Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
La Shoah si presenta come un evento centrale del Novecento, la cui portata investe anche il campo intellettuale e letterario. Da un lato la riflessione sull’Olocausto si lega all’analisi dei processi politici, sociali, culturali che hanno portato all’affermazione del totalitarismo e allo sviluppo del lager come macchina di eliminazione; dall’altro la Shoah diventa il terreno di prova per una scrittura narrativa, soprattutto di stampo memorialistico, che si confronta con i temi centrali del genocidio.
La riflessione intellettuale
Primo Levi
I sommersi e i salvati
Al mio ritorno dalla prigionia è venuto a visitarmi un amico più anziano di me, mite ed intransigente, cultore di una religione sua personale, che però mi è sempre parsa severa e seria. Era contento di ritrovarmi vivo e sostanzialmente indenne, forse maturato e fortificato, certamente arricchito. Mi disse che l’essere io sopravvissuto non poteva essere opera del caso, di un accumularsi di circostanze fortunate (come sostenevo e tuttora sostengo io), bensì della Provvidenza. Ero un contrassegnato, un eletto: io, il non credente, ed ancor meno credente dopo la stagione di Auschwitz, ero un toccato dalla Grazia, un salvato. E perché proprio io? Forse perché scrivessi, e scrivendo portassi testimonianza: non stavo infatti scrivendo allora, nel 1946, un libro sulla mia prigionia? Questa opinione mi parve mostruosa. Mi dolse come quando si tocca un nervo scoperto, e ravvivò il dubbio di cui dicevo prima: potrei essere vivo al posto di un altro, a spese di un altro; potrei avere soppiantato, cioè di fatto ucciso. I “salvati” del Lager non erano i migliori, i predestinati al bene, i latori di un messaggio: quanto io avevo visto e vissuto dimostrava l’esatto contrario. Sopravvivevano di preferenza i peggiori, gli egoisti, i violenti, gli insensibili, i collaboratori della “zona grigia”, le spie. [...]
Noi toccati dalla sorte abbiamo tentato, con maggiore o minore sapienza, di raccontare non solo il nostro destino, ma anche quello degli altri, dei “sommersi”, appunto; [...] I sommersi, anche se avessero avuto carta e penna, non avrebbero testimoniato, perché la loro morte era cominciata prima di quella corporale. Settimane e mesi prima di spegnersi, avevano già perduto la capacità di osservare, ricordare, commisurare ed esprimersi. Parliamo noi in loro vece, per delega. Non saprei dire se lo abbiamo fatto, o lo facciamo, per una sorta di obbligo morale verso gli ammutoliti, o non invece per liberarci del loro ricordo; certo lo facciamo per un impulso forte e durevole.
P. Levi, I sommersi e i salvati, Torino, Einaudi, 2003
L’Olocausto, termine improprio ma ormai universalmente rappresentativo della persecuzione nazista nei confronti degli ebrei, ha costituito una cesura fondamentale per la letteratura del Novecento, che dalla Shoah esce profondamente segnata, mutata nella percezione dell’uomo e del suo rapporto con la realtà e con la storia. Eppure l’esperienza dei campi di sterminio non ha nell’immediato la risonanza che oggi le riconosciamo: si può anzi dire che nel corso del conflitto e nel primo dopoguerra abbia gravato sulla deportazione un radicale silenzio, squarciato solo raramente da scrittori, filosofi, pensatori che rivolgono con lucidità lo sguardo verso il mondo contemporaneo.
Pochi, dunque, coloro che Enzo Traverso può definire, parafrasando Walter Benjamin, i “segnalatori d’incendio” – ossia le voci di intellettuali che “hanno visto la catastrofe, le hanno dato un nome e l’hanno interpretata”. Tra questi, si segnala soprattutto un gruppo di intellettuali ebrei tedeschi emigrati all’estero dopo l’ascesa di Hitler nel 1933, costituito, tra gli altri, da Hannah Arendt, Theodor W. Adorno, Günther Anders e Herbert Marcuse. Questi Heimatlosen (“senza patria”) riuniti attorno ad “Aufbau”, la rivista diretta da esuli ebrei tedeschi e pubblicata a New York, sono i primi a vedere l’Olocausto come un fenomeno specifico all’interno dell’affermazione del nazismo. A questi intellettuali si deve anche la precoce percezione che le modalità di internamento attuate nei campi di concentramento rispondano a una precisa strategia di demolizione della capacità di reazione e della dignità individuale. Già nel 1945 Adorno rileva una delle dinamiche fondamentali del lager: “ciò che non è stato visto come uomo, eppure lo è, viene trasformato in cosa”. A distanza di pochi mesi, nel 1946, è Hannah Arendt, con un celebre articolo intitolato The Image of Hell, a soffermarsi sul genocidio nazista, di cui isola soprattutto il meccanismo seriale, quasi industriale, di soppressione (death factories, “fabbriche della morte”, è l’espressione con cui l’autrice designa i campi di concentramento). All’interpretazione della Arendt si devono alcune formule chiave nell’analisi dell’Olocausto, come quelle di “colpa organizzata” e “banalità del male”, coniata, quest’ultima, in occasione del processo ad Adolf Eichmann a Gerusalemme. Secondo la lettura della filosofa tedesca, tra i fattori decisivi nel determinare l’efficienza dei lager un ruolo centrale ha assunto la burocratizzazione del genocidio, affidato a “persone normali” (come Eichmann, appunto), il cui ottuso zelo ha significato la messa in moto di una macchina di sterminio terribilmente efficace proprio perché basata sulle routine organizzative. Una simile interpretazione del genocidio apre la strada alle successive analisi dell’Olocausto come espressione di una specializzazione sociale volta allo sterminio. Secondo lo storico Raul Hilberg “la macchina della distruzione tedesca […] non era strutturalmente diversa dall’organizzazione sociale tedesca nel suo complesso. La macchina della distruzione era la comunità organizzata in uno dei suoi ruoli specifici”. Non solo lo studio del rapporto tra burocrazia e Olocausto, ma anche l’analisi del rapporto tra tecnica e sterminio impegna precocemente un altro intellettuale ebreo tedesco in esilio: Günther Anders. Già nel 1942 Anders parla di “vergogna prometeica”, con riferimento a quel sentimento di umiliazione che l’uomo contemporaneo prova di fronte alla perfezione e alla potenza tecnica delle proprie creazioni. Dopo Auschwitz e Hiroshima l’idea di Anders assume un tono profetico rispetto all’analisi del rapporto tra progresso e devastazione che sarà al centro del dibattito sulla Shoah.
L’invisibilità di Auschwitz
Nonostante la lucidità delle analisi degli studiosi riuniti attorno ad “Aufbau” (la tempestività delle quali assume tanto maggior peso se si tiene conto della scarsità di informazioni sull’Olocausto disponibili nel periodo in cui il genocidio era in corso), la cortina di indifferenza nei confronti della Shoah rimane quasi del tutto intatta. Gli Heimatlosen pubblicano i loro primi saggi in un clima in cui l’Olocausto rappresenta, per le coscienze nazionali, un fenomeno tutto da verificare. Oltre alla scrupolosa operazione di occultamento condotta dalla burocrazia nazista (ad Auschwitz, ad esempio, nonostante l’urgenza di evacuare il lager, si trova il tempo di bruciare tutti gli archivi del campo), il silenzio attorno al genocidio, infatti, trova la connivenza di gran parte dell’intellighenzia dell’epoca, che, con responsabilità e partecipazione differenti, si mette al servizio del regime. L’adesione avviene per strade differenti: in alcuni casi è l’opportunismo a giustificare il supporto al totalitarismo; in altri casi è proprio il potere totalitario, al di là di ogni linea politica o personale ambizione, a esercitare un fascino carismatico a cui non risultano immuni anche personalità tra le più eminenti del secolo, come Martin Heidegger e Giovanni Gentile.
A questo gruppo di intellettuali di regime, che Philippe Burrin definisce “muse arruolate”, si aggiungono altri due elementi fondamentali ad accrescere l’invisibilità di Auschwitz: la scarsa sensibilizzazione dell’opinione pubblica e la tendenza a rimuovere il genocidio. Se, infatti, durante la guerra sono la sporadicità delle notizie sullo sterminio e l’incredulità dell’opinione pubblica a far passare sotto silenzio l’Olocausto, a guerra conclusa, quando ormai l’evidenza del genocidio non è più discutibile, interviene una sorta di sentimento di rimozione collettiva che innesca una vera e propria sordità verso la Shoah. È quel sentimento di chiusura verso il passato che Giorgio Bassani descrive con lucidità in uno dei suoi racconti più intensi, Una lapide in via Mazzini, pubblicato nel 1956 nel volume Cinque storie ferraresi. Il protagonista del racconto, Geo Josz, tornato da Buchenwald – unico tra i 183 ferraresi deportati due anni prima – deve dapprima scontrarsi con il sospetto della gente, che lo crede morto da tempo, e in seguito, ottenuto il diritto a reinserirsi nella sua vecchia comunità, decide di separarsene, consapevole di essere un corpo estraneo in una città che, incapace di sopportare il peso della memoria, ha scelto di dimenticare.
Oltre che sul difficile rapporto tra orrore e memoria, e, più segnatamente, sulla difficoltà di rapportarsi con l’Olocausto, il racconto di Bassani si sofferma in modo interessante su un altro degli aspetti centrali della vita di quello che Primo Levi chiamerà “salvato”, ossia lo scampato al genocidio: la straniante percezione di isolamento e di incredulità che, al loro ritorno in patria, si trovano ad affrontare i testimoni di Auschwitz. Primo Levi, nel libro a cui affida le sue ultime valutazioni sull’Olocausto pochi mesi prima di togliersi la vita, riflette a lungo su questa dimensione di silenzio, e riferisce ne I sommersi e i salvati (1986) che “quasi tutti i reduci, a voce o nelle loro memorie scritte, ricordano un sogno che ricorreva spesso nelle notti di prigionia, vario nei particolari ma unico nella sostanza: di essere tornati a casa, di raccontare con passione e sollievo le loro sofferenze passate rivolgendosi a una persona cara, e di non essere creduti, anzi, neppure ascoltati. Nella forma più tipica (e più crudele), l’interlocutore si voltava e se ne andava in silenzio”. Anche Giacomo Debenedetti, nel suo racconto 16 ottobre 1943, si sofferma su un aspetto simile. Il libro racconta la vicenda di una donna ebrea che il 15 ottobre 1943, il giorno prima del terribile rastrellamento di Roma, tenta inutilmente di convincere gli abitanti del ghetto a mettersi in salvo. Il 16 ottobre le SS circonderanno il ghetto, e per più di mille ebrei romani non ci sarà scampo: il 18 ottobre, dalla stazione di Roma, partiranno due convogli piombati diretti verso i lager. L’incredulità di fronte all’orrore della Endlösung (la “soluzione finale” del genocidio) è rappresentata con toni simili a quelli di Debenedetti anche da Elsa Morante nel romanzo La storia. Il libro, pubblicato nel 1974, è in parte sovrapponibile a quello di Debenedetti nei punti in cui si sofferma sulla storia del ghetto ebraico romano. Anche la Morante affida la diffusione delle notizie sulla Shoah a una donna, Vilma, che, grazie a due informatrici altolocate, sente parlare con tempestività di quanto avviene in Polonia. La reazione del ghetto alle notizie di Vilma è la solita incredulità – “simili resoconti, di solito, venivano accolti come prodotti fantastici della mente di Vilma” – e il 16 ottobre il disumano spettacolo dei convogli fermi alla stazione di Roma rimane un orrore inevitabile.
Il silenzio e l’incomunicabilità, dunque, si rivelano due temi portanti per gli scrittori che rappresentano la Shoah. Se da un lato, come ha polemicamente affermato Adorno in Prismi (1963), “scrivere una poesia dopo Auschwitz è un atto di barbarie”, dall’altro gli artisti che hanno vissuto direttamente o indirettamente l’esperienza del lager vivono la rottura del silenzio come una necessità fondamentale. È, questa, un’esigenza che Max Horkheimer riconosce come preciso imperativo etico in Notizen (1974): “noi intellettuali ebrei sfuggiti alla morte del supplizio hitleriano, abbiamo un solo compito: agire affinché l’atrocità non si riproduca né venga dimenticata, rimanere uniti con chi è morto tra orrori indicibili”. L’incomunicabilità e il silenzio, dunque, devono essere squarciati, se necessario anche in modo scomposto e violento, come avviene nel finale del racconto di Bassani, in cui l’autore immagina, quale plausibile risposta di Geo alle domande sui suoi familiari, “un urlo furibondo, disumano: così alto che tutta la città […] l’avrebbe udito con orrore”.
Poesia e Shoah
Una delle voci che in modo più intenso, e programmaticamente antiadorniano, si leva a raccontare il genocidio è quella di Paul Celan, che rappresenta un caso del tutto singolare tra gli scrittori segnati dall’Olocausto. Paul Antschel, nato a Czernowitz nel 1920 ed educato dai genitori secondo la rigida ortodossia ebraica, assumerà lo pseudonimo di Celan a partire dal 1945, con l’inizio, a Bucarest, della sua attività poetica. La sua poesia, fin dagli esordi, porta in profondità le tracce degli eventi che hanno segnato la sua storia recente: la deportazione dei genitori, avvenuta nel 1942, dei quali apprenderà presto la morte, e l’esperienza del lavoro forzato, che condurrà a partire dal 1942 fino al 1944, quando l’ingresso dell’Armata Rossa a Czernowitz costringe i tedeschi a evacuare la città.
L’originalità di Celan si afferma con forza nella sua scelta di descrivere le sofferenze della deportazione assumendo come lingua privilegiata della sua poesia – tra tutti gli idiomi che la sua natura poliglotta e la sua attività di traduttore gli consentivano di maneggiare con disinvoltura – proprio il tedesco, la lingua dell’antisemitismo e del genocidio; quella che Steiner definirà, in relazione a Celan, “lingua della morte”. La scelta di Celan, dunque, è quella di attraversare l’esperienza dell’Olocausto per mezzo di una lingua che non sente propria e che veicola, per uno scrittore ebreo rumeno, il senso dell’esilio e della non-appartenenza. È quanto avviene, ad esempio, nella poesia Fuga della morte (Todesfuge, scritta nel 1945 e pubblicata nel 1948), in cui Celan descrive, attraverso un linguaggio caratterizzato dal largo impiego di metafore e da un’avvolgente musicalità, tutto l’orrore che ha investito il popolo ebraico: le deportazioni e le stragi delle Einsatztruppen, i lutti e i forni crematori. Altrettanto importante, sul versante poetico, la produzione della poetessa tedesca, premio Nobel nel 1966, Nelly Sachs, che riunisce in Al di là della polvere le raccolte pubblicate in precedenza (Nelle dimore della morte, del 1947, Le stelle si oscurano, del 1949, E nessuno sa continuare, del 1957, Fuga e metamorfosi, del 1959). In questi testi, le immagini della sabbia e della pietra rimandano al deserto attraversato dal popolo ebraico e allo sterminio nazista, mentre la metamorfosi della farfalla esprime la possibilità di rinascita.
L’impossibilità del silenzio
Se l’impegno espressivo di Celan e della Sachs rivelano anche un valore programmatico in senso anti-adorniano, la maggior parte degli scritti sull’Olocausto assume una funzione quasi sempre terapeutica e liberatoria. Primo Levi, nella prefazione alla prima edizione di Se questo è un uomo, esplicita che “il bisogno di raccontare agli ‘altri’, di fare gli ‘altri’ partecipi, aveva assunto, fra noi, prima della liberazione e dopo, il carattere di un impulso immediato e violento, tanto da rivaleggiare con gli altri bisogni elementari”. In quest’ottica si spiega la vasta produzione memorialistica fiorita attorno all’esperienza della Shoah nell’immediato dopoguerra: Uno psicologo nei lager (1946) dell’austriaco Viktor Frankl, allievo di Freud; La specie umana (1947) del poeta Robert Antelme; il Diario di Gusen del pittore Aldo Carpi; lo stesso Se questo è un uomo (1947) di Levi. La produzione memorialistica, tuttavia, non coinvolge solo gli intellettuali scampati al genocidio, ma anche persone comuni, per le quali la mediazione letteraria diventa un modo efficace per superare lo shock della persecuzione. Queste testimonianze assumono per il lettore d’oggi un’importanza fondamentale: questo genere di testi, in gran parte non pensati per la pubblicazione ma concepiti come scritture private, rivestono un valore documentario ed emotivo insostituibile, che si colloca al di là di ogni valutazione letteraria.
Tra i memoriali più noti è da segnalare il Diario di Etty Hillesum (1914-1943), consegnatasi spontaneamente alle SS durante una retata ad Amsterdam nel 1942, e deportata prima a Westerbork, dove rimane un anno, e poi ad Auschwitz, dove muore dopo soli tre mesi. Il Diario della Hillesum, donna dalla religiosità radicata e complessa, rappresenta una significativa riflessione sulla capacità di reagire con la fede agli orrori della Shoah. Altro diario toccante e certamente atipico che gravita attorno all’Olocausto, è il celeberrimo Diario di Anna Frank. Quando Anna Frank, nel luglio del 1942, è costretta con la sua famiglia a nascondersi in un rifugio segreto per sfuggire ai rastrellamenti delle SS, porta con sé il diario che solo un mese prima aveva ricevuto come regalo per il suo tredicesimo compleanno. Il diario, compilato da Anna quasi quotidianamente, costituisce una preziosa testimonianza della clandestinità fino al momento in cui, nell’agosto del 1944, i rifugiati vengono scoperti e deportati; della famiglia Frank riuscirà a sopravvivere ai campi di concentramento il solo Otto, padre di Anna, che deciderà di pubblicare il quaderno della figlia.
Le considerazioni di Anna sulla forzata clausura, il suo sguardo di adolescente sui difficili anni del regime e la sua fiducia nel futuro hanno fatto del Diario uno dei simboli più significativi della Shoah; esistono, tuttavia, altre testimonianze, di non minore interesse, sul rapporto tra Olocausto e fanciullezza. Tra queste, bisogna ricordare La notte (1958), opera di esordio di Elie Wiesel, insignito del Nobel per la pace nel 1986. Wiesel, che è nato nel 1928, rompe in questo libro il lungo silenzio sulla sua esperienza di giovanissimo deportato nei campi di Auschwitz e Buchenwald. Il testo, condotto con toni drammatici, costituisce un’intensa riflessione sulla sovversione dei valori indotta dal lager e sul significato della fede nel disumano scenario di Auschwitz. L’incontro di Elie Wiesel con Jorge Semprùn, nato nel 1923 a Madrid e deportato a Buchenwald nel 1944 dopo essere stato arrestato a causa della sua militanza nella Resistenza francese, dà vita a un significativo dialogo raccolto nel volume Tacere è impossibile (1996). Il confronto tra l’esperienza di Wiesel e quella di Semprùn – che nel lager ha continuato, come racconta in La scrittura o la vita (1994) l’attività politica nell’organizzazione comunista clandestina del campo – mette in luce come la deportazione sia un’esperienza irriducibile e incomparabile. Come Wiesel anche Jona Oberski, fisico olandese nato nel 1938, ripercorre a distanza di molti anni, in un testo intitolato Anni d’infanzia. Un bambino nei lager (1978), la sua esperienza di bambino nei campi di concentramento. In questo originale testo, in cui Oberski rappresenta un’infanzia costretta a giocare tra stenti e cadaveri, la narrazione raggiunge punte di grande intensità nei momenti in cui l’ingenuità del mondo infantile si scontra con l’orrore del mondo adulto. A un filone simile si può ascrivere anche il romanzo Essere senza destino (1975) di Imre Kertész, autore ungherese premiato nel 2002 con il Nobel per la letteratura. Kertész, nato a Budapest, viene deportato nel 1944 ad Auschwitz assieme ad altri 7000 ebrei ungheresi e liberato a Buchenwald nel 1945. In Essere senza destino – nel quale Kertész, pur senza propositi autobiografici, riversa la propria esperienza di adolescente in un lager – l’autore racconta la storia di Gyurka, un ragazzo di 15 anni costretto prima al lavoro forzato, e poi all’internamento ad Auschwitz. Il testo, che si segnala per la lucidità della narrazione, in cui è bandita quasi ogni concessione all’emotività, è condotto secondo il punto di vista del giovane Gyurka, che vive la realtà del lager con spirito di adattamento, senza stigmatizzare i propri carnefici e anteponendo la soluzione dei piccoli problemi quotidiani alle domande esistenziali. Il romanzo si chiude con il ritorno a casa di Gyurka, e con la presa di coscienza che persino ad Auschwitz, “nell’intervallo tra i tormenti c’era qualcosa che assomigliava alla felicità”.
Particolari, all’interno dell’esperienza memorialistica che gravita attorno alla Shoah, i casi di Jean Améry e Primo Levi. Hans Mayer, nato a Vienna, assume lo pseudonimo di Jean Améry quando, nel 1938, emigra in Belgio. Nel 1943 è arrestato e torturato dalla Gestapo per la sua attività nella Resistenza, e nel 1944 deportato ad Auschwitz. In seguito al processo di Francoforte, Améry pubblica, nel 1966, L’intellettuale ad Auschwitz, un’amara rievocazione del periodo di prigionia, in cui si propone di descrivere la particolare condizione di avvilimento che deriva dall’essere un “intellettuale” (ossia un uomo che “per tendenza o attitudine è attirato dal pensiero astratto”) nella dimensione disumana del lager. L’esperienza di Améry è quella di un “uomo disumanizzato” che, non avendo l’ingenuità di una fede o di una ideologia, trae solo svantaggi dalla sua condizione culturale, e vive in modo ancora più lancinante il degrado umano e l’abbattimento spirituale indotti dal lager. Da questo abbattimento, Améry non si solleverà più: nel 1978, in una camera di albergo a Salisburgo, si toglierà la vita.
La biografia di Primo Levi, nato a Torino nel 1919, presenta molti tratti in comune con quella di Améry. Come Améry, Levi porta le tracce del suo ebraismo soltanto nel sangue – entrambi, infatti, sono del tutto estranei alla tradizione religiosa e culturale ebraica; come Améry, Levi viene arrestato nel 1943 a causa del suo impegno come partigiano, e come Améry verrà trasferito ad Auschwitz. Diversamente da Améry, però, l’impegno letterario di Levi è precoce: già nel 1946, a pochi mesi dalla liberazione, Levi inizia la stesura di Se questo è un uomo, libro che, come lo stesso autore dichiara nella prefazione, “se non di fatto, come intenzione e come concezione […] è nato già fin dai giorni del lager”. Levi si propone di raccontare i giorni di prigionia con la massima lucidità possibile, senza cedere alla tentazione di condanna e di accusa nei confronti dei suoi carcerieri, con l’intento di offrire un documento “per uno studio pacato e sereno dell’animo umano”. Il ricordo della Shoah non abbandonerà mai la scrittura di Levi, che, come detto, traccerà un ultimo bilancio sull’Olocausto nel libro I sommersi e i salvati (1986). In questa intensa riflessione su Auschwitz, Levi coglie l’occasione per confrontarsi con le valutazioni di Améry, di cui non condivide l’approccio. Per Levi (che contesta, tra le altre cose, l’equazione intellettuale-umanista definita da Améry), se è vero, da un lato, che “l’uomo semplice […] era al riparo dall’inutile tormento di chiedersi perché”, è anche vero che, per chi ha strumenti intellettuali sufficienti, “il lager è stata una Università: ci ha insegnato a guardarci intorno ed a misurare gli uomini”. Nonostante queste sostanziali differenze, Levi e Améry presentano notevoli affinità nella scrittura, condotta secondo una prospettiva lucidamente analitica, e rivelano una comune fiducia nella letteratura come mezzo di indagine sull’Olocausto e sul suo impatto sulla natura umana. Comune ai due scrittori, probabilmente, anche la ferita lasciata da Auschwitz: come il filosofo austriaco, anche Primo Levi, nel 1987, si toglierà la vita.
Al tema del ricordo collegato all’esperienza della deportazione si rifanno anche i romanzi del francese Georges Perec, W o il ricordo d’infanzia (1975), e dello slavo Danilo Kis, incentrati sulla rievocazione della figura paterna, Giardino, cenere (1965) e Clessidra (1971). Più recente il recupero dei testi della scrittrice russa Irène Némirovsky, nata a Kiev nel 1903, vissuta dal 1919 a Parigi e, dopo l’invasione dei tedeschi, deportata ad Auschwitz, dove muore nel 1942. La Némirovsky lascia in un baule la stesura manoscritta delle prime due parti (Tempesta in giugno, Dolce) di un grande romanzo che sta stendendo e che la deportazione le impedisce di terminare (il libro è pensato in cinque parti). Solo a distanza di molti anni dalla morte della madre, la figlia della scrittrice ha deciso di pubblicare il testo (Suite francese, 2005), dalle cui pagine emerge con evidenza il ruolo svolto dai cittadini francesi nel collaborare alla deportazione e allo sterminio degli ebrei.