giurisprudenza, scrittori di
Che M. abbia potuto frequentare i luoghi classici della giurisprudenza, a cominciare dal Corpus iuris con la sua Glossa, non sembra dubitabile, sempre che non si voglia dar nuova voce al vecchio pregiudizio, risalente fino alla malignità di Paolo Giovio, che lo vuole privo di buoni studi e di buone lettere. M. è legato allo studio del diritto dalla formazione e dall’insegnamento paterni, di quel Bernardo «dottore in legge» e lettore di libri di diritto, che forse non esercitò neppure «poco, e con poco guadagno», la professione (Ridolfi 1954, 1978, p. 5 e pp. 423-24 nota 5), ma che fu comunque scelto da Bartolomeo Scala come protagonista del dialogo De legibus et iudiciis, dedicato a Lorenzo de’ Medici (1483).
M. trovò le sue prime letture nella biblioteca paterna, tra i cui libri, manoscritti e a stampa, non c’erano solo Cicerone e Boezio, i commentari umanistici all’Etica Nicomachea, Giustino, le Storie di Livio o le Decadi di Biondo Flavio (→). Del complesso delle opere giuridiche possedute o prese a prestito da Bernardo è stata posta in rilievo l’imponenza: un Codice e un Digestum Novum manoscritti, un Decretum «fatto in forma nella Magna», la Lectura Codicis di Bartolomeo da Saliceto, il Volumen legum (l’ultimo dei cinque in cui si articolava la vulgata a stampa del Corpus iuris civilis, con le Istituzioni, i Tres libri Codicis, le Autentiche, gli Usus feudorum e le costituzioni di Enrico VII), la Lectura Decretalium del Panormitano, la Novella super Sexto e le Quaestiones mercuriales di Giovanni d’Andrea. E suona quasi come un indizio di interessi rivolti al diritto pubblico che «il Codico di Giustiniano e il Digesto nuovo, amendui in carta di cavretto scritti di penna», fossero chiesti in prestito a Bernardo da Tommaso Deti, che «volea vedere in materia de’ rebelli» (Libro di ricordi, a cura di C. Olschki, 1954, p. 116), cioè di crimen maiestatis.
La familiarità di M. con la biblioteca giuridica paterna è stata ribadita da Carlo Ginzburg (2003), che ha individuato nei sofismi casuistici di fra Timoteo nella Mandragola (III 11) un’ampia e parodistica rivisitazione della dottrina canonistica insegnata nelle Quaestiones mercuriales da Giovanni d’Andrea, «la cui opera era in possesso di Bernardo Machiavelli» (Vivanti 2008, p. 7 nota 14). Anche il satirico ritratto del dottore «che imparò sul Buezio legge assai», nel prologo della Mandragola, non si giustifica solo per il gioco di parole; se Boezio non è autore di testi giuridici, la sua versione del De interpretatione aristotelico sta alla base dell’educazione giuridica medievale tanto quanto le Istituzioni o il Codice di Giustiniano.
Se pure M. non ha letto il Codice, non ne ignora di certo i luoghi più celebri, frequentati e discussi in materia di diritto pubblico. Un buon esempio, per quanto si tratti di un ironico esempio di diabolica legibus alligatio, sembra venire dalla Novella di Belfagor, in cui Plutone, principe degli Inferi, citando quasi alla lettera due notissimi luoghi del Codice di Giustiniano – la legge Digna vox (C. 1, 14, 4) e la legge Humanum esse (C. 1, 14, 9) –, decide di dare inizio a una severa inchiesta chiamando a consiglio tutti i principi dell’Inferno al fine di scoprire se vi sia alcunché di vero nelle accuse che le anime dei dannati invariabilmente muovono «al sesso femmineo»:
perché gli è maggiore prudenza di quelli che possono più, sottomettersi più alle leggi e più stimare l’altrui iudizio, ho deliberato esser consigliato da voi come, in uno caso il quale potrebbe seguire con qualche infamia del nostro imperio, io mi debba governare (Opere, a cura di C. Vivanti, 3° vol., 2005, pp. 81-82).
M. ha certamente letto le Istituzioni, forse proprio su quel «volume di ragione civile intero con Instituta, 3 libri del Codico, Autentiche, usi di feudi, extravagante di Herrigo», acquistato da Bernardo insieme alle «Deche di messer Biondo» il 26 agosto 1485 (Libro di ricordi, cit., p. 207). La dimestichezza di M. con le basi normativo-dottrinali della tradizione giuridica è rivelata dall’uso ricorrente, nelle sue opere, dello schietto motivo giustinianeo giustizia-armi. Non c’è luogo più vulgato in tutta la tradizione romanistica di quello che si legge in apertura della costituzione Imperatoriam maiestatem nelle Istituzioni di Giustiniano (Corpus Iuris Civilis, Institutiones, ed. Krueger, p. 1):
Imperatoriam maiestatem non solum armis decoratam, sed etiam legibus oportet esse armatam, ut utrumque tempus et bellorum et pacis recte possit gubernari et princeps Romanus victor existat non solum in hostilibus proeliis, sed etiam per legitimos tramites calumniantium iniquitates expellens, et fiat tam religiosissimus quam victis hostibus triumphator.
Occorre che la sovranità imperiale sia munita non solo delle armi, ma anche armata delle leggi, affinché possa rettamente governare sia in tempo di guerra sia di pace, e l’imperatore romano sia vittorioso non solo nelle guerre contro i nemici, ma anche nello sconfiggere le ingiustizie dei malvagi col mezzo del diritto, e riesca trionfatore sulla sconfitta dei nemici tanto quanto religiosissimo.
Si tratta di un luogo comune, che M. trasforma in una regola necessitante nella Cagione dell’ordinanza, lo scritto del 1506 sulla milizia:
Io lascierò stare indreto el disputare se li era bene o no ordinare lo stato vostro alle armi: perché ognuno sa che chi dice imperio, regno, principato, repubblica, chi dice uomini che comandono, cominciandosi dal primo grado e descendendo infino al padrone d’uno brigantino, dice iustitia et armi (La cagione dell’ordinanza, § 2).
Il luogo è esemplare di uno dei principali moduli teorici machiavelliani, tanto da essere più volte ripetuto con le varianti forze-prudenza e armi-senno, come nelle Parole da dirle sopra la provvisione del danaio, o buoni ordini-militare aiuto, come nell’Arte della guerra. M. vi mostra «lo stretto nesso fra i problemi militari e l’ordinamento degli stati» (Vivanti 1997, p. XXXVIII; Vivanti 2002; Vivanti 2008, pp. 217-19), cioè l’identità dell’imperium con l’endiadi «iustitia et armi» (ampia dimostrazione in Quaglioni 2011).
Ad apertura delle Istituzioni, «prima legum cunabula», gli incunaboli della scientia civilis, nelle edizioni cinquecentesche della vulgata giustinianea, la rubrica della costituzione recita così (Institutionum dn. Iustiniani sacratiss. principis libri quatuor, 1575, col. 2): Pro sustentatione, et gubernatione Reipublicae, duo sunt necessaria: videlicet Leges, et Arma («Per conservare e governare lo Stato, due sono le cose necessarie, vale a dire le leggi e le armi»). Si può pensare che M. abbia voluto ricordare costantemente che «iustitia et armi», «buone armi» e «buone leggi», sono il primo e fondamentale principio sia di tutto il corpus giustinianeo sia della scienza dello Stato.
La giurisprudenza romana è proposta come modello di una scienza dello Stato. Il proemio del libro I dei Discorsi ritrova nell’imitazione degli antichi ordini la norma di una scienza della res publica fondata sull’esperienza, proprio come nella scientia civilis, nel diritto dei dottori con il quale si pone rimedio alle controversie civili:
E tanto più quanto io veggo nelle differenzie che intra i cittadini civilmente nascano, o nelle malattie nelle quali l’uomini incorrono, essersi sempre ricorso a quelli iudizii o a quelli remedii che dagli antiqui sono stati iudicati o ordinati. Perché le legge civile non sono altro che sentenze date dagli antiqui iureconsulti, le quali, ridutte in ordine, a’ nostri presenti iureconsulti, iudicare insegnano; né ancora la medicina è altro che esperienze fatte dagli antiqui medici, sopra le quali fondano e medici presenti e loro iudizii. Nondimanco, nello ordinare le republiche, nel mantenere li stati, nel governare e regni, nello ordinare la milizia e amministrare la guerra, nel iudicare e sudditi, nello accrescere l’imperio, non si truova principe né republica né capitano che a gli esempli delli antiqui ricorra (proemio A, 5-6).
Le leggi civili sono qui la ‘ragione scritta’, il diritto giustinianeo. M. allude ai cinquanta libri di «sentenze date dagli antiqui iureconsulti», cioè ai Digesti, dove quelle sententiae si trovano «ridutte in ordine», cioè in libri, titoli e leggi. Negli esempi degli antichi è la fonte normativa dell’«ordinare le republiche», del «mantenere li stati», del «governare e regni», del l’«ordinare la milizia e amministrare la guerra», del «iudicare e sudditi» e, infine, dell’«accrescere l’imperio». Sono le prerogative della sovranità, qui disegnata nelle forme proprie della tradizione del diritto comune.
Bibliografia: Fonti: Institutionum Dn. Iustiniani sacratiss. principis libri quatuor, Lugduni 1575; Corpus Iuris Civilis, 1° vol., Institutiones, ed. P. Krueger, Berolini 1872; B. Machiavelli, Libro di ricordi, a cura di C. Olschki, Firenze 1954 (rist. anast. Roma 2007).
Per gli studi critici si vedano: R. Ridolfi, Vita di Niccolò Machiavelli, Roma 1954, Firenze 19787; C. Vivanti, Introduzione, in N. Machiavelli, Opere, 1° vol., a cura di C. Vivanti, Torino 1997; C. Vivanti, “Iustitia et armi” al tempo di Machiavelli, in Storia d’Italia. Annali 18, Guerra e pace, a cura di W. Barberis, Torino 2002, pp. 337-65; C. Ginzburg, Machiavelli, l’eccezione e la regola. Linee di una ricerca, «Quaderni storici», 2003, 112, pp. 195214; C. Vivanti, Niccolò Machiavelli. I tempi della politica, Roma 2008; D. Quaglioni, Machiavelli e la lingua della giurisprudenza. Una letteratura della crisi, Bologna 2011.