Scrittori politici dell'Ottocento, tomo I: Giuseppe Mazzini e i democratici - Premessa
A mia moglie
Gli scritti presentati in questo volume documentano, anche se prevalentemente al livello della elaborazione ideale e degli orientamenti programmatici, la storia della democrazia risorgimentale, la corrente politica che nel corso dell'8oo si contrappose al movimento moderato, contendendogli la direzione del processo conclusosi con la formazione dello Stato unitario italiano.
Le esigenze di equilibrio della scelta hanno indotto a dare un rilievo particolare a Giuseppe Mazzini, in corrispondenza alla funzione centrale che il fondatore della Giovine Italia, della Giovine Europa e del Partito d'azione esercitò, nell'arco di tempo che va dal 1830 al 1872, nelle vicende del risorgimento. Al di là dell'esito immediato della lotta, che lo vide perdente di fronte ai moderati, va infatti affermato con decisione che proprio la tensione ideale, la capacità di suscitare sempre nuove energie, la tenace azione di stimolo, le doti di organizzatore politico del rivoluzionario genovese (un combattente, come ebbe a dire Carlo Cattaneo, che «reputava vittorie anche i disastri, purché si combattesse») ebbero un peso decisivo nel compimento del « risorgimento » nazionale ; merito storico che gli fu riconosciuto tra gli altri, nel corso stesso della lotta, da un uomo come Carlo Pisacane, che pure era un critico severo dell'ideologia e del programma mazziniani: «Niuno, durante l'intera vita,» egli scrisse infatti nel saggio su La Rivoluzione «ha operato con fini più retti, niuno ha rivolto, con maggior costanza, tutti i pensieri e tutte le opere ad un solo fine, così grandioso come è quello del risorgimento italiano . . . Nella storia antica e moderna non si riscontra un uomo che abbia sacrificato tutto l'utile privato ad un utile pubblico sperato. Cotesto tipo di un uomo, di cui tutti i pensieri e gli affetti si reassumono indefessi e costanti nell'amore alla patria, è frutto di terra italiana, è una gloria di più da aggiungersi alle tante che noi contiamo».
La storia della corrente democratica non si esaurisce però nelle vicende del mazzinianesimo, perché il movimento democratico italiano conobbe - a parte il continuo processo di assimilazione nelle file dei moderati, forti delle loro superiori capacità egemoniche, di personalità che avevano iniziato la loro milizia politica nel campo repubblicano ed avevano esercitato talora funzioni di rilievo nello stesso gruppo dirigente mazziniano (e basti pensare al caso di Luigi Amedeo Melegari e dei fratelli Ruffini) - frizioni acutissime che opposero a varie riprese a Mazzini uomini che, come Giuseppe Ricciardi e Filippo De Boni, continuarono la loro azione politica nell'interno dello schieramento democratico. Tipico tra gli altri, a questo proposito, il dissenso che già nel 1848, e poi negli anni immediatamente successivi, divise dal genovese Carlo Cattaneo (per il quale si rimanda al volume curato in questa stessa collana da Ernesto Sestan, Opere di Giandomenico Romagnosi, Carlo Cattaneo, Giuseppe Ferrari), timoroso che una unità senza fede nella libertà, come gli sembrava fosse quella dei programmi mazziniani - fatta cioè di «fusione» e non di distinzione, livellatrice meccanica di quella varietà delle « patrie singolari », radicata nella terra e negli uomini, nella quale il federalista milanese individuava il tratto distintivo della storia italiana - avrebbe reso amari ai popoli i frutti del risorgimento.
Ma oltre alla divergenza tra visione unitaria e visione federalistica, che era poi nella sostanza una divergenza sulla funzione che si sarebbe dovuto attribuire alla libertà, all'autonomia, alla «padronanza» (per usare un'espressione cara al Cattaneo), un altro contrasto di fondo affiorò presto all'interno della democrazia italiana, quello tra chi - come Mazzini ed i mazziniani di più stretta osservanza - poneva in primo piano il momento dell'indipendenza e dell'unità, accentuando gli aspetti politici del movimento nazionale, e chi invece, ritenendo inadeguata questa impostazione (contro la quale si sarebbe levata dopo il '48 l'accusa di «formalismo»), avanzava invece l'esigenza di approfondire i contenuti concreti della rivoluzione, così da trasformare radicalmente l'assetto sociale del paese, facendo battere l'accento sull'eguaglianza reale ed indicando la prospettiva di una trasformazione della penisola in direzione di una democrazia più avanzata od anche socialista.
Questa differenziazione di posizioni - che rappresenta uno dei principali fili conduttori per l'interpretazione delle vicende interne della democrazia risorgimentale - affiora già nelle prime pagine qui raccolte, là dove il vecchio «patriarca» della rivoluzione Luigi Angeloni, nel suo scritto del 1826 Della forza nelle cose politiche, partendo dalla convinzione della diseguaglianza naturale degli uomini e da un ideale sociale incentrato sulla piccola proprietà contadina, affermava (avendo di mira soprattutto Filippo Buonarroti) la sua ostilità a tutti i sistemi basati su forme di comunismo conventuale e sull'egualitarismo della legge agraria. Il contrasto passò poi dal piano del dibattito ideale a quello della concreta prassi politica nel 1830-1831 quando, in seguito alla rivoluzione parigina del luglio ed in connessione alle sue ripercussioni in Italia, il tentativo di dare vita ad un organismo dirigente unitario e rappresentativo delle varie frazioni dell'emigrazione entrò presto in crisi soprattutto per l'incompatibilità subito manifestatasi tra le posizioni di chi, come Buonarroti, inseriva la questione italiana in una concezione risolutamente egualitaria, e quelle dei gruppi liberal-costituzionali o repubblicano-moderati, che non intendevano che si mettesse in discussione l'assetto sociale del paese. Tale divergenza acquistò poi più precisi contorni, assumendo al tempo stesso una maggiore rilevanza pratica, tra il 1831 ed il 1834, allorché si definì in tutta la sua portata il dissenso ideologico tra Buonarroti e Mazzini il quale, nonostante le sue affermazioni di quegli anni sul carattere «sociale» che avrebbe dovuto qualificare la rivoluzione italiana, conduceva però una battaglia serrata contro qualsiasi prospettiva di «legge agraria» o di comunismo. La vicenda si chiuse con la vittoria del rivoluzionario genovese, non senza però che alcuni rivoli di egualitarismo di derivazione buonarrotiana filtrassero anche in uomini come Carlo Bianco di Saint-Jorioz e Gustavo Modena, che pure furono molto vicini a Mazzini affiancandolo nel lavoro di direzione della Giovine Italia. E del resto, sempre nel campo mazziniano, l'esigenza di arrivare al collegamento delle masse popolari (e quindi dei contadini) al movimento nazionale - alla quale Mazzini dava una risposta inadeguata perché continuavano a restar fuori dalle sue prospettive i problemi delle popolazioni delle campagne e la questione agraria - venne affacciata anche in anni prequarantotteschi e con una carica di realismo giacobino da una figura minore come Giuseppe Budini il quale, discutendo della guerra partigiana, sottolineava l'importanza centrale del problema di una partecipazione attiva ed in funzione progressiva dei contadini e degli altri strati popolari al processo risorgimentale.
Ma è negli anni postquarantotteschi, nel quadro di una riflessione autocritica sollecitata dal fallimento della rivoluzione, che il dibattito ideale ed i contrasti politici sul carattere e gli obiettivi della rivoluzione nazionale e sui rapporti tra le classi nel corso della lotta nazionale assunsero un nuovo rilievo e più corpose dimensioni.
Mentre infatti Mazzini ricavava dalle più recenti esperienze la conferma della sostanziale giustezza delle sue vedute, nel seno della democrazia uomini e gruppi «dissidenti» presero invece ad elaborare, sulla comune piattaforma di una critica serrata al «formalismo» mazziniano, un programma rivoluzionario più avanzato ed orientato in direzione socialista, insistendo sulla necessità di inserire nella lotta politica le classi popolari, ed in primo luogo le masse contadine. Tra questi «socialisti risorgimentali» il più rappresentativo ed il più conseguente, sia sul piano del pensiero che su quello dell'azione politica, è certamente Carlo Pisacane, le cui pagine centrali sono state perciò raccolte qui appresso. Ma Pisacane non era - come giustamente rilevò Nello Rosselli - «quell'isolato precursore e profeta del socialismo, unico veggente in terra di ciechi» vagheggiato da una leggenda agiografica, e questo perché la discussione sulle connessioni tra rivoluzione italiana e socialismo e sul rapporto tra masse popolari e risorgimento investì a fondo in quel particolare momento storico (in cui era diffusa la convinzione che si stesse giocando una partita decisiva per il futuro del nostro paese) la democrazia italiana; del che sono documento, oltre alle voci di patrioti e di scrittori rappresentati in altri volumi di questa collana (come ad esempio gli scritti ferrariani raccolti a cura del Sestan o le pagine di Ippolito Nievo sulla rivoluzione nazionale nel volume delle Opere dello scrittore veneto curate da Sergio Romagnoli), quelle di altri uomini (come Giuseppe Montanelli, Pietro Maestri, Carlo De Cristoforis, Ausonio Franchi ecc.) che non hanno potuto essere riprodotte per esigenze di spazio.
Certamente questo socialismo rimase allo stato germinale e non si incarnò in quell'organizzazione materiale, in quel «partito» di cui pure Ferrari e Pisacane auspicavano la formazione. Ma la discussione così intrecciatasi sulle prospettive della rivoluzione (e che ebbe i suoi punti di riferimento principali nella coscienza della necessità di chiamare alla lotta le masse facendo appello al loro «desiderio di migliorare» e dell'esigenza di realizzare con il loro appoggio una trasformazione di fondo dell'assetto sociale, tale da eliminare gli squilibri e le ingiustizie radicati nel paese) dimostra che non colgono nel segno le obiezioni mosse da Federico Chabod (e riprese successivamente da Rosario Romeo) ad uno dei motivi centrali della interpretazione data del risorgimento da Antonio Gramsci, là dove gli si è mosso l'appunto di avere «falsato la prospettiva storica» con la sua tesi della mancata differenziazione del Partito d'azione rispetto ai moderati e della sua sostanziale subordinazione a quelli in conseguenza della sua incapacità di elaborare in funzione antagonista «un programma organico di governo che riflettesse le rivendicazioni essenziali delle masse popolari, in primo luogo dei contadini», legandosi quindi alle masse rurali, specie del mezzogiorno, e facendo leva sulle rivendicazioni elementari dei «contadini di base». Poiché infatti il nocciolo della critica sta nell'affermazione che Gramsci, cedendo alla suggestione di esigenze politico-pratiche, aveva trasferito indebitamente nell'8oo una problematica - quella della questione agraria e dei contadini - che si sarebbe posta soltanto nel primo dopoguerra, la critica stessa si svuota dall'interno una volta che si sia dimostrato che il problema del rapporto delle masse contadine con la rivoluzione e quindi di una modificazione radicale della struttura dei rapporti sociali nelle campagne, quali che fossero le soluzioni prospettate (formazione di una piccola proprietà contadina generalizzata, abolizione della rendita fondiaria, «legge agraria», gestione collettiva della terra da parte di associazioni contadine) fu invece un problema ben presente, ed anzi discriminante, all'interno della democrazia risorgimentale. E che del resto questo viluppo di questioni scaturisse proprio dalla realtà profonda dei processi storici in corso nell'Italia ottocentesca è provato ulteriormente dalla vicenda delle origini del movimento operaio e socialista organizzato del nostro paese, la cui nascita, negli anni della prima Internazionale, si collega direttamente, e si può dire quasi fisicamente (con il gruppo napoletano di Libertà e Giustizia) alle posizioni ed al mondo ideale di Pisacane.