Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
L’esperienza mistica è fondata sulla parola, detta o scritta, indispensabile per comunicare quanto si è sperimentato del divino. Delle due forme di mistica, affettiva e speculativa, le donne (mulieres sanctae) praticano in modo massiccio quella affettiva, che consiste essenzialmente nell’unione con il corpo di Cristo in croce (matrimonio mistico). Dio si assapora, si bacia, si abbraccia. Il filo rosso che segna i percorsi della spiritualità femminile è l’amore (il “folle amore” di Angela da Foligno, il “perfetto amore” di Caterina da Siena), un amore che viene espresso con un linguaggio nuovo. Si parla di una nuova verbalizzazione di Dio, che passa attraverso l’uso insistito di alcune figure retoriche, quali ossimori e tautologie, e che rende possibile esprimere l’ineffabile.
Giovanni Pozzi
Una parola ricevuta e ridata
L’alfabeto delle sante
Una parola ricevuta e ridata
La vicenda mistica, contrariamente a chi la predica come regno del silenzio e dell’assenza, è fondata sulla parola intorno ad una presenza: una parola ricevuta e ridata. È la vicenda di un io in ascolto di qualcuno che risulta assente nella prospettiva puramente umana, assente in tutti i modi umani con cui una persona fisicamente lontana viene evocata come presente alla psiche mediante la memoria, la facoltà che abolisce le distanze del tempo e dello spazio. Punto di partenza è la fede, che si fonda sull’assenso a una presenza sperimentata nei termini in cui lo stesso assenso viene formulato; punto di arrivo una presenza dove i termini della fede sono travalicati nella carità teologale. L’estraneo lo definisce un ascolto di se stesso. Per il mistico questa proposizione è un non senso, perché il suo io, nonché duplicarsi in locatore e destinatario, tende al rovescio a unificarsi all’interlocutore e a parlare le sue parole.
Angela da Foligno, Memoriale, c. IX.
La mia anima è una camera nella quale non entra né gioia né mestizia, né diletto di alcuna virtù, né piacere di nessuna cosa definibile, ma in essa abita quel bene totale, che non è un bene particolare, ma un bene così totale che non esiste altro bene. E in questo manifestarsi di Dio, sebbene io bestemmi parlandone e parlandone in modo insufficiente poiché non riesco a dire nulla, in questo manifestarsi di Dio dico che è tutta la verità. In esso vedo e possiedo tutta la verità che è in cielo, nell’inferno e in tutto il mondo, e in ogni luogo e in ogni cosa, ed anche tutta la felicità che è in cielo e in ogni creatura, con tale verità e certezza, che in nessun modo potrei credere altrimenti per tutto il mondo. E se tutto il mondo mi dicesse il contrario, non gli darei nemmeno ascolto […]. Mi vedo sola con Dio, tutta pura, tutta santa, tutta verità, tutta rettitudine, tutta sicura, tutta celestiale in lui. E quando sono in tale condizione non mi ricordo di nessun’altra cosa.
Scrittrici mistiche italiane, a cura di G. Pozzi e C. Leonardi, Genova, Marietti, 1988
Leon Battista Alberti
Più tosto forse e’ prudenti mi loderanno s’io, scrivendo in modo che ciascuno m’intenda, prima cerco giovare a molti che piacere a pochi, ché sai quanto siano pochissimi a questi dí e’ litterati. E molto qui a me piacerebbe se chi sa biasimare, ancora altanto sapesse dicendo farsi lodare. Ben confesso quella antiqua latina lingua essere copiosa molto e ornatissima, ma non però veggo in che sia la nostra oggi toscana tanto d’averla in odio, che in essa qualunque benché ottima cosa scritta ci dispiaccia. A me par assai di presso dire quel ch’io voglio, e in modo ch’io sono pur inteso, ove questi biasimatori in quella antica sanno se non tacere, e in questa moderna sanno se non vituperare chi non tace. E sento io questo: chi fusse piú di me dotto, o tale quale molti vogliono essere riputati, costui in questa oggi commune troverrebbe non meno ornamenti che in quella, quale essi tanto prepongono e tanto in altri desiderano. Né posso io patire che a molti dispiaccia quello che pur usano, e pur lodino quello che né intendono, né in sé curano d’intendere. Troppo biasimo chi richiede in altri quello che in sé stessi recusa. E sia quanto dicono quella antica apresso di tutte le genti piena d’autorità, solo perché in essa molti dotti scrissero, simile certo sarà la nostra s’e’ dotti la vorranno molto con suo studio e vigilie essere elimata e polita.
L.B. Alberti, I libri della famiglia
In un esemplare trecentesco del Libretto della verità del domenicano Enrico Susone compare un disegno in cui viene visualizzato il viaggio dell’anima, che dalle origini, nel seno della Trinità, attraverso un percorso circolare che passa per la croce di Cristo (imitatio Christi), torna a congiungersi con Dio. Il titolo è La via mistica e il racconto visivo ha la funzione di rendere il più tangibile possibile l’esperienza contemplativa. Probabilmente Susone, uno dei grandi mistici tedeschi insieme a Maestro Eckhart e a Giovanni Taulero, utilizza questa immagine come supporto per guidare alla meditazione le monache, di cui era direttore spirituale.
L’esperienza mistica, cognitio Dei experimentalis, secondo la definizione di san Tommaso o anche “esperienza diretta e passiva della presenza di Dio” (P. Albert Deblaere), si realizza attraverso atti di raccoglimento e contemplazione, o “stati di orazione”, che inducono alla visione estatica, e viene espressa con un linguaggio fatto di metafore, immagini e simboli, che registra la tensione conoscitiva dell’uomo nello spasmo di cogliere il divino che lo trascende. La parola detta, o scritta, è indispensabile per comunicare quanto si è sperimentato, per testimoniare il proprio incontro con Dio, l’unione con l’umanità di Cristo, e ha anche, in particolare per le donne, funzione di conforto.
La letteratura mistica ha prodotto diverse tipologie di testi: trattati, sermoni, dialoghi, vite, visioni e rivelazioni estatiche. Sono testi che, per le modalità in cui vengono scritti, hanno un rapporto molto stretto con l’oralità e ne conservano a tratti l’immediatezza, come per esempio i sermoni tedeschi di Eckhart e di Taulero, registrati da religiose presenti alle loro predicazioni, o anche il Memoriale di Angela da Foligno dettato al suo confessore Padre Arnaldo. La lingua adoperata è prevalentemente quella volgare. I sette gradi dell’amore di Beatrice di Nazareth in olandese antico è una delle più antiche testimonianze della prosa olandese; in francese scrive Margherita Porete, poi il suo Le Mirouer des simples âmes verrà tradotto in latino. Angela da Foligno detta a Padre Arnaldo in dialetto umbro, lui trascrive in latino. Questo testo latino verrà successivamente volgarizzato. Molto di ciò che è noto in latino viene scritto dunque originariamente in volgare, ma è anche vero che in questi secoli si infittiscono i volgarizzamenti di testi spirituali e mistici latini, a uso di un pubblico popolare.
Complessivamente due sono le esperienze che si vogliono descrivere. La prima è l’unione con Cristo e allora si parla di mistica affettiva o nuziale. La mistica nuziale è unirsi a Dio attraverso l’unione con l’umanità di Cristo. È praticata in modo massiccio dalle donne che entrano in contatto con il Cristo passionato vivendo esperienze altamente emotive di amore e dolore. L’altra è la mistica speculativa, o mistica dell’essenza, cioè l’eliminazione di ogni immagine e sentimento per scoprire Dio nel fondo nudo dell’anima, quasi prescindendo da Cristo, come scrive Maestro Eckhart: “Chi vuole penetrare nel fondo di Dio, in ciò che ha di più intimo, deve prima penetrare nel fondo proprio, in ciò che ha di più intimo, perché nessuno conosce Dio se prima non conosce se stesso. L’uomo conosce in una luce vera, in cui non è né tempo né spazio, senza ‘qui’, né ‘ora’” (Sermone Haec est vita aeterna).
Si può privilegiare l’una o l’altra via, o mantenerle in tensione, cercando di integrarle. In ambito maschile, pur con qualche forzatura, si può comunque sostenere che i mistici renani praticano di più la mistica speculativa, mentre i mistici francescani più quella affettiva e nuziale. Dopo san Francesco e prima di Iacopone da Todi, è san Bonaventura, a indicare la strada che porta l’anima all’unione con Dio. La sua rielaborazione della dottrina dei cinque sensi spirituali, la visualizzazione dei sensi come gradini di una scala conoscitiva, è un inno alla bellezza della conoscenza di Dio, all’amore divino che passa attraverso l’esperienza del corpo. Come non pensare allora a quella bellissima lauda (41) di Iacopone da Todi, che comincia: “O amor devino amore, perché m’ ai assidiato / Pare de me impazzato, non poi de me posare. / De cinque parte veio che tu m’ai assidiato: / audito viso, gusto, tatto e odorato / [...]”.
Ma sono le donne, le mulieres sanctae, o scrittrici mistiche, tutte senza distinzione di appartenenza, le più adatte a usare gli stimoli sensoriali nel cammino di avvicinamento a una esperienza epifanica, che irrompe improvvisa e violenta nella loro vita, ma che ha poi bisogno della scrittura per essere ripensata e dare frutto.
C’è un sottile filo rosso che segna i percorsi della spiritualità femminile ed è quello dell’amore. Amore è la parola chiave che permette di entrare dentro la vita e dentro la scrittura di donne apparentemente fragili, ma capaci di grandi provocazioni. Al centro della loro esperienza c’è un rapporto intenso d’amore diretto e privilegiato con Dio. È nell’esprimere in parole o azioni questo rapporto che affermano la loro diversità sessuale; attraverso la parola e i gesti sanno comunicare una visione del mondo diversa da quella maschile, con la loro sensibilità sanno vedere oltre la soglia della percezione comune ed esprimere “l’ineffabile”. Ma c’è nella loro vita anche amore e attenzione al prossimo, un impegno sociale forte, che va dalla cura degli emarginati e dei più poveri (etica della cura) fino a diretti e concreti interventi nella politica e nella storia della Chiesa.
È subito chiaro, non appena nel XIII secolo si afferma in tutta Europa il fenomeno del beghinaggio, che la spiritualità si coniuga al femminile. “Così mi sembra sia che una donna diventa adatta a Dio; nella semplicità del suo discernimento il suo cuore gentile, la sua intelligenza più fragile sono infiammati più prontamente dentro di lei, così che nel suo desiderio comprende meglio la saggezza che discende dal cielo di quanto faccia un uomo duro che è goffo in queste cose”, scrive il francescano Lamberto di Ratisbona cercando di spiegare la straordinaria capacità a esprimere le realtà spirituali di donne come Matilde di Magdeburgo, o Hadewijch d’Anversa.
Una piccola crocifissione opera di una sconosciuta monaca renana del XIV secolo ben rappresenta l’essenza dell’esperienza mistica: il sangue gronda dal corpo fuori misura del Cristo crocifisso al centro dell’immagine. Ai suoi piedi una suora clarissa e san Bernardo. La suora è probabilmente la destinataria, forse anche la committente, del disegno, che le serve per pregare e rivivere la sofferenza della crocifissione; toccando con gli occhi a distanza ravvicinata le ferite inflitte allo sposo potrà fare esperienza di quell’amore unitivo e sponsale, sempre tanto bramato e invocato dalle mistiche, e possibile solo nell’assimilarsi alle sofferenze del Cristo in croce. San Bernardo le è accanto, virgineo testimone di un atto d’amore suggellato dai versi di quel Cantico dei Cantici che così intensamente aveva commentato.
L’esperienza del vuoto si accompagna sempre a quella della pienezza dell’atto unitivo, in un gioco di antitesi, pieni e vuoti, concavi e convessi, espressi a livello linguistico con la figura retorica dell’ossimoro, che sono tipici della natura stessa della mistica. L’infelicissima felicità di queste donne sante si gioca dunque tra amore e non amore, contatto e distacco, presenza e assenza.
Tutte le scrittrici di argomento spirituale che operano nei secoli XIII-XIV in Europa rientrano nel campo della mistica. Ma tra di loro ci sono grandi differenze, diversi sono i ruoli, pur nel comune sentire, non omogenee le esperienze che vivono e le emozioni che ne derivano.
Ci sono le monache, che vivono in comunità, sotto una regola, con rapporti che sono spesso da maestra a discepola. Il gruppo più numeroso è quello delle Cistercensi, che hanno due grossi centri in Europa, uno nelle Fiandre (Beatrice di Nazareth), l’altro a Helfta – Matilde di Magdeburgo, Matilde di Hackeborn, Gertrude la Grande –; e poi le Vallombrosane con la loro fondatrice Umiltà da Faenza, le Clarisse con Chiara d’Assisi, le Agostiniane con Chiara da Montefalco.
Ci sono le beghine nel Nord Europa e le bizzoche in Italia: sono donne che vivono nel mondo in piccole comunità di lavoro e di preghiera, ma senza voti e discretamente indipendenti dal controllo clericale. Osteggiate da parte della Chiesa sono in genere protette dai Domenicani che ne sono i direttori spirituali. Nel Nord Europa le due beghine più celebri sono Hadewijch d’Anversa e Margherita Porete. È beghina anche Matilde di Magdeburgo che sceglie nella vecchiaia di ritirarsi ad Helfta. In Italia è in Umbria che il fenomeno del bizzocaggio ha maggior diffusione: molte donne scelgono inizialmente questa via per poi confluire nei Terzi ordini.
Un ultimo gruppo è quello delle Terziarie dei grandi ordini mendicanti che, pur vivendo in una situazione non comunitaria, devono rispettare uno statuto. Quello delle Terziarie è fenomeno tipicamente italiano: ognuno dei grandi ordini presenta le sue mistiche, ad esempio Margherita da Cortona e Angela da Foligno per i Francescani, Benvenuta Bojanni, Vanna da Orvieto, Margherita da Città di Castello e Caterina da Siena per i Domenicani.
In comune tutte queste mulieres sanctae hanno una spiritualità basata sull’affettività, una fede che si nutre di esperienza e che trae forza e conforto dalla scrittura.
La loro scrittura si può considerare testo letterario? Le parole dettate in estasi ai confessori o padri spirituali, le visioni e rivelazioni, le vite (vere e proprie agiografie, finalizzate spesso alla beatificazione della santa), i diari, le lettere, appartengono alla tipologia delle carte private, ma sono a tutti gli effetti testi letterari.
“Il mio dire è un devastare” afferma Angela da Foligno. Questa donna, forte e fragile nello stesso tempo, che urla il suo amore, ma anche il suo dolore, è la mistica italiana più rappresentativa del Medioevo. È nata in terra umbra, è penitente e francescana. La sua storia la conosciamo dal diario-resoconto che lei stessa detta in volgare umbro a frate Arnaldo, suo parente e confessore, il quale trascrive immediatamente in latino quanto raccoglie dalla sua voce. Più precisamente in prima persona è registrato lo scambio di parole tra Angela e Gesù Cristo, Angela e lo Spirito Santo, in terza persona il dialogo con lo stesso Arnaldo. Questo Memoriale forma la prima parte del Liber Lelle, che comprende anche Istruzioni e Transito, una raccolta di frammenti di vita, tra cui il racconto della sua malattia e morte, che lo completano e arricchiscono. Siamo in presenza di un testo affascinante, denso di parole di altissima concentrazione, nonostante Angela lamenti la difficoltà di un linguaggio che non sa esprimere il sapore delle sue visioni.
Il suo itinerario non è tanto andare verso Dio, ma dentro Dio, un Dio che vuole conoscere in modo del tutto diverso da quello seguito nel procedimento astratto, vuole palparlo, toccarlo. Ecco perché non esita ad affermare che la sola facoltà che sia adatta a questa conoscenza è l’amore. Dio si assapora e la sua conoscenza passa attraverso i sensi.
In una prima fase Angela enfatizza la sua esperienza inserendola nel contesto dell’amore nuziale: “Nel guardare la croce mi fu data una cognizione maggiore di come il figlio di Dio fu morto per i nostri peccati con dolore grandissimo e sentivo che io stessa l’avevo crocefisso [...] ma in questa cognizione della croce mi si dava tanto fuoco che, stando vicino alla croce, mi spogliai di tutti i miei vestiti, e mi offrii totalmente a lui”. In estasi prova solo gioia, una gioia che scaturisce comunque dal dolore: “E vedevo e sentivo che Cristo dentro di me abbracciava l’anima con quel braccio che era stato inchiodato alla croce [...] la gioia che si impossessa in quel momento dell’anima non si può descrivere” (Memoriale, cap. VII).
In un secondo momento prevale il nulla, le tenebre, il non amore: “Un giorno la mia anima fu rapita misticamente [...] non vedevo l’amore. Allora persi l’amore che portavo in me e fui fatta non amore”.
Ma è nel nulla, nella tenebra che ricompare Dio: “Poi, dopo di ciò vidi Dio in una tenebra [...] in quel bene che mi appariva nella tenebra mi raccolsi tutta e fui fatta così certa di Dio da non potere più dubitare di lui”.(Memoriale c.IX). Proprio perché Angela sa di essere tenebra, trovare Dio nella tenebra (quel Dio che è luce e si fa uomo che è tenebra) significa trovare Dio in se stessa.
Oltre la tenebra non c’è più la dualità Dio-uomo, la contraddizione bene-male, ma la perfetta unione umano-divino. Angela vede Dio dal di dentro e in questo esperire può essere avvicinata a Maestro Eckhart: “Come devi amare Dio? devi amarlo in quanto è un non Dio, un non spirito, un non persona o per meglio dire in quanto è puro limpido chiaro Uno, separato da ogni dualità e in questo Uno dobbiamo eternamente sprofondare dal qualcosa al nulla” (Sermone 83).
Luce e tenebre, gioia e dolore, e ancora amore e non amore, pienezza e nulla. L’ossimoro, tutto teso a sottolineare gli opposti, è parte fondamentale del linguaggio di Angela.
È difficile esprimere con le parole l’amore. Le parole sono sempre insufficienti, in particolare se riferite all’amore divino. Nessuna lingua possiede espressioni verbali capaci di comunicare il divino. Pur lamentando a volte l’inadeguatezza del loro dire, le mistiche sanno trovare nuove parole, in realtà sono parole vecchie, ma organizzate in modo nuovo per esprimere una vicenda straordinaria, una relazione di parentela con Dio: da sposa a sposo, da figlia a Dio madre. Il linguaggio dell’amore umano, dell’eros, unito peraltro alle suggestioni del Cantico dei Cantici, si presta a questa trasformazione: con passione, alla ricerca di una propria identità femminile e di un profondo rinnovamento interiore, riescono a elaborare una nuova verbalizzazione di Dio. Attraverso metafore e simboli, espressioni ora chiarissime, ora oscure e impenetrabili, cercano di raccontare la loro esperienza di Dio, il tendere a lui, il momento dell’incontro, il colloquio, l’estasi. Giovanni Pozzi identifica nell’uso di alcune figure retoriche, ossimori e tautologie, la possibilità di esprimere l’ineffabile, o per lo meno di avvicinarsi il più possibile a comunicarlo. Stanno agli estremi limiti della frontiera linguistica sostantivi come “annichilamento”, “sottrazione”, “assenza”, oppure “abisso”, “fondo”, “deserto”, verbi come “inabissare”, “fluire”, che, usati e riusati, disegnano una nuova mappa dell’interiorità.
Anche il corpo partecipa a fare del linguaggio mistico un aspetto distintivo della devozione femminile nel tentativo di esprimere l’inesprimibile: si parla spesso di assaporare Dio, di baciarlo profondamente, di sentirne l’odore, della possibilità di abbracciarlo e vederlo. Tutti i sensi vengono coinvolti allo scopo di sperimentare e poi raccontare la fusione con il corpo di Cristo. Angela da Foligno vede e sente che Cristo abbraccia la sua anima, per Caterina da Siena il costato di Gesù è una bottega aperta piena di odore.
L’odore non emana solo dal corpo di Gesù crocifisso, ma anche dal corpo di Gesù bambino. L’amore materno è, accanto a quello sponsale, tema centrale negli scritti delle mistiche. Nella visione appare il bambino Gesù, al quale vengono rivolti gli atteggiamenti più umanamente femminili della maternità: paroline affettuose, baci, abbracci, allattamento, nel recupero di una dimensione e di una identità, quella della maternità, che a molte la scelta del convento precludeva. L’ allattamento materno assume una grande rilevanza: è nutrimento che viene offerto a Cristo, ma con cui si viene anche nutrite da Cristo, o da Maria. Un’ampia iconografia conferma questa centralità. All’origine ancora una volta San Bernardo, che nella sua devozione mariana si fa nutrire dal latte che Maria spilla dal suo seno (Maestro di Palma, 1290). Tra questa immagine e quella che Quirizio da Murano propone dopo quasi due secoli, in cui San Bernardo è sostituito da Cristo che toglie dal suo seno l’ostia (ostia = latte = nutrimento) e la porge a una suora clarissa, c’è un lungo percorso che passa attraverso la parola di tante mistiche: da Chiara d’Assisi, che sogna di essere attaccata al petto di Francesco, a Caterina da Siena che esclama: “A noi conviene fare come fa il fanciullo, il quale volendo prendere il latte, prende la mammella della madre […] ci dobbiamo attaccare al petto di Cristo crocifisso, in cui è la madre della carità; e col mezzo della carne sua trarremo il latte che notrica l’anima nostra” (Lettera 86).
Questo latte metaforicamente viene a coincidere con l’ostia. Anche l’ostia profuma, ha un dolce sapore, è bramata. Per alcune di loro, è l’unico nutrimento.
Si diceva di lei e della sua intensità che fosse come il vino di Siena, molto rosso. Caterina, figlia di un tintore di Siena, prima eremita in casa, poi mantellata domenicana è nello stesso tempo donna pubblica, impegnata in una intensa attività politica e sociale, donna privata, che vive intense esperienze estatiche (notissimo lo scambio dei cuori con Gesù), scrittrice di rilievo. Forte è la sua volontà di dirsi attraverso la scrittura, anche se materialmente non scrive, ma detta. L’amore è al centro del Dialogo della divina provvidenza, o meglio il “perfetto amore”, che è veicolato dal conoscimento di sé; colui che conosce sé, conosce Dio e la bontà di Dio in sé “e però l’ama”. Dio è per Caterina tanto il Cristo crocifisso con il quale realizza un’intima fusione sponsale (matrimonio mistico), che il Dio madre che la nutre e teneramente l’abbraccia.
Non solo il latte è nutrimento essenziale per lei, anche il sangue è cibo, fecondo principio di vita. Nelle sue Lettere il sangue nutre, o viene mangiato; nei suoi miracoli eucaristici ciò che le rimane in bocca, o ne fuoriesce è sangue, tanto che nell’iconografia verrà poi rappresentata spesso con le labbra sporche del sangue di Cristo, che succhia dalla mano ferita dai chiodi. Se nel Medioevo l’idea del sangue era considerata sporca, legata a un fare o subire violenza, nel suo linguaggio prevale una considerazione assolutamente positiva: il sangue è salvezza, lo è soprattutto il sangue di Cristo, sparso sulla croce per la redenzione dell’uomo, quello che spillato dal suo costato ferito, bagna e converte Longino. In una miniatura che si trova in una copia illustrata della sua Vita scritta da Raimondo da Capua, Caterina è raffigurata nuda ai piedi della croce, sul suo corpo flagellato scendono gli stessi rivoli di sangue che scendono dal corpo di Gesù. L’immagine visualizza molto bene e riassume in sé le tante metafore legate al sangue presenti nelle Lettere: “Ponetevi in su la mensa della croce ed ine tutti ebri di sangue” e ancora: “O glorioso e prezioso Sangue, tu se’ fatto a noi bagno, e unguento posto sopra le ferite nostre” (Lettera 73).
Dietro quel sangue, quella sofferenza inaudita, attraverso tanta crudeltà le mistiche hanno la certezza che si è manifestato l’amore.