo.
Grosso modo coetanei (dagli anni Settanta del Duecento agli anni Quaranta del Trecento) ebbero situazioni di vita diverse: ecclesiastico francescano il primo; diplomatico e politico il secondo. Entrambi ricchi però di esperienza e di esperienze, benché più vasta fosse la conoscenza del mondo del Sanudo. Entrambi destinati ad operare ai massimi livelli della società del tempo; uomini di mondo nel senso più completo dell'espressione. Al di là della storia e della politica ebbero anche altri interessi comuni: gli scacchi, la cartografia. A un certo punto si conobbero direttamente e personalmente, quando in Avignone Paolino fece parte della commissione pontificia incaricata di esaminare il lavoro progettuale del Sanudo. Veneziani, i due, venezianissimi. Ma entrambi proiettati e costretti a vivere altrove gran parte della loro vita. Portandosi sempre dietro la loro origine e la loro venezianità, senza però che questa divenisse una costrizione e un limite personale e intellettuale. Al contrario la loro condizione li indusse e forse costrinse a farsi tramite fra Venezia e gli altri, cosicché tutti e due svolsero una essenziale funzione di raccordo fra la loro patria Venezia e il più vasto mondo esterno.
Paolino Minorita, come vedremo, con il trattatello sul governo porta verso Venezia le dottrine politiche dell'epoca; Marin Sanudo, e vedremo anche questo, propone un grande progetto di nuovo assetto mediterraneo. Insieme, toccano i due elementi essenziali di ogni vivere politico: come gli uomini debbono governarsi (Paolino), come i gruppi umani possono, anche se conflittualmente, entrare in relazione fra di loro (Sanudo).
La popolazione dell'Italia non può né deve vivere sotto dominio, poiché la libertà stessa si scelse l'Italia come sede. Soprattutto il mirabile regno di Venezia, primo fra i primi organismi politici italiani, ha conservato al massimo livello la libertà italiana. Nella città di Venezia i vecchi fioriscono per la salubrità dell'aria e per la dieta adeguata, risplendono per il colorito naturale. Ancor meglio stanno i giovani; cosicché corre fama della bellezza dei Veneti. Se poi chiedi come sia strutturata Venezia, ti si può rispondere che la città ha per pavimento il mare, per tetto il cielo, per pareti le correnti acquee.
Ecco, qui in queste orgogliose parole degli anni Dieci del Trecento troviamo quasi un sintetico riepilogo di quelli che saranno poi due fra i temi fondamentali del mito di Venezia: l'eterna libertà di Venezia e l'unicità del suo sito. Le scrive Paolino Minorita, veneziano, il quale le inserisce in tutte e tre le versioni o fasi che siano, della sua opera storica; segno che le riteneva particolarmente importanti per la gloria della sua Venezia. Né il significato della frase è sminuito dal fatto che essa non è tutta originale di Paolino, ma è invece tratta da Boncompagno da Signa, che Paolino qui ricorda esplicitamente. Al contrario, l'aver scelto e chiamato a testimone un autore fra i più noti dell'epoca, facendo dire a lui quello che avrebbe potuto dire con piena convinzione lo stesso Paolino, è da considerare un accorto artificio per attribuire maggior valore di prova alla testimonianza, tanto più valida perché di un forestiero (1).
In qual senso dobbiamo però intendere l'affermazione della libertà di Venezia, superiore a quella di tutte le altre città italiane? Il passo citato da Paolino mostra tutto il suo vero significato, se ricordiamo quanto aveva scritto pochi anni prima Tolomeo da Lucca, secondo il quale nell'Italia settentrionale nessuno poteva avere uffici pubblici e di governo di lunga durata a meno che non fosse un tiranno, con l'unica eccezione del doge di Venezia, che aveva un temperatum regimen (2). Quella di Paolino è dunque una orgogliosa rivendicazione di un'altra singolarità di Venezia: l'essere governata da un signore a vita, che però non è un tiranno; rivendicazione che non era peraltro isolata e dettata soltanto da superbia municipale, posto che altri e non dei minori la condivideva. D'altronde il nostro discorso trova conferma in un'altra opera di Paolino, sulla quale dovremo soffermarci a lungo, il De regimine rectoris. Scrivendo della legge e del suo significato, Paolino Minorita dichiara che "molti è boni statuti en Venexia, che in terra ferma niente valerave" (3). Libertà di Venezia, dunque, nel senso di libertà interna, libertà amata e desiderata da tutte le città d'Italia, ma coltivata e venerata al massimo in Venezia, nel regnum Venecie. Ma è soltanto questo? Non dimentichiamo che l'espressione libertas Italiae, se non proprio già in quegli anni, non molto dopo avrebbe assunto i due significati diversi, ma complementari, di libertà nel regime politico interno, ma anche di libertà da ogni dominazione esterna. E basti ricordare come i due significati siano ben evidenti e chiari nella seconda metà del secolo in Coluccio Salutati. Più tardi ancora altri Fiorentini proprio a causa dell'esistenza delle due libertà in entrambe le città avrebbero ritenuto auspicabile e quasi inevitabile l'alleanza fra Firenze e Venezia.
Orbene, mi sembra evidente che nella orgogliosa frase del Paolino Minorita scrittore di storia, soprattutto se letta insieme con la frase del De regimine rectoris, che abbiamo citata da ultimo, compaia anche la rivendicazione della libertas veneziana nel secondo senso, quello della libertà come indipendenza. Venezia è città eccezionale per il suo sito e per le sue leggi, che altrove non varrebbero nulla. Ma qui valgono perché l'eccezionalità del sito e il valore delle leggi, ottimamente corrispondenti, ne hanno fatto una città unica e irripetibile, chiusa e difesa dalle sue acque e dalle sue istituzioni, che sempre hanno protetto Venezia impedendo ogni dominio altrui.
Ma chi era questo Paolino Minorita, figura di spicco del primo Trecento? Paolino nasce intorno al 1270 o poco dopo. Entra piuttosto giovane nell'ordine francescano e diventa sacerdote intorno al 1300. Ha successo e compie una buona carriera, ricca anche di esperienze culturali e di conoscenza di molteplici realtà politiche e cittadine. Svolge la funzione di inquisitore; ha numerosi e importanti incarichi diplomatici. Per conto di Venezia va a Napoli nel 1314-1316, va nuovamente dal re di Napoli nel 1320-1321, ma questa volta ad Avignone presso la corte pontificia, dove si ferma, entrando al servizio dei papi, per i quali svolgerà altre missioni diplomatiche. Ma soprattutto è incaricato di esaminare l'opera, con la quale Marin Sanudo il vecchio propone al pontefice un preciso programma di crociata. La sua relazione sarà poi pubblicata insieme col lavoro del Sanudo, del quale diremo tra poco (4). Il 25 giugno 1324 è nominato vescovo di Pozzuoli, città dove però si recherà definitivamente soltanto nel 1326. Continua l'attività diplomatica e di relazioni culturali; frequenta la corte di Napoli. Muore prima del luglio 1344. Fu uomo brillante, forse troppo; amante del lusso, come mostra anche l'inventario testamentario dei suoi beni. Anche un uomo di lettere, però, che dedicò attivamente parte del suo tempo alla compilazione di opere di vario genere, incluso un trattatello sul gioco degli scacchi (5). Qui ci interessano le sue opere storiche, ma soprattutto un'operina politica, il Trattato de regimine rectoris, come fu intitolato dall'editore ottocentesco.
Merita notare che Paolino ha una vasta conoscenza dei testi medievali. Conosce certamente il Policraticus di Giovanni di Salisbury, testo politico di grande rilievo, dal quale trae tutta una serie di aneddoti ed esempi per meglio illustrare e confermare praticamente il suo discorso. È ben vero che almeno alcuni di questi aneddoti sono presenti anche in altri testi medievali precedenti, ma la frequenza con la quale questi sono riscontrabili nel Policraticus induce a credere che quest'opera fosse fra le meglio conosciute e le più utilizzate da Paolino. Particolarmente significativa è la ben nota storia di Alessandro e del pirata (I, 8), per la quale Paolino utilizza oltre ogni dubbio la versione del Policraticus.
Lasciando per ora da parte la sua opera storica, sulla quale torneremo più avanti, cerchiamo qui di trovare un filo conduttore nel suo trattatello, isolandone anche le poche considerazioni originali. Potremo così cercare di comprendere quali potevano esserne i destinatari e perché Paolino lo abbia scritto.
Paolino stende il De regimine rectoris negli anni 1313-1315, dedicandolo a Marino Badoer, che nello stesso torno di tempo è duca di Candia, carica specificata nel prologo di Paolino. L'opera è tutta in volgare veneziano, tranne il prologo, che è in latino. Sua fonte principale è il più vasto De regimine principum di Egidio Romano, scritto intorno al 1280, fonte utilizzata spesso con tanta aderenza da aver fatto considerare l'opera di Paolino, troppo semplificando, soltanto come una traduzione, un rifacimento, un semplice sunto di quella molto più diffusa del ben più celebre generale degli Agostiniani, stretto collaboratore di Bonifacio VIII ed autore anche della più raffinata, dura, coerente esposizione delle dottrine teocratiche, il De ecclesiastica potestate, scritto intorno al 1300 (6). Ma così non è, perché per quanto fortemente legata al testo di Egidio l'opera di Paolino per il fatto stesso di essere scritta in veneziano mostra di essere destinata a un pubblico particolare, limitato nel numero, ma per il quale merita scrivere un'opera destinata ad istruire i governanti - o il governante, come vedremo più avanti. Un'opera, dunque, che se non esclusivamente e strettamente veneziana nel contenuto, benché Venezia vi sia sempre presente, è fortemente anzi esclusivamente veneziana per destinazione, come risulterà evidente al termine della nostra analisi. Perché se Paolino avesse pensato e voluto diversamente, avrebbe scritto in latino come il suo ispiratore.
Il De regimine rectoris è diviso in tre parti, come d'altronde il testo di Egidio Romano. Nella prima Paolino indica come l'uomo debba governare se stesso (capp. II-XLV); nella seconda come debba governare la propria famiglia (capp. XLVI-LXIV); nella terza infine come debba regolarsi per governare la città (capp. LXV-LXXXV). Scopo del libro, scrive nel proemio lo stesso autore, è guidare il rettore nella vita terrena, affinché possa meritarsi il regno dei cieli. In questo egli ha una grandissima responsabilità, poiché suo carico deve essere anche la salvezza del popolo a lui affidato, come scriveva anche Egidio Romano (I, 1, 5). Per conseguire l'obiettivo il rettore deve dunque possedere tutte le virtù, a cominciare da quelle teologali e cardinali, che sono minutamente esaminate soprattutto nella prima parte del De regimine rectoris. Tutto il ragionare di Paolino pertanto è ancora essenzialmente di tipo morale come quello del suo modello, ma non mancano qua e là innesti di precetti politici e persino economici, derivantigli probabilmente dalla sua immediata esperienza veneziana ed ecclesiastica.
Paolino prende da Egidio Romano, che a sua volta si rifà ad Aristotele, non soltanto l'idea della naturalità della vita sociale per gli uomini, ma anche l'indicazione dei concreti vantaggi, materiali e spirituali, che l'uomo trova in questo suo vivere cittadino. Ma con una correzione e in più un singolare riferimento, entrambi significativi per indicarci la mentalità di Paolino Minorita e le esigenze dell'ambiente dal quale proviene e ai cui stimoli deve e vuole rispondere adeguatamente. Come è noto, Aristotele nel secondo capitolo della Politica (1253a) afferma che, considerata l'innata socialità dell'uomo, chiunque riesca a vivere al di fuori della società o è un dio oppure è una bestia, insomma qualcosa di sovrumano o di infraumano. Egidio Romano riprende l'affermazione aristotelica, ma le sovrappone una sua correzione: chi può vivere al di fuori della società o è un essere meno che umano, cioè una bestia, oppure è un essere più che umano, come sono gli "uomini contemplativi" ossia i monaci (II, 1, 2). Paolino recupera attentamente questo suggerimento egidiano, rafforzandolo nel contenuto e nel linguaggio. Infatti
devemo qua entender per homo queli ke vive humanamente e segondo lo comun corso de i omeni; altra visa nu vedemo ben che per molta sanctitade ke è en alguni elli vive solitari come li remiti; et algun per malitia ke è en essi, comè li robador de strada (7).
Qui dunque è più genericamente la santità che consente esplicitamente di vivere fuori dalla società, e non soltanto la vita contemplativa. Discorso che risente certamente della posizione di Paolino, appartenente a un ordine non contemplativo, bensì attivo e operativo. Ciò che conta è l'appartenere agli ordini regolari, non tanto il genere di vita. Chi è francescano è comunque fuori dal mondo anche se vive in questo mondo. Che poi vi sia una qualche contraddizione in questo, è abbastanza evidente, ma non possiamo chiedere più di tanto a Paolino.
Inoltre - ecco il riferimento supplementare - Aristotele ben sapeva, scrive Paolino, quanto bene avesse fatto all'uomo il primo fondatore di città, ma non ne conosceva il nome; noi invece sì. Orbene, questo antico creatore della città è Caino, come vuole la Bibbia (Genesi IV, 17), il cui racconto è però ampliato da Paolino. Caino, scrive il nostro, edifica la prima città perché, bandito e predone com'era insieme coi suoi figli, deve difendersi dagli assalti di chi vuole derubarlo a sua volta. Origine drammatica e malvagia della città, che si contrappone alla tradizione positiva aristotelica, ma che ben corrisponde all'agostinismo medievale con la sua diffidenza per la vita politica e per la politica, che si ritiene originata dal male e dal peccato. Il fatto è che Paolino, come d'altronde Egidio Romano, vive in un momento nel quale sono già disponibili i testi aristotelici, benché nella imperfetta traduzione di Guglielmo di Moerbecke, ma quando ancora solo alcuni ne stanno faticosamente apprendendo la lezione, cioè che la politica in se stessa appartiene comunque all'uomo, ha un suo proprio valore positivo, e non è causata soltanto dallo stato di natura decaduta, nel quale gli uomini si trovano dopo il peccato originale. San Tommaso d'Aquino decenni prima, Dante Alighieri e Marsilio da Padova negli stessi anni durante i quali scrive e opera Paolino, hanno già riconquistato il valore positivo della politica; Paolino invece vive ancora almeno in parte nel tempo passato, in mezzo al guado, come dimostra il richiamo a Caino posto accanto al valore positivo naturale e morale della città e della politica, senza che l'autore si renda conto della contraddizione.
Per Egidio Romano (III, 2, 1) quattro sono gli elementi da considerare per il governo della città in tempo di pace: il governante, il consiglio, il palazzo, il popolo. Nel De regimine rectoris troviamo una interessante variazione: gli elementi diventano cinque grazie all'aggiunta esplicita della legge, che compare direttamente nell'elenco (8). Non che manchino i riferimenti alla legge nel testo di Egidio, perché al contrario questi sono frequenti e occupano anche interi capitoli, ma la legge non è enumerata esplicitamente e singolarmente fra gli elementi da considerare. La legge inoltre, benché debba sempre rispettare i principi del diritto naturale e della giustizia, per Paolino è qualcosa di profondamente concreto, è soprattutto legge positiva. Paolino non scrive mai soltanto di legge, ma di legge e statuti. Se già Egidio asseriva che soltanto nelle città gli uomini possono avere vita regolata dalle leggi, ecco che allo stesso punto Paolino già aggiunge alle leggi gli statuti: "kè la zitthade no po viver zenza leze e zenza statuti". Variazione non soltanto formale, perché ci segnala immediatamente quanta maggiore attenzione abbia Paolino per la legge e in particolare per la legge positiva, cioè nel suo caso quella concreta degli statuti cittadini. Alla legge nel De regimine rectoris sono dedicati numerosi capitoli della terza parte (9). Niente di sconvolgente, è vero, o di radicalmente nuovo; ma neppure soltanto una pedissequa imitazione o traduzione da Egidio Romano.
Prima di tutto, ripeto, distingue il testo di Paolino da quello di Egidio il preciso, assiduo riferimento agli statuti, citati insieme alla legge oppure da soli, ma con una evidente preminenza. Ma poi ecco altre due particolarità degne di menzione. La prima sta nel modo di considerare la fonte della legge, che per entrambi può essere sia il principe sia il popolo, ma con una diversa colorazione del motivo. Per Egidio Romano, che pure preferisce il regime del solo al regime dei molti, la legge deve essere approvata dal principe o dal popolo a seconda del regime della città senza ulteriori specificazioni o motivi (III, 2, 27). Questo sta bene anche a Paolino, che però aggiunge qualcosa:
anchora, co dise Aristotele, la leze de' aver posanza de constrenzer zaschun ke ello la debia servar, e nexun po dar sì gran posanza a la leze se no lo principo o tutto lo comun (10).
Qui la questione non è più soltanto di legittimità, bensì di forza, di forza tale da costringere ad obbedire alla legge. Forse è un po' troppo pensare che in Paolino incominci a farsi strada l'idea che l'efficacia della norma stia soprattutto nella sanzione e nella certezza del reo che la pena sarà applicata ed eseguita. Ma la sensazione che così possa essere affiora anche leggendo il capitolo successivo; e soprattutto fa riflettere che proprio in quel tempo Marsilio da Padova andasse elaborando il suo Defensor pacis, dove questo carattere coattivo e sanzionatorio della norma è presentato con la massima evidenza, forse per la prima volta.
Molta attenzione deve essere riservata alla specificità della legge e al suo rapporto con la particolare comunità, alla quale essa è destinata. Affermazione che troviamo anche in Egidio Romano (III, 2, 26), ma che in Paolino diventa più puntuale nel riferimento esplicito a Venezia, che abbiamo già citato al principio:
Ancora de' vardar come quella leze convegna alla citade, a la qual ella se de' dar; chè tal leze è bona ad una citade che no è bona ad un'altra; molti è boni statuti en Venexia, che in terra ferma niente valerave (11).
Il contrasto qui ancora una volta si colora di tinte fortemente e orgogliosamente veneziane. Non sembra trattarsi soltanto della utilizzazione del riferimento più ovvio e scontato alle leggi della propria patria cittadina, ma del desiderio di ritrovare in questo contesto la singolarità di Venezia, città unica, nata liberamente fra due imperi di fronte a una terraferma, dalla quale profondamente differisce.
Allo stesso tempo Paolino, pur esaltando la legge e gli statuti, ritiene che centro e motore di tutto debba essere il governante. Accentuando un paragone già presente nell'opera di Egidio, Paolino dichiara esplicitamente che il popolo è come la freccia, mentre il governante, il rettore è come l'arciere "a cui seno et a cui voluntade se move la saita [...>" (12). Non importa che la freccia veda il bersaglio; per fare centro basta che lo veda bene l'arciere. Una esaltazione dell'azione del rettore e una passività del popolo, che va persino oltre quanto detto da Egidio. Una esaltazione, che più avanti viene precisata con parole quanto mai chiare: "sì co tuto lo corpo varda al cavo, così fa mester ke tuto lo puovolo e 'l consejo e li zudesi debia vardar ad un recthor" (13).
Comunque, anche il governante, pur culmine e centro, punto di riferimento irrinunciabile della società, deve mirare al bene comune, un bene comune concreto, al quale tutto va commisurato e in riferimento al quale debbono essere considerate persino le virtù più strettamente personali. Come dire che il cittadino qualsiasi può esercitare le virtù soltanto per se stesso, ma il governante deve esercitarle per il bene comune, altrimenti perdono ogni vero possibile significato. Ecco alcuni esempi. Prendiamo la virtù teologale della speranza nella essenzialità del discorso di Paolino: "La prima condicion de trar a speranza, la qual è ben, kè lo rethor de' desirar el ben de li so subditi" (14). Le lunghissime e arzigogolate considerazioni di Egidio Romano sono qui ridotte all'osso da Paolino: il rettore deve sperare il bene dei sudditi, non un bene filosofico o teologico generale, complicato e astratto. Un altro punto nel quale Paolino sembra aggiungere sue proprie considerazioni a quelle di Egidio o anche scostarsi radicalmente dal discorso di Egidio, è quello della virtù della fortezza. Secondo Aristotele esistono casi nei quali l'agire umano è soltanto apparentemente dovuto alla virtù della fortezza, come quando si agisce in funzione del proprio interesse privato. In realtà la fortezza si esercita soltanto quando "si guarda no a sì, mo ad utilitade del comun" (15). Interessante distinzione, che valuta la virtù in funzione dell'obiettivo. Né si tratta di un esempio isolato, perché al contrario ecco che la medesima distinzione torna proprio nelle ultime righe dello stesso capitolo. Non è veramente forte colui che si caccia nelle situazioni pericolose soltanto perché non ha riconosciuto il pericolo, ma colui che
conoxando el perigolo, se 'nde mete per servisio del so comun (16). [Insomma il rettore deve avere la virtù della fortezza perché> el adeven sovente fiade che lo retor no po esser en stado de paxe, over per vera che à la citade con altri, o sia per sedicion dentro da la citade, o sia ch'elo à çudegar grande persone e posente; e a cotale punti specialmente fa mester a lo retor forteça (17).
Attenzione a queste rapide considerazioni di Paolino, notevolmente diverse nella loro concretezza da quelle più astratte e moraleggianti di Egidio Romano. La fortezza è necessaria al rettore perché molteplici sono le occasioni di conflitto: la guerra esterna, la rivolta interna, il contrasto coi potenti. Una casistica interessante, che nasce dall'esperienza diretta della situazione italiana del tempo; forse anche dal ricordo immediato di vicende veneziane: i fatti di Baiamonte Tiepolo e del suo tentativo di ribellione sono recentissimi e sicuramente ben presenti ai Veneziani.
Ma ecco che così siamo giunti ad un altro punto cruciale: è meglio il governo dei molti oppure quello del solo? Paolino non sembra avere dubbi: come per Egidio Romano la risposta è chiara e netta: meglio il governo del solo, difeso con argomenti che riprendono in sunto quelli egidiani. "Qual è mejo che la citade sia recta da un o da plusor", suona il titolo del capitolo LXVIII, che poi inizia con una frase altrettanto chiara e lapidaria: "A mi par, compensade tutte cose, k'el' è mejo ke ella sia recta da un" (18). E via poi con una serie di argomentazioni note ed usuali; per prima quella che in natura tutti i corpi sono controllati soltanto dal cuore; poi che tutti gli animali hanno soltanto una testa. Ma ne aggiunge anche altre più politiche. Egidio Romano afferma che l'esperienza dimostra che le città governate da più di un uomo sono più lacerate da dissensi, discordie, guerre civili, penuria di quelle governate da un solo sovrano. Ed ecco che cosa scrive Paolino: "Anchora nu vedemo per experientia ke là che reze un se trova maxor paxe et unitade". E fin qui siamo ancora una volta al sunto di Egidio. Ma il periodo così continua:
Onde Jesum Cristo azò ke fosse plu unitade entro li fedelli volse k'elli fosse recti da un pastor, e sì vedemo ke dapuo' ke l'emperio è partido en.ij., elio è vegnudo en niente quasi, en respecto de quel k'elo era (19).
L'esempio storico si sposta dalla città alla Chiesa e all'Impero. Cristo ha voluto un solo pastore: non dimentichiamo che sono gli ultimi anni del fiorire delle dottrine teocratiche, delle quali Egidio Romano (lo abbiamo già detto) è esponente rigido e acuto. Ma la logica vuole anche che esista un solo Impero: quando esso si divide, non può che rovinare. Affermazione singolare per un veneziano, che, come abbiamo già ricordato, conosceva le pretese di indipendenza e autonomia della sua città, ben più radicali di quelle delle altre città italiane, che tentavano la conquista dell'autonomia, ma non dell'indipendenza, quando la stessa acuta elaborazione in materia di Bartolo da Sassoferrato era ancora di là da venire. Un veneziano dovrebbe gioire della divisione dei due imperi, che ha reso possibile e duratura l'indipendenza della sua città. Invece Paolino lamenta la lacerazione. O siamo in presenza di una insanabile contraddizione, oppure il discorso di Paolino è spiegabile soltanto con la sua particolare condizione di ecclesiastico, che guarda soprattutto all'unità della Chiesa. In questo caso, se l'ipotesi è giusta, il discorso di Paolino sull'unità necessaria del mondo sotto un solo pastore avrebbe un significato meramente ecclesiastico, riferito esclusivamente al papa, nonostante l'incidentale riferimento all'Impero.
Interessanti sono alcune annotazioni sul problema della ricchezza. Singolare è la classificazione delle forme di governo (20). Fondamentalmente Paolino utilizza quella aristotelica riportata anche da Egidio Romano: in base al numero dei governanti possiamo individuare tre forme buone (il solo, monarchia; i pochi, aristocrazia; i molti, politia), alle quali si contrappongono tre forme maligne (tirannide, oligarchia, democrazia). Orbene, Paolino accetta la distinzione aristotelica fra aristocrazia e oligarchia: nella prima governano i migliori virtuosi, nella seconda i ricchi, che pensano soltanto a se stessi; ma dopo aggiunge un particolare alla contrapposizione fra politia e democrazia. Politia non è soltanto il governo dei molti, ma il governo dei molti ricchi; e democrazia è "quando regna e' puoveri", precisazioni assenti in Egidio, per il quale, sulla scia di Aristotele, la distinzione sta nel fatto che i molti della politia pensano al bene comune, i molti della democrazia all'interesse proprio e quindi opprimono gli altri. Difficile dare un peso preciso a questa puntualizzazione; resta il fatto che anche il retto governo dei molti per Paolino deve essere governo dei ricchi. Certamente vi è nel suo testo e nel suo pensiero un'attenzione particolare alla questione della ricchezza. Così sembra anche nascere da elementare realismo di città mercantile la semplificazione estrema di alcune considerazioni di Paolino sulla magnificenza:
ancora podemo considerar che nexun puovero po esser magnifico, per k'el no po far gran spensarie, ni colu'k'è magnifico no po vegnir leçeramente povero, perch'el fa ke le spensarie responde a l'entrade (21).
Quanto esposto finora del De regimine rectoris può dare l'impressione di un'opera non solo certamente non eccelsa, ma anche incerta e contraddittoria. Solo incertezze e contraddizioni di Paolino? Forse sì, e forse non precisa comprensione del rapporto fra governante, legge, giudici, nella realtà e nell'opera di Egidio Romano; ma probabilmente anche giustapposizione di sentimenti e di fonti diverse fra loro contrastanti. Oltre che di Egidio Romano sentiamo echi (o consonanze) delle tesi del De regimine principum di san Tommaso d'Aquino o meglio della parte scritta da Tolomeo da Lucca; ma anche della tradizione veneziana degli statuti e non è un caso che Paolino sia contemporaneo di uno Jacopo Bertaldo, che proprio mentre il nostro scrive la sua operina politica da parte sua pone mano allo Splendor Venetorum civitatis consuetudinum, dedicato ad illustrare meriti e problemi della legislazione veneziana, nel quale era anche un'attenta esaltazione del doge. Cosicché possiamo anche chiederci se dobbiamo parlare di contraddizioni o invece di scatole cinesi politiche e giuridiche, complicate perché complicata era la situazione istituzionale e giuridica veneziana e dunque altrettanto difficile da teorizzare e definire. Almeno per Paolino, ma probabilmente non soltanto per lui.
Non dimentichiamo inoltre che Egidio Romano aveva attentamente distinto il regimen regale, nel quale il sovrano governa da solo, unico interprete del vero diritto e della vera legge naturale, ed è chiaramente collocato sopra la legge positiva, dal regimen politicum, nel quale il sovrano deve governare rispettando le leggi della comunità (II, 1, 14); ed aveva espresso chiaramente la sua preferenza per il regimen regale. Poco dopo invece, pur accettando e ripetendo la medesima distinzione, Tolomeo da Lucca aveva indicato come migliore il regimen politicum. Orbene, come abbiamo ricordato all'inizio, nella stessa opera Tolomeo da Lucca osserva che in Italia, nell'Italia settentrionale, è impossibile instaurare un governo del solo che sia perpetuo, se non si è tiranni. Con un'unica e sola eccezione: il doge di Venezia, che ha governo perpetuo, ma temperatum (22). Cosicché potremmo pensare che Paolino, benché non riesca ad impostare linearmente il problema e ad esprimersi con la dovuta chiarezza, sia più vicino a Tolomeo da Lucca che a Egidio Romano.
Ma ora dobbiamo chiederci, pur senza pretendere una risposta assolutamente certa e compiuta, per chi Paolino Minorita scrive il suo De regimine rectoris. Abbiamo due dati, chiari e certi, dai quali partire: la venezianità di Paolino, la lingua del trattatello. Che Paolino Minorita sia veneziano è fuor di dubbio: è veneziano per nascita e per mentalità originaria, almeno in parte per formazione. Altrettanto certo è che, quando scrive il suo De regimine rectoris, è già uomo di varie esperienze, che ha avuto incarichi di inquisitore, che sta iniziando o sta per iniziare la sua attività diplomatica, che partecipa di un mondo, quello ecclesiastico francescano, collegato a elementi culturali vari e diversi da quelli veneziani. Un uomo così, se scrive un trattatello sui doveri e le funzioni del governante e lo scrive non in latino ma in volgare veneziano, lo fa a ragion veduta anche quando imita e persino trascrive, traducendoli e sintetizzandoli, ampi brani e capitoli di un'opera di largo successo e ampia diffusione come il De regimine principum di Egidio Romano. Ogni testo è scritto per qualcuno, a meno che non sia un diario personale intimo, una riflessione morale o filosofica con se stessi; e qui non è certo il caso. Argomento e lingua indicano chiaramente i destinatari: il De regimine rectoris doveva essere letto dai Veneziani, dai Veneziani interessati al governo di se stessi, della propria famiglia, della propria città.
Paolino dunque si rivolge ai suoi concittadini veneziani, ma portando loro dati ed esigenze altri ed esterni; è tramite verso Venezia di motivi che non sono veneziani o almeno non sono soltanto veneziani, ma circolano nella più vasta cultura europea, soprattutto ecclesiastica. Non a caso fra i testi più usati da Paolino troviamo quel Policraticus di Giovanni di Salisbury, che è stato uno dei testi più importanti, più letti, più significativi del pensiero politico medievale, testo di notevole rilievo fra quelli del filone della teocrazia pontificia. Che poi Paolino sia cosciente di questa sua funzione è dimostrato (direi) dalle variazioni personali e dal costante adattamento del testo di Egidio Romano alla situazione peculiare di Venezia. In questo poco importa anche la relativa scarsa originalità di Paolino. La sua importanza sta proprio nel tentativo di portare a Venezia teorie politiche più generali, provenienti dal mondo esterno, espresse però in linguaggio volgare, per un pubblico che probabilmente può leggere il latino, ma non è tenuto a conoscerlo. Insomma, se un senso ha il trapasso del titolo dal De regimine principum di Egidio Romano al De regimine rectoris di Paolino, questo è appunto il tentativo di trasportare in uno Stato cittadino motivi nati originariamente per uno Stato monarchico. Con confusioni e contraddizioni, è evidente, quasi mai risolte. Come quella fra l'esaltazione del governante come unico e solo punto di riferimento della comunità e la parallela esaltazione della legge, soprattutto la legge positiva consacrata negli statuti. Un dibattersi fra istanze principesche, allora probabilmente forti anche a Venezia, e ideale di un governo collettivo, regolato dalla legge. Un voler tracciare il ritratto del governante ideale, senza saper scegliere o voler scegliere fra l'uno e i molti. Che comunque, in entrambi i casi, direi, dovrebbero essere e virtuosi e ricchi allo stesso tempo.
Tutto questo, forse, potrà essere più chiaro se cerchiamo di inquadrare il De regimine rectoris nella produzione di scritti politici di quei tempi. Avere una risposta, anche se parziale e provvisoria a questa domanda, ci consentirà di comprendere molto meglio che cosa significa l'opera di Paolino e per quali motivi è stata scritta. Il filone o forse, meglio, il genere letterario, al quale dobbiamo guardare, è quello degli specula principum, gli specchi del principe, quegli scritti, che intendevano fornire al sovrano un modello ideale, al quale attenersi. Si tratta di un genere di origine lontana (ha una prima grande fioritura in epoca carolingia), che dura nel tempo, almeno fino al Rinascimento, posto che anche la Institutio principis christiani di Erasmo da Rotterdam appartiene ancora in pieno al gruppo degli specula principum, seguita da altri testi ancora almeno fino alla metà del XVI secolo. Un genere molto articolato, con suddivisioni e partizioni diverse di tempo in tempo (23).
Detto questo, che il De regimine rectoris appartenga al genere degli specula principum è indubitabile. Tutte le sue caratteristiche di modello morale e ideale lo fanno rientrare in questo genere. L'opera di Paolino vuole fornire chiaramente un modello di governante cristiano, che possieda e sappia utilizzare tutte le virtù cristiane. D'altronde, specula principum sono sia l'opera alla quale Paolino si ispira, il De regimine principum di Egidio Romano, sia l'altro testo, dal quale trae gran numero di riferimenti e citazioni, il già ricordato Policraticus di Giovanni di Salisbury, forse il più importante fra gli scritti di questo tipo prima di Egidio Romano. Certo, mentre gli specula principum sono scritti quasi sempre in latino, il lavoro di Paolino da Venezia è in volgare e precisamente in volgare veneziano. Inoltre il titolo diventa De regimine rectoris. Cambiano dunque sia la lingua sia il titolo, segno che il pubblico al quale Paolino vuol far leggere il suo lavoro è altro e diverso da quello consueto per questo genere di letteratura politica (24).
Qui ritroviamo appunto il pubblico, individuato già prima, al quale si rivolge Paolino: i Veneziani e non altri, i governanti veneziani. Anche volessimo accettare l'ipotesi di uno scritto d'occasione, steso per la pressante richiesta del dedicatario Marino Badoer, nulla cambierebbe in questo senso: anche e soprattutto se scriviamo su incarico e per destinazione precisi, ecco che dobbiamo trovare gli accenti e i motivi accetti al richiedente. In ogni caso Paolino da Venezia scrive per i Veneziani del ceto di governo. Per un eventuale principe veneziano, come potrebbe far pensare il maggior riguardo dato al governante, testa e cuore della città? Non è detto. Anzi, proprio se Paolino è quell'uomo di mondo, che tante volte è stato descritto, adatto a ogni situazione, pronto a far carriera e a gustarsi la vita, benché con rispetto e gusto per la cultura e la raffinatezza; proprio in questo caso, potrebbe Paolino aver mai pensato a dedicare un suo scritto a un futuro o aspirante principe di Venezia, quando la città, il suo ceto di governo, soltanto da pochissimo tempo aveva represso duramente e senza esitazioni il tentativo ribelle di Baiamonte Tiepolo? Il fatto è che dobbiamo inserire lo scritto di Paolino da Venezia in un filone particolare degli specula, quello dei trattati De regimine civitatis, manuali di precettistica per il podestà, che appaiono a cominciare dal XIII secolo. Sono testi, che si rivolgono a chi deve dirigere, amministrare, governare le città non con spirito regale e sovrano, come i destinatari del De regimine principum di Egidio Romano, ma in un contesto più limitato, semplicemente cittadino. Esempi rilevanti e di punta di questa stessa serie saranno più tardi, a metà del Trecento, gli scritti di Bartolo da Sassoferrato.
Ecco, Paolino da Venezia scrive per un veneziano, che ha appena visto la sconfitta di un tentativo grosso modo signorile. Scrive da veneziano, conoscendo storia e tradizioni di Venezia, ma anche da ecclesiastico, uomo che ha avuto anche una formazione ed ha informazioni, che sono diverse da quelle veneziane, perché gli vengono da un mondo più vasto. Paolino adatta dunque il tipo letterario dello speculum principis nella versione tipica cittadina del De regimine civitatis alle esigenze singolari di Venezia, di una città dove si può scrivere soltanto per il rector, non per il principe e neppure genericamente sul regimen cittadino. Il compito, che si assume, è quello di portare ai Veneziani e a Venezia istanze, motivi, ragionamenti, che non nascono a Venezia, ma in altro ambiente più vasto. D'altronde abbiamo visto che anche altri fuori di Venezia, come Tolomeo da Lucca, ritengono che in questa città operi un governo molto particolare, perpetuo ma temperato.
Da qui un'ambiguità di fondo, quella incertezza fra governo del solo, dei più, della legge, che abbiamo già individuato e sottolineato. Scrive indirizzandosi al rector, che può o potrebbe essere uno solo, in tal caso con governo moderato e temperato, ma anche una pluralità di rettori, perché il discorso di Paolino sarebbe valido in entrambi i casi. Una incapacità di scelta, che può dipendere da scarsa levatura intellettuale dell'autore, da volontà di non compromettersi pur nell'eseguire un compito irrinunciabile, ma forse anche dalla oggettiva difficoltà di mettere insieme esigenze diverse. Perché Paolino sa benissimo di scrivere rivolgendosi ai governanti o al governante di una città particolare, diversa dalle altre. Paolino ama forse il governo del solo, ma sa che a Venezia questo è stato appena sconfitto e sa che, contrariamente a quanto vuole Egidio Romano nel suo trattato, a Venezia non si accetta che la volontà del principe stia radicalmente sopra quella della legge, della consuetudine, degli statuti. Ma sa soprattutto che questa è una città che rifiuta ogni dominio superiore non solo in fatto, ma anche in diritto. Ricordiamo quella non originale, ma portata con forza, osservazione sulla rovina dell'Impero quando viene diviso in due: ma non è radicata nella tradizione veneziana la pretesa di non essere mai stati sotto nessun Impero? La rovina dell'Impero è la fortuna e la singolarità di Venezia. Venezia, come è nata diversa, così deve avere regole di vita diverse. Come ha una sua indipendenza originaria in politica, così deve avere una sua autonomia e originalità nel diritto.
Venezia, il Levante, il Vicino Oriente: destini intrecciati dalla storia e dalla geografia, che per secoli non possono vivere separati, ma che non possono neppure evitare di lottare. Ed ogni tanto qualcuno cerca soluzioni definitive a questa situazione impossibile.
Come Marin Sanudo detto Torsello ai suoi tempi, il vecchio da noi oggi per distinguerlo dal più tardo, celebre, autore dei Diarii.
Il nostro Marin Sanudo nasce qualcosa prima del 1270, della stirpe dei Sanudo che hanno ottenuto possessi, domini, feudi nel mare Egeo dopo la conquista di Costantinopoli alla quarta Crociata. Ha una vita brillante e intensa. Giovanissimo è alla corte del doge Giovanni Dandolo nel 1281; quindi incomincia il suo peregrinare per l'Italia, l'Europa, il Mediterraneo. Intendiamoci; un peregrinare d'alto livello, non da esule, ma da giovanotto e uomo che conta, sia per le qualità personali sia per il nome che porta. Palermo, Roma, Negroponte, San Giovanni d'Acri, Avignone, il Levante e l'Egitto, ma anche Francia e Germania: ecco soltanto alcune tappe geografiche della sua vita, durante le quali accumula una tale conoscenza sui paesi e sui popoli del Levante e dell'Oriente da apparire a buon diritto nella storia dei viaggi e della geografia.
Marin Sanudo è anche un dotto. Ma la sua cultura non è quella dell'erudito, chiuso nel suo studio. È un uomo d'azione, che conosce il mondo, gli uomini, la politica e le armi. E con tutte queste conoscenze combinate vuole contribuire a rilanciare l'idea, la speranza, l'ideale di una crociata, che metta per sempre in ginocchio i musulmani - e faccia di Venezia la prima potenza del Mediterraneo. Ha anche le conoscenze adatte e utili per agire in questo senso con la parola detta o scritta. È in relazione con quelli che contano: sovrani; nobili veneziani, italiani, francesi; prelati d'alto rango; dotti di molti paesi. A questi può rivolgersi quando vuole; può anche incontrarli, l'udienza non gli viene rifiutata (25). Scrive lettere, molte lettere, che ci sono rimaste in buon numero, anche se spesso con passi illeggibili o di difficile comprensione. Ma la sua opera capitale è il Liber secretorum fidelium Crucis, diviso in tre libri, nel quale formula un preciso, dettagliato, interessante progetto di crociata, che fa circolare il più possibile e che presenta personalmente anche al massimo diretto interessato: il papa (26).
Come egli stesso narra nelle pagine introduttive all'edizione del Liber secretorum fidelium Crucis curata dal Bongars, Marin Sanudo consegna copia della sua opera al papa Giovanni XXII in Avignone il 24 settembre 1321. Sono due volumi rilegati corredati di carte geografiche, che il papa affida immediatamente a una commissione composta da quattro esperti di questioni orientali, fra i quali Paolino Minorita da Venezia. La commissione si riunisce in casa appunto di Paolino e in brevissimo tempo presenta una relazione del tutto favorevole con solo qualche rilievo molto marginale. Segue nell'edizione un'altra missiva del Sanudo, con la quale invita il papa ad adoperarsi per la liberazione della Palestina (27).
Vediamo ora di riassumere succintamente qui il contenuto dell'opera di Marin Sanudo, commentandolo quanto necessario in questa sede. Ma mettendo anche in rilievo quanto il progetto di azione crociata delineato da Marin Sanudo, che pure dovrebbe riguardare e riguarda tutta la cristianità, sia permeato profondamente da spirito veneziano. Venezia è sempre in prima linea, sempre presente all'attenzione del Sanudo, cosicché è subito chiaro ed evidente che il progetto di crociata è realizzabile se e in quanto esiste Venezia, disponibile a parteciparvi con le sue forze, senza le quali nulla è possibile tentare con speranza di successo.
Il testo è diviso in tre libri di dimensioni diseguali; il terzo, che poi è in gran parte dedicato a una lunga e scarsamente significativa storia della Palestina, occupa da solo circa tre volte lo spazio dei primi due. Nel primo libro, pensato e scritto fra il 1307 e il 1308 (28), Marin Sanudo espone e gli effetti del blocco navale e dell'embargo, che propone per colpire economicamente l'Egitto, e i modi e le possibilità di attuarlo. Nel secondo mostra come sia possibile continuare l'opera di demolizione dell'Egitto mediante successive operazioni militari, che prevedono anche l'occupazione permanente del delta del Nilo. Infine nel terzo spiega quale organizzazione dovrà essere data alla Terra Promessa per mantenerne il possesso dopo che sarà caduta in mani cristiane in conseguenza del crollo dell'Egitto, perno di tutto il sistema musulmano. I tre libri non sono stati concepiti unitariamente e nello stesso tempo, ma sono frutto di intuizioni successive e di elaborazioni e rielaborazioni, come risulta da quanto scrive lo stesso autore nei tre prologhi. Possiamo ben dire che questa è l'opera di tutta una vita, perché alla crociata il Sanudo sempre pensò e alla stesura materiale del Liber secretorum fidelium Crucis nonché alle sue revisioni successive dedicò circa quindici anni, dal 1306 fino alla consegna al papa nel 1321 (29).
Perché questa attenzione particolare per l'Egitto? Perché l'Egitto appare obiettivo primario, anzi unico della crociata come la vede il Sanudo? Presupposto di tutto il discorso del primo libro, diviso in cinque parti, ma anche di tutta l'opera, è che l'Egitto costituisce il punto chiave di tutto il mondo musulmano, cosicché la sua caduta in mani cristiane non può che causare la caduta di tutto lo schieramento strategico del Levante e del Vicino Oriente. Lo scrive qui nel primo libro, ma vi torna sopra più volte lungo tutto il testo. Ne consegue che, per colpire a morte questo mondo, è necessario colpire l'Egitto, che peraltro presenta una sua intrinseca debolezza: esso vive del traffico di merci, che non sono prodotte nel paese, ma vengono dalla più lontana India; è dunque una ricchezza fondata esclusivamente sulle merci in transito (30). Potremmo obiettare subito che questa è la medesima situazione di Venezia, della città del Sanudo, che pure di ciò non fa cenno alcuno. Incapacità di vedere la somiglianza? Certamente no, posto che, come vedremo, altre somiglianze sono attentamente sottolineate; più probabile una voluta noncuranza sulla questione. Voluta sia per non far risaltare una possibile debolezza della sua Venezia sia perché ininfluente sul discorso in atto, poiché qui si tratta di programmare un possibile attacco all'Egitto, mentre non è pensabile il contrario.
La prima misura da attuare è dunque un divieto assoluto di traffico con l'Egitto, che dovrà essere proclamato dal papa. Marin Sanudo, peraltro, si preoccupa anche delle possibili ripercussioni del blocco sulle economie dei paesi che dovrebbero attuarlo e qui trova attente risposte a tutte le obiezioni possibili. Per quanto riguarda alcune merci, come lo zucchero e il cotone, queste sono già prodotte anche in Europa e dunque non dovremmo fare altro che intensificare la produzione. Altre merci, invece, di elevato valore intrinseco sono in grado di sopportare altrettanto alti costi di trasporto e dunque ci giungeranno comunque attraverso un altro itinerario benché più lungo e difficile (31). Il blocco peraltro deve essere ferreo. Dovrà comprendere sia le importazioni dall'Egitto sia le esportazioni verso l'Egitto; dovrà vietare e impedire di fatto ogni traffico sia per mare sia per terra, senza nulla concedere a permessi particolari per soggetti, merci, itinerari. Soltanto così potremo evitare possibili rappresaglie (32). E soprattutto dovrà essere totale e implacabile per il materiale strategico, quello che serve alle costruzioni navali: legno, ferro, pece (33). Sarà inoltre necessario pattugliare il mare Mediterraneo, soprattutto sulle rotte verso l'Egitto. A questo scopo dovranno essere destinate almeno dieci galere (34). Il Sanudo evidentemente sa bene che il miraggio del guadagno ha sempre fatto proliferare i violatori dei blocchi e dunque cerca di fermarli con ogni mezzo. Il semplice divieto papale, per quanto autorevole, non basta a impedire il traffico senza una presenza operativa in mare. Tutto questo, divieto papale e pattugliamento, dovrà entrare in funzione quanto più rapidamente è possibile. Otterremo così anche il risultato, secondario ma non irrilevante, di impedire rapporti e collegamenti diretti fra l'imperatore di Bisanzio e l'Egitto (35). Dobbiamo qui notare e rilevare che in questo momento Marin Sanudo ritiene che l'Impero bizantino, che pure è cristiano benché scismatico, sia potenza nemica e ostile, quanto meno inaffidabile nella lotta contro i musulmani.
Sia chiaro, l'idea di abbattere il potere dei musulmani colpendo a morte l'Egitto non è né esclusiva né originale di Marin Sanudo. I cristiani già altre volte sono sbarcati per commercio in Egitto e già altre volte vi hanno combattuto. La stessa idea della guerra in Egitto e del blocco economico e navale è un'idea abbastanza corrente per l'epoca, diffusa da molti autori e da molti testi, di circolazione più o meno ampia. E fra i tanti mi limito a ricordarne uno di ambiente veneto: il francescano italiano Fidenzio da Padova, autore di un Liber recuperationis Terrae Sanctae, che della Palestina aveva conoscenza diretta (36). Ciò che però contraddistingue il discorso del veneziano sono la sua acutezza, la sua documentazione, la sua conoscenza profonda delle terre, dei popoli, delle correnti di traffico, infinitamente superiori a quelle della maggior parte degli altri sostenitori della guerra in Egitto, incluso persino un Fidenzio da Padova. Quella, che negli altri poteva essere una vaga sensazione dell'importanza dell'Egitto e della possibilità di operarvi efficacemente, diventa in Marin Sanudo precisa coscienza strategica di possibili operazioni economiche e militari, solidamente fondata su una esperienza diretta di fatti e terre. Non intendo con questo farne un antenato spirituale di Napoleone con la sua campagna d'Egitto della fine del XVIII secolo o dei generali italiani, tedeschi, inglesi della corsa al Nilo e della difesa dell'Egitto durante la seconda guerra mondiale nel secolo nostro, ma certo vi è in Marin Sanudo una robusta consapevolezza della funzione di cerniera e cardine dell'Egitto, tale che chi controlla e possiede questo paese può controllare e condizionare la sopravvivenza di altri anche lontani. Consapevolezza, che gli viene anche dalla consolidata frequentazione veneziana di quei porti e di quelle terre, dove i suoi compatrioti da lungo tempo si recano per commerciare con alterne vicende e rischiando spesso averi e vita. Allo stesso tempo Marin Sanudo opera per il successo e la grandezza di Venezia, poiché la conquista dell'Egitto e la successiva caduta della Palestina in mani cristiane costruirebbero o consoliderebbero un asse marittimo e commerciale Venezia-Alessandria, lungo il quale poco tempo dopo la sua stabilizzazione si muoverebbe il principale traffico delle spezie. Non possiamo affermarlo, ma possiamo almeno dirlo come ipotesi: forse Marin Sanudo, oltre la stessa crociata nella quale peraltro credeva intensamente e in buona fede, pensava con l'attuazione del suo progetto di portare a Venezia tutto o quanto meno quasi tutto il traffico fra l'India e l'Europa.
Il secondo libro del Liber secretorum fidelium Crucis illustra la fase successiva delle operazioni contro l'Egitto col passaggio dal blocco economico all'invasione militare. Strettamente legato al primo, questo libro fu infatti concepito dall'autore nel 1308, subito dopo la stesura del primo libro, benché poi iniziasse a scriverlo soltanto nel 1312, come dichiara egli stesso nel secondo prologo (37). Qui, nella descrizione degli strumenti militari e politici della missione armata, troviamo tutta una serie di dettagli molto interessanti, che vanno al di là del fatto tecnico così da meglio illuminarci la concezione strategica, tanto militare quanto economica del Sanudo, e gli obiettivi, non sempre tutti enunciati, del suo disegno.
La spedizione militare, la vera e propria crociata dovrà essere bandita dal papa due o tre anni dopo l'inizio del blocco commerciale e navale, quando ormai l'Egitto sarà indebolito a sufficienza; l'esercito dovrà avere un solo comandante in capo: "vi sia un unico comandante, al quale sia affidata la missione, poiché per avere cose ben ordinate è necessario vi sia una unica testa" (38). Qui l'esperienza negativa di altre spedizioni crociate, gettate in crisi dai conflitti di comando fra i signori, ai quali obbedivano i singoli eserciti, esperienza negativa ampiamente richiamata e criticata anche da Fidenzio da Padova (39), si unisce all'ormai tradizionale discorso sulla necessità che ogni organismo, biologico o politico che sia, abbia una sola testa. Marin Sanudo sa che ogni moltiplicarsi di comandi paritari ha sempre dato risultati negativi, ma cerca anche di dare una giustificazione ulteriore, più generale, appoggiandosi alle dottrine in senso lato filosofiche, correnti ai suoi tempi. Dottrina che, ad esempio, abbiamo prima visto presente e con forza anche nell'opera De regimine rectoris di Paolino Minorita, personaggio che, come abbiamo ricordato prima, Marin Sanudo aveva incontrato ad Avignone e del quale poteva forse anche conoscere l'opera politica (40).
Il corpo di spedizione dovrà essere formato da 15.000 fanti e 300 cavalieri, pagati dalla Chiesa e dotati di navi e rifornimenti (41). Dove arruolati? Da chi comandati? Qui ritorna in campo Venezia. Il comandante in capo dovrà "avere la benevolenza e l'amicizia dei Veneziani, per poter condurre insieme con loro l'impresa, trovando in loro consiglio e aiuto". Chiunque sia il comandante, la mente strategica dell'attacco all'Egitto non potrà che essere veneziana. Se Venezia fosse assente o in subordine o, peggio ancora, ostile, la crociata sarebbe impossibile e irrealizzabile! Inoltre è necessario che l'esercito sia omogeneo, pena dissensi, contrasti, litigi, come è già avvenuto ogni volta che una crociata ha mescolato troppe lingue ed etnie. E qui Marin Sanudo si lancia in una serie di valutazioni, che dovrebbero indurre il papa ad arruolare un esercito veneziano o, quanto meno, a base sostanzialmente veneziana. Si tratta di valutazioni morali, militari, geografiche, che meritano una rapida scorsa. Vediamole, raggruppandole un po' a senso, poiché alcune sono sostanzialmente ripetitive. I Veneziani mantengono ciò che promettono; osservazione di tipo morale, che dovrebbe indurre il papa a scegliere quelli che non molleranno l'impresa a metà, come troppe volte è avvenuto nelle crociate precedenti. A Venezia è possibile arruolare soldati e marinai abituati sia al mare sia al fiume. Gli "uomini veneziani sono nutriti nell'acqua". Inoltre a Venezia possiamo trovare tutto quanto è necessario sia all'esercito sia alla flotta.
Ma non basta. Il litorale che va da Grado a Rimini assomiglia a quello dell'Egitto, precisamente al delta del Nilo con la sua mescolanza di acque e terre. Buon motivo per fare gli arruolamenti in terra di Venezia, perché qui gli uomini e i marinai sono già abituati a vivere, lavorare, combattere in questo ambiente strano, fatto insieme di acque e terre. Vi sono talmente abituati da sempre che sono capaci di trasformare le terre in acqua e di fare terra delle acque. Come dire che per operare nel delta del Nilo non possiamo trovare nessuno più abituato a questo dei Veneziani, che da secoli trasformano giorno dopo giorno la loro laguna. Soprattutto se teniamo conto del fatto che l'occupazione del delta del Nilo comporterà rilevanti lavori di sistemazione, lavori da zappatori o genieri diremmo oggi, sia in fase di difesa sia in fase di attacco, come scrive più avanti il Sanudo; lavori ai quali i Veneziani sono già abituati e che dunque non richiedono improvvisazione o addestramento ulteriore (42). Infine i Veneziani sono i meglio collocati geograficamente per navigare in Oriente e possiedono una frequente ed efficace catena di porti lungo la rotta. Considerazione veritiera, ma che ci apre un ulteriore spiraglio sulla funzione veneziana, almeno anche veneziana, dei progetti di crociata di Marin Sanudo. Infatti le considerazioni precedenti, tutte tendenti a dimostrare che i Veneziani dovevano fornire il nerbo dell'esercito e delle truppe impegnate in Egitto nel delta del Nilo, potevano anche essere intese soltanto in riferimento alla qualità umana e professionale degli uomini da impiegare, già naturalmente addestrati per il solo fatto di essere nati e cresciuti nelle lagune dell'alto Adriatico. Ma qui il Sanudo fa un ragionamento squisitamente strategico: i Veneziani sono già operativi lungo l'intera rotta, che dovrà essere percorsa avanti e indietro dalla flotta di appoggio al corpo di spedizione attestato nel delta del Nilo. Ovvio dunque che tocchi a loro fornire il supporto logistico e di copertura durante l'occupazione del delta. Una volta conquistato l'Egitto e caduta come conseguenza necessaria la Palestina, ecco che la rotta di rifornimento delle truppe crociate diventerà necessariamente la rotta dei grandi traffici fra l'India, l'Oriente mediterraneo, l'Europa, secondo lo schema che abbiamo già anticipato. Il progetto di crociata è anche progetto del futuro di Venezia, di una Venezia dominatrice del Mediterraneo e del Levante. Ma è anche espressione, probabilmente, di un forte sentimento del destino di Venezia, sinceramente avvertito dal nostro autore. Se Dio ha collocato Venezia e i Veneziani su quella rotta, ciò significa che la crociata è compito e missione di Venezia e dei Veneziani per esplicita e chiara volontà divina.
D'altronde - ecco un altro punto a favore di Venezia! - soltanto il percorso marittimo può assicurare ai cristiani sicurezza e tutela. Il viaggio via terra, il passagium tradizionale come è stato compiuto dalla prima Crociata, presenta troppi rischi e difficoltà e pericoli. Pericoli geografici e climatici, perché dovremmo affrontare il caldo e la sete del deserto; pericoli militari, perché si dovrebbe affrontare la massima potenza dei musulmani; difficoltà logistiche, perché sarebbero necessarie grandi quantità di rifornimenti da trasportare comunque via mare. L'Egitto, al contrario, potrà essere occupato "con minori spese e maggior difesa" dei cristiani, insiste ancora una volta Marin Sanudo, anche perché militarmente gli Egiziani non potranno opporre molta resistenza da soli. Come è noto, a differenza dei Siriani essi sono infatti pessimi soldati, ripete più volte. Né basta che cerchino di rinforzare i loro eserciti col rapimento di fanciulli di altre stirpi. Meglio dunque sbarcare direttamente in Egitto che affrontare i Siriani lungo l'itinerario terrestre (43).
Inoltre, ecco qui ancora una volta l'esperienza storica dei Veneziani giungere in soccorso e conforto di Marin Sanudo. L'operazione contro l'Egitto, che dovrà porre in crisi tutto l'apparato strategico, economico e militare musulmano, corrisponde, benché a scala molto maggiore, a quanto hanno fatto i Veneziani quando, per difendere la propria presenza e i propri interessi istriani, hanno colpito al cuore il territorio del Patriarcato di Aquileia, dal quale dipendeva la sopravvivenza dei nemici in Istria (44). Come allora in Europa, così oggi in Levante. La caduta dell'Egitto trascinerà con sé la caduta degli altri paesi infedeli, "perché la forza dell'Egitto è cuore e vita dei Saraceni" e dunque, ucciso il cuore, le estremità dalla Spagna all'Oriente più lontano rimaste prive di sangue si disseccheranno (45).
Ma qui, in questa fine del secondo libro, ecco un singolare e interessantissimo mutamento di prospettiva di analisi, che conferma ancora una volta la centralità del riferimento veneziano non solo per la strategia globale, ma anche per le considerazioni tattiche di Marin Sanudo, per il quale Venezia è sempre maestra. Abbiamo appena visto che colpire al cuore l'Egitto significa imitare Venezia, che ha colpito al cuore il Patriarcato di Aquileia. Ma anche difendere l'Egitto una volta occupato sarà possibile proprio soltanto se imiteremo Venezia, quando si è difesa contro gli attacchi delle città di terraferma. L'identità di situazione geografica, terra e acqua mescolate come in nessuna altra regione al mondo, rende le operazioni di difesa identiche nelle lagune veneziane e nel delta del Nilo (46). Anche la situazione strategica economica è comparabile. Come ho già ricordato, Marin Sanudo, quando segnala la debolezza economica egiziana causata da una ricchezza legata solo al commercio di transito, accortamente evita di indicare la somiglianza con la situazione economica veneziana. Qui invece il paragone tattico e strategico compare robusto e forte a tutto vantaggio di Venezia.
Come danneggiare gli Egiziani? Col blocco economico e con azioni di guerra, lo abbiamo già visto. Di nuovo ecco alcune indicazioni, alcuni paragoni interessanti. "Chi liberamente dominerà il fiume [cioè il Nilo>, potrà anche facilmente dominare la terra, come è stato detto sopra, nel capitolo quarto della prima parte". Ma proprio questo tipo di blocco economico è stato già messo in opera dai Veneziani in patria, quando lo hanno attuato contro i nemici di terraferma controllando le vie d'acqua interne (47). Se poi qualcuno avesse dei dubbi sulla possibilità concreta di risalire il Nilo fino alle città principali, basterà che si ricordi quanto hanno fatto in Italia i Veneziani: hanno risalito il Po entrando persino negli affluenti; hanno spezzato sbarramenti, affrontato fortificazioni, tutto frantumando e superando (48). Figuriamoci se non saranno capaci di violare il Nilo, giungendo fino alle città! Ancora una volta, dunque, il modello storico e strategico è costituito da Venezia. Un modello che apparentemente potrebbe sembrare soltanto tecnico e geografico, ma come evitare la forza di suggestione di un modello, che ci mostra in azione personaggi i quali hanno vinto tutto e tutti, natura e uomini? È evidente che Marin Sanudo vuole proporre sì un modello tecnico e militare, ma anche suggerire implicitamente, ma non troppo nascostamente, che questi uomini, già vittoriosi in situazione analoga, non sono soltanto i più esperti e capaci ed adatti a ripetere l'impresa, ma sono quelli ai quali il destino o, meglio, Iddio ha affidato il compito di liberare la Terra Promessa. Che poi questa vittoria imponga a tutti una supremazia economica della rotta fra Venezia e il Levante è un'ovvia conseguenza.
Tutto questo insistere su Venezia e sulla sua insostituibile funzione di centro e motore della crociata probabilmente risponde anche a necessità polemiche, che fanno dell'opera del Sanudo una testimonianza di un dibattito molto ampio e complesso nell'Europa di quel tempo. Marin Sanudo, ripetiamolo, è uomo di vaste esperienze europee e mediterranee, frequentatore e conoscitore degli ambienti papali e francesi; è in costante rapporto personale, diretto o epistolare, con la corte di Francia e con personaggi di spicco del mondo francese; infine indirizza missive persino allo stesso re di Francia. Non può dunque ignorare che in Francia, a corte, serpeggiano sentimenti di ostilità per Venezia e per la presenza internazionale di Venezia. Tipica è, in questo senso, l'attività di Pierre Dubois, che dedica alla crociata la sua opera più nota, il De recuperatione Terre Sancte, dove progetta anche una conseguente ristrutturazione dell'Europa e del Mediterraneo sotto influenza o diretto dominio francese. Orbene, Pierre Dubois scrive il De recuperatione Terre Sancte proprio fra il 1305 e il 1307, subito prima di quando Marin Sanudo imposta e scrive il primo libro del suo Liber secretorum fidelium Crucis. E nell'opera del francese, che vuole la crociata sotto controllo francese e prospetta appunto una ristrutturazione globale del mondo a favore della Francia, non mancano neppure alcune velenose frecciate contro le città marinare italiane, Pisa, Genova, Venezia, accusate di impedire la riconquista della Terra Santa a causa delle loro discordie. Ma non basta al Dubois che le nostre città marinare abbandonino le discordie; esse debbono anche rientrare nel dominio dell'Impero, sul cui trono sarebbe bene salisse un membro della famiglia reale francese (49). Nonostante la sequenza cronologica immediata fra le due opere del Dubois e del Sanudo, non penso che il nostro abbia scritto il Liber secretorum fidelium Crucis soltanto per rispondere al Dubois, difendendo l'onore e l'indipendenza di Venezia. Poiché peraltro il Dubois non è il solo a farsi portatore allora dell'ideale di un predominio francese, legato a una particolare missione religiosa dei re di Francia; e poiché certamente, per le sue frequentazioni, il Sanudo conosceva queste dottrine e questi programmi, ecco che possiamo ben dire che Marin Sanudo non soltanto vuole rispondere agli attacchi alla sua Venezia, ma osa contrapporre al progetto globale francese un progetto altrettanto globale di marca veneziana.
La quarta parte del secondo libro del Liber secretorum fidelium Crucis, densa e ricca di dati, non riguarda direttamente il nostro discorso, ma merita comunque almeno un cenno. Marin Sanudo vi prende in esame i problemi militari della spedizione in Egitto da un punto di vista strettamente tecnico (50). Dapprima descrive i tipi di navi necessari, soffermandosi anche sull'attrezzatura navale come i remi. Indica la consistenza degli equipaggi, descrive le armi da imbarcare sia sulle navi da combattimento sia su quelle da trasporto. Descrive quindi l'armamento individuale, difensivo e offensivo, degli uomini del corpo di spedizione (51). Dall'individuale al collettivo: i successivi capitoli si occupano di organica, con un senso ben chiaro della struttura dell'esercito e delle sue suddivisioni in reparti di 1.000, 100, 50, 10 uomini; perché "nell'esercizio delle armi più importante di tutto è la giusta organizzazione" (52). Ricordi classici? Certamente e il nostro infatti ben conosceva Vegezio; che vanno però inquadrati in una precisa esperienza della realtà contemporanea. Immediatamente dopo infatti il Sanudo descrive attentamente le razioni alimentari individuali e di gruppo, calcolate su base progressiva rigidamente decimale (10, 100, 1.000, 10.000, 100.000), il modo di rifornirsi e di distribuirle, precisandone anche il costo individuale e totale per giorno e per periodo (53). Insomma, Marin Sanudo appare sempre molto attento alla organica e alla logistica, perché evidentemente si rende conto, anche sulla base della propria esperienza personale e collettiva di veneziano, di quanto queste contino in una impresa ultramarina. Non solo, ma sa anche quanto le crociate precedenti abbiano sofferto per motivi logistici, soprattutto nei percorsi via terra, con conseguenti difficoltà anche di rapporti con popolazioni e autorità locali. D'altronde, quando prima ha scritto della necessità di avere un unico comandante in capo, ricordando la felice impresa di Goffredo di Buglione, che potrebbe essergli opposta come esempio contrario, ha anticipatamente ribattuto che in quel caso Goffredo era stato aiutato da un esplicito e diretto intervento di Dio.
Che cosa possiamo dire a commento sintetico e rapido di questo progetto di crociata di Marin Sanudo il vecchio? Soprattutto che esso è allo stesso tempo realistico e irrealistico, quanto mai agganciato alla realtà dei problemi e delle condizioni concrete, ma anche quanto mai proteso a cercare la realizzazione di condizioni impossibili. M. Sanudo sa molto bene quali siano le condizioni necessarie affinché la crociata possa avere successo: unità di comando, omogeneità e competenza professionale del corpo di spedizione, accentramento della gestione finanziaria della crociata, effettività e rigidità di esecuzione del blocco navale ed economico dell'Egitto. Nulla di più ragionevole; soltanto se queste condizioni saranno concretamente attuate, la crociata potrà avere successo.
Ma allo stesso tempo queste sono condizioni impossibili e irrealizzabili. Come sperare che tutti i principi europei mettano da parte gelosie e diffidenze per collaborare, affidando il comando ad uno solo fra loro, che quindi potrebbe acquistare un potere immenso? Come pensare che l'embargo non sia violato da questo e da quello? Come ritenere che lo stesso pontefice non sia sottoposto a pressioni continue con richieste di eccezioni, permessi straordinari, autorizzazioni di favore? Come sperare che un sostanziale controllo veneziano delle operazioni militari non provochi robuste diffidenze negli alleati? Soltanto una speciale assistenza divina, come quella che ha condotto alla vittoria Goffredo di Buglione, potrebbe fare il miracolo. Quindi le condizioni poste da Marin Sanudo sono logiche, ovvie, realistiche, ma anche impossibili. E forse il suo stesso sottolineare la presenza assidua della provvidenza di Dio durante la prima Crociata, l'unica andata rapidamente a buon fine, può essere un indizio di un qualche dubbio nello stesso Sanudo. Il quale peraltro non abbandonò mai la speranza di una offensiva generale contro i musulmani, insomma di una vera e propria crociata, benché modificasse il suo piano strategico in funzione dell'evolversi della situazione internazionale.
Altri nemici infatti in quegli stessi anni apparivano sulla scena e incominciavano a premere sul Mediterraneo: i Turchi ottomani. E proprio contro questi si dirige l'azione intellettuale, propagandistica e diplomatica di Marin Sanudo negli anni successivi alla stesura del Liber secretorum fidelium Crucis e la sua presentazione al pontefice. Non cambiano gli obiettivi finali della sua azione, ma cambiano i bersagli intermedi e la strategia operativa in funzione di questo nuovo pericolo (54). Documenti essenziali di questo sviluppo dell'attività del Sanudo sono soprattutto le lettere, che scrive infaticabilmente a molti corrispondenti, fra i quali troviamo alcuni dei più illustri e noti personaggi dell'epoca: papi, sovrani, principi, segno ancora una volta della ricchezza delle sue relazioni personali e della notorietà che lo circondava. A conferma della continuità ideale della sua azione, non mancano nelle lettere anche espliciti richiami all'opera principale, il Liber secretorum fidelium Crucis. Inoltre in questo quadro il Sanudo stende una vera e propria monografia storica, la Historia del Regno di Romania sire Regno di Morea, scritta originariamente in latino fra il 1328 e il 1333, ma a noi nota in una traduzione in italiano, riscoperta soltanto nel 1854 (55).
Inutile qui seguire passo passo la corrispondenza di Marin Sanudo, che appartiene alla storia delle relazioni internazionali più che a quella del pensiero politico. Merita però ricordare almeno che in questa nuova situazione il Sanudo deve modificare anche il suo atteggiamento verso l'Impero bizantino o quanto restava di questo Impero un tempo forte e potente. Abbiamo visto prima che nel suo proclamare e organizzare la crociata Marin Sanudo considera Bisanzio un potentato quanto meno ambiguo e ostile, se non proprio nemico. Qui invece, nella nuova situazione strategica, Bisanzio diventa un utile, persino necessario alleato contro i Turchi, cosicché il Sanudo diventa quasi un propagandista e un apologeta occidentale dei Bizantini, coi quali si affanna a proporre un'azione diplomatica, politica, militare comune. Senza peraltro mai dimenticare quali siano gli interessi veneziani nell'Egeo e nel Levante, nonché la centralità di Venezia anche nella nuova crociata antiturca. Sono i Veneziani, infatti, quelli che meglio di chiunque altro possono, per conoscenza e forza, capitanare la nuova impresa. Non si tratta però di propaganda rozza. Il Sanudo evidentemente sente di dover giustificare in qualche modo il suo mutare di opinione e la nuova proposta di alleanza, cosicché più volte cerca di comprendere la storia e il significato dell'Impero bizantino, scavando attentamente nei perché della ormai inveterata controversia fra Bizantini e Occidentali, fra ortodossi e cattolici, ponendo in rilievo soprattutto quanto può unire piuttosto che quanto può dividere, minimizzando anzi le differenze fra Bisanzio e gli Europei d'Occidente e non trascurando le ragioni dei Bizantini.
Michele Paleologo nel racconto di Marin Sanudo è quasi un modello di principe cristiano, che si adopera per l'unione delle due Chiese, latina e greca, anche a costo di colpire pesantemente i suoi stessi prelati. Manda ambasciatori al Concilio di Lione, dove questi si adattano persino a cantare il Credo secondo il testo occidentale (56). Insomma, nessun imperatore greco "hà fatto tanto per la Chiesa, e per ben della Cristianità, quanto il sopradetto Sior Michieli [...>" (57). Il guaio, storicamente radicato, è che all'unione fra le due Chiese si frappongono ostacoli politici, come politica è stata l'origine di tutto il dissenso. "Ed io penso, che dappoi, che l'Imperio Romano fù trasferito da Greci a Tedeschi, non vi fù più Amor tra Greci e Latini" scrive ancora il Sanudo in una notazione chiave per la comprensione del suo pensiero (58). Il momento della rottura non è quello dello scisma, che comunque verrà molto dopo, ma quello dell'atto di dominio papale, che levò la corona imperiale dalla testa del sovrano bizantino per darla al sovrano occidentale. Per il Sanudo iniziò allora una duplice frattura; certamente quella fra Oriente ed Occidente, forse anche quella fra Impero e Chiesa. Quella frattura fra Impero e Chiesa, che proprio in quei tempi mostrava ancora, forse per l'ultima volta, tutta la sua virulenza nel contrasto fra Giovanni XXII e Lodovico il Bavaro.
Sembra quasi che Marin Sanudo insinui che la frattura politica sia all'origine di quella religiosa. Se l'Impero fosse rimasto unito nelle mani dell'imperatore bizantino senza che il papa gli contrapponesse un imperatore occidentale, l'Oriente greco non avrebbe avuto bisogno di spezzare l'unità religiosa. Una Chiesa e un Impero: così sarebbe stato il mondo senza l'incoronazione di Carlo Magno. Come d'altronde Dio ha sempre voluto, tanto che lo stesso nostro Signore ha detto che doveva esistere un solo pastore ed un solo ovile (59). L'unità è una; se viene rotta nel politico, prima o poi sarà spezzata anche nel religioso. Gravissima colpa è stata dunque quella del papa, quando ha scomunicato l'imperatore Michele Paleologo, che tanto si era adoprato e si stava adoprando per l'unione delle Chiese; colpa tanto più grave perché all'origine del comportamento papale stanno anche questa volta motivi politici e non religiosi (60). Qui il Sanudo proprio non può trattenersi: questo è stato mal fatto, dichiara apertamente, pur precisando "il che dico tuttavia con emendazione e riverenza quanto posso [...>" (61). Colpa, che potrebbe portare la cristianità alla rovina, poiché sempre il Signore dice che "il Regno in se diviso sarà desolato, e le Case cascheranno una sopra l'altra" (62); come sembra stia appunto avvenendo oggi, quando "e l'una e l'altra patisce danno, morte, distruzion per questa divisione [...>" (63). Una posizione filobizantina, che non possiamo spiegare soltanto con la convenienza del momento, ma che invece nasce certamente da un profondo ripensamento del Sanudo.
L'ultima parte del terzo libro del Liber secretorum fidelium Crucis riguarda l'assetto politico della Terra Promessa dopo la liberazione crociata e vi troviamo alcune non trascurabili considerazioni politiche sul sovrano e sulle sue qualità. Nulla di nuovo o di veramente originale, ma un evidente interesse per il tema del re, che merita di essere ricordato anche in alcuni particolari. Certo è che questi capitoli possono ben essere considerati un rapido e succinto speculum principis Terrae Promissionis, entrando dunque a buon diritto in quel filone di trattatistica politica, sviluppatosi dall'età carolingia fino al pieno XVI secolo, che abbiamo già ricordato a proposito di Paolino Minorita e del suo De regimine rectoris. Ulteriore legame, intellettuale, fra due uomini, le cui vite si sono incontrate e intrecciate più volte.
Conquistata la Terra Promessa, laggiù dovremo avere un solo sovrano (64). E questo per una molteplicità di motivi, alcuni chiaramente indicati da Marin Sanudo, altri non espressi ma (credo) altrettanto evidenti e taciuti soltanto per motivi di opportunità. Fin troppi erano i motivi di litigio e dissidio per la crociata e le terre del Levante, perché il nostro ne volesse aggiungere esplicitamente altri. Il primo motivo addotto da Marin Sanudo è biblico. Dio stesso infatti, come è scritto già nel libro biblico del Deuteronomio (XVII, 14), ha voluto che il suo popolo avesse un re. Quindi, possiamo dedurre, per il Sanudo il potere dei re viene da Dio, essi regnano perché così Iddio ha voluto. Ma perché un solo re? Perché un solo governante e non una pluralità? Qui ecco intrecciarsi motivi biblici e motivi più strettamente politici e sociali. Cristo stesso ci ha detto, continua Sanudo, che non possiamo servire due padroni. Lo dichiara nel modo più evidente il Vangelo di Matteo, esplicitamente citato con preciso riferimento al capitolo e al versetto (VI, 24). A dire il vero, qui le parole di Cristo si riferiscono a Dio e a Mammona, un signore celeste contro un signore terreno, la santità contro la ricchezza. Errore di Marin Sanudo, che va oltre il dettato evangelico, interpretandolo male e troppo estensivamente? Non credo. Probabilmente soltanto un passaggio, logico e ovvio per il Sanudo e per l'epoca, dal dettato religioso al dettato politico.
D'altronde soltanto se avremo un unico e solo re a regnare su tutti, sarà possibile avere pax et unitas, pace e unità nel popolo della Terra Promessa. Ecco apparire, in tutta la loro forza, i motivi politici a favore del regime monarchico e dell'unità del governante. Il Sanudo ricorda di avere già chiesto prima che il corpo di spedizione abbia un unico comandante, anche se eventualmente nell'esercito dovessero essere presenti uomini di diversi popoli, lingue, Stati. Allo stesso modo uno solo dovrà essere il re, altrimenti quelle divisioni, quei dissensi fra lingue e nazioni, che abbiamo evitato durante la campagna militare, nascerebbero o rinascerebbero ancora più forti dopo la conquista della Terra Promessa e la fondazione o rifondazione del regno crociato e cristiano in Palestina.
A fondamento del ragionamento del Sanudo ecco ancora una volta la sua antica esperienza personale e storica. Gli eserciti etnicamente e linguisticamente compositi, formati di reparti autonomi e indipendenti hanno dato cattiva prova; così anche la frammentazione degli organismi politici, che sono stati creati in Levante dopo la prima conquista. Occorre cambiare registro; occorre un solo regno con un solo sovrano. Che poi questo debba essere un veneziano, come veneziano dovrebbe essere il comandante in capo militare, Marin Sanudo non lo dice. Né possiamo fare ipotesi sul perché. Forse temeva troppe reazioni sia in patria sia fuori di Venezia. O forse pensava anche che era inutile proporlo troppo presto. L'importante è comunque raggiungere l'unità ad ogni costo. Il Soldano di Babilonia, scrive ancora il Sanudo, afferma che il corpo politico e militare a lui sottoposto ha molte code, ma una sola testa, cioè il Soldano stesso. I cristiani invece hanno una sola coda e molte teste. Qui stanno la forza dei musulmani e la debolezza dei cristiani: perché molte code trovano unità nell'unica testa, sommando così le loro forze, mentre una sola coda divide la sua forza, anzi la perde del tutto, se non sa come indirizzarla, cercando di seguire molte teste contemporaneamente.
L'importanza e la necessità dell'unità di comando torna anche nella Historia del Regno di Romania sive Regno di Morea. Purtroppo il passo è alquanto confuso nel testo dell'edizione, unica, che possediamo, ma comunque possiamo ricavarne almeno alcune impressioni non trascurabili in materia (65). Qui Marin Sanudo richiama i soliti passi scritturali: dovrà esservi un solo pastore e un solo ovile; ogni regno in sé diviso sarà desolato e le case, lacerate, cadranno l'una sull'altra (66). Ma ecco che questi richiami hanno una immediata applicazione politica. La verità del richiamo evangelico alla rovina delle case è infatti confermata dalla situazione italiana, dove le lotte civili provocano esilii e rancori. Se viene a mancare un capo supremo, sembra affermare abbastanza chiaramente Marin Sanudo, i singoli non soltanto seguono i loro propri desideri, ma possono anche farsi tiranni: "levato un Capo robusto, tiranizzano e volevano far l'appetito loro". Sembra quasi di leggere ancora una volta san Tommaso d'Aquino, secondo il quale si passa molto più facilmente alla tirannide dalla democrazia che non dalla monarchia, perché è più facile farsi tiranno per un demagogo, che opera in seno a una disordinata moltitudine, di quanto non lo sia per un sovrano (67).
Ma c'è un'altra affermazione singolare, confusa e dunque da prendere con molta attenzione, ma non per questo trascurabile. Alcuni problemi, relativi alla situazione bizantina e ai greci d'Italia sembrano esistere o essere inveleniti "perché oggi la Sedia Romana non vuol a questo tempo approbbar l'Imperatore e drizzava le mani ultrici contra li Tiranni per mettervi pace nelli Popoli di Dio e convertiva increduli" (68). Ricordiamo che in questi tempi Marin Sanudo si è spostato su posizioni filobizantine e dunque è spiegabile il suo rispetto e la sua attenzione per l'imperatore d'Oriente. Ma qui sembra esserci una precisa critica alla Chiesa di Roma: se gli uomini si fanno tiranni, se i regni e le città sono divisi e desolati, ciò avviene perché la Chiesa manca al suo compito disconoscendo l'imperatore. La Chiesa sarebbe fonte e causa di discordia. Se questo fosse veramente il significato del passo, peraltro confuso e caotico, Marin Sanudo sarebbe molto vicino a quel Marsilio da Padova, che proprio su questa linea aveva appena scritto il suo Defensor pacis terminato nel 1324 (69). Il re, continua Marin Sanudo nel Liber secretorum fidelium Crucis, dovrà essere specchio di tutte le virtù, secondo il modulo dell'epoca, che già abbiamo trovato nell'opera di Paolino Minorita. Sarà dunque Dio stesso a dover scegliere il sovrano. Sarà infatti re "quello che il Signore Iddio sceglierà: colui che odierà il male, che sarà fiore di virtù, che sceglierà il meglio, che detesterà i delitti" (70). Un richiamo alla volontà elettiva di Dio, non infrequente nella realtà dei regni crociati di quei decenni.
Seguono altre numerose indicazioni sulle virtù specifiche del sovrano. Elenco che qui poco ci interessa, perché non vi è nulla di originale. Soltanto due elementi sembra opportuno sottolineare. Marin Sanudo conosce ed utilizza Aristotele, di cui cita sia l'Etica sia la Politica, segno ancora una volta della sua cultura e del suo essere al passo con gli sviluppi intellettuali dell'epoca. Inoltre qua e là affiorano ancora una volta i ricordi e i segni delle esperienze storiche del secolo e poco più, che è passato dalla prima conquista di Gerusalemme. Quando il Sanudo precisa che il futuro sovrano non dovrà indulgere né all'adulterio né alla poligamia, ecco che il nostro cita l'esempio negativo di Baldovino, re di Gerusalemme. Quasi a dichiarare che senza timore di Dio non si può restare sul trono di Gerusalemme.
Complessa e articolata fu la produzione storica a Venezia nel Trecento, con fasi diverse per metodo e oggetto dello scrivere di storia, con momenti di produzione intensa alternati a periodi di stanca. Se l'attenzione è stata riservata finora soprattutto alla produzione cronachistica, non mancano però in quei tempi storie di altro genere, tanto universali quanto monografiche, per quanto questa parola possa essere applicata a testi molto lontani dalla nostra sensibilità e dalla nostra metodologia. Sempre o quanto meno molto spesso, però, in tutti questi tipi e modelli di storia possiamo trovare, come filo conduttore, quello che tempo dopo sarà il vero e proprio mito di Venezia. Troviamo cioè un'attenta esaltazione non soltanto dei fatti, che tornano a onore dei Veneziani, ma una vera e propria tendenza a scegliere avvenimenti e interpretazioni, che possano avvalorare l'idea di una speciale posizione di Venezia nel mondo. Con almeno tre specificazioni: Venezia è libera e indipendente dalle origini; Venezia ha un governo del tutto particolare rispetto agli altri organismi politici; Venezia ha una sua propria missione da compiere.
Particolarmente celebrato e sentito fu il memorabile avvenimento del 1177, quando erano convenuti a Venezia il papa Alessandro III e l'imperatore Federico Barbarossa; e Venezia, dogando Sebastiano Ziani, secondo la tradizione e l'interpretazione cittadina dell'avvenimento aveva svolto funzione e da ospite e da mediatrice fra i due poteri universali della cristianità. All'incontro, destinato a restare profondamente e a lungo nella memoria cittadina, al principio degli anni Venti dedica una "monografia" in latino il notaio ducale Bonincontro dei Bovi, morto circa nel 1348. L'avvenimento è narrato in modo da far risaltare al massimo la funzione e l'azione di Venezia e dei Veneziani. Loro è il merito del buon risultato delle trattative; loro è la gloria militare navale per la vittoria - presunta - di Punta Salvore; a loro va la gratitudine del pontefice, che colma città e doge di riconoscimenti, attribuendo anche insegne di merito e di distinzione. Cosicché l'opera di Bonincontro diviene uno dei fondamenti del mito di Venezia, così apprezzata che una versione in volgare del suo testo latino alla fine del secolo viene persino copiata nel libro I dei Pacta (71). Quanto gli avvenimenti del 1177 sollecitassero l'orgoglio veneziano è d'altronde confermato dal fatto che proprio l' 11 dicembre 1319, probabilmente negli anni durante i quali scriveva Bonincontro, fu deciso di por mano con finanziamento pubblico ad un ciclo di affreschi celebrativi nella chiesa di San Nicolò. Una decina di anni dopo l'argomento era ripreso da un notaio e maestro di grammatica, Castellano di Simone da Bassano, che ne faceva però oggetto di un poema in esametri latini, dedicandolo al doge Francesco Dandolo nel 1331 (72). Da questo momento la tradizione e il ricordo del fastoso avvenimento del 1177, che consacrava Venezia potenza e mediatrice universale, entrano a far parte stabilmente e irrevocabilmente del nascente mito di Venezia (73).
Poco dopo, negli anni Quaranta un altro notaio ducale, Iacopo di Piacenza, morto nel 1349, scrive un'altra cronaca, dove narra le vicende della guerra condotta vittoriosamente dai Veneziani contro gli Scaligeri dal 1336 al 1339. Ed anche lui la accompagna con un poema in esametri latini (74).
Sul fronte delle storie universali, che insieme con le "monografie" segnano la prima metà del secolo quando la cronachistica sembra in fase di stanca, la scena è occupata soprattutto dagli scritti storici di Paolino Minorita, il frate francescano del quale ci siamo già occupati a proposito del suo trattatello De regimine rectoris. Ricordiamo di lui tre testi a carattere storico e precisamente, nell'ordine cronologico di stesura: Nobilium historiarum epitoma, Chronologia magna o Compendium, Historia satyrica. Senza entrare ora nella complessa vicenda dei precisi rapporti fra i tre testi, basti qui ricordare che il primo e il terzo si corrispondono quasi esattamente con un evidente ampliamento materiale di notizie e informazioni, mentre il secondo, costituito sostanzialmente da una serie di tavole cronologiche geometricamente organizzate, si pone quasi come strumento di raccordo fra i due. Tutto questo consente di trattare i tre testi come complementari o, meglio ancora, come un'unica opera in formazione ed evoluzione (75). Purtroppo tutta l'opera storica di Paolino, così ricca di fasi di sviluppo e di contenuti, è ancora in massima parte inedita, mentre mancano studi complessivi dedicati esplicitamente ed intensamente alla sua opera storica, quasi che la sua importanza stia soltanto o soprattutto nell'aver fornito al doge Andrea Dandolo materiale per la sua cronaca (76).
La storia, scrive Paolino nel prologo della Historia satyrica, ha una sua ben precisa metodologia, diversa da quella delle scienze naturali, ma anche da quella della teologia. Le scienze, infatti, indagano su cose che non possono essere diverse da come sono state finora; la teologia indaga verità che sono state enunciate, rivelate, da Dio. Invece lo storico indaga cose che non sono più davanti ai suoi occhi, che sono mutevoli nel tempo, che non sono state oggetto di diretta rivelazione divina. Ne consegue che la storia, i fatti della storia possono essere conosciuti soltanto grazie a un paziente lavoro di erudizione (77). Partendo da questo principio Paolino Minorita utilizza le fonti a sua disposizione, soprattutto lo Speculum historiale di Vincenzo di Beauvais, per dar vita a un vasto affresco storico universale dalle origini del mondo, dalla creazione dell'uomo fino ai tempi dell'autore. La storia è "storia delle imprese dei re e dei regni e dei sommi pontefici dalla creazione del mondo fino ad Enrico VII imperatore romano" (78) ed infatti l'opera di Paolino è scandita dal susseguirsi dei nomi degli imperatori e dei pontefici, dei sovrani laici e dei principi ecclesiastici. Se dobbiamo interpretare l'opera storica di Paolino Minorita in riferimento alla sua Venezia, possiamo ben dire che egli di fatto (se volutamente o involontariamente qui poco importa) diviene tramite fra i grandi manuali di storia universale (come quello di Vincenzo di Beauvais) e la sua città, fra le storie universali di grande circolazione internazionale e la cronachistica cittadina. D'altronde questo non è un fenomeno strettamente veneziano, bensì quanto meno italiano, poiché altrettanto avviene a Firenze, a Pisa e in altre città ancora. L'operazione è condotta da Paolino con notevole abilità, integrando le notizie universali, generali, di altrove, con una robusta dose di notizie veneziane. Cosicché la sua Historia satyrica fu poco dopo fonte primaria per la cronaca del doge Andrea Dandolo, come vedremo fra poco.
La Historia satyrica ebbe una discreta diffusione e una notevole importanza ai suoi tempi. Lo dimostra il numero di manoscritti esistenti o dei quali abbiamo notizia, ma anche il fatto che esiste almeno una traduzione, precisamente in provenzale, di almeno una parte dell'opera di Paolino e precisamente della Chronologia magna, proprio quella particolare versione della sua storia, che compendiava al massimo il suo testo in un agile strumento di informazione documentaria e cronologica (79). Particolarmente importante e significativa è poi un'annotazione su un codice conservato a Bamberga:
Esistono quattro copie. Questa [di Bamberga>. Un'altra la possiede il Comune di Venezia; la terza la possiede Re Roberto, il quale mediante questo libro descrive a tutti gli ambasciatori le condizioni delle loro terre e regioni, cosicché giustamente ammirano la sua sapienza. La chiesa di Praga ha la quarta copia (80).
Copie dell'opera storica di Paolino sono dunque in mano ad ecclesiastici, come è ovvio, ma anche a un re e agli ambienti di governo di Venezia. Questo significa non soltanto che l'opera di Paolino girava, ma anche e soprattutto che girava ad alto livello e in ambiente politico, ben al di là del mondo degli eruditi di professione: Paolino trova lettori fra i governanti, quelli ai quali la storia serve per la politica.
In una singolare situazione si trova come storico Marin Sanudo il vecchio. Non tanto per la lunga e poco originale storia della Palestina che, come abbiamo già ricordato, occupa gran parte dell'ultimo libro del Liber secretorum fidelium Crucis, quanto per la sua Historia del Regno di Romania sive Regno di Morea (81). Questa sua opera nasce evidentemente per meglio illustrare la situazione del Levante e la complessità delle sue vicende, proprio quando Marin Sanudo (lo abbiamo già rilevato) modifica la sua posizione nei confronti dell'Impero bizantino, proponendo di fatto che anche l'imperatore d'Oriente partecipi alla lotta contro i musulmani. Ma ben presto il suo testo diventa una selva di informazioni, ben esposte, ma dove le digressioni sono ampie e robuste. Parla della Sicilia e dei problemi che questa ha fra Francesi e Aragonesi; tratta ampiamente delle vicende emiliane e romagnole, di lotte cittadine, di fazioni "guelfe" e "ghibelline", senza che sia sempre evidente il perché di questi inserimenti.
Se non sono chiari i motivi specifici delle singole digressioni, è però chiaro l'obiettivo generale della Historia del Regno di Romania sive Regno di Morea: spiegare come e perché si debba giungere all'alleanza con Bisanzio al di là del conflitto religioso e politico con l'Occidente e con Roma. La stessa volontà di discolpare almeno in parte i Bizantini, anche a costo di dare qualche dispiacere al pontefice romano, rientra nel quadro di questo obiettivo. Ma allora diviene ancora più chiaro quello che abbiamo appena detto per Paolino Minorita: la storia serve per la politica. Per Paolino questo avviene a livello di fruizione: le sue opere storiche sono utilizzate anche e forse soprattutto da chi è impegnato nella politica, forniscono informazioni a chi, come Roberto d'Angiò, deve operare personalmente nel raffinato gioco delle relazioni internazionali. Per Marin Sanudo invece è lo stesso autore a scrivere per la politica, per dimostrare attraverso le vicende storiche che le sue proposte politiche possono essere concretamente realizzate.
Detto quasi per inciso, c'è un altro ulteriore momento di contatto metodologico e intellettuale fra Paolino da Venezia e Marin Sanudo Torsello il Vecchio, questi due uomini le cui vite si intrecciano così frequentemente e strettamente. Per entrambi la cartografia è un elemento irrinunciabile del loro scrivere di storia. Paolino afferma che è molto difficile, se non persino impossibile comprendere veramente le cose, se non si dispone di una carta geografica. Né il discorso si limita a queste affermazioni di principio perché, al contrario, sia le opere di Paolino sia quelle di Marin Sanudo sono arricchite da carte di vario tipo, che hanno attirato più volte l'attenzione degli storici della geografia e della cartografia (82).
La maggior produzione storiografica in Venezia fu certamente quella delle cronache, che diede vita a una vera e propria tradizione cittadina, familiare, personale, che partendo da tempi remoti della vita veneziana si snoda a lungo nei secoli fino persino al Seicento. Pur in mancanza di un censimento preciso sono stati stimati intorno ai mille, cifra stimata probabilmente per difetto, i codici di cronache veneziane (83). Le cronache entrarono evidentemente nel costume cittadino e fu quasi obbligo, ma quanto meno uso, possedere una cronaca o stendere progressivamente una cronaca degli avvenimenti cittadini. In che modo si formava solitamente una cronaca? Per i tempi precedenti i suoi il cronista utilizzava normalmente un testo altrui, che veniva peraltro spesso modificato e corretto secondo le necessità del nuovo compilatore. Quindi l'autore stendeva direttamente in modo più o meno originale il racconto dei suoi anni, una sorta di diario quotidiano. Il fatto è che poi, successivamente, anche questo diario contemporaneo veniva ulteriormente utilizzato come cronaca antecedente da un autore diarista più tardo. Cosicché quello che era stato diario diventava cronaca passata. Si è sviluppato così un intricatissimo cespuglio o albero di cronache, nelle cui ramificazioni e nei cui rapporti genetici si avventurano con difficoltà persino gli specialisti di maggior calibro. La situazione è per di più complicata dal fatto che la maggior parte delle cronache veneziane è ancora inedita, cosicché ancor più difficile è individuare rapporti fra i testi e fra i loro significati.
Merita inoltre sottolineare che questi codici hanno spesso una dignità formale non trascurabile, a conferma del significato sociale della loro esistenza e proprietà. Numerosi sono i codici figurati, per i quali è possibile individuare mani ricorrenti, scuole di miniatura e forse anche relazioni con cicli di pitture a carattere ufficiale della Serenissima. Molti sono anche i codici firmati dal copista, né mancano quelli dove il proprietario segna attentamente dove e da chi ha comprato il codice e quanto lo ha pagato. Tutto questo conferma la funzione sociale delle cronache, documenti di una tradizione e di una consuetudine diffusa. Una consuetudine di carattere squisitamente cittadino, che lega le cronache all'ideologia dominante, intesa non nel senso di una ideologia del momento, della lotta politica del qui e dell'ora, bensì di una ideologia permanente di Venezia e delle sue strutture politiche, ritenute durature e immutabili. L'ideologia insomma di una città che, nonostante alcune evidenti e forti critiche esterne e talvolta anche interne, riteneva di possedere una realtà di solidità e stabilità sociali e istituzionali infinitamente superiore a quelle delle altre città italiane.
Questo significa che da un lato si tende ad appiattire su un sentire comune ogni fatto storico, ogni avvenimento narrato. Non che manchino le analisi acute e personali, ma alla fin fine la grande corrente delle cronache presenta alla città quello che la città vuole essere, quello che ritiene debba essere ed essere stato il suo passato. Dall'altro significa però anche che si consolida il sentimento di un comune destino cittadino, veneziano, che comprende tutti i ceti sociali e tutti i personaggi, tranne quelli che proprio non si possono accettare, perché hanno superato ogni margine di allontanamento dal vivere comunitario. La cronachistica veneziana diviene così elemento strutturalmente portante del mito di Venezia all'interno della città e non a caso troviamo nelle cronache, fin dai primi tempi ma molto più nel nostro secolo, alcuni elementi irrinunciabili di questo mito.
Fondamentale è e sarà il discorso sulle origini di Venezia, complesso e intricato, ma non per questo meno importante e interessante per i Veneziani di quei tempi. Mito irrinunciabile è quello della indipendenza originaria: mai Venezia è stata sottomessa ad alcuno, la sua vita è sempre stata libera in ogni momento. Ma altrettanto forte è la ricerca di fondatori antichi e nobili. Non basta sostenere che i fondatori di Venezia furono uomini di alto lignaggio in tutti i sensi, materiale e spirituale, occorre trovare origini il più possibile antiche: Roma ma anche Troia, in una gustosa rincorsa al passato più remoto e più nobile (84).
Questo denso filone storiografico di cronache cittadine, del quale abbiamo ritenuto fosse necessario e utile ricordare alcuni caratteri generali, nei primi decenni del Trecento incontra un momento di stanca e di sosta, al quale corrisponde però la fioritura delle storie universali e monografiche, delle quali abbiamo scritto prima. Tutto cambia fra 1340 e 1360, venti anni durante i quali la cronachistica veneziana, pur senza perdere le sue durature caratteristiche fondamentali, trova nuovi spunti, nuovi autori, nuove cause e modalità di espressione. Elemento chiave o quanto meno uno degli elementi chiave di questo mutamento è l'opera multiforme del doge Andrea Dandolo, vissuto dal 1306 al 1354, la cui carriera è segnata dalla rapidità e dalla giovane età alla quale consegue cariche di grande rilievo, dogado incluso (85).
Uomo di vasti interessi; dotato sicuramente di una robusta preparazione giuridica, benché non sia ancora certo in qual modo e dove l'abbia acquisita; in contatto con Francesco Petrarca; Andrea Dandolo vive una vita culturale strettamente intrecciata con quella politica. Quando, ancora giovanissimo, è procuratore di San Marco, la carica di massima dignità dopo quella dogale, stende quella che convenzionalmente è detta la Chronica brevis, solo 23 pagine a stampa nell'edizione critica moderna, che dalle origini di Venezia giunge fino al 1342, vigilia dell'elezione del Dandolo al dogado. Intorno ai trent'anni compila la Summula Statutorum Floridorum Veneciarum, raccolta in tre parti di deliberazioni di varia data del maggior consiglio, che negli intenti del suo autore integra, pur restando un testo a carattere strettamente privato, la codificazione degli Statuti operata a metà Duecento dal doge Giacomo Tiepolo (86).
Appena eletto doge (gennaio 1343) cura immediatamente che si faccia una nuova raccolta di deliberazioni, di partes, come venivano chiamate, che viene pubblicata nel 1346 col titolo di Liber sextus, in prosecuzione ideale e reale ma questa volta ufficiale e pubblica, della raccolta in cinque libri degli Statuti fatta fare dal doge Tiepolo. Intorno al 1347 Andrea Dandolo, inoltre, promuove la compilazione di due raccolte ufficiali di documenti; quelle che conosciamo come Liber albus e Liber blancus, dedicate a conservare rispettivamente documenti riguardanti le questioni orientali, rapporti con l'Impero d'Oriente, la Siria, l'Armenia, Cipro e così via, e documenti riguardanti i rapporti con gli Stati italiani. Poco dopo l'elezione al dogado inizia inoltre a stendere la Chronica per extensum descripta, alla quale lavora almeno fino a tutto il 1352, e che occupa ben 323 pagine nell'edizione moderna, fermandosi però soltanto al 1280 (87).
Sei lavori, dunque, tre di creazione diretta di Andrea Dandolo e tre da lui voluti e promossi, che mostrano un interesse quanto mai vivo per la storia e soprattutto per la documentazione storica, giuridica, politica. Come dire che da un lato vediamo il Dandolo scrivere direttamente di storia, dall'altro lo vediamo compilare o promuovere raccolte ufficiali o private di documenti. Due attività però, che non possono essere valutate separatamente, perché trovano un reale centro di unificazione nella persona di chi compie questo lavoro, che non è un puro erudito, bensì un uomo duramente impegnato in politica. Ancora una volta, dunque, la storia e il diritto per la politica. Ma con una novità importante: questa volta a farsi cronista della propria città è a Venezia un uomo di primo piano. Se fino ad allora i cronisti erano stati uomini sì dell'apparato politico, ma di seconda fila, funzionari soprattutto, dei quali spesso sappiamo poco o nulla, ora con Andrea Dandolo il ceto di governo esce allo scoperto impegnandosi direttamente anche in questa delicatissima opera intellettuale (88).
Andrea Dandolo rivendica apertamente la paternità della Chronica brevis fin dal prologo stesso dell'opera. Meno evidente è il suo segnalarsi come autore nella Chronica extensa, perché le due indicazioni esistenti sono incidentali nel corso del testo (89), ma non dobbiamo dimenticare che questo secondo lavoro storiografico del Dandolo ebbe una risonanza pubblica e aperta, quando la cronaca era ancora in fase di stesura. Infatti il 5 dicembre 1352 il cancelliere Benintendi Ravignani, stretto collaboratore del Dandolo, anch'egli in contatto col Petrarca ed entrato in carica appena nel luglio dello stesso anno, scrisse una lettera ai consiglieri veneziani, informando loro e tutta la città dell'esistenza della cronaca in lavorazione (90). Anche se il cammino è ancora molto lungo, siamo dunque già sulla via, che condurrà lentamente alla nascita della storiografia ufficiale, di quegli storici che scriveranno per incarico pubblico.
Stringatissima, rigidamente impostata sulla sequenza dei dogi, priva di apparato documentario, la Chronica brevis potrebbe avere avuto forse una circolazione ristretta soltanto all'interno degli uffici dei procuratori o, comunque, degli uffici pubblici veneziani, come avverrà più tardi per altri testi. Un uso quasi di repertorio, che potrebbe essere confermato dalla presenza di alcune notizie, significative soltanto a livello veneziano interno.
Diversa per impianto e struttura la Chronica extensa. Se la Chronica brevis tratta soltanto di avvenimenti esclusivamente veneziani, la Chronica extensa dà spazio, e molto, ai fatti del mondo esterno, per i quali Andrea Dandolo utilizza ampiamente e intensamente la Historia satyrica di Paolino Minorita. D'altronde, quale miglior soluzione dell'utilizzazione a questo fine di una storia generale ed universale di autore veneziano, che presentava (e forse proprio per questa venezianità di origine) una notevole abbondanza di riferimenti alle vicende veneziane? Troviamo comunque anche qui la scansione per dogi, che assume inoltre caratteristiche particolari di importanza e significato. Il modello del Dandolo, infatti, cioè Paolino Minorita, aveva scandito la sua Historia satyrica secondo la sequenza dei poteri universali, soprattutto dei pontefici; Andrea Dandolo invece adotta una scansione segnata dai dogi di Venezia, che sostituiscono ogni altro potentato non appena compaiono sulla scena. Qui incontriamo la più profonda venezianizzazione della storia: nel succedersi dei tempi, degli anni, dei secoli, i dogi di Venezia servono da riferimento universale, cosicché anche gli avvenimenti esterni a Venezia risultano inquadrati in una cronologia veneziana. La prospettiva è radicalmente rovesciata: non Venezia nel mondo, ma il mondo attraverso Venezia. La seconda caratteristica nuova della Chronica extensa sta nella presenza di una gran quantità di materiale documentario, 40 documenti riportati per intero e circa 240 citati abbreviati o sunteggiati.
Da queste due caratteristiche combinate (l'inserimento degli avvenimenti del mondo nel quadro di una scansione esclusivamente veneziana; l'abbondanza di documentazione) risulta fortemente esaltata la venezianità della cronaca di Andrea Dandolo, quasi trasformata in una permanente memoria difensiva, ma anche aggressiva delle vicende veneziane. Tanto la Brevis quanto la Extensa sono testimonianza evidente di una volontà di risistemazione del passato di Venezia, che opera con intelligenza in riferimento ad una finalità ancora elogiativa e apologetica come la cronachistica più vecchia, ma alla luce della documentazione storica, cercando anzi di utilizzare appieno la documentazione storica per comprovare il discorso e renderlo più efficace e convincente. Talmente convincente che a questo punto Venezia nell'opera di Andrea Dandolo sembra assumere caratteri unici ed eccezionali, città prediletta da Dio e dal destino. Chiunque voglia denigrare Venezia o mettere in discussione il suo buon diritto in qualsiasi momento o in qualsiasi luogo dovrà fare i conti con la cronaca e la documentazione di Andrea Dandolo. O dei suoi successori come cronisti e storiografi, nel senso che la cronaca di Andrea Dandolo forse avrebbe dovuto continuare negli anni e nei secoli la sua funzione, attraverso l'opera di altri cronisti e storici, che si sarebbero assunti, quale dovere patrio veneziano, il compito di continuare a narrare e documentare le vicende e il buon diritto di Venezia.
Le opere storiche di Andrea Dandolo ebbero un effetto dirompente sulla cronachistica veneziana; effetto causato insieme e dalla persona pubblica dell'autore e dalla novità intrinseca dei testi. La loro fortuna fu tale che potrebbe persino, come è stato ipotizzato, aver quasi condannato all'oblio e all'abbandono la produzione cronachistica dei tempi precedenti (91). Delle due la maggior fortuna arrise alla Chronica brevis, che divenne base e strumento per aggiornamenti e altri testi cronachistici. Ma anche la Chronica extensa continuò a circolare quanto meno all'interno degli uffici veneziani, per i quali era preziosa, grazie anche ad aggiornamenti e integrazioni documentarie.
Continuatore immediato e dichiarato dell'opera di Andrea Dandolo fu un cancelliere, che già aveva operato a palazzo proprio ai tempi dello stesso doge: Raffaino Caresini, la cui vita si pone come un esempio eccezionale di vicenda umana, di carriera burocratica, di ascesa sociale, che quasi non ha paragone nella storia di Venezia. Non veneziano, ma cremonese, si trasferisce a Venezia e vi inizia la sua attività come notaio, entrando sempre più nella sfera di governo. Nel 1334 è notaio del sacro palazzo; nel 1343 notaio dei quaranta; nel 1344 scrivano ducale. In tale veste segue gli ambasciatori e poi compie egli stesso missioni diplomatiche. Quando nel 1365 muore Benintendi Ravignani, il cancelliere di Andrea Dandolo, ne ottiene il posto. Sembra essere giunto al vertice, ma non è così. C'è la guerra di Chioggia, lo scontro drammatico con la rivale Genova, che riesce a portare la sua offensiva fin nel cuore della laguna di Venezia. Per i meriti che ha acquisito durante la guerra Raffaino Caresini è fra i trenta cittadini che ottengono la nobiltà, entrando quindi nel maggior consiglio.
Da forestiero a nobile veneziano: una carriera quasi incredibile, raro esempio di rinnovamento del ceto dirigente per cooptazione dall'esterno. Un esempio forse di quello che avrebbe potuto essere e non è stato. Ovvio dunque che Raffaino nutrisse sentimenti di gratitudine per la città, che così aveva trasformato la sua vita. Ma basta questo sentimento a spiegare la forza e la passione, con le quali egli anima la sua cronaca veneziana? Oppure questo sentimento corrisponde a un ben preciso sentire politico? Il fatto è che Raffaino Caresini scrive in un momento difficile per Venezia, quando questa è attaccata a fondo nelle guerre dell'ultimo terzo del Trecento. Deve quindi difenderla, forse con tanto più vigore e in modo tanto più appariscente, perché non è originariamente veneziano (92). Lasciandoci un documento, che verrà ampiamente e frequentemente utilizzato per la stesura di cronache posteriori.
In questi frangenti Raffaino Caresini incomincia a disseminare la sua cronaca di giudizi sulla posizione di Venezia nel mondo e sulla politica estera, che a suo giudizio sarebbe bene perseguire e condurre. Giudizi certamente non esclusivamente suoi personali, bensì appartenenti a un dibattito più vasto e duraturo, ma non per questo meno significativi; tanto più importanti, inoltre, per la diffusione e l'influenza che avrebbe avuto la sua cronaca. "È più adatto per Venezia curarsi del mare, lasciandosi alle spalle la terra: dal mare vengono abbondanti ricchezze e onori, dalla terra spesso inconvenienti e errori" (93). Con questa frase Raffaino Caresini definisce una volta per tutte quello che per lui ma non soltanto per lui deve essere ed è il destino di Venezia: un destino sul mare, mentre la terra deve essere abbandonata, perché lontana, estranea, separata da Venezia dalle lagune. Occuparsi della terra significherebbe tradire il proprio destino, quel destino che da sempre segna ogni città. E la frase assume ancor più denso significato, se ricordiamo che è scritta per commentare la cessione di Treviso al duca d'Austria: benché questa sia in apparenza una sconfitta e una perdita, in sostanza è invece un bene, perché richiama Venezia alla sua più vera realtà.
In tutta la sua opera, dunque, Caresini cerca di individuare il ruolo storico di Venezia, fino alla formula migliore e più elevata, perché più precisa e rispondente, secondo lui, alla verità storica, ma anche eterna. In questo quadro uno dei momenti fondamentali, non soltanto per le vicende della storia di Venezia, ma anche per la cronaca del Caresini, per il suo sviluppo dal piano meramente fattuale al piano dell'interpretazione politica, è la rivolta di Creta. La rovina e morte dei ribelli sono un monito per tutti gli altri popoli: "ne traggano esempio le altre nazioni, vicine o lontane, affinché non ordiscano nulla ai danni della città di Venezia, la quale, resa salda dalla protezione divina, è specchio e regola di libertà e giustizia per tutto il mondo" (94). Tentare di colpire Venezia è un'impresa disperata, perché alla fin fine la protezione divina la renderà vittoriosa. Propaganda? È probabile, anzi è certo. Ma non per questo è meno significativa la posizione del cronista. Venezia è città prediletta da Dio, sede di giustizia e di libertà, qualità però che debbono essere difese, perché molti sono i pericoli, esterni ed interni, e la libertà qui ha già il doppio significato di libertà degli ordinamenti interni e di autonomia internazionale. Tutto questo però significa che Venezia ha anche una missione da svolgere per conto di tutti, cioè di tutti i cristiani. Non si tratta più di condurre una nuova crociata, secondo il sogno di Marin Sanudo il vecchio. Il compito di Venezia è allo stesso tempo più piccolo e più grande: la difesa costante quotidiana assidua contro il Turco. Più piccolo, perché non vi è la grandezza della crociata per la liberazione della Terra Santa; più grande, perché da questa azione veneziana dipendono la sopravvivenza della fede cristiana e la libertà di tutti, non soltanto dei Veneziani.
Raffaino Caresini torna più volte su questo argomento, con maggiore o minore enfasi, con maggiore o minore affinamento della questione. In un primo momento il discorso è in polemica col re d'Ungheria, il quale non tiene conto, scrive Raffaino, della funzione di Venezia, anzi dei "veneziani, che a proprie spese tengono libero il mare per la fede cattolica, per la difesa e la libertà di tutti contro Turchi e pirati" (95). Una mera constatazione dei fatti, dunque. Ma più avanti il discorso cambia, ampliandosi in una vera e propria illustrazione e dimostrazione storica della funzione universale di Venezia, passando dunque da una descrizione dei fatti all'individuazione di una missione politica, voluta da Dio. Qui, in questo altro più ampio passo, anch'esso polemico contro tutta la coalizione, che attacca Venezia, il discorso incomincia con un paragone fra la navicella di san Pietro, la Chiesa, e la navicella di san Marco, Venezia. Come la nave di Pietro può essere sballottata dalle onde, ma mai potrà affondare, così (se lo ricordino bene tutti i nemici di Venezia!) la navicella veneziana resterà sempre a galla, perché essa opera e combatte "non soltanto per il vantaggio privato [dei Veneziani> ma per il bene e l'utile di tutta la respublica universale". Venezia è dunque una città specialmente protetta da Dio: "il baluardo della fede contro i Turchi e gli altri infedeli", tutela e rifugio di tutti coloro che vogliono essere liberi. "Chi cerca di turbare questa città, sappia di turbare un immenso bene comune" (96).
Ecco, qui siamo al cuore della concezione di Raffaino Caresini. Non c'è paragone fra Venezia e le altre città. Venezia è comparabile soltanto alla Chiesa, perché ha una missione di difesa materiale e militare della cristianità, confrontabile con la tutela morale e teologica esercitata dalla Chiesa stessa. La barca di san Marco non è certo quella di san Pietro, ma le è simile. Ne consegue che chiunque attacchi Venezia, per ciò stesso attacca la cristianità: turba un eccezionale bene comune. Non basta. Il parallelo con la Chiesa ne trascina inevitabilmente un altro con Roma in quanto città e organismo politico. Roma fu capo di tutto il mondo, di tutta la respublica universale anche quando era ancora città pagana, ma già destinata ad essere la capitale della fede (97). Ed a questa città, quando proprio era al massimo dello splendore, assomiglia la nostra Venezia "nei costumi e nella forma di governo" (98). Siamo all'inizio dello sviluppo di un paragone destinato a durare nei secoli dell'orgoglio veneziano (99).
Mentre continua anche nella seconda metà del Trecento un'intensa produzione di cronache in latino, negli stessi anni durante i quali lavora così efficacemente Andrea Dandolo ecco incominciare un fenomeno nuovo, destinato a durare nel tempo e a incidere efficacemente sulla cronachistica veneziana: appaiono le cronache in volgare, le cui vicende e il cui numero sono di una quantità e di una complessità tale da suscitare infinite discussioni fra gli specialisti. Non solo debbono essere ancora chiariti i rapporti di derivazione fra i molteplici gruppi di cronache già individuati, ma tutto un gran lavoro è ancora da fare per quanto riguarda le fonti e i modi di lavorazione del robusto filone delle cronache volgari. D'altronde quest'analisi si presenta tanto più difficile quanto più le cronache latine e volgari, lungi dal procedere secondo due alvei distinti, si intersecano fra di loro e influiscono vicendevolmente. Sembra peraltro di poter affermare che tre sono le cronache latine, che più frequentemente e in maggior misura sono state utilizzate come fonti per le cronache volgari: la Chronica brevis di Andrea Dandolo, succinta e concisa, ma che copriva un lungo arco di tempo fino al 1342; la Venetiarum historia, che copriva anche gli anni immediatamente successivi fino al 1358 (100); infine la cronaca del cancelliere Raffaino Caresini (101).
I primi tentativi di stesura di cronaca in volgare non sono probabilmente dei più felici (102), ma ben presto ecco una nuova opera, la Cronica di Venexia tradizionalmente attribuita a Enrico Dandolo, forse della stessa stirpe del doge Andrea, ricca di novità e destinata a influire robustamente sulla produzione posteriore (103). Purtroppo questo testo è ancora inedito nonostante più volte ne sia stata auspicata la pubblicazione. Enrico Dandolo incomincia a scrivere nel 1360 o giù di lì, continuando fino agli anni Ottanta del secolo. Non è un uomo modesto; anzi è profondamente convinto di fare opera necessaria, utile, imperitura; così radicalmente nuova da rendere del tutto superflue le cronache scritte da altri fino a quel momento. Tanto vale bruciarle, come ha fatto egli stesso:
Et de ogni altra cronica antiga, che per i pasadi tempi simplicemente trovade avemo scripte, le quale a man gli venesse, tener quel modo ch'io ò tegnudo da poi conplida questa, le qual tute ò arse, a ciò che quele vegnando ad man de letori, fastidio overo incredulitade non produsese (104).
Poiché, in questo modo di vedere le cose, la cronaca è uno strumento di informazione e di lavoro, quando disponiamo di uno strumento migliore e più perfezionato, il vecchio non ci serve più, possiamo gettarlo via come un arnese ormai usurato o rotto. E lo strumento nuovo è proprio questo, ultimamente approntato dallo stesso Enrico Dandolo.
Il fatto, poi, che Enrico Dandolo si sia avvalso per il suo lavoro anche e soprattutto di cronache in latino, dimostra che il suo dissenso con le cronache e i cronisti precedenti non nasceva tanto o soltanto dal materiale utilizzato, bensì dalla lingua adoperata e quindi dal riferimento al pubblico. Un pubblico, quello al quale voleva parlare Enrico Dandolo, certamente più vasto di quello al quale si rivolgevano le sue stesse fonti. In effetti il successo diretto e indiretto della Cronica di Enrico Dandolo fu notevole, tanto che essa condizionò le successive espressioni della cronachistica e fu utilizzata a lungo, più o meno esplicitamente, non soltanto per tutto il Quattrocento, ma anche più tardi (105).
Ovviamente anche nella cronaca di Enrico Dandolo l'esaltazione di Venezia è continua. Venezia è città universalmente utile, "degna sovra ognuna che ancor si sapia" (106), le cui azioni servono non soltanto ai Veneziani, ma al bene di tutta l'umanità:
Et verissimamente el stado buono de la cità de Venexia non è solo agli habitanti di quella ma a tuta Cristentade è molto utele, como ad tucti è manifesto.
Passione politica e cittadina segnano ogni pagina (107). Con alcune riflessioni almeno in parte nuove, destinate a durare nel tempo, soprattutto nel divampare della contesa politica e nel continuare della discussione.
Enrico Dandolo è molto attento alle questioni economiche; fatto certamente nuovo per la cronachistica veneziana, che così si apre a un nuovo campo di documentazione, ricordo, indagine. Poiché le spese maggiori per uno Stato dell'epoca sono quelle belliche, ovviamente l'attenzione del Dandolo è rivolta soprattutto ai costi delle guerre e alle loro conseguenze economiche. Quando scrive della ribellione di Zara e della guerra per la difesa della Dalmazia, Enrico Dandolo precisa attentamente il costo sostenuto per le truppe, per le navi, per le spese della guerra in generale, riportando cifre che egli ha avuto direttamente da uno dei responsabili delle operazioni o della condotta politica del conflitto. Zara e la Dalmazia sono costate fin troppo, scrive il Dandolo, ed è dunque ora di sperare che tutto resti così come è, senza sogni di riconquista, anche se alcuni potranno dire che ne è stato sminuito l'onore di Venezia. In realtà, scrive il Dandolo, "quelo honor ch'è de gram danpno, nel cuor di savi non è da dexidrar ma in tucto da chaciar da sì" (108). Le guerre sono sempre da evitare, perché il loro risultato, come insegna l'esperienza, che viene da "li nostri antixi", è soltanto una "grande disfacion de homini et perdicion de moneda [...>". La guerra è costata più di quanto varrebbe oggi il territorio perduto, conclude Enrico Dandolo. Insomma, studiando le guerre veneziane del passato Enrico Dandolo arriva a concludere che sia "meio a tuti remaner con piçol dano, che guastarsi lo stado loro, volendo signoriçar molte contrade" (109). Si fa dunque strada l'idea di una politica estera modesta, non aggressiva, tendente più a limitare i danni e a difendere quello che si ha, piuttosto che a ingrandirsi.
Osservazioni, queste del Dandolo, che hanno almeno due significati importanti, anche al di là dell'avere dato rilievo all'economia nella storiografia. Prima di tutto appare, benché per ora alla lontana, il dibattito sul significato della politica estera, il contrasto fra il desiderio di tranquillità e l'aspirazione alla gloria, che tanta parte avrà nel pensiero politico italiano fra tardo Trecento e l'inizio del Seicento. Inoltre già si vede, pienamente dispiegata, quella concezione della guerra come mero calcolo mercantile di profitti e perdite che, condivisa quasi esclusivamente dai Fiorentini, attirerà sui Veneziani fortissime critiche dalle altre città italiane, delle quali buon campione sono le ironiche osservazioni formulate appunto su Veneziani e Fiorentini insieme da Borso d'Este, quando meno di un secolo dopo dice che questi
sum huomini che desiderano pace e non guerra, perché la guerra fa contra loro, e la pace fa per loro; perché quando stano in pace tuti, sum ducati e oro (110).
1. Il testo di Paolino è riportato da Ester Pastorello nella sua introduzione a Andreae Danduli Chronica per extensum descripta a. 46-1280 d. C., a cura di Ead., in R.I.S.2, XII, 1, 1938-1958, pp. XXXV-XXXVI.
2. San Tommaso d'Aquino-Tolomeo da Lucca, De regimine principum, a cura di Giuseppe Mathis, Torino-Roma 1948, IV, 8, pp. 75-76.
3. Il De regimine rectoris è stato pubblicato integralmente soltanto una volta nel 1868: Fra Paolino Minorita, Trattato de regimine rectoris, a cura di Adolfo Mussafia, Vienna-Firenze 1868. La citazione è tratta dal cap. LXXVI, p. 107. A quest'unica edizione completa faremo riferimento. La seconda parte, quella dedicata alla famiglia, è stata stampata due volte; la prima a cura di Cesare Foucard in lingua originale, la seconda a cura di Adamo Rossi, più tardi anche in contatto col Mussafia, che ne diede una versione in italiano corrente (Del governo della famiglia, seconda parte dell'opera inedita de recto regimine scritta in volgare veneziano da fra Paolino Minorita nell'anno 1314, a cura di Cesare Foucard, Venezia 1856; Del reggimento della casa, seconda parte dell'opera intitolata liber Thesaureti de regimine rectoris scritta in dialetto veneziano da fra Paolino minorita nell'anno 1314 ridotta a volgare comune sopra una membrana manoscritta della comunale di Perugia dal bibliotecario Ab. Adamo Rossi, Perugia 1860 [Per le fauste nozze Sereni - Piccolomini>). Del De regimine rectoris si conoscono direttamente o indirettamente parecchi codici. Uno di questi era già perduto nel 1868, quando Adolfo Mussafia ne stampava l'unica edizione completa mai pubblicata. In un incendio successivo scomparve poi anche il codice della Biblioteca Regia di Torino, utilizzato appunto dal Mussafia. Merita ricordare che il codice di Torino era già stato individuato anche da Giuseppe Ferrari, che lo segnala in appendice al suo Corso sugli scrittori politici italiani, dato alle stampe nel 1862 per raccogliere le lezioni da lui tenute come corso libero presso l'Università di Torino nel 1862 (Corso sugli scrittori politici italiani, Milano 1862, pp. 830 e 845). Il codice perugino, opera di Drudo de' Pedebuoi da Ravenna, fu utilizzato dal Rossi per la sua parziale traduzione, ma trascurato dal Mussafia, che chiese lumi al Rossi soltanto su alcuni punti. Potrebbe però essere il più antico ed avere notevole importanza. Si v. quanto scrive sull'argomento Antonio Medin, Un codice sconosciuto del trattato "De regimine Rectoris" di fra Paolino Minorita, in AA.VV., Miscellanea di studi critici in onore di Vincenzo Crescini, Cividale del Friuli 1927, pp. 101-113.
4. Su Paolino Minorita da Venezia si v. Amedeus Teetaert OFM Cap., Paulin de Venise, in AA.VV., Dictionnaire de Théologie Catholique, XII, 1, Paris 1933, coll. 72-75; Albano Sorbelli, I teorici del Reggimento comunale, "Bullettino dell'Istituto Storico Italiano per il Medio Evo e Archivio Muratoriano", 59, 1944, pp. 123-133 (pp. 31-136); Alberto Ghinato OFM, Fr. Paolino da Venezia O.F.M. vescovo di Pozzuoli († 1344), Roma 1951 (estratto da "Le Venezie Francescane", 16, 1949, e 17, 1950); Dora Franceschi, Fra Paolino da Venezia O.F.M., † 1344, "Atti dell'Accademia delle Scienze di Torino. Classe di Scienze morali storiche e filologiche", 98, 1963-1964, pp. 109-152 (nei due testi di Ghinato e Franceschi è ampiamente riportata la bibliografia precedente); Frederic C. Lane, Medieval Political Ideas and the Venetian Constitution, in Id., Venice and History. The Collected Papers of Frederic C. Lane, Baltimore 1966, pp. 299-301 (pp. 285-308); Giorgio Cracco, La cultura giuridico politica nella Venezia della "Serrata", in AA.VV., Storia della cultura veneta, 2, Il Trecento, Vicenza 1976, pp. 255-261 (pp. 238-271); Peter von Moos, Die italienische "ars arengandi" des 13. Jahrhunderts als Schule der Kommunikation, in Wissensliteratur im Mittelalter und in der frühen Neuzeit. Bedingungen, Typen, Publikum, Sprache, a cura di Horst Brunner - Norbert Richard Wolf, Wiesbaden 1993, pp. 67-90.
5. Si v. da ultimo Marcello Ciccuto, In figura di scacchi. Spazi di storie tardogotiche, in AA.VV., Passare il tempo. La letteratura del gioco e dell'intrattenimento dal XII al XVI secolo. Atti del Convegno di Pienza, 10-14 settembre 1991, Roma 1993, pp. 91-103.
6. Dell'opera di Egidio Romano esistono numerose edizioni. Quella oggi più accessibile è Aegidius Columna Romanus, De regimine principum libri III, Roma 1607, riprod. anast. Aalen 1967.
7. Fra Paolino Minorita, Trattato de regimine rectoris, cap. XLVI, pp. 65-66.
8. Ibid., cap. LXVI, pp. 96-97.
9. Ibid., capp. LXXV-LXXIX, pp. 105-109.
10. Ibid., cap. LXXVII, pp. 107-108.
11. Ibid., cap. LXXVI, p. 107.
12. Ibid., cap. III, p. 3.
13. Ibid., cap. LXVI, p. 97.
14. Ibid., cap. XLII, p. 56.
15. Ibid., cap. X, p. 11.
16. Ibid., p. 12.
17. Ibid., p. 10.
18. Ibid., cap. LXVIII, p. 97.
19. Ibid., pp. 98-99.
20. Ibid., cap. LXVII, p. 97.
21. Ibid., cap. XXI, p. 25.
22. San Tommaso d'Aquino - Tolomeo da Lucca, De regimine principum, II, 8, pp. 27-28, e IV, 8, pp. 75-76.
23. Per gli specula principum mi limito a rinviare al denso e ampiamente articolato saggio di Diego Quaglioni, Il modello del principe cristiano. Gli "specula principum" fra Medio Evo e prima Età Moderna, in Modelli nella storia del pensiero politico, I, a cura di Vittor Ivo Comparato, Firenze 1987, pp. 103-122.
24. A dire il vero per quanto riguarda il titolo esiste almeno un precedente, il Liber de rectoribus christianis di Sedulio Scoto, scritto nella prima metà del IX secolo. Ma è un precedente troppo lontano e di ambiente troppo diverso perché si possa andare oltre una coincidenza.
25. Mentre frequenti sono i riferimenti all'opera di Marin Sanudo Torsello il vecchio nei lavori che trattano di storia dei viaggi, di storia della geografia, di storia dell'arte militare, di storia delle crociate o dell'idea di crociata, pochissimi sono gli studi a lui globalmente direttamente dedicati o che diano molta attenzione ai suoi progetti politici; e questi pochi sono in maggioranza piuttosto vecchi. Per quanto può qui interessarci ricordo Federico Stefani, Della vita e delle opere di Marino Sanuto Torsello, "Atti dell'Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti", ser. V, 8, 1881-1882, pp. 931-949; Heinrich Simonsfeld, Studien zu Marino Sanuto den Älteren, "Neues Archiv der Gesellschaft für Ältere Deutsche Geschichtskunde", 7, 1882, pp. 43-72, tradotto in "Archivio Veneto", 24, 1882, pt. II, pp. 251-279; Arturo Magnocavallo, Marino Sanudo il Vecchio e il suo progetto di crociata, Bergamo 1901; A. Ghinato, Fr. Paolino da Venezia, soprattutto pp. 34-35 e 53-57; Luciano Gargan, Il preumanesimo a Vicenza, Treviso e Venezia, in AA.VV., Storia della cultura veneta, 2, Il Trecento, Vicenza 1976, pp. 153-154 (pp. 142-170); Tomas Tomasek-Helmut G. Walther, Gens consilio et scientia caret ita, ut non eos racionabiles existimem: Überlegenheitsgefühl als Grundlage politischer Konzepte und literarische Strategien der Abendländer bei der Auseinandersetzung mit der Welt des Orients, in Die Begegnung des Westens mit dem Ostens. Kongrefßakten des 4. Symposions des Mediävistenverbandes in Köln 1991 aus Anlaßes 1000. Todesjahres der Kaiserin Theopanu, a cura di Odilo Engels - Peter Schreiner, Sigmaringen 1993, pp. 243-272; Ugo Tucci, voce in AA.VV., Lexicon des Mittelalters, VII, München 1995, coll. 1373-1374.
26. Il Liber secretorum fidelium Crucis, principale opera del Sanudo, deve essere letto ancora oggi in Gesta Dei per Francos, a cura di Jacques Bongars, I-II, Hanoviae 1611: II, pp. 1-288; nello stesso volume si trovano molte Epistolae, pp. 289-316. L'altra importante opera storica del Sanudo, la Historia del Regno di Romania sive Regno di Morea, pubblicata a suo tempo in Chroniques gréco-romanes inédites ou peu connues, a cura di Charles Hopf, Paris 1873, pp. 99-170, è oggi disponibile in anastatica, Bruxelles 1966. Altre lettere di Marin Sanudo in Friedrich Kunstmann, Studien über Marino Sanudo den Älteren mit einem Anhange seiner ungedruckten Briefe, "Abhandlungen der Historischen Klasse der Königlichen Bayerischen Akademie der Wissenschaften", 7, 1853, pp. 697-819; Lettres inédites et mémoires de Marino Sanudo l'Ancien (1334-1337), a cura di Charles De La Roncière - Léon Dorez, "Bibliothèque de l'Ecole des Chartes", 56, 1895, pp. 21-44; Aldo Cercini, Nuove lettere di Marin Sanudo il Vecchio, "La Bibliofilia", 42, 1940, pp. 321-359.
27. M. Sanudo Torsello il Vecchio, Liber secretorum fidelium Crucis, pp. 1-5.
28. Ibid., p. 34.
29. Sul punto si v. A. Magnocavallo, Marino Sanudo, che espone minutamente le vicende della formazione dell'opera del Sanudo.
30. M. Sanudo Torsello il Vecchio, Liber secretorum fidelium Crucis, pp. 22-23.
31. Ibid.
32. Ibid., pp. 27-31.
33. Ibid., pp. 25-26.
34. Ibid., pp. 30-31.
35. Ibid., pp. 31-33.
36. Fidenzio da Padova, Liber recuperationis Terrae Sanctae, in Gerolamo Golubovich OFM, Biblioteca bio-bibliografica della Terra Santa e dell'Oriente Francescano, I-III, Quaracchi 1906-1919: II, pp. 1-60.
37. M. Sanudo Torsello il Vecchio, Liber secretorum fidelium Crucis, p. 34.
38. Ibid., pp. 34-35.
39. Fidenzio da Padova, Liber recuperationis Terrae Sanctae, cap. 48, p. 41.
40. Sul punto si v. Gereon H. Hagspiel, Die Führerpersönlichkeit im Kreuzzug, Zürich 1963; Lucio Ceva, Il comando degli eserciti in Europa fra Età di Mezzo e Restaurazione, "Rivista Storica Italiana", 98, 1986, pp. 463-499; Hannelore Zug Tucci, Fattori di coesione dell'esercito tra medioevo ed età moderna, in AA.VV., Braccio da Montone. Le compagnie di ventura nell'Italia del XV secolo, Narni 1993, pp. 157-177.
41. M. Sanudo Torsello il Vecchio, Liber secretorum fidelium Crucis, pp. 35-36.
42. L'abilità degli uomini delle lagune venete nel combattere e operare fra acqua e fango è ricordata anche in Id., Historia del Regno di Romania, p. 154.
43. Id., Liber secretorum fidelium Crucis, pp. 37-38, 27 e 56.
44. Ibid., p. 47.
45. Ibid., pp. 48-49.
46. Ibid., pp. 50-51.
47. Ibid., p. 52.
48. Ibid., pp. 52-53.
49. Pierre Dubois, De recuperatione Terre Sancte, a cura di Angelo Dotti, Firenze 1977, VI, 10 (p. 124) e LXXI, 116 (pp. 192-194).
50. Sulle tecniche e gli ordinamenti militari veneziani di quei secoli si v. Aldo A. Settia, L'apparato militare, in Storia di Venezia, II, L'età del comune, a cura di Giorgio Cracco - Gherardo Ortalli, Roma 1995, pp. 461-505, dove sono anche alcuni riferimenti all'opera del Sanudo.
51. M. Sanudo Torsello il Vecchio, Liber secretorum fidelium Crucis, pp. 56-60.
52. Ibid., p. 60.
53. Ibid., pp. 60-64.
54. Sul punto si v. in particolare Angeliki E. Laiou, Marino Sanudo Torsello, Byzantium and the Turks. The Background of the Anti-Turkish League of 1332-1334, "Speculum", 45, 1970, pp. 374-392.
55. I dati editoriali supra, n. 26. Su quest'opera del Sanudo torneremo nel paragrafo dedicato alla storiografia.
56. M. Sanudo Torsello il Vecchio, Historia del Regno di Romania, p. 135.
57. Ibid., p. 137.
58. Ibid., p. 136.
59. Vangelo di Giovanni X, 16.
60. M. Sanudo Torsello il Vecchio, Historia del Regno di Romania, pp. 138 e 144.
61. Ibid., p. 138.
62. Vangeli di Luca XI, 17; Matteo XII, 25; Marco III, 24-25.
63. M. Sanudo Torsello il Vecchio, Historia del Regno di Romania, p. 144.
64. Id., Liber secretorum fidelium Crucis, pp. 273-274.
65. Id., Historia del Regno di Romania, pp. 143-144.
66. Vangeli di Giovanni X, 16; Matteo XII, 25; Marco III, 24-25; Luca XI, 17.
67. San Tommaso d'Aquino - Tolomeo da Lucca, De regimine principum, I, 5, p. 6.
68. M. Sanudo Torsello il Vecchio, Historia del Regno di Romania, p. 144.
69. Riferimenti amari ed espliciti alla politica dei papi, che pensano ad ampliare il proprio dominio più che al bene e alla concordia fra cristiani, sono frequenti anche nelle lettere del Sanudo. Ne ricordo due del 1327, quindi di poco precedenti la stesura della Historia del Regno di Romania, pubblicate dal Bongars (nr. XVII, pp. 307-310, e nr. XVIII, pp. 310-312).
70. M. Sanudo Torsello il Vecchio, Liber secretorum fidelium Crucis, p. 274.
71. Bonincontro dei Bovi, Hystoria de discordia et persecutione quam habuit Ecclesia cum imperatore Federico Barbarossa tempore Alexandri tercii summi pontificis et demum de pace facta Veneciis et habita inter eos, in Marin Sanudo, Le vite dei Dogi, a cura di Giovanni Monticolo, in R.I.S.2, XXII, 4, 1900-1911, pp. 370-417. Qui è pubblicata anche la versione in volgare riportata nei Pacta.
72. Anche questo testo è pubblicato in M. Sanudo, Le vite dei Dogi, pp. 485-519. Castellano è anche autore di una Cronica, peraltro perduta.
73. La funzione dell'incontro del 1177 nella nascita del mito di Venezia era stata individuata ed analizzata a suo tempo già da Gina Fasoli, Nascita di un mito, in AA.VV., Studi in onore di Gioacchino Volpe, I, Firenze 1958, pp. 447-479. Ancora nel 1977 l'Archivio di Stato di Venezia ha dedicato all'ottavo centenario dell'avvenimento una mostra documentaria, che guidava il visitatore fino agli ultimi echi celebrativi dell'Ottocento (AA.VV., 1177. Pace di Venezia, storia, leggenda e mito. Appunti per un catalogo, Venezia 1977).
74. Jacopo Piacentino, Cronaca della guerra veneto-scaligera, a cura di Luigi Simeoni, "Miscellanea della Deputazione Veneta di Storia Patria", ser. IV, 5, 1931. Su questi autori si v. il lavoro di Gina Fasoli citato supra e inoltre quanto scrive in argomento Arnaldi in Id.-Lidia Capo, I cronisti di Venezia e della Marca Trevigiana, in AA.VV., Storia della cultura veneta, 2, Il Trecento, Vicenza 1976, pp. 285-287 (pp. 272-337).
75. Il primo acuto lavoro di attribuzione, individuazione, analisi dei rapporti interni per l'opera storica di Paolino è di Heinrich Simonsfeld, Handschriftliches zur Chronik der sogennanten Jordanus, "Forschungen zur Deutschen Geschichte", 15, 1875, pp. 145-152; Id., Bemerkungen zu der Weltchronik des Frater Paulinus von Venedig, Bischofs von Pozzuoli, "Deutsche Zeitschrift für Geschichtswissenschaft", 10, 1893, pp. 120-127.
76. Per i codici e la frammentaria pubblicazione dell'opera storica di Paolino Minorita si v. soprattutto: A. Ghinato, Fr. Paolino da Venezia, pp. 66-76, e D. Franceschi, Fra Paolino da Venezia, pp. 133-152; su Paolino storico si v. supra, n. 4 e inoltre Antonio Carile, Aspetti della cronachistica veneziana nei secoli XIII e XIV, in La storiografia veneziana fino al secolo XVI. Aspetti e problemi, a cura di Agostino Pertusi, Firenze 1970, pp. 80-86 (pp. 75-126); Girolamo Arnaldi, Andrea Dandolo doge-cronista, ibid., pp. 127-268; Anna-Dorothee von den Brincken, Tabula alphabetica. Von den Anfängen alphabetischer Registerarbeiten zu Geschichtswerken (Vincent von Beauvais OP, Johannes von Hautfuney, Paulinus Minorita OFM), in AA.VV., Festschrift für Hermann Heimpel, II, Göttingen 1972, pp. 912-914 (pp. 900-923); G. Cracco, La cultura giuridico-politica nella Venezia della "Serrata", pp. 266-271.
77. Historia satyrica, in Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Ms. Vat. Lat. 1960, c. 49.
78. Ibid.
79. André Vernet, Une version provençale de la Chronologia Magna de Paulin de Venise, "Bibliothèque de l'Ecole des Chartes", 104, 1943, pp. 115-130.
80. Citato in A. Ghinato, Fr. Paolino da Venezia, pp. 59 e 67; riprende la citazione, commentandola, anche G. Arnaldi, Andrea Dandolo doge-cronista, pp. 181-182.
81. Cf. n. 26. Sull'argomento si v. David Jacobi, Catalans, Turcs et Vénitiens en Romanie (1305-1332): un nouveau témoignage de Marin Sanudo Torsello, "Studi Medievali", 15, 1974, pp. 217-261; Raymond-Joseph Loenertz, Pour une édition nouvelle de l'Historia del Regno di Romania de Marin Sanudo l'Ancien, "Studi Veneziani", 16, 1974, pp. 33-65.
82. Ricordo soltanto tre titoli recenti: Anna-Dorothee von den Brincken, Mappa Mundi und Chronographia. Studien zur imago mundi des abendländischen Mittelalters, "Deutsches Archiv für Erforschung des Mittelalters", 24, 1968, p. 127 (pp. 118-186); Bernhard Degenhart-Annegrit Schmitt, Marin Sanudo und Paolino Veneto: zwei Literaten des 14. Jahrhunderts in ihrer Wirkung auf Buchillustrierung und Kartographie in Venedig, Avignon und Neapel, "Römisches Jahrbuch für Kunstgeschichte", 14, 1973, pp. 1-137 (con ampia bibliografia su entrambi gli autori); Patrick Gautier Dalché, L'espace de l'histoire: le rôle de la géographie dans les chroniques universelles, in L'historiographie médievale en Europe, a cura di Jean-Philippe Genet, Paris 1991, pp. 287-300.
83. Antonio Carile, Note di cronachistica veneziana: Piero Giustinian e Nicolò Trevisan, "Studi Veneziani", 9, 1967, pp. 103-126; Silvana Collodo, Temi e caratteri della cronachistica veneziana in volgare del Tre-Quattrocento (Enrico Dandolo), ibid., pp. 127-151; Antonio Carile, La cronachistica veneziana (secoli XIII-XVI) di fronte alla spartizione della Romania nel 1204, con una appendice di Raymond Joseph Loenertz, Firenze 1969; Giorgio Cracco, Il pensiero storico di fronte ai problemi del comune veneziano, in La storiografia veneziana fino al secolo XVI. Aspetti e problemi, a cura di Agostino Pertusi, Firenze 1970, pp. 45-74; A. Carile, Aspetti della cronachistica veneziana; G. Arnaldi, Andrea Dandolo doge-cronista; Id.-L. Capo, I cronisti di Venezia e della Marca Trevigiana, pp. 272-337; Gherardo Ortalli, I cronisti e la determinazione di Venezia città, in Storia di Venezia, II, L'età del comune, a cura di Giorgio Cracco - Gherardo Ortalli, Roma 1995, pp. 761-782.
84. Antonio Carile, La formazione del ducato veneziano, in Id.-Giorgio Fedalto, Le origini di Venezia, Bologna 1978, soprattutto il capitolo Le origini di Venezia nella tradizione storiografica, dove l'autore rielabora anche alcuni suoi studi precedenti sull'argomento.
85. Su Andrea Dandolo in generale è utile la voce di Giorgio Ravegnani, in Dizionario Biografico degli Italiani, XXXII, Roma 1986, pp. 432-440, con ampia bibliografia. Sulla sua attività storiografica e documentaristica si v. da ultimo Giorgio Cracco, Società e stato nel medioevo veneziano (secoli XII-XIV), Firenze 1967, soprattutto pp. 86, 223-225, 257, 389, 400-440; G. Arnaldi, Andrea Dandolo doge-cronista; G. Cracco, La cultura giuridico politica nella Venezia della "Serrata", pp. 263-271; G. Arnaldi-L. Capo, I cronisti di Venezia e della Marca Trevigiana, pp. 287-289; John Kenneth Hyde, Some Uses of Literacy in Venice and Florence in the Thirteenth and Fourteenth Centuries, in Id., Literacy and Its Uses. Studies ora Late Medieval Italy, Manchester - New York 1993, pp. 112-135, già pubblicato in "Transactions of the Royal Historical Society", 29, 1979, pp. 109-128.
86. Luigi Genuardi, La "Summula Statutorum Floridorum Veneciarum" di Andrea Dandolo, "Nuovo Archivio Veneto", n. ser., 21, 1911, pp. 436-467. Il Genuardi pubblica anche il testo del proemio e dà una esposizione del contenuto della Summula.
87. A. Danduli Chronica per extensum descritta e Chronica brevis a. 46-1342 d.C., a cura di Ester Pastorello (che fornisce una introduzione ricca di riferimenti alle fonti del Dandolo), in R.I.S.2, XII, 1, 1938-1958.
88. Ricordiamo, benché l'argomento esuli dalla linea principale del nostro discorso, che il Dandolo credeva fermamente nella superiorità della legislazione positiva, delle deliberazioni dei consigli veneziani sulle consuetudini. Le deliberazioni consentono al diritto di essere meglio conosciuto da tutti; permettono un continuo adeguamento del diritto alle necessità della comunità, di per se stesse mutevoli nel tempo. Ciò risulta chiaramente sia dal complesso della sua attività in argomento sia da quanto egli stesso scrive nelle prefazioni alla Summula e al Liber sextus. Si v. sul punto quanto scrivono G. Arnaldi, Andrea Dandolo doge-cronista, pp. 136-148, e G. Cracco, La cultura giuridico politica nella Venezia della "Serrata", pp. 264-265.
89. A. Danduli Chronica brevis, p. 351, 7-9; Id., Chronica per extensum descripta, libro IX, 2, 8 (pp. 204, 32, e 205, 4) e libro IX, 9, 7 (p. 219, 18-24).
90. La Epistola in comendationem Cronicarum del cancelliere Ravignani è pubblicata dalla Pastorello in A. Danduli Chronica per extensum descripta, pp. CIV-CV.
91. Lo scriveva già nel Settecento Marco Foscarini nel suo celebre Della letteratura veneziana, Padova 1752, p. 105. Della stessa opinione sono oggi G. Arnaldi, il quale rileva che le tre grandi cronache del Duecento veneziano ci sono state tramandate da un solo codice ciascuna (Id.-L. Capo, I cronisti di Venezia e della Marca Trevigiana) e G. Ortalli, I cronisti e la determinazione di Venezia città, p. 765.
92. Raphayni de Caresinis Chronica aa. 1343-1388, a cura di Ester Pastorello, in R.I.S.2, XII, 2, 1922. Su di lui si v. le opere citate alle nn. 83 e 85; inoltre la relativa voce di Antonio Carile, in Dizionario Biografico degli Italiani, XX, Roma 1977, pp. 80-83. Al Caresini invece che al cancelliere Benintendi Ravignani potrebbe forse, secondo Girolamo Arnaldi, essere attribuita la Cronaca Jadretina, che narra la rivolta di Zara del 1345-1346 (G. Arnaldi, Andrea Dandolo doge-cronista, pp. 150-153).
93. R. de Caresinis Chronica, p. 58, 12-14.
94. Ibid., p. 17, 3-6. Merita notare, benché quasi per inciso, che la questione cretese scoppia anche perché una pestilenza ha colpito soprattutto gli anziani, coi quali sono morte le virtù migliori: "fides etiam et amor patriae", lasciando campo libero ai giovani, facile preda dei vizi (ibid., pp. 13-14). Appare dunque evidente nel testo del Caresini quella propensione alla gerontocrazia, che è frequente nell'Italia di quel tempo, ma anche dei secoli successivi, e che trova e troverà forte apprezzamento anche in Venezia.
95. Ibid., p. 23, 21-24.
96. Ibid., pp. 30, 28, e 31, 2.
97. Ibid., p. 55, 6-7.
98. Ibid., p. 49, 22.
99. Sull'argomento si v. Barbara Marx, Venedig - ῾altera Roma'. Transformationen eines Mythos, "Quellen und Forschungen aus Italienischen Archiven und Bibliotheken", 60, 1980, pp. 325-373.
100. Venetiarum historia vulgo Petro Iustiniano Iustiniani filio adiudicata, a cura di Roberto Cessi - Fanny Bennato, Venezia 1964 (Monumenti storici pubblicati dalla Deputazione di Storia Patria per le Venezie, n. ser., 18).
101. S. Collodo, Temi e caratteri della cronachistica veneziana, pp. 134-141.
102. Ibid., pp. 130-133.
103. Ibid.; A. Carile, La cronachistica veneziana, pp. 45-63 261-271, 293-300; Id., Aspetti della cronachistica veneziana, pp. 98-110; Silvana Collodo, Note sulla cronachistica veneziana. A proposito di un recente volume, "Archivio Veneto", ser. V, 91, 1970, pp. 13-30; Giulia Barone, voce relativa in Dizionario Biografico degli Italiani, XXXII, Roma 1986, pp. 458-459. Sull'attribuzione ad Enrico Dandolo di questa cronaca sono stati sollevati alcuni dubbi; generalmente però si continua a ritenere valida l'antica attribuzione.
104. Enrico Dandolo, Cronica di Venezia, citato in A. Carile, La cronachistica veneziana, p. 262 e in Id., Aspetti della cronachistica veneziana, p. 99.
105. S. Collodo, Temi e caratteri della cronachistica veneziana, pp. 129-134; A. Carile, Aspetti della cronachistica veneziana, pp. 106-107.
106. E. Dandolo, Cronica di Venezia, citato in A. Carile, La cronachistica veneziana, p. 262.
107. E. Dandolo, Cronica di Venexia, citato ibid., e in A. Carile, Aspetti della cronachistica veneziana, p. 99.
108. E. Dandolo, Cronica di Venezia, citato in A. Carile, Aspetti della cronachistica veneziana, p. 101.
109. E. Dandolo, Cronica di Venexia, citato in A. Carile, La cronachistica veneziana, pp. 261-262, e in Id., Aspetti della cronachistica veneziana, p. 100.
110. Cesare Foucard, Proposta fatta dalla Corte Estense ad Alfonso Ire di Napoli (1445), "Archivio Storico per le Province Napoletane", 4, 1879, pp. 688-752; il testo della relazione è alle pp. 708-741, il passo citato è a p. 736.