Scritti storico - politici
Esposizione di fatti, di operazioni, più o meno rispettosa della loro appurata consistenza e più o meno ricorrente, nel necessario vaglio selettivo, a procedimenti d'omissione ed amplificazione. Questa, grosso modo, la storiografia, cui s'aggiungono, nel caso di quella veneziana così impegnata nel raccontare soprattutto di Venezia, esigenze d'automemorizzazione e d'autocomprensione. Sicché la storiografia diventa occasione d'autocoscienza, d'automotivazione, d'autopersuasione e, insieme, d'utilizzo propagandistico. Ha insomma a che fare col bisogno di credere in sé della città e col concomitante desiderio d'essere creduta; e, naturalmente, laddove più desidera credere - ad esempio nell'indipendenza originaria di Venezia, tratto costitutivo della città nascente che s'affaccia alla storia già nella sua interezza sicché la storia successiva diventa conseguente svolgimento -, più s'ingegna d'apparire agli altri credibile. La storia - sentenzierà Ranke - dev'essere racconto di ciò che è realmente accaduto. Possiamo approfittare di questa definizione per applicarla, modificata, all'abbondante produzione lagunare di storie: queste - possiamo dire - rievocano ciò che si sa sia accaduto non disgiungendolo da ciò che si vuole sia accaduto e da ciò che si vuoi far credere sia accaduto.
Accentuato, comunque, nella Venezia quattrocentesca e primocinquecentesca, l'impegno storiografico propriamente detto e intrecciato con scritti e di riflessione e d'intervento propositivo definibili storico-politici e contiguo ad un'oratoria che, quando s'inarca a pensosa meditazione, si solleva ad un livello di storica prospettiva, di storico inquadramento, di storica valutazione. Citabile in proposito l'ammonitoria orazione-testamento del 1423 del doge Tommaso Mocenigo e anche, tra le tante orazioni funebri, quella, del 1419, di Leonardo Giustinian in onore di Carlo Zeno che ribadisce valori comuni ulteriorizzandoli; e lo stesso, in un'altra orazione per le esequie di Giorgio Loredan, trapassa all'esaltazione del sistema marciano. Fatto sta che la storiografia e la letteratura storico-politica (1) sono, quantitativamente, il settore più praticato; ed è in quest'ambito che nascono i testi più significativi, a taluno dei quali arride una risonanza europea. Constatabile, altresì, la progressiva prevalenza, tra gli autori, di nobili veneziani. Classe di governo, il patriziato marciano è, pure, culturalmente egemone: da un lato fa dire ai non patrizi, come Lorenzo de Monacis, ciò che vuole; dall'altro propende sempre più ad esprimersi in prima persona, sicché avrà, nel '500, in Gasparo Contarini il suo ideologo e in Pietro Bembo il suo storico ufficiale. Da constatare ancora che - si tratti di testi offerti al governo o stesi da chi del governo fa parte - l'argomento è pressoché esclusivamente veneziano. Venezia come protagonista nelle vicende; Venezia come assetto, come regime. Un'autoreferenzialità sin ossessiva questa per cui i Veneziani - e soprattutto i patrizi veneziani - se scrivono di storia, se scrivono di politica, non sanno prescindere da Venezia.
Purtuttavia non s'avverte in quest'accanimento monotematico, monografico il soffoco della sindrome da microcosmo. Venezia passa per la città più ricca di significato che ci sia al mondo: "ricetto di tutto il ben humano et divino", la proclama Serlio; "papessa di ogni altra citade", "nutrice d'ogni altra Città", a detta d'Aretino. La sua singolarità, la sua eccezionalità, evidenti già lungo il medioevo (ha per pavimento il mare, il cielo per tetto, i canali acquei per pareti, osserva sbalordito Boncompagno da Signa), l'impongono all'attenzione ammirante dell'intera Europa. Per Petrarca è addirittura un altro mondo, essendo, nel contempo, entusiasmante motivo di speranza per questo mondo, visto che definisce Venezia "humani generis portum". Mitizzante, ovviamente, una siffatta dilatazione che prosegue nel '400, che si fa martellante nel '500. Ma è anche così che la città diventa un luogo tipico e topico d'un generale paesaggio mentale. Ed è, allora, anche per questo che la narrazione delle vicende veneziane e la simultanea riflessione sulla struttura dello stato marciano, per quanto focalizzate in loco, sembrano immuni da quel sentore d'angustia localistica che solitamente aduggia le storie cittadine, paiono schivare municipalistiche piccinerie. Così, beninteso, non per intrinseca qualità delle vicende, ma perché quel che a Venezia si fa e si pensa - essendo la città coinvolgente ben oltre quelli che sono i suoi domini - è, di per sé, interessante. Venezia non dubita della sua centralità; ma anche dall'esterno la si colloca al centro.
Ma se Venezia storicamente campeggia, è anche perché strutturata in un certo modo, governata in una certa qual maniera. Costante l'interconnessione tra forma statuale e produzione di fatti. Ne consegue una storiografia non dimentica - nel racconto dei fatti - di valorizzarli come espressione puntuale del buon governo che a Venezia avrebbe la propria sede anche ideale. Certo che, anche a tal fine, all'inizio del '400 necessita un salto di qualità rispetto agli antecedenti cronachistici. Troppo modesti questi, troppo scarni per essere appaganti laddove il diffondersi sollecitante dell'umanesimo ed il correlato maestoso esempio dell'antico impongono l'esigenza d'un tono alto che innalzi - rispetto a quello dimesso della cronaca disadorna - la materia, che la renda solenne. E ciò con orchestrato dispiegamento espositivo, nel quale le ambizioni di stile sono anche ambizioni di contenuto, lungo il quale l'elaborazione formale è anche tensione concettuale. Determinato Lorenzo de Monacis - un funzionario della cancelleria veneta, autore, tra il 1421 ed il 1428, d'una storia di Venezia - ad uno stacco deciso da quanti, prima di lui, "descrissero le gesta del loro tempo in uno stile incolto e semplice". E ciò vale anche pel doge cronista Andrea Dandolo, carente in fatto di dignità letteraria. Di lui, comunque, de Monacis s'avvale, senza per questo trascurare altre fonti. È, anzi, sua cura consultare "trattatelli di [...] antichi cittadini", "scritture originali", depositate nell'"archivio pubblico de' veneziani", "cronache" ed "annali" d'altri centri urbani e, persino, fonti bizantine. Uno scrupolo informativo che non lievita in critico discernimento, dal momento che, sin dall'avvio dello scritto, de Monacis - dichiarata "unica" Venezia pel suo strabiliante consistere "senza campi, prati e vigne" (del che s'erano già stupite, ancora nell'827, le onoranze di Pavia) - non esita a dirla tale per aver serbata "integra la libertà nella quale fu fondata" e per l'immutabilità della sua "maniera di governo". Senza dubbi e perplessità la categoricità asseverativa di de Monacis più mirata all'eloquente esaltazione d'una Venezia allora oltrepassante (la leggendaria data di nascita del 25 marzo 421 s'è ormai ufficializzata) il millennio che disposta ad un minimo d'effettivo approfondimento non trionfalistico. E, se la storia si risolve in laudatio della città resa eccezionale dal privilegio d'una particolare predilezione divina, nelle orazioni de Monacis plaude entusiasta alle imprese del momento, si tratti di celebrare la recentissima acquisizione di Udine o d'esortare alla lotta antiviscontea.
Gratificante lo smalto del latino umanistico, lo strumento d'una storiografia apologetica e celebrante, ma anche sorvolante sull'effettiva divaricazione tra il doge Mocenigo ammonente sui rischi di un'avventurosa politica d'allargamento territoriale e l'ostinato perseguimento di detto allargamento da parte del successore, il doge Foscari, nei riguardi del quale vanamente Mocenigo aveva messo in guardia. Inattendibile, a detta di questi, "el zovane procurator Foscari", avventato, scriteriato, mendace: "dise busie et anche molte cose senza fondamento". Un contrasto drammatico che spacca la classe dirigente, epperò senza traccia negli scritti di de Monacis. Che lo storico di Venezia debba solo esaltarla? Sempre savio il governo checché faccia? Sempre giusta e nel giusto Venezia? Eloquente la storiografia in latino, ma anche eludente, glissante. Agghindamento il latino e, insieme, occultamento. Per dire dell'eccessivo fiscalismo del doge Giovanni Gradenigo, della superbia del doge Giovanni Dolfin, dello sfondo di ribollente disagio sociale in cui situare Marin Faliero sembra occorra il volgare d'Antonio Morosini cronista del primo '400. Maestoso il fluire del latino umanistico non s'attarda sugli interni contrasti. C'è, invece, chi li annota alla buona, senza preoccupazione d'addobbo, senza ricerca d'ornato. Un volgare inameno per inamene asperità. Ma ciò a proprio rischio ché la classe di governo è interessata ad apparire fusa compatta, non divisa da contrapposizioni, non corrosa da interne polemiche. Il mito, in via d'artificiosa costruzione, della città felice suppone una concorde direzione che dall'alto irrori benefica buon governo su sudditi riconoscenti. Espunte dalla storiografia celebrativa in latino dispute tra governanti, proteste di governati. Un'espunzione già invalsa - e per censura e per autocensura - nella cronachistica trecentesca, specie se ufficiosa. Già questa ha asserito essere Venezia "perfecto et alto stado", "citade sovra ogni altra degna", "stado buono" pei suoi "habitanti" e "molto utele" all'intera "cristentade". Ma nel '400 è chiaro quanto concetti del genere risuonino meglio in latino. De Monacis lo dimostra. Quanto ad Antonio Morosini, il consiglio dei X gli ingiunge, nel 1418, di consegnare due sue cronache con "cose scandalose". Laddove de Monacis circoscrive la congiura del doge Falier a truce personale ambizione tirannica mobilitante qualche malavitoso d'estrazione popolare, Antonio Morosini vi ravvisa il deflagrare d'accesi contrasti laceranti la nobiltà nel quadro d'una società inquieta e instabile. Un perdente, nel conflitto, Falier più che un criminale assatanato. Uno sventurato più che uno sciagurato. Certo la sorte non gli ha arriso. Ma, allora, non resta che constatare il ruolo determinante del caso; donde, in Morosini, la dolente ammissione dello strapotere della "fortuna", che mai cessa, con la sua "roda", di "seguitar le cose ora prospere ora contrarie di questo mixerabel mondo, e chome è le onde del mar va zioxo e suxo".
Un'ottica, questa di Morosini, compatibile con l'affezione per Venezia, ma irriconducibile alle esigenze propagandistiche insite nell'attiva partecipazione della Repubblica alle guerre quattrocentesche. Occorre le penne s'attivino per innalzare Venezia a campione antitirannico di libertà. Tiranni i Visconti, gli Sforza e quant'altri a lei s'oppongono e fintantoché lo fanno. Sopraffattrice, d'altro canto, la Repubblica pei suoi avversari. Cara la libertà, nella varietà delle sue accezioni, agli umanisti, più o meno disposti ad omaggiare, oltre alla fiorentina libertas, anche quella lagunare. Linfa vitale - nell'idea di sé che Venezia propende a diffondere - la libertas. Ma c'è la libertà di dubitarne? C'è, insomma, per la storiografia di fattura veneziana, possibilità di libera espressione? È dicibile, e se sì fino a che punto, la verità? La verità è l'anima della storia, sentenzia il mondo antico; e lo ripete convinta la cultura umanistica. Sia, dunque, lo storico animato da spirito di verità, s'accrediti per veridicità di scrittura. In guerra, nel 1426-1427, la Repubblica con Filippo Maria Visconti. Un conflitto di cui Guarino Guarini - così esortato da Battista Bevilacqua - sarebbe degno storico. Ma il veronese si sottrae all'invito: la storia è sì luce di verità, ma, proprio per questo, c'è il rischio di rimetterci la testa. Meno rischioso, semmai, teorizzare, come farà lo stesso Guarini, nel 1446, in una lettera a Tobia del Borgo (2). Quivi distingue dall'annalistica, definita esposizione d'anni remoti, la storia propriamente detta fatta coincidere colla narrazione del presente, colla "descriptio" della contemporaneità, improntata, auspicabilmente, dalla "veritas" - inconcepibile, teorizzando, lo storico "mendax" - non disgiunta dall'"utilitas". L'opera storica è ben latrice di "consilium". A tal fine - aggiunge Giorgio da Trebisonda, anch'egli dissertante di storia senza produrre un titolo storico - occorre l'"elocutio", grazie alla quale la "veritas" s'accompagna alla "pulchritudo".
Ma a Venezia - a mano a mano la sua politica espansiva suscita contro di lei rancori e odi - non interessano tanto le umanistiche riflessioni su come scrivere o non scrivere la storia, quanto un'opera di storia contemporanea che, con effettiva "eloquentia" e parvenza di "veritas", reclamizzi persuasivamente la condotta della Repubblica. Si tratta di provvedere "nel modo migliore" alla "gloria" della Serenissima, come prontamente afferra Lorenzo Valla - in merito contattato, nel 1456, da Lorenzo Zane -, lusingato lo si ritenga "il più degno a scrivere le imprese dei veneziani", sì da "renderli immortali come meritano". Ma esige - a ciò autorizzato dalla sua alta quotazione professionale - una proposta ufficiale della Serenissima. Non pervenendo questa, elude, di fatto, le pressioni di Zane. Nemmeno Flavio Biondo - pur soffermatosi su Venezia nelle sue Decadi, pur autore d'un compendio di storia veneziana, pur estensore d'una prima parte d'una progettata più vasta storia della città - risulta arruolato a storiografico sostegno della Repubblica, come avrebbe voluto Ludovico Foscarini, messo in difficoltà, nel corso della missione mantovana del 1459-1460, dai severi giudizi sulla spregiudicatezza prevaricante di Venezia. Urge, Foscarini l'avverte, una controffensiva storiografica e ideologica insieme.
Strumento adoperabile a conferma avvalorante d'una politica - che, comunque, procede determinata e non imbarazzata da scrupoli - la storiografia per la classe dirigente marciana. Prima, comunque, la politica e a questa subalterna ed ausiliaria la storia ad assecondare l'esigenza d'immagine (per sé, pei sudditi, per gli altri) fortissima nel governo veneto. Ciò specie quando, nell'Italia del secondo '400, Venezia è accusata di calpestare "la pase", di insidiare "'l stato d'altri", d'ambire alla "monarchia" d'Italia. Ammiratore di Venezia Antonio de Ferrariis, noto come Galateo, estimatore, nel De educatione, del suo patriziato. Tuttavia anch'egli si scaglia contro i Veneziani, molossi, cerberi, sitibondi di sangue, avidi di preda, senza lealtà, senza fede, senza religione, senza pietà. Smagliante il latino umanistico e multiuso: può rivestire furenti arringhe antiveneziane; può inneggiare a Venezia, investendone, col massimo dell'eloquenza, fatti e propositi. La storiografia come suasoria dispiegata con avvocatesca valentia; e le affittabili coscienze degli umanisti a perorazione delle ragioni venete. Avvocatesco, in fin dei conti, l'incarico che Zane avrebbe voluto affidato a Valla e nel quale Foscarini avrebbe voluto impegnato Biondo. Ma Venezia, proprio perché vincolata dalle procedure previste dal suo assetto costituzionale, non può concedersi gli strepitosi allettamenti facili, invece, pel principe; non può competere, in mecenatismo, colle corti. Perché, d'altronde, cercare altrove, quando il patriziato può ben esprimersi in prima persona, cimentandosi direttamente e sul terreno dell'immediata propaganda e su quello, meno pressato dalle contingenze, della riflessione storica?
Nobile veneziano dall'eccellente profilo culturale Bernardo Giustinian, figlio di Leonardo, il poeta, e nipote di Lorenzo, il patriarca, colla sua storia delle origini di Venezia - che va dall'affiorare del primo insediamento al suo consolidamento accompagnato sino al nono secolo - ricostruisce, con intima partecipazione (impretendibile da un umanista convocato da fuori) e con doviziosa erudizione slargata dalle fonti narrative a quelle documentarie ed archeologiche, l'esordio, carico di destino, della vita associata tra le barene lagunari. Ribadisce la versione di stato (questa è ben pesantemente condizionante: impensabile, in proposito, una libertà di ricerca che smentisca il postulato - funzionale alla correlata proclamazione d'incondizionata sovranità veneta preventivamente supposta intera e perciò non insidiabile e da Roma e dall'Impero - dell'immacolata libertà originaria), ma trasformandola in robusta coerente interpretazione che, nella riassunzione di tutte le notizie racimolabili e nell'avveduto ricorso alla congettura, lievita sì da essere anche suggestiva rievocazione. All'interno d'una lata ambientazione storico-geografica, si sagoma la peculiare "libertà" veneziana già propensa, a mano a mano si precisa, a concretarsi in struttura aristocratica. Sicché il presente, nel quale Giustinian è politico attivo, è compiuta attuazione d'una vicenda che col trasferimento della sede direttiva a Rialto e coll'elezione dogale d'Angelo Partecipazio è già leggibile in termini di conseguente svolgimento d'affermazione politica spiritualmente alonata. Sintomatico, in tal senso, l'arrivo delle reliquie marciane, cui Giustinian dedica una trattazione a sé stante. È giusto s'intitoli all'evangelista Marco una città che, nata all'insegna della divina provvidenza, sollevatasi dalle acque perché Dio le ha porta soccorrevole la mano, è, nell'eccezionalità di questa sua origine, su di un piano più alto di Firenze e della stessa Roma. Giustinian ne è convinto, com'è convinto della bontà del reggimento ottimatizio. Spinta motivante alla ricostruzione delle origini - ov'è rimossa la notizia della fondazione patavina della città - la sincerità di siffatte convinzioni, per cui la storia di Giustinian ha un sapore genuino d'autentica riscoperta delle radici e di scavante comprensione della continuità.
Redatta tra il 1477 ed il 1489, quest'opera di Bernardo Giustinian - austeramente dotta, dalla sostanziale serietà - viene pubblicata nel 1492. Precedente, pertanto, la stampa, nel 1487, della voluminosa storia di Venezia dalla fondazione al 1486 di Marc'Antonio Sabellico, autore anche di due rapidi scritti sull'aspetto della città e sul suo assetto costituzionale. Scritta di getto, in soli 15 mesi, in un latino fluente, l'opera vuol essere - e lo sottolinea la dedica al doge Marco Barbarigo - un degno riscontro della grandezza di Venezia. Rispetto a questa è divulgativa e propagandistica insieme. Non impeccabile la divulgazione e pel frettoloso utilizzo di fonti eterogenee e pel prevalere, nell'autore, delle preoccupazioni di stile su quelle di precisione di contenuto. Sin innovante, invece, la forzatura propagandistica tutta giocata sul leitmotiv della libertas ché questa è intesa - oltre che come dato di partenza, ossia come aurorale indipendenza, come autonomia potenzialmente sovrana, come non soggezione ad altri - come costitutiva del lagunare vivere associato e, inoltre, come forza espansiva in virtù della quale Venezia, nella sua vocazione alla libertà, si fa anche carico della difesa della libertà altrui. Città libera e liberante, dunque, Venezia, nonché, "per santità di legge e per tutti gli altri più santi istituti", a Roma superiore, di Roma migliore. Storico disinvolto Sabellico, non sempre scrupoloso, talvolta inattendibile, talvolta non filologicamente avvertito; epperò buono scrittore e tutt'altro che sprovveduto nella fornitura di lusinghiere gratificazioni ideologiche. Sin scontato il gradimento governativo della sua storia compensata con un vitalizio valido anche - par di capire - ad integrare la sua retribuzione d'insegnante. Pregi di Sabellico - così il permesso di stampa del 1º settembre 1486 - l'eleganza del dettato e la verità del contenuto. È come riconoscere che la dignità letteraria dell'opera è tale da renderne credibile il messaggio il quale - a detta del governo che ha tutto l'interesse a ritenerlo tale - diventa, così, veritiero.
Modellato il latino di Sabellico su quello di Livio, giudicato dal primo - in un discorso sulla storiografia - vertice assoluto e relativo, appunto, della storiografia di tutti i tempi. Livio come storico è grande quanto Zeusi pittore, è a questi paragonabile, osserva Sabellico. L'uva dipinta da Zeusi è talmente vera che l'uccellino vi si precipita per beccarla. Grande pittore Zeusi perché scrupolosamente riproduce la realtà o, piuttosto, per capacità di finzione sicché l'artificiale (il grappolo da lui dipinto) sembra più naturale del naturale? Verità o illusionismo la pittura di Zeusi? O, in altre parole, sino a che punto il latino livianeggiante di Sabellico descrive e sino a che punto inventa? Comunque, come l'antica Roma ha nelle deche liviane il suo monumento storiografico, così Venezia - a quella superiore - ha in Sabellico, se si può dire esagerando, il suo Livio. Venezia - nell'esposizione di questi - è la città più ricca di significato che ci sia al mondo: in essa e con essa la civiltà culmina; in essa si ritrovano tutti quei valori che l'umanesimo civile s'era già ingegnato di concentrare nella fiorentina libertas. Una tesi, questa di Sabellico, quanto mai in sintonia colle ambizioni e le presunzioni della Venezia del tempo, appena premiata dalla pace di Bagnolo, momentaneamente assicurata dalle paci venticinquennali col duca di Milano e col papa. Perché non accettare l'elegante confezione delle proprie gesta di terra e di mare offerta con devozione da Sabellico? Perché non rimanere suggestionati da tanta eleganza e non aggiungere, nel riconoscerla, che essa è latrice di verità? Va da sé che le verità inamene, sgraziate, goffe non debbono turbare, offuscandolo, il nitore del latino umanistico. Se da questo manipolato, il vero non è più amaro, diventa gradevole, può essere fatto proprio dallo stato, s'acconcia a diventare ideologia di stato. Ufficializzata, infatti, la storia di Sabellico, dalla Repubblica che in quella si riconosce, sì da additarla come cardine della memoria pubblica.
Morto Sabellico nel 1506, s'afferma l'esigenza d'un proseguimento della sua narrazione, che racconti di Venezia a partire "da poi el fin de le deche sabellice". Se Sabellico ha steso la sua opera a titolo personale ed è stato poi premiato coll'ufficializzazione di questa, pare opportuno che, dopo di lui, si ufficializzi - designando a tal fine un patrizio culturalmente insigne - la figura stessa dello storico di Venezia, che ne scriva per incarico pubblico. Nasce così la pubblica storiografia affidata al succedersi dei pubblici storiografi. Titolare del comando, la classe politica vuol essere anche titolare dell'esposizione delle operazioni da lei decise. Dai fatti da lei prodotti trapassa, così, alla storia dei fatti. Compito del governo promuovere il proprio prestigio, enuncia la dichiarazione d'intenti colla quale s'apre la delibera, del 30 gennaio 1516, del consiglio dei X, ove, appunto, si nomina il successore ufficiale dell'ufficializzato Sabellico. "La reputation", si spiega in questa, è uno dei "principi fondamentali" dello stato; la si consegue con azioni memorande e provvedendo, nel contempo, a che siano degnamente ricordate. Non bastano, dunque, i "facti"; necessita la loro "memoria". Distruttivo - è sottinteso - l'oblio. Ma come allestire il ricordo? Non con rozzi "annali", con sciatte cronache, ma tramite faconde e "floride historie" composte da "scriptori" i quali, a tal fine remunerati, sappiano, appunto, fornirle "ornate de elegantia et eloquentia". Siano, insomma, in grado, "etiam senza alcuna alteration de la verità", di valorizzare i fatti, d'enfatizzarli sì che - coll'"augumento" loro conferito dalla valentia stilistica - risultino "illustri". E più le gesta sono così illustrate più ne ridonda "mazor existimation a le potentie", più cresce il prestigio internazionale della Repubblica. Scopo, dunque, della storiografia più che l'accertamento della "verità" - il rispetto della quale non si spinge oltre la raccomandazione di non alterarla - il suo utilizzo amplificante ai fini di detta stima. "Incerte", a detta dei X, le "cronice", "certe", invece, e "autentice" le "historie". Ma l'aggettivazione non inganni. La certezza e l'incertezza qui richiamate non alludono a sicurezza o meno di dati appurati. "Incerte" sta per non rifinite, non curate, e, anche, per non meditate, non motivate, non consapevoli; vuol dire soprattutto ineleganti, non controllate stilisticamente e, quindi, nemmeno vigili contenutisticamente. E, naturalmente, il "certe" etichettante le scritture elevabili a storica dignità sta per salda strutturazione formale finalizzata al potenziamento dei fatti, sì che appaiano persuasivamente grandi, illustri, nobili. "Autentice" le storie se stilisticamente dispiegate e, quindi, contenutisticamente persuasive. Il salto di qualità rispetto al riporto annalistico, rispetto all'annotazione cronachistica s'affida alla concertazione, alla sonorizzazione in crescendo, all'accentuazione cromatica, alla sapienza chiaroscurante. Ciabattante la cronaca, laddove la storia incede solenne, calza i coturni. In volgare la cronachistica, in latino la storiografia. Una prescrizione, questa del latino, da parte dei X sottesa dalla convinzione esso sia lingua di per sé nobilitante laddove il volgare sia, invece, svilente, rimpicciolente. Una convinzione largamente diffusa e largamente attestata: Benedetto Cotrugli, ad esempio, scusa il ricorso al "volgar italiano" del suo trattato di mercatura colla destinazione. Si rivolge, spiega l'autore, ai mercanti "imperiti e ignoranti di lettere". Sa benissimo, però, come il "sermon latino" sia "più degno che 'l volgare", come scrivere in latino significhi "molto più degnamente esplicare". Aulico il latino ed aulicizzante la storiografia in latino. Potenza sublimante dello stile e virtualità nobilitante del latino. Da un latino stilisticamente avvertito dovrebbero saltar fuori i valori. L'aulicità come interpretazione e, anche, al posto dell'interpretazione. Ma ciò - nel caso dei X - perché persuasi la vicenda veneta sia, di per sé, satura di valori, sprigioni di per sé valori. Non sta allo storico scoprirli; suo dovere è farli brillare, farli risaltare in tutta la loro luminosità. Come ha fatto, appunto, Sabellico col, suo latino riecheggiante Livio.
Solo che la Venezia cui quello ha offerto la sua storia è una città vincente. Non così la Venezia del 1516, ancora traumatizzata da Agnadello, non ancora tranquillizzata dalla tregua - occorre attendere il 7 gennaio 1517 - con l'imperatore, costretta a deporre ogni velleità espansiva, indotta a puntare esclusivamente sulla salvaguardia dell'integrità del proprio profilo. Una decorazione, un alloro, una medaglia per la Venezia vittoriosa la storia di Sabellico. Un dono graditissimo questa storia, ché lustro aggiuntivo, ché fregio decorativo. Ma nel 1516 la promossa storia ufficiale a seguito di quella di Sabellico si configura come necessaria, come indispensabile. La rasentata "ruina" dello stato marciano fa sì che la storiografia s'imponga come appiglio salvifico. L'"extimation" che essa è in grado di fabbricare vale, talvolta, di più delle stesse "forze" militari, è fattore decisivo in "ardue e difficilissime imprese", agevola la fuoruscita "da grandissimi pericoli". La Venezia già barcollante sotto i colpi della lega cambraica, già prossima al collasso, già brutalmente umiliata con connessa perdita di "reputation" fa appello alla storiografia - intesa come letteratura alta, come attivazione di tutta la strumentazione retorica - nell'ardua fase della rimonta. Suggestionante l'esempio degli antichi "Romani": anche nel pieno delle sciagure, nel più "infelice" degli insuccessi, nel più "evidente periculo de exterminio" hanno - reagendo pure storiograficamente - fatto sì che "mai" si "desperasse de la republica". La storiografia, allora, come àncora di salvataggio contro il precipite baratro della disperazione, come incoercibile autoribadimento. Grandi anche per questo gli antichi Romani, sempre vigili a che lo stato - per quanto provato, per quanto periclitante - "mai mancasse" degli "ornamenti" storiografici. Un ornamento la storiografia, ma anche - nell'auspicio dei X - un fattore propulsivo laddove l'intendono come rilancio dell'identità compromessa dalle vicende belliche, come riverniciatura energica di significati altrimenti appannati, come restauro d'un prestigio altrimenti lesionato, come segnale forte di rinnovata volontà di presenza attiva, di determinazione ad un'incisiva ripresa. Sbocciata dalle acque "Deo favente", col favor di Dio, Venezia manifesta così - col recupero anche storiografico del suo aggredito e, per forza di cose, ridimensionato prestigio - il fermo proposito di continuare nel proprio ruolo di rilievo.
Designato, nel 1516, a pubblico storiografo quello che il consiglio dei X ritiene il più idoneo per eloquenza persuasiva di scrittura. E la scelta cade su Andrea Navagero, il quale, "predito de singular letteratura latina et greca", vanta uno "stillo de dir [...] che", ad unanime giudizio dei dotti, "in Italia" e "fuora el non ha paragon". Una fiducia mal riposta. Pur stipendiato Navagero non s'impegna seriamente. E muore, nel 1529, senza aver esibito nemmeno un breve capitolo. Non per questo il consiglio dei X si volge all'uomo - il diarista Sanudo - che più conosce la storia della Repubblica. Nel pieno del rilancio grittiano di Venezia quale vertice di bellezza urbanistico-architettonica e di sin simmetrica perfezione costituzionale, ancora una volta si sceglie il grande letterato dalla cui penna ci si ripromette "onor" e "gloria".
Con cocente dolore del povero Sanudo - che sarà, per di più, costretto a mettere a disposizione del nuovo pubblico storiografo i suoi sterminati Diarii - viene incaricato, il 26 settembre 1530, della stesura della storia veneta, sempre a partire "dappoi le deche" di Sabellico, Pietro Bembo che passa - tanto più che è fresca la stampa della seconda edizione degli Asolani, delle Rime, delle prose latine - per il più grande letterato della penisola. "Di singolar letteratura" - dicono di lui i X - è sperabile "possa con la sua eloquenza e prudenza" realizzare finalmente un'opera irrorante su Venezia "riputazione". Diversa la Venezia che ricorre a Bembo da quella, ancora angosciata dall'incubo d'Agnadello, vanamente rivoltasi a Navagero per la riaffermazione d'una credibilità maltrattata e vilipesa dalla dura critica delle armi. Di sé soddisfatta, invece, Venezia nel 1530: ha risalito la china; ha salvato - sfrondato da non mantenibili propaggini - la propria integrità territoriale; s'è rafforzata militarmente; sta riaccreditandosi internazionalmente, sta ridiventando autorevole. Non basta: si dice e viene detta stato perfetto. Impossibilitata ad accampare primati di potenza, la medietà delle sue proporzioni assurge - specie nella concomitante disamina di Donato Giannotti e Gasparo Contarini - ad aurea mediocritas. E, così, è altrimenti prima e su di un piano qualitativamente più alto, eticamente più nobile, storicamente più civile. Non è lo stato più grande e più potente; è, in compenso, quello che funziona meglio, che è meglio governato. E ciò, in virtù della "prudenza" che ispira il governo, che lo rende sollecito ed avveduto. Di ciò consapevoli e di ciò orgogliosi i X puntano, oltre che sull'"eloquenza", sulla "prudenza" di Bembo, sulla sua capacità, cioè, di piegare lo "stile [...] dotto e puro e molto ricco" (così Bembo a Ramusio subito afferrando quanto dalla sua penna si pretende) al complesso intendimento della validità d'una condotta politica, appunto, prudente. La sua storia dev'essere ammaestrante, tradursi in messaggio di "prudenza" anche per le generazioni future. Sia, insomma, un'operativa maestra di vita. L'esposizione - nella misura in cui Bembo vi saprà valorizzare le mosse prudenti d'un governo prudente - sarà fattore di continuità nell'alveo sicuro d'una prudenza aliena da rovinose avventure. Sarà lettura doverosa della classe politica a venire per "meglio" disporre nelle urgenze immediate, per affrontarle lucidamente "di ora in ora" e, insieme, con lungimiranza, preventivando il futuro, proiettandosi in avanti. Sono, infatti, gli statisti prudenti quelli che "antivedono", che decidono prevedendo. Virtù precipua dell'arte di governo la "prudenza" e, insieme - così Bembo quando, non senza suo imbarazzo, già circola il suo nome, in una lettera a Ramusio del 21 giugno 1529 -, "fondamento delle buone istorie".
Diversamente da Navagero, Bembo prende sul serio il gravoso incarico e lo porta a termine: stende, infatti, una compiuta esposizione delle vicende venete dal 1487 al 1513 in latino e - ad evitare l'eventualità d'una successiva traduzione inelegante e anche fraintendente - provvede egli stesso a volgerla in italiano. Solerte, dunque, nell'adempimento il grande letterato, accintosi alla stesura con ferma volontà di concludere un'opera di per sé non congeniale e valendosi - nel sistematico procedere dell'esposizione - del materiale documentario e dei Diarii sanudiani messi a sua disposizione. E, anche, ottemperante alla volontà dei X nella convocazione del leitmotiv della "prudenza", che ispira la saggezza eloquente dei senatori più anziani ostili ai rischi avventurosi della politica espansionistica, nelle cui orazioni le civiche preoccupazioni vibrano anche d'accenti religiosi. Nel contempo, dato che - tra la fine del '400 ed il primissimo '500 - c'è stata, da parte della Repubblica, una politica innegabilmente espansiva, Bembo, anziché tacciarla d'imprudenza, s'ingegna di nobilitarla a mo' di sollecito intervento generosamente prestato a chi - Pisa, i centri romagnoli - da fuori l'invocava. Talvolta vivacizzata da qualche libero giudizio su personaggi veneti (e qui giocano risentimenti personali e di famiglia), su cardinali e papi, talvolta movimentata da polemici accenni antispagnoli ed antifrancesi, con qualche scatto stizzito, con qualche sussulto impertinente la storia di Bembo. Epperò i guizzi di personali trasalimenti e di personali sussulti non bastano a riscattare il sentore di fredda compilazione che emana dall'assieme della ponderosa narrazione; questa resta sì dignitosa e decorosa, ma anche piuttosto opaca ed uniforme ché non lievita per perentoria forza d'intendimento. L'assenza d'autentico interesse per la politica che si coglie nella vita di Bembo, condiziona anche il Bembo che - per dovere civico indossa panni storiografici. Come, biograficamente, la politica non l'appassiona, così, intellettualmente, la storia politica non lo coinvolge più che tanto, non lo stimola ad una comprensione scavante, con la quale ricostruire la trama complessa dei fatti. S'accontenta, invece, del loro annuo sedimentarsi raccontabile, appunto, annalisticamente. Né il suo latino - per quanto duttile e svariato specie quando, nelle orazioni, ora è ciceronianamente frondoso ora cesarianamente icastico - può, di per sé, sopperire alla mancanza di vigore interpretativo. Sicché fornisce la paratattica sequenza dei fatti senza che s'inneschi una loro riassunzione sintattica. Si stende su questi il paludamento estrinseco dello stile, ma non vivono colti nella loro interconnessione. Non particolarmente incalzato Bembo dal cruccio e dalla gioia di capire in profondità. Orizzontale vien da dire la sua stesura, la quale non a caso s'inarca nei momenti nei quali è direttamente provocato il letterato: donde i pezzi di bravura oratoria fatti pronunciare in questa o quella occasione da questo o quel personaggio. Vere (di rado) o verosimili che siano le orazioni, restano, in ogni caso, invenzioni anzitutto stilistiche di Bembo che di esse approfitta piuttosto per cimentare la gamma espressiva del suo latino che per penetrare - tramite loro - più addentro. Pago, insomma, con le orazioni, d'attestare la propria maestria letteraria Bembo, ma non, grazie a loro, ulteriormente mordente.
Imbalsamante, d'altronde, e sin paralizzante il mandato di scrivere, per conto della Repubblica, un pezzo della sua storia. Condizionata in partenza la libertà intellettuale del pubblico storiografo se ci si attende da lui una sorta di versione di stato nella quale il governo si riconosca e della quale si compiaccia al punto da utilizzarla e all'interno, per sé e per i sudditi, e all'esterno, per far circolare, e nei governi e nell'eventuale opinione pubblica, un'idea in positivo di Venezia. E ingessanti l'obbligo del latino, la coazione allo stile alto. Una situazione pesantemente vincolata quella della pubblica storiografia rispetto alla quale gli andamenti cronachistici e i tallonamenti diaristici della quotidianità in volgare sembrano una zona franca, all'interno della quale lo scrivere è più disinvolto, più diretto, più immediato, meno costruito, meno artefatto e, perciò, più prensile, più mordente. Comunque sia, la "verità" - che, come anche a Venezia si continua a ripetere, dovrebbe essere l'anima della storia - è, quanto meno, più rispettata se non corre l'obbligo di dimostrare, tramite essa, alcuna benemerenza governativa, se da essa non è necessario distillare essenze ammaestranti. E la verità può essere sgradevole. E per darne conto occorre lo scrivente si senta libero. E, nella libertà, s'agitano opinioni, si mescolano umori e malumori, c'è spazio per polemiche e risentimenti, per franche ammissioni. Cade, il 12 luglio 1470, Negroponte: tra "gemiti" e "sospiri" ecco che - così Domenico Malipiero nei suoi Annali veneti - "par ben che sia abbassada la grandezza veneziana et estinta la nostra superbia". Vittoriosi, il 12 giugno 1499, i Turchi alla Sapienza. Inetto e codardo l'ammiraglio veneto Antonio Grimani, e, a causa sua, viepiù "poltroni et traditori" i "capitani delle galee et nave", mentre la "ciurma" sarebbe disposta a battersi. Ignavia di vertici e combattività di sottoposti. Non si tratta di stabilire, col bilancino del vero e del falso, se è stato effettivamente così. Ciò importa sino ad un certo punto. Ben più interessante individuare le sedi dove è possibile esprimersi così, valutare così. Certo non nella pubblica storiografia. E nemmeno, vien da aggiungere, nella storiografia umanistica in latino.
Sin dicotomica la costituzione quattrocentesca d'un cospicuo stato territoriale veneto rispetto alla Venezia proiettata sul mare e non per niente tale da indurre le delibere senatorie allo sdoppiamento tra, appunto, le concernenti la "terra" e le relative al "mar". Una divaricazione oggettiva e soggettiva che vede nel mare - per dirla con Machiavelli - il vigoroso persistere del protagonismo della "virtù" marciana e in terra un'affermazione, tramite "denari", "astuzie" ed affidamento a forestieri delle sorti militari, assecondata dalla fortuna, il cui revocabile impulso si rivelerà infausto nella disastrosa verifica d'Agnadello. Sin imbelle allora, Venezia nella terrestre "pruova delle forze sue". Un dramma con tragico finale leggibile in termini di lacerante antitesi terra-mare, come, appunto, avviene nelle pagine del diarista Girolamo Priuli. Esito fallimentare - per questo fustigante Savonarola in veste mercantesca il quale, senza saperlo, è d'accordo con Machiavelli quando sottolinea che di per sé lo "statto in Italia" dovrebbe costringere i "padri veneti" al "exercitio et mestiere delle armi", all'impegno diretto in queste e, quindi, a "fare li facti soi" senza "infidarsse" d'elementi "estranei" - il tracollo del 1509 della scelta sbagliata che, a monte, ha intossicata la vicenda quattrocentesca di Venezia. Scriteriati, "inebriati et obfuscati" i "senatori veneti", ossia la classe dirigente, hanno dilapidato i proventi del mare nella voragine dispendiosa della Terraferma. Dissennata la formazione dello "stado italico" fomentatore d'ininterrotte "guerre et spexe", mentre è nel mare, donde affluiscono "danari" e "richeze", che si collocano la "dignitade" e gli "honori" veneti. Epifania della punizione divina per tanta cecità, allora, Agnadello; non incidente di percorso, ma di questo risultato. Si scatena, nella sconfitta, la vena moralistica del diarista: riprovevoli la diserzione patrizia della navigazione mercantile, la crescente disaffezione pel formativo apprendistato tra fondachi e galee e il simultaneo soggiacere alla nefasta seduzione della rendita terriera. Svirilizzante l'abbandono agli "spassi" della villa; disdicevoli questi a chi, invece, dovrebbe plasmarsi nell'aspra disciplina del mare. L'incipiente volgersi dei capitali ad acquisti fondiari è - agli occhi di quest'intransigente patrizio mercante - sin lugubre rintocco preannunciante il venir meno della figura già vividamente univoca del nobile veneziano tutto risolto nella navigazione mercantile. Tentante, invece, per un mercante non nobile come Martino Merlini la piacevolezza del "viver d'intrà": voluttuoso "solazo" il verde dei campi e garanzia questi di profitti sicuri, non insidiati dai rischi del mare. Una considerazione quest'ultima più che ragionevole, epperò non tale da scalzare l'esasperata intransigenza di Priuli che non ammette deroghe al suo esclusivismo - singolare impasto di valutazione economica (il mare è ricchezza) e di eticità (la terra è tralignamento, sin tradimento) - marinaro, impenetrabile ad ogni campestre suggestione. Totalmente identificata la Venezia del Priuli - rispetto alla quale la pianta di Jacopo de' Barbari può valere come visualizzazione - col "trafego de merchadantia". Il venir meno di questo equivale al "manchar" del "lacte" ad un lattante. Terrificante, allora, la "nova", del luglio del 1501, dell'arrivo a Lisbona per via oceanica d'un carico di spezie. Una tragedia, allora, il giungere a Venezia, nel febbraio del 1502, delle galee "del viazo di Baruti" con "solamente colli 700 di spetie". E peggio ancora, di conseguenza, il rientro, di lì a due anni, di tre galee da Alessandria addirittura "vode". Un evento di cui non c'è "aricordo", effetto di per sé di momentanea congiuntura, ma suscettibile di trasfigurarsi - nell'apocalittica apprensione di Priuli - ad ammonitorio preludio di catastrofe. Le battute d'arresto della navigazione mercantile si sommano, in Priuli, a mo' di china precipite sul baratro d'una rovina che non è solo economica, ma anche disastro morale. Sin ossessiva la dimensione del mare in Priuli: in questo la salvezza di Venezia; ma in questo anche, laddove Venezia arretri, l'angoscia della fine. Solo peccaminosa diserzione il volgersi alla terra per Priuli, solo irresponsabile abbandono ad un villeggiare disimpegnato. Perché la campagna si configuri come surrogatoria prospettiva di salvezza occorre attendere il martellante esortare alla valorizzazione agricola della terraferma d'Alvise Cornaro. È l'"agricoltura" - così questi in un "discorso" del 1540 - la "via" proficua pel "viver" della stessa Venezia in aggiunta e, in prospettiva, in sostituzione di quella sempre meno controllata del "mar, la quale sta in man et a discretion de' suoi vicini" e, come tale, non è più sicura.
Puntando esclusivamente sulla "via del mar", argomenta Cornaro, "si dee temere che la vittuaria manchi a questa città". Un incubo - esorcizzabile ad avviso di Cornaro con "biade" e "formenti" forniti da una terraferma redenta dalle bonifiche - di cui non v'è traccia in La città di Venetia di Marin Sanudo, l'autore, oltre che degli sterminati Diarii, dell'Itinerario di terraferma, dei Commentari della guerra di Ferrara, della Spedizione di Carlo VIII in Italia, nonché dei "tre libri", il secondo dei quali andrà smarrito, della "cronicha di Viniexia" dall'origine al 1494 nota col titolo di Vita di i dosi (3). Rialto - proclama Sanudo in quel suo scritto ove descrive l'aspetto della città e dà conto delle sue magistrature - è "di tutto il mondo la più ricchissima parte": trabocca, infatti, delle "mercadantie" febbrilmente caricate e scaricate nell'instancabile andirivieni d'una flotta mercantile tutta "viazi" e di "Levante" e di "Ponente". Nell'"isola di Rialto" - sottolinea Sanudo - "non vi nasse alcuna cossa" e, purtuttavia, vi si trova "di tutto [...] abbondantemente", affluendovi, appunto, "ogni cossa" da "ogni terra et parte del mondo". Strepitoso il tripudio merceologico realtino movimentato dall'incessante "spazzamento" della "robba" all'insegna dell'intensissima circolazione di "danari" propria d'una città - esagera Sanudo, che di tanta presenza di moneta certo personalmente non beneficia se costretto, in una lettera al consiglio dei X del 1531, a dirsi "povero e più che povero" - dove tutti sono "danarosi". Una prosperità, chiarisce lo stesso, "solum" derivante dalle "mercadantie fatte col navegar in diverse parti del mondo". Ciò non toglie che - dalla "cotidiana ephemeride" dei Diarii sanudiani che implacabile si distende dal 1496 al 1536 - s'evinca, invece, come, nel mondo slargato enormemente dalle scoperte, non si possa più parlare d'onnipresenza veneziana. "Le nove del zonzer specie di Coloqut in Portogallo" - così Sanudo nel luglio del 1501 -piombano sconvolgenti: danno "molto che pensar" a Venezia; atterriti i mercanti si sentono prossimi alla "ruina". È ben perché utilizza Sanudo che Bembo può a sua volta scrivere dell'irrompere da lungi d'un "male non pensato", quello del rientro a Lisbona dall'India via mare "d'alcune navi colà mandate" e di là reduci "di pepe e di cimamomo cariche". Il che - così Bembo nella versione italiana della sua storia, ove attenua la sensazione di panico avvertibile, invece, nel riporto di Priuli e di Sanudo - apporta "non poca noia" ai "padri". Ma Bembo non è un mercante come Priuli, né è immerso nel vociferante contrattare di Rialto come Sanudo. Perciò più che soffermarsi sul turbamento indotto da tal "novella", di questa approfitta per una digressione sulle scoperte e sull'impresa di Colombo. Lo coinvolge assai più "la opinione di Colombo", cui fa pronunciare un tornito discorso al cospetto dei reali di Spagna. E non dimentica di ricordare dotti antecedenti per lo scopritore: Posidonio "filosofo discepolo di Panesio" ed "Avicenna, medico grande ed illustre uomo". Ma per sapere dei mercanti in preda all'ansia occorre scavalcare la sua storia, andare alle pagine di Sanudo e di Priuli.
Smagliante l'orazione colombiana nel latino di Bembo, sollecitato anche dall'occasione d'ostentare, così, la sua aggiornata cultura geografica. E dottrina e stile, in tal caso, concorrono all'efficacia suggestiva del dettato. In tal caso il Bembo pubblico storiografo offre uno dei suoi momenti più felici, anche perché può dimenticarsi di Venezia e della connessa valorizzazione ammaestrante della sua "prudenza" prescritta dal consiglio dei X. Impensabile, infatti, un pubblico storiografo che inveisca, come Priuli, contro i "pecadi" della città. Un flagellare rampognante, questo di Priuli, dettato sì da amore per Venezia, ma inammissibile quando la classe dirigente esige, invece, dallo storico estratto dal proprio seno un racconto di cui compiacersi. Ma nemmeno Sanudo - pur aspirante alla carica di pubblico storiografo - è concepibile in tale veste. Se premiato in questa sua aspirazione, avrebbe dovuto sacrificare l'ansia frenetica di "verità" che lo rende famelico di notizie e impaziente di trascriverle subito, senza attardarsi nell'agghindarle in latino. Sin programmatica la dedica al doge della sua monografia sulla venuta di Carlo VIII: "non curando di altro che de la verità", sente il dovere d'esporla in un linguaggio intendibile a "tutti, dotti et indotti". Ancora disciplinabile la "verità" nella circoscrizione monografica, essa, invece, non è più contenibile in un'ordinata esposizione, laddove non d'un solo episodio - quale la calata in Italia del re di Francia - si tratti. La "verità", sembra pensi Sanudo, è tutto ciò che succede ed è successo e, quindi, tutto ciò che si sa o si pensa accaduto o in via di accadimento. Scheggiata, allora, la verità in innumeri episodi dentro e fuori Venezia. Impossibile gerarchizzarla, selezionarla, graduarla. Meglio dirla, se non tutta, il più possibile, giorno per giorno, senza omissioni, senza manipolazioni, senza imbellettamenti. Ma come? Con la "faticha" d'andare "drio a scriver li successi", oltre che di Venezia e dei suoi domini, "de Italia et dil mondo" - beninteso: i "successi" fuori Venezia fintantoché fagocitati e, vien da dire, interiorizzati, venezianizzati in una ricezione inesausta che è pure inesauribile propalazione - nel quotidiano riporto d'un singolarissimo impasto d'italiano, speziato di tracce latine, e di dialetto lagunare. Una inventiva mescidanza, infatti, la lingua di Sanudo, la cui risultanza è una sorta di italo-veneziano sempre ansante per star "drio", ogni giorno, a tutto. Donde non la storia rifinita, ma la paratassi della costipazione diaristica, che a nulla rinuncia perché gli accadimenti sono tutti veri e, se veri, tutti del pari importanti, tutti accumulabili in quel mostruoso abnorme magazzino che sono i Diarii sanudiani.
Venezianissimi i Diarii e per la lingua e per il contenuto o perché direttamente veneziano o perché, anche se lontano e sin lontanissimo, viene registrato, più o meno in ritardo (calcolabile allora, grazie a Sanudo, il tempo della notizia), nella misura in cui giunge a Venezia e a Venezia se ne parla. Gremito di fatti e fatterelli - un tremendo terremoto, una modesta acqua alta, una rissa, un banchetto - il vissuto della città, ma anche bersagliata questa da notizie d'ogni sorta e d'ogni dove. Sicché da un lato è un mondo, dall'altro è una finestra sul mondo. E se l'ambasciatore veneto a Madrid trasmette al senato "nove de India", quella occidentale, ecco che dette "nove" fuoriescono da palazzo Ducale, e anche nelle calli si parla di "ixole trovade", e dell'"infinità de oro" che gli avidi conquistatori v'"anno trovato". E così Sanudo - che da Venezia non si muove, che a Venezia sta fermo - può stupirsi di quel che sente dei ricami messicani di piume superanti, pare, quelli veneziani in bellezza, anche se questi sono "di seda" e "di oro". Ma ancor più meraviglioso dev'essere il piumaggio degli esotici uccelli. Ma se così è, è nel lontano Messico che si trovano le cose "più belle" del mondo. Onnivora miscela il crogiuolo diaristico sanudiano di visto e di sentito, di vicino e di remoto, di minuscolo e di grandioso. Naturalmente v'è reperibile quanto - arriva una nave, manca il pane, crescono i prezzi, si smaschera un furfante, atroci supplizi, festosi scampanii, mestizie quaresimali, recite, ammanchi di cassa, fallimento di banchi, liti in famiglia, brogli, bisbigli, calunnie, proteste, volantini ("polize") incitanti alla ribellione, esultanza perché un doge è morto, collocazione a palazzo Ducale d'un quadro "fatto per Tuciano pitor" ritraente il doge Gritti inginocchiato, preti ribaldi, matrimoni fastosi, dilagare della prostituzione - la storiografia aulica non vuole o non sa o non può dire. E il tutto è cacciato dentro alla rinfusa, ma nel contempo, grazie alla scansione impressa dall'"ordine delli anni, mesi et zorni", è anche disposto a mo' di serrata sequenza. Donde l'evincibilità dai Diarii del farsi e disfarsi delle decisioni politiche a palazzo Ducale. Ed è pure evincibile - a mano a mano le notizie arrivano ora sommandosi ora contraddicendosi e sin elidendosi - un minimo di narrazione d'eventi lontani (la guerra dei contadini, i Tartari "in liga col Turcho" contro i Polacchi, il duca di Moscovia in rotta col genero duca di Lituania), nel senso che è, quanto meno, fattibile la storia di quel che di detti eventi a Venezia si sa o si pensa di sapere. Piazza privilegiata Venezia nei tortuosi percorsi dell'affabulazione scritta e orale, centro d'affluenza e di smistamento delle notizie. E il diarista le afferra tempestivo non appena arrivano e non appena inizia la veneziana vociferazione. Stando - racconta Sanudo - ad "alcuni venuti" dalla Persia si sarebbe lì imposto capeggiando "assaissima zente" un "puto", un fanciullo. Ecco che rimbalza a Venezia un primo cenno su Ismail, il fondatore dei Sawafidi, "novo propheta" d'una religione che, scagliata com'è contro il Turco, par quasi opposta, ma questo nella ricezione, elaborazione e rilancio lagunari, alla "fede di Mahometto". Sin incredibile che un acerbo adolescente divenga "soffi, re di Persia". Sembra una "fabula" ed è, invece, "verità", mette le mani avanti Sanudo. Indefesso nel suo scrupolo annotatorio di fatti, il diarista è un po' sconcertato se i fatti sono stupefacenti. E lo sono tanto più quanto più vengono di lontano, a man a mano, lungo il cammino sino a Venezia, sono raccontati. C'è, allora, nei cosiddetti fatti, specie se esotici, un sentore di "favola". È l'affabulazione a renderli favolosi, meravigliosi. Per fortuna lo scrupoloso Sanudo sa anche stupirsi, sa anche meravigliarsi. Ma così immette nei suoi Diarii così congestionati di fatti anche il tocco leggero della favola. E così - pur sedentario - si concede il dono di viaggi meravigliosi.
Certo: la mancata designazione a pubblico storiografo è vissuta da Sanudo con sofferenza, convinto com'è di meritarsela. La storia, ne è persuaso, dev'essere veritiera. "Sopra tutto la verità", proclama: "questo è potissimo in historia". Ma che idea ha dell'operazione storiografica? Essa consiste nel racconto di "tutto il successo, giorno per giorno, da poi la partita" alla volta dell'Italia di Carlo VIII "fino alla sua ritornata" in Francia. Questo, a suo dire, il pregio della sua monografia sulla spedizione. Una concezione della storia che esita nei Diarii, ove, appunto, vige il giornaliero riporto delle "cose successe", le quali sono "verissime", vale a dire assai veridicamente "descritte". Un criterio che depone a favore della professionalità del diarista ma che, nel contempo, rende comprensibile il motivo per cui il consiglio dei X gli ha preferito Bembo. Sarebbe stato imprudente affidare ad un Sanudo la modulazione storiografica del leitmotiv della "prudenza"! Da un lato il Sanudo è sin incontinente nella foga d'ammassare "tutto il successo", dall'altro è un uomo semplice, schietto, incapace d'infingimenti e di cincischiamenti, riluttante a decorare, a infiorettare. Indubbia la sua appassionata "affetione" verso la "patria". Ogni suo scritto nasce dal desiderio di "far eterna memoria del stato nostro veneto". Ma lo fa soprattutto coi Diarii, sciorinando accadimenti piccoli e grandi, scrivendo, appunto, le "cose successe". Scontato, per lui, che Venezia sia "inclita", che sia città "primaria e potentissima". Ma non sarebbe da lui organizzare un montaggio selettivo delle "cose successe" per dimostrarlo. Indicativo che in quella sorta di introduzione illustrativa alla città (e la terrà presente Francesco Sansovino) costituita da La città di Venetia, ossia, come vuole il titolo latino, De origine, situ et magistratibus urbis Venetae, eviti panegirici del veneto reggimento. Entra subito, astenendosi da encomi enfatizzanti, nel merito. Elenca "tutte le dignitadi di oficij di Viniexia", precisa "per che modo i se fa e qual'è il suo officio"; e aggiunge la lista dei "rezimenti", coi quali, da Brescia a Candia, palazzo Ducale fa sentire il proprio comando. Descrive insomma seccamente la macchina statale e non teorizza e non ideologizza in proposito. S'attiene alla forma stato così com'è. Quanto alla popolazione di Venezia, essa si tripartisce - così in un altro suo scritto minore - in "zentilhuomeni, che governano il stato et la republica", "cittadini" e "artesani, overo populo menudo".
Non si potrebbe dir più chiaramente che il patriziato lagunare monopolizza la politica, è titolare esclusivo della gestione dello stato. Salutare l'elementare semplicità della constatazione sanudiana rispetto al travaglio da tempo in atto per sovrapporre allo stato così com'è - e, nella sostanza, pacificamente accettato, ché mancano le asprezze della discussione di chi deve governare e di come governare che, invece, turbano la vita politica fiorentina - un argomentare, non privo di complicazioni, mirante a proporlo come stato perfetto. Con la pretesa, dunque, sempre più esplicita di far combaciare l'essere col dovere essere. Il che avviene soprattutto durante la fase grittiana quando Venezia, ridimensionata politicamente, si risemantizza con la cosiddetta renovatio urbis. Al riassetto urbanistico architettonico culminante nell'intervento sansoviniano su piazza San Marco nella quale si compendia l'imago urbis, s'accompagna un'orchestrazione ideologica valorizzante al massimo il reggimento marciano. E ciò non senza effetti di ricarica nell'automotivazione patrizia alla politica, di suggestione sull'opinione pubblica - vale a dire sugli ambienti politici ed intellettuali - europea e di persuasione sui sudditi e, anzitutto, su quanti a Venezia abitano. È ben indicativo che Andrea Marini, un medico d'origine trentina attivo a Venezia, in un suo Discorso, del 1560, di per sé dedicato all'"aere" della città, si senta in dovere d'esordire con questa perentoria asserzione: essere "la forma della republica" marciana tale che "né Platone né Aristotele non seppe fingere una così bella. Di che è segno che niun governo di republica durò mai millecento e più anni come il felice governo di Venezia, il quale è con tali leggi stabilito che si può sperare che duri quanto il mondo". Voluto il ricorso alla citazione di questo passo, pur tardo. Da un lato attesta come il presumere ideologico - per circolare come opinione condivisa e sinanco come convinzione - abbia oltrepassato l'ambito governativo della sua genesi e si sia diffuso in più vasti ambiti al governo estranei e a questo solo sottoposti. Dall'altro sintetizza chiaramente in poche righe i risultati d'una riflessione che, avviatasi ancor prima del '400, è approdata, negli anni Venti e Trenta del '500, alle sue formulazioni più appaganti. Quelle, appunto, che il passo qui riportato riassume.
Stando a Marini - e, quindi, al pensiero, per dir così, politologico da lui riassunto - Venezia si propone come caso limite non solo del realizzato e, più ancora, del realizzabile, ma anche come caso limite delle aspirazioni umane. La forma stato marciana rappresenterebbe, insomma, il massimo del dicibile, del supponibile, dello sperabile. Va perciò preposta non soltanto alle forme statuali realizzate riscontrabili nel tempo ma persino a quelle concepite teoricamente dai due massimi pensatori tramite i quali l'intelletto umano più s'è proteso. Venezia è, allora, tangibilmente, concretamente la città felice. "Felice", infatti, il suo "governo", il quale, da un lato, è ultramillenario (evidente, in ciò, il mito della libertà originaria che fa nascere Venezia già intera), dall'altro è, auspicabilmente, imperituro. All'insegna della persistenza, altresì, l'eccezionalità che rende Venezia unica: nel cupo travaglio d'una storia in cui tutto cambia e in cui nulla dura, si dà come immutabile compiutezza il marmoreo candore della sua immodificabile perfezione. Presa alla lettera la supposizione di questa fa coincidere la storia di Venezia colla manutenzione della sua strutturazione repubblicana alla quale - proprio perché perfetta - nulla va aggiunto e nulla va tolto. Governo aristocratico, di fatto, quello marciano. Solo che - nel suo reagire, puntando sulla "reputation", ai ruvidi strattonamenti del primo '500 - esagera talmente nell'autostima tramite l'automitizzazione da sfiorare il narcisismo dell'autorispecchiamento più compiaciuto. Ché non tanto lo specchio viene interrogato coll'ansia di chi si conta le rughe, di chi vuoi verificare i paventati segni dell'invecchiamento, quanto piuttosto utilizzato - previo accurato autoagghindamento - perché confermi, rassicuri, incoraggi l'idea di sé che la classe politica coltiva ad uso interno ed esterno. In tal caso lo specchio le dice quello che essa vuol sentirsi dire, ossia che Venezia è - sarà, tra gli altri, Paruta ad adoperare questa formulazione - "vera immagine di perfetto governo".
Credibile la propaganda veneziana finché propone Venezia come superiore all'antica Roma, ché, se seconda Roma in quanto prosecutrice del retaggio civile di questa, la supera poi in fatto di durata, di tranquillità interna (ignara Venezia delle tensioni che turbano la Roma repubblicana), di equità, di consistenza (l'armonia delle proporzioni giova alla tenuta, mentre la straripante Roma imperiale crolla). E poi l'antica Roma è pagana, mentre Venezia s'intitola all'evangelista Marco. Non altrettanto persuasiva la propaganda nell'erigerla a stato perfetto. E ciò perché l'argomentazione in merito, ossessionata dall'antico fantasma dello stato misto, anziché essere decisamente innovante (lasciandosi, perciò, alle spalle quel fantasma ed elaborandone un altro, magari desunto dall'effettivo sembiante costituzionale di Venezia; e, allora, insistendo sulla moderazione del potere come risultato non dell'equilibrio tra poteri, ma tra organi del potere), rimane, concettualmente, subalterna dell'antico, lo ricalca. Lo stato perfetto - insegna Aristotele - dovrebbe consistere nella compresenza contemperante, tramite il costante attivarsi del controllo incrociato, di monarchia, aristocrazia e democrazia, laddove queste tre forme, se univoche, sono invece subito insidiate dalla degenerazione in tirannide, oligarchia e demagogia. Il vagheggiato stato perfetto coincide, dunque, coll'auspicato e teorizzato stato misto. Ne consegue che Venezia - nella misura in cui, specie nel rigoglio cinquecentesco del mito, si dà come perfezione in atto, come utopia realizzata, come realizzazione addirittura superante quanto l'antico è riuscito ad immaginare, a fingere, a vagheggiare (è ben questo che scrive Marini nel passo prima richiamato) - diventa perfetta nella misura in cui la si dimostra stato misto. Donde forzature, sofismi, acrobazie più o meno mistificanti. E ciò a costo di travisamenti e fraintendimenti, ora più ora meno in buona fede.
Comunque sia, è da parecchio tempo che si convoca o, per lo meno, si evoca il fantasma aristotelico dello stato misto per farlo calare su Venezia. Già alla fine del secolo XIII Eustazio di Tessalonica accosta la città alla mitica repubblica dei Feaci, quasi settentrionale revival di quell'antico stato felice (4). E, supponendo questo misto, la supposizione vale per Venezia. Mista, si comincia a dire, la sua costituzione. Sempre sul finire del secolo XIII e in coincidenza colla "serrata" del maggior consiglio, in tal senso s'esprime, ad esempio, Enrico da Rimini. E la qualifica ricompare, all'inizio del '400, con Lorenzo de Monacis. Una variante, rispetto a questa, introduce Giorgio da Trebisonda, nella dedica, del 1460, al senato della sua traduzione delle Leggi di Platone: a detta, appunto, della dedica, sarebbero avvertibili nella costituzione veneziana platonici sentori. Un suggerimento che aggiunge confusione allo sforzo, già abbastanza faticoso, d'adattare il sembiante dello stato marciano alla triplicità delle forme desunte da Aristotele. Uno sforzo che, sin snaturante tant'è falsante, tocca il suo culmine col trattato sul reggimento veneziano di Gasparo Contarini. È questo, comunque, la carta d'identità esibita dalla Venezia grittiana. Steso in latino tra il 1524 ed il 1531, la sua intensa circolazione - e nell'originale e tradotto in italiano, francese, inglese - concorre viepiù alla diffusione, nell'Europa colta, di un'immagine di Venezia in positivo al punto tale da configurarla come l'altrove - raggiungibile e visitabile - suscettibile d'offrire "optimam rempublicam" fiorente "pace, litteris, pecunia". Che Venezia sia tale "Contarenus [...] probavit", assicura un epigramma di Marcantonio Flaminio. Utopico, in fin dei conti, lo stato misto d'Aristotele, ché irriscontrabile storicamente, per quanto auspicabile. Ebbene: la Venezia contariniana, connotata, appunto, dalla dosata mescidanza delle tre forme di potere, è, allora, l'utopia realizzata, al contrario dell'"Utopia" di More, che, giacendo - così nella traduzione italiana - "al di là dei confini del mondo conosciuto [...] forse non lontano dai Campi Elisi", non sta, come invece Venezia, nella geografia e nella storia e, quindi, proprio non c'è.
Europea la risonanza della trattazione contariniana nel suo venir incontro al vagheggiamento utopico, vale a dire all'inappagato desiderio di felicità e al connesso fantasticare su di un luogo (o non luogo) ove collocare quanto si desidera e, nel contempo, a casa propria non è dato trovare. Fa piacere apprendere da Contarini che le "leggi" a Venezia sono "accomodate a bene e felicemente vivere", che Venezia è la città felice. Questo perché gode della pace sociale, perché la vita vi fluisce armoniosamente operosa garantita dalla saviezza d'un governo prudente e sollecito. Non occorre la forza, non necessitano le armi, laddove, nel fecondo connubio tra lungimiranza provvida di governanti e ottemperanza grata di governati, fiorisce la concordia. "Pare che il governo viniziano [così Guicciardini] per una città disarmata sia così bello come forse mai avessi alcuna republica libera". Coinvolto, dunque, anche lo storico fiorentino dall'ammirazione per lo stato veneziano - nel cui governo riscontra la compresenza di "uno", di "pochi", di "molti" -, ma non senza sottolineare che, se assunto a modello, esso vale per la "città disarmata". Ma è ammissibile questa, se assediata da un contesto armato? All'insegna della pace l'ottima repubblica sagomata da Contarini, quasi quella interna prodotta dal buon governo s'espanda persuasiva all'esterno; sicché, se dentro è plasmante, ridondi, oltre i confini, orientante. E, in effetti, Contarini, a proposito di armi, è sorvolante: sembra lo stato non debba mai reprimere, non debba mai difendersi. Perché il disegno dell'ottima repubblica riesca occorre supporre condizioni ottimali per, nel contempo, attribuirgliene il merito. Ma non è solo supposizione lo splendore della città - che passa per la più bella del mondo; sicché, pei potenti e pei dotti, corre l'obbligo di vederla - culminante nella perentoria bellezza della piazza San Marco aulicizzata per scelta politica dal trasformante intervento di Jacopo Sansovino. Imprescindibile la lettura europea di Contarini dall'avvalorante apporto - ai fini dell'identificazione di Venezia quale ottima repubblica - derivante dalla suggestione visiva indotta dalla circolazione, del pari europea, delle immagini di Venezia. Visualizzato, allora, il buon governo. Insuperabile - a tal fine - l'esemplare contiguità tra palazzo Ducale e Basilica a proporlo figurativamente come religiosamente ispirato, come spiritualmente motivato. E traducibili in figure, comunque, le pagine contariniane. Visivamente traducibile, insomma, il buon governo, credibile finché confortato dallo splendor civitatis. E simultanee sincronizzate e sintonizzate operazioni il grittiano rinnovo urbano e la contariniana trattazione nel convergere ad una sapiente costruzione dell'imago urbis sicché l'ideologia ha il suo potenziante riscontro architettonico e l'architettura si fa ideologica suggestione. Magari ingenui gli entusiastici consensi suscitati dal trattato di Contarini, ma non certo ingenuo l'autore nella sua sofisticata manipolazione. Al solito e, nel contempo, assai meglio del solito un governo simboleggiato da una persona al vertice, gestito da un ristretto nucleo decisionale e radunante in prima istanza nel maggior consiglio quanti possono aspirare alla vita politica - e, a proposito di quest'ultimo, Contarini è quanto mai mistificante desumendo dal numero dei patrizi quivi affollati un'aura d'assemblea popolare - viene camuffato, quasi sia socialmente rappresentativo, da misto.
Contarini - così lo compendierà Bodin ne I sei libri sullo stato - ha scritto che, nella Repubblica veneziana, "il potere regio è rappresentato" dal doge, "quello aristocratico dal senato, quello democratico dal gran consiglio". Ma, questa la secca rettifica di Bodin, "la verità è che in Venezia [...] abbiamo una schietta forma di signoria aristocratica". Sono, infatti, i soli nobili veneziani - Sanudo l'ha ben detto senza infingimenti - quelli "che governano il stato et la repubblica". Nettamente perimetrata la base sociale donde soltanto proviene il personale direttivo. D'esclusiva competenza nobiliare la politica. Ma, una volta constatato questo, quale organo del governo aristocratico più comanda? Quando Contarini scrive il suo trattato, è il consiglio dei X il vero fulcro dello stato, di fatto scavalcante, colla tempestiva rapidità del suo decidere, il senato. Un accentramento sin prevaricante visto con favore dal patriziato più influente cui Contarini appartiene. Uno sbilanciamento costituzionalmente anomalo disdicente l'architettura armoniosa dell'edificio statale marciano da Contarini illustrata e addobbata. Sicché, nel trattato, egli - che, come uomo politico, fa parte dell'influente minoranza che più si riconosce nel decisionismo del consiglio dei X si - premura di sottolineare che quanto i X fanno dev'essere approvato dal senato. È questo l'organo principale dello stato, che deve occuparsi di tutte le questioni, cui spetta la decisione su tutto, insiste Contarini, certo non ignaro di quanto la prassi stia smentendo questa sua formalistica compunzione. Ma il carattere del suo trattato, così apologetico, così propagandistico, lo rende occultante in fatto di tensioni tra organi dello stato, in fatto di conflitti di competenza, in fatto di divisioni interne alla classe politica. È in altri scritti, non destinati alla propaganda esterna, che è possibile riscontrare come, dietro la facciata dell'armonia costituzionale esaltata da Contarini, ferva un dibattito anche tormentoso e conflittuale. Diritto e dovere di tutto il patriziato il governo dello stato marciano e creatura patrizia questo. Ma ben condizionanti le differenze che sin segmentano detto patriziato ed economicamente ed in fatto d'orientamento politico, si tratti di scelte momentanee o di vere e proprie linee programmatiche, di opzioni di fondo. Non seriamente contestato da altre componenti sociali il monopolio direttivo della nobiltà marciana, ma non per questo concorde essa politicamente, né univoca. Non contrastato da rivendicazioni e pretese di potere di altri ceti il governo aristocratico, ma non esente, per questo, da contrasti interni, i quali risuonano nelle sedi di discussione e ridondano anche costituzionalmente se il consiglio dei X assume una preponderanza sin squilibrante e, di fatto, ridimensiona la centralità del senato, la quale a sua volta è stata una conseguenza dello svuotamento del peso del maggior consiglio.
Certo: il celebrante trattato contariniano non accenna a divergenze nel patriziato e a tensioni tra organi del governo patrizio. In quello la facciata costituzionale è come cristallizzata nella sua armonia. Non la si suppone modificabile, né internamente agitata. Questo avviene, invece, in scritti ove, quanto meno, s'appalesino disfunzioni e si prospettino modifiche. È il caso, tanto per esemplificare, d'un trattatello in latino sullo stato, del 1450 circa, di Lauro Querini, lo stesso che, in un altro suo scritto sulla nobiltà, esalta l'interventismo espansivo del doge Foscari quale coerente svolgimento della funzione antitirannica di Venezia proposta come presidio e propugnacolo delle libertà. Steso tra il 1446 ed il 1449, il De nobilitate esplicita quanto nel De republica resta, invece, sottinteso. Più sottile, comunque, questo secondo testo ché più complesso e, nel contempo, non baldanzosamente propagandistico. Qui l'autore si rifà alla Politica d'Aristotele col piglio personale d'una rilettura attualizzante e fortemente venezianizzata: ancora una volta per un nobile veneto pensare lo stato significa pensare Venezia. Singolare, da parte di Querini, l'assenza dei toni celebrativi cui in genere indulgono scritture di tal fatta; ed originale, da parte sua, l'abbozzo d'un ridisegno costituzionale, nel quale si auspicano un rafforzamento dell'esecutivo e, insieme, un'effettiva garanzia per tutta la nobiltà dell'elettorato attivo e passivo. E ciò per una politica che sia anche forte del consenso popolare. La repubblica è, per Querini, una sorta di situazione intermedia tra l'eccessivo restringimento dell'oligarchia e l'esagerato allargamento della democrazia. Inidonea la plebe al comando, ma pur sempre sollecitabile ad una conferma dall'esterno della linea del governo. Se si considera che in un suo intervento del 1467 il non nobile Giovanni Caldiera, non pago di esaltare il regime ottimatizio, si sbraccia ad inveire contro la democrazia bollata come abominevole, il nobile Querini si mostra, invece, un minimo aperto. Un'apertura cui è simmetrica la preoccupazione pel contrarsi del ruolo dell'affollato maggior consiglio a vantaggio del meno numeroso senato. Ci dovrebbe essere, a parere di Querini, una ridistribuzione del peso specifico e relativo che ridia al primo prestigio. Non per questo Querini propende per un allungamento ed allargamento del dibattito che precede le decisioni. Queste dovrebbero, anzi, essere rapide, con drastico snellimento delle discussioni manipolatili - paventa Querini; ed è un timore che riguarda soprattutto il senato - in senso oligarchico. Comunque le decisioni siano al più presto messe in atto dalle massime cariche quasi sganciate - sembra voglia Querini - dall'attardante ed inceppante controllo senatorio. Il vertice dogale, nel ridisegno queriniano, diventa ben più del simbolo dello stato: si carica di responsabilità propulsive ed attuative. Un doge, in certo qual senso, monarca. Personificazione dello stato il doge, munito delle "insegne dell'imperio", epperò senza "autorità" di "determinare" alcunché, come sottolineerà Donato Giannotti. "Primo huomo" sì della Serenissima, ma solo "per preminenza", non per qualche sovrana implicanza. Ebbene: Querini lo trasforma, nei suoi auspici, in pieno capo di stato, in autentica guida della Repubblica. Dedicato al doge Francesco Foscari il trattatello queriniano è latore d'una proposta che, anche se attenuata dalla veste trattatistica, anche se edulcorata dal tono pacatamente dissertante, presa alla lettera suona fortemente sovvertitrice. Urge - in fin dei conti è questo che Querini dice -, per la politica che Foscari sta impersonando, una profonda riforma dello stato: un doge quasi monarca elettivo che - pur estratto dall'aristocrazia - sia confortato dal favore popolare. Balugina, così, in certo qual modo, da un lato un potere fortemente personalizzato e sin affidato alla figura del doge caricata di sovranità, dall'altro l'esigenza d'una politica che non sia solo espressione della nobiltà. E, se così è, Querini vuole un doge rafforzato quasi per liberarlo dai condizionamenti della sua classe d'appartenenza. Una drastica personalizzazione, insomma, del potere perché non prevalgano gli egoismi oligarchici e, insieme, un alonarsi dello stesso di un'incoraggiante aura di favore popolare.
Credibile o meno che sia l'intervento di Querini, vale ad attestare come non ci siano soltanto omaggi ed encomi per lo stato marciano, ma anche s'affaccino esigenze sin ristrutturanti per renderlo più funzionale ad un certo tipo di politica. Non scontato, allora, che Venezia sia l'ottima repubblica ed, il migliore degli stati, se non altro quando affiorano perplessità sul meccanismo stesso dello stato, se non altro laddove si sospetta siano le stesse istituzioni suscettibili d'offrire il destro ad un utilizzo distorto ed interessato. Il che offusca il postulato per cui, in linea di principio, la nobiltà lagunare tutta è principe collettivo. Sino a che punto il reggimento ottimatizio è sostanzialmente antitetico rispetto a quello oligarchico? Sino a che punto gli organi in cui si articola lo stato sono immuni da forzature e manipolazioni? Tutto si chiarisce limpidamente se l'assunto è apologetico, come nel trattato sullo stato marciano del patrizio Paolo Morosini. In quest'apologia quattrocentesca degli ordinamenti lagunari non vi sono interferenze, sovrapposizioni, ma chiara razionale distinzione; al maggior consiglio compete prevalentemente l'elezione alle varie cariche; al senato spetta soprattutto il deliberare. Se così si semplifica, non sussiste conflitto, tutto scorre ordinato. Soddisfatta, pertanto, e compiaciuta l'illustrazione della forma statale veneziana di Paolo Morosini. Non così più tardi, alla fine del '400, un altro Morosini, Domenico, nel suo De bene instituta re publica. Qui la disamina critica degli ordinamenti s'addentra decisa nella direzione d'una franca ristrutturazione non impacciata da riverenze dalla quale lo stato emerga snellito, prosciugato, semplificato, essenzializzato con un severo sfoltimento della partecipazione politica dell'aristocrazia nel suo complesso. Una svolta oligarchica? Vien da dire di sì, stando al silenzio che Domenico Morosini vorrebbe imporre alla loquacità del dibattito politico lagunare. Drastica la contrazione degli autorizzati ad esprimersi politicamente. Ma ciò non comporta un'oligarchia nell'accezione d'istituzionalizzazione dell'oggettivo prevalere delle grandi famiglie nobiliari, in termini d'esclusione dalla politica della maggioranza dell'aristocrazia veneziana. Occorre - questa la convinzione di Morosini - riqualificare lo stato elevando il tono della vita politica. Morosini, insomma, vorrebbe più preparazione, più competenza, più responsabilità e, anche, più moralità.
Severo il giudizio di Morosini sull'espansionismo bellicista, tacciabile d'avventurismo improvvisato. Avventato il decidere di consessi pletorici e inascoltate in questi le parole ponderate se assordante si scatena lo scomposto vociare di giovani scriteriati, imprudenti, incompetenti. Occorre proprio che tutti, purché nobili, parlino? E ogni nobile, nessun escluso, deve proprio poter dire la sua? Ed è necessario sin ascoltare il diciottenne ingressato in maggior consiglio? Corrispettivo d'un non filtrato accesso alla politica il suo smottamento, il suo degrado, il suo calar di tono. Dilaga il malcostume, s'intensificano inverecondi traffici elettorali, il broglio si fa sistematico, si patteggiano privati favori, si contrattano voti di scambio. Ci vorrebbero - a parere di Morosini - dei severissimi censori, come nell'antica Roma. E, dal momento che in maggior consiglio entrano tutti ed entra di tutto, che almeno i danni di tanto indiscriminato accesso siano limitati: vi si tengano votazioni solo per le cariche di minor conto; che, almeno, quelle più rilevanti siano di designazione senatoria. Ciò nella supposizione il senato voti più oculatamente. E, a renderlo più autorevole di quanto non sia, Morosini non si limita ad ipotizzare un più rigoroso vaglio selettivo per l'accesso. Vorrebbe il consesso formato da senatori a vita. E, in tal caso, il numero dei senatori andrebbe, naturalmente, ridotto. Diverrebbe così una qualificata e rispettabile adunanza d'autentici saggi.
Ma quale il criterio per la scelta d'un corpo politico effettivamente responsabile e capace? Come scremarlo da una nobiltà che, garrula e ciarliera, sta riducendo il discorso politico ad improvvisata loquacità incapace di serietà? Come dovrebbe costituirsi il nucleo ridotto degli addetti a tempo pieno alla cosa pubblica? Sin grevemente deterministico il trattatista nel dedurre dalla mediocrità decorosa della situazione patrimoniale la garanzia di serietà ed onestà e nel supporre le stesse inesistenti laddove non si diano mediocri condizioni, bensì ricchezza da un lato e povertà dall'altro. Troppo ricchi i ricchi - questo il pensiero latente nella proposta del trattatista - e troppo poveri i poveri per non essere politicamente sospettabili. I ricchi prevaricano prepotenti, i poveri sono facilmente corrompibili e ricattabili. I primi strafanno, i secondi si piegano, cedono. Inquinata la vita politica dalla forza economica di quelli e dalla cedevolezza di questi, strattonata tra la boria dell'opulenza e la querula petulanza dell'indigenza. Per riscattarla dall'esiziale mescolanza occorre perimetrare il reclutamento dei pochi da preporre alla guida dello stato nel solo ambito del patriziato di mezzana fortuna, quello non crucciato dalla mancanza dell'essenziale e che, nel contempo, pago di ciò che possiede, non è incalzato da brame d'ulteriore ricchezza, non è distratto dal tenor di vita lussuoso, né si sente autorizzato dall'opulenza allo strapotere sui non abbienti. Il potere ai nobili mediocri, sembra la parola d'ordine di Morosini.
Una variante la sua del proverbiale giusto mezzo. La mediocritas è sempre aurea: nel mezzo sta la virtù; la virtù è moderazione. È ben nel mezzo il nobile non ricco e, insieme, non povero. Saprà ben seguire la via di mezzo della saggezza costitutiva della prudenza politica il patrizio di mediocre fortuna. Uno squilibrio invece il divaricarsi della nobiltà in ricca e povera: non ne può sortire che una politica poco equilibrata. Singolare, comunque, l'oligarchia vagheggiata da Domenico Morosini. Vien da dirla meritocratica e, in tal senso, allora aristocratica. Ed il primo titolo di merito sta nell'ostensione d'una condizione media, di non ricco e di non povero. Troppo impegnativa la politica per non essere esigente, per non richiedere una dedizione austera. Morosini ne ha, appunto, una severa concezione e l'intende come guida ferma ed avveduta d'una società economicamente prospera, laboriosamente attiva, animata da una sorta di produttiva etica del lavoro, in cui - vien d'aggiungere - ci sia spazio anche per chi, impoverito, vuol migliorare. Ma siffatto miglioramento - sottintende Morosini - non dev'essere frutto di pratiche indebite all'interno di palazzo Ducale. La dimensione del lavoro che crea e distribuisce le ricchezze rimane separata da quella della politica. In questa i mediocri patrimonialmente restano tali. Così, almeno, suppone Morosini nel suo appello ai nobili mediocri come base sociale per l'impianto d'uno stato riformato e finalmente ben costituito.
Sin qui rapidamente e con omissione di tanti autori e di tanti titoli un panorama della storiografia e della trattatistica politica. Ne risulta, grosso modo, confermato quanto inizialmente osservato. Ossia che il soggetto dell'esposizione resta il patriziato sia che si esprima tramite un suo esponente sia che solleciti o faccia propri testi di penne di per sé non patrizie, come con de Monacis, come con Sabellico. Non è, tanto per esemplificare ancora, nobile veneziano Diplovatazio; però, quando dedica al doge il Tractatus de venetae urbis libertate [...], tutto esaltazione dell'ispirazione religiosa che permea la vicenda d'una città fondata dallo spirito santo, scrive come il più convinto dei nobili veneziani. Confermato, altresì, quanto e come Venezia prevalga strepitosamente come oggetto dell'esposizione, sia insomma l'argomento principale, l'esclusiva protagonista. Ma fattura Venezia della classe dirigente sicché la storiografia è anche autobiografia, la trattatistica è anche autoriflessione. Donde il confluire d'entrambi i versanti nella direzione d'un autorispecchiamento continuato capace - se non prevale l'autocompiacimento peraltro mai banalmente vanesio ché pur sempre fattore d'automotivazione all'impegno politico - di trasformarsi in autoconoscenza non priva d'autocritici ripensamenti. Manca, comunque, una letteratura che dall'esterno - da altri ceti, dalle città suddite - contesti il regime patrizio, a questo in qualche modo s'opponga, ne auspichi per qualche verso l'abbattimento. Arduo persino racimolare un po' di mugugni, radunare un po' di brontolii. È il patriziato a dire e a far dire che la città è felice. Ma è sempre il patriziato a disdirlo. Sono ben nobili veneziani i diaristi Priuli e Sanudo, dai quali possiamo ben apprendere quando, quanto, come e perché la città possa essere anche infelice. Senza infingimenti, nella diaristica, la catastrofe d'Agnadello. Autoflagellante il patriziato con la penna di Priuli. E anche attento al popolo e anche un minimo preoccupato da qualche parvenza di fremito ribelle tramite l'indiscriminato accumulo annotatorio sanudiano. Innamorato della sua città il diarista Sanudo. Epperò i suoi Diarii forniscono argomenti a chi sotto lo smalto del mito avverte la fatica e la pena di vivere. Automitizzante il patriziato con Gasparo Contarini, ma anche autosmitizzante nella "verità" amara delle cronache e dei diarii.
Ovviamente storie cronache trattati diari - per quanto pignorati direttamente dal patriziato tramite propri esponenti o, per interposta persona, tramite autori ideologicamente catturati e intellettualmente subordinati - sono generi di scrittura di non esclusiva pertinenza patrizia; tant'è che sono praticati largamente dall'intellettualità delle principali città sottoposte al dominio veneto quali Padova, Verona, Vicenza, Brescia. Monopolizzati, invece, dal ceto ottimatizio marciano il dettato prescrittivo delle parti, delle delibere, delle terminazioni e le formulazioni di comando in genere, per le quali ragioni di comodità espressiva e di intelligibilità finiscono, tra la fine del '400 e gli anni Dieci del '500, col convincere all'adozione generalizzata del volgare cui le bembiane Prose della volgar lingua (Venezia 1525) conferiscono dignità di lingua. Da aggiungere che la relazione di valutazione complessiva richiesta ai reduci dai reggimenti nelle città suddite e dalle missioni diplomatiche (affidate queste, nel caso di rappresentanze minori, a funzionari di cancelleria di rango cittadino) sollecita alla stesura d'un rapporto scritto che è sforzo di comprensione storica e di valutazione politica. Se c'è un genere di scrittura qualificabile, senza tema d'esagerazione, storico-politica, è proprio costituito da questi resoconti, da questi compendiosi ragguagli forniti al rientro dai rettori e dagli ambasciatori. È con le relazioni - un'autentica specialità veneziana - che la classe dirigente esibisce le sue capacità d'intendimento e d'esposizione. Di per sé obbligatorie sin dal 1268 e come tali ribadite nel 1425 e di nuovo imposte - con minaccia di sanzioni agli inadempienti - con decreto senatorio del 1524, solo a partire da questa data inizia l'ordinato e progressivo - sia pure con qualche soluzione di continuità - depositarsi delle relazioni. Grazie a loro si dà una Venezia che guarda ai propri domini e, oltre i confini, agli altri stati. Un confronto serrato col presente e dentro e fuori. Tramite i resoconti dei rettori il governo considera le città suddite e il loro territorio, verificando così la propria capacità impositiva ed operativa. E lo può fare e caso per caso e con una valutazione complessiva, ché la somma dei rapporti dei rettori fornisce di volta in volta il quadro generale della situazione interna più o meno plasmata dalla, appunto, politica interna. Quanto alle relazioni dei diplomatici, è ben grazie a loro che il governo può ponderare la fisionomia degli stati italiani ed europei, essendo altresì aggiornato sulle propensioni - più o meno favorevoli o più o meno ostili - di ciascuno di essi nei propri riguardi. È colle relazioni che si elabora la "prudenza" della politica estera. Grandioso lo sforzo cognitivo e valutativo a fini operativi (non per niente le relazioni sono anche delle ragionevoli previsioni, ipotizzano l'immediato futuro) attestato dall'assieme delle relazioni. E stralciabili talune a mo' di veri e propri saggi di storiografia militante, con un sapore, in più, d'efficace reportage. Ed è nella prima metà del '500 che le relazioni degli ambasciatori s'impongono come genere proprio di Venezia ed altrove invidiato ed imitato. Già collaudata, nel primo '500, la scansione del contenuto. Sicché sono proprio le relazioni del primo '500 ad offrire il modello cui, in prosieguo, sino alla caduta della Serenissima, ci si atterrà fedelmente.
1. Si dichiara sin dall'inizio che tutta l'esposizione che segue s'è avvalsa di: Franco Gaeta, Storiografia, coscienza nazionale e politica culturale nella Venezia del Rinascimento, in AA.VV., Storia della cultura veneta, 3/I, Dal primo Quattrocento al Concilio di Trento, Vicenza 1980, pp. 1-91; Id., L'idea di Venezia, ibid., 3/III, Vicenza 1981, pp. 565-641; Angelo Ventura, Scrittori politici e scritture di governo, ibid., pp. 513-563. Da questi saggi intendansi altresì desunte parecchie citazioni nel testo; e alla bibliografia dagli stessi fornita si rimanda, limitandoci, in questa sede, a segnalare, laddove indispensabile, quanto successivamente pubblicato.
2. Cf. Mariangela Regoliosi, Riflessioni umanistiche sullo scrivere storia, "Rinascimento", ser. II, 31, 1991, pp. 3-37.
3. Cf. Marin Sanudo il Giovane, Le vite dei dogi (1474-1494), a cura di Angela Caracciolo Aricò, I, Padova 1989.
4. Paolo Cesaretti, Su Eustazio e Venezia, "Aevum", 62, 1988, pp. 218-227.