EPISTOLARI, SCRITTURE
. Oriente. - Nelle antiche monarchie orientali la corrispondenza epistolare ha carattere soprattutto ufficiale: lettere di sovrani fra loro, istruzioni a generali e governatori, e rapporti di questi al monarca sono le forme e la materia dell'attività epistolare. Le tavolette di Tell el-‛Amārnah, l'archivio dei faraoni Amenofi III e IV scoperto sulla fine del secolo scorso in Egitto, contengono appunto numerose lettere, quasi tutte in assiro-babilonese, oltre che dei re di Babilonia e Assiria, di regoli e governatori egiziani della Siria e Palestina del II millennio a. C., di alto valore per la storia dell'Asia anteriore antica. L'impero persiano, con l'organizzazione introdotta da Dario della posta di stato, diede certo incremento a questo tipo di corrispondenza cancelleresca, di cui la lettera di Dario a Gadate, conservata in un'epigrafe greca d'incerta autenticità, ci dà un interessante saggio; l'originale ne dovette essere aramaico, la lingua dei rapporti internazionali dell'impero achemenide. Pure in aramaico sono redatti i documenti papiracei di Elefantina, appartenenti a una colonia di mercenarî ebrei al servizio dei faraoni, ivi di guarnigione, e che, accanto all'elemento ufficiale e burocratico, rivelano l'aspetto privato della letteratura epistolare, di cui per l'Oriente costituiscono uno dei più antichi e notevoli documenti.
Per la sua diffusione come lingua internazionale dell'Oriente in epoca ellenistica, il greco fu adottato anche dalle popolazioni indigene nei loro rapporti privati, sì che in greco sono redatti i copiosi documenti epistolari di Egizî conservatici dai papiri (per cui v. sotto). Delle civiltà orientali succedute a quella ellenistico-romana, per esserne stati affidati gli scritti a materiale deperibile, non possediamo saggi di epistole private che ci ragguaglino sulla vita intima di quei popoli con la stessa larghezza e immediatezza dei papiri egiziani, salvo quanto lo stesso suolo d'Egitto ci ha reso di scritture copte e arabe. Per converso, almeno nella civiltà arabo-musulmana, parecchio ci è rimasto dell'epistolografia ufficiale, diplomatica, di cui i cronisti, inserendoli nelle loro compilazioni, ci hanno conservato importanti saggi (da ricordare i numerosi documenti del genere, di storia omayyade e ‛abbāside, conservati nella cronaca di aṭ-Ṭabarī, sec. X d. C.). Ma nella letteratura araba (e già in quella pehlevica che dovette certo influenzarla) prese anche voga una particolare stilizzazione letteraria, affine a quella del Rinascimento e del Sei e Settecento, che a un reale o fittizio destinatario indirizzava una trattazione monografica o miscellanea, di contenuto letterario o scientifico o polemico, in cui l'elemento contingente e privato era talora ridotto ai minimi termini, o addirittura soppresso. Con la soppressione anche della formalità del corrispondente la risālah o epistola esce addirittura dal campo della letteratura epistolare per prendere il suo posto, quasi trattatello o pamphlet, in quello della filosofia, della storia e polemica religiosa, e soprattutto della bella letteratura, nel che la storia della cultura arabo-musulmana offre cospicui esempî, tra cui il poligrafo al-Giāḥiẓ. Accanto a questa forma letteraria, il genere della vera e propria lettera politica e privata, augurale e condolente, fu oggetto di accurate elaborazioni stilistiche di segretarî e letterati, che composero manuali come modelli di stile epistolare, e nelle cancellerie di corte delle dinastie arabe, persiane e turche stillarono quei documenti, in stile spesso artificioso e complicato, di cui molti, negli originali o in copie e trascrizioni, sono giunti fino a noi.
Antichità classica. - L'epistola (ἐπιστολή, epistula) è lettera missiva (ἐπιστέλλειν "inviare"): comunicazione, dunque, fatta per iscritto, a persona assente.
La sua natura di "missiva" - in latino di fronte a epistula, che è lettera, litterae vale scrittura pubblica o privata (Cic., Ad fam., V, 8, 5; Ad Q. fr., III, I, 8) - si rivela subito dal prescritto: in testa il nome del mittente al nominativo, quindi in dativo quello del destinatario o dei destinatarî, col verbo in terza persona espresso o sottinteso (λέγει, εὔχεται, dicit); il discorso diretto viene dopo nel corpo dell'epistola. In tal guisa ci si presenta già una lettera greca di Dario al satrapo Gadate, la più antica che possediamo in questa lingua, se pur linguisticamente rimodernata. E non è che una sfumatura psicologica la variazione, che comparisce nel sec. II d. C., di preporre, piuttosto che posporre, il nome del destinatario, in segno di deferenza tra pari e pari, tra inferiori e superiori: uso che si generalizza presso i cristiani. Per il resto, all'infuori del prescritto, la lettera stessa è nella sua essenza un surrogato del discorso. Naturale quindi il saluto che la suole aprire e chiudere. χαίρειν si auguravano i Greci nel salutarsi, e la parola ritorna nel prescritto della lettera greca, con additamenti anche o mutazioni quali ὑγιαίνειν, εὖ πράττειν e simili: fra i Latini l'abituale espressione corrispondente è salutem (plurimam dicit). E alla semplice salutazione irrigiditasi in una formula s'aggiunse di seguito l'augurio che il destinatario stesse bene, con l'assicurazione da parte del mittente ch'egli alla sua volta stava bene: un pensiero tutt'oggi vivo e comune nella corrispondenza delle classi meno colte, non ancora fissatosi in formule nella lettera greca del sec. III a. C., ma cristallizzatosi poi anch'esso nella dicitura a noi ben nota dalla lettera latina: si vales, bene est, ego valeo, che al pari di s(alutem) o s(alutem) d(icit) si abbrevia in S.V.B.E.E.V. La chiusa suona grecamente ἔρρωσο (sta' sano) o, di frequente nella penna degli inferiori, εὐτύχει (t'arrida la fortuna); presso i Romani vale, cura ut valeas o un addio analogo. I cristiani posteriormente approfondirono in senso religioso più il saluto finale che l'iniziale, i Bizantini e i decadenti dell'occidente l'ampliarono di parole e lo vuotarono, con la lettera stessa, di sostanza. Saluti a parenti e persone care, o da parte loro, s'inseriscono dentro la lettera o stanno, di consueto, verso la fine o proprio alla fine. Come amicorum colloquia absentium (Cic., Phil., II, 7), le epistole si trasferiscono volentieri, rispetto al tempo, nel momento in cui saranno ricevute, quando appunto la vera conversazione può aver luogo (es. scripsi ad te ante lucem, ti scrivo, ecc.): fenomeno che è anche del greco e si riscontra già nel sec. II a. C., in una lettera d'Attalo II di Pergamo al sacerdote di Pessinunte. Come equivalente infine del discorso, l'epistola non ha principio storico: comincia con l'esistenza della scrittura. I teorici greci, che d'ogni forma d'espressione cercarono particolari inventori (εὑρεταί), o per lo meno perfezionatori dei dati di natura per via di norme d'arte, fraintendendo Ellanico, trovarono in una Orientale, nella persiana Atossa, moglie di re Dario (sec. VI-V a. C.), colei che prima additò al genere la sua via: il che può parere ingenuo, ma ha il suo significato. Sta il fatto che Dario fu il grande organizzatore della posta statale persiana e che proprio verso l'età sua si va foggiando la prosa greca e fissando con ciò la forma epistolare, non senza l'influsso dell'Oriente, di che in codesta teoria ellenica è implicito il riconoscimento.
Le lettere greche più antiche, sicuramente genuine, che si conoscono, dopo la ricordata di Dario, la cui autenticità credette il Beloch di mettere in dubbio, sono due del sec. IV a. C. (W. Crönert, in Rheinisches Museum, LXV, 1910, p. 157 segg.).
Brevi, col prescritto χαίρειν καὶ ὑγιαίνειν l'una, col semplice χαίρειν la seconda, senza saluto finale entrambe, parlano di piccole cose giornaliere, dicono richieste o avvertimenti. Sono scritte in lastre di piombo, che è il caso più raro, mentre di solito, le piu̇ antiche, in legno o cera o cocci di creta; poi domina il papiro. I caratteri rassomigliano a quelli d'un libro; ed è consuetudine che dura a lungo, ma in segno di finezza, ché il corsivo prende poi il sopravvento. Una delle lettere, di cui diciamo, conserva a tergo sul giro del rotolo l'indirizzo del destinatario: "portare nel tal luogo, consegnare al tal dei tali"; e anche qui con l'andar dei tempi si stabiliscono variazioni non poche: può esserci indicato il destinatario con o senza il mittente ("a... da..."), con o senza l'abitazione - ché la posta è abbastanza tardiva e la lettera era recapitata da schiavi o da commercianti o da conoscenti - e al destinatario si danno talora i suoi titoli di dignità, o si designa il grado di parentela fra mittente e ricevente, e così via.
Dal sec. III a. C. ha inizio una larga fioritura di corrispondenza, che si fa via via sempre più rigogliosa coi ritrovati dei papiri, la quale ci ha dato un'idea quanto mai esatta di ciò che fu la lettera antica nella sua forma esteriore e intrinseca, nelle sue innumeri espressioni: da quella che il principe dirige ai funzionarî o ai sudditi, fino a quella in cui gli umili sfogano il proprio cuore con amici e congiunti. Indefinita di soggetto la lettera, né più né meno che il discorso umano, lo è naturalmente del pari di tono e di spiriti: a seconda delle situazioni e delle necessità da cui nasce, dell'indole e della cultura di chi scrive o del destinatario; è compresa in essa tutta la scala dell'umana confidenza come dell'umana convenienza e convenzione. Una miniera si ritrova ivi di cose e di dati importanti per la storia e la vita antica, ma soprattutto una documentazione di umanità, per il corso di secoli, che nella sua schietta e rozza naturalezza spesso commuove. e sempre interessa come rispecchiamento di ciò che gli uomini sono. S'intende che accanto ad esemplari vividi per natività di pensiero, di sentimento e di linguaggio, stanno anche altri meno spontanei, che risentono di modelli o formularî esistenti per molteplici tipi di epistola pubblica e privata.
Sono i τύποι ἐπιστολικοί, quali quelli che si attribuiscono ora a Libanio ora a Proclo, di cui i primi per tempo devono cadere fra il sec. II a. C. e la metà del I d. C. (A. Brinkmann, in Rheinisches Museum, LXlV, 1909, p. 310 segg.; H. Rabe, ivi, p. 284 segg.). Anche il manuale di retorica greco-latino dà sul comporre lettere qualche norma, per gente, si capisce, che si rivolga a circoli larghi: il meglio di queste teorie si legge nell'Ars rhetorica di Giulio Vittore (sec. IV d. C.). Formularî e precettistica dovettero riuscire utili soprattutto a schiavi e liberti che ebbero nel periodo imperiale il compito di segretarî e si chiamarono ab epistulis o a manu, donde amanuenses.
Di uomini illustri possediamo variamente, e di parecchi abbondantemente, la corrispondenza, perché raccolta dall'amore e dall'ammirazione dei contemporanei o dei posteri, oppure dalla vanità o dalla mira non semplicemente occasionale degli autori stessi, e quindi pervenuta a noi per la via che ci salvò le opere letterarie, per mezzo dei codici, o addirittura in esse opere. Distinguere qui fra letteratura e non letteratura, arte e non arte, come per es., si è voluto fare a proposito delle epistole del Nuovo Testamento, significa astrarre dal valore spirituale, far quindi opera puramente esteriore e vana; ci sono lettere, pur scaturite da concretezze reali e dirette a privati, senza nessuna intenzione di pubblicità, che per la loro bellezza, per la vita che vi urge, per l'universalità o l'altezza del contenuto, per sentimenti di affetto furono pubblicate e costituirono nella letteratura saggi di prima grandezza. Ce ne sono che hanno carattere misto fra la lettera e l'epistola letteraria, hanno la forma epistolare come un comodo rivestimento più che rispondere a impellenti bisogni pratici. Ci sono epistole in prosa e in poesia, che sorsero solo qual mezzo per esprimere con immediatezza il proprio io; come finzione d'arte, dunque, e appartennero, come tali, fin dall'origine alla letteratura. Questioni di carattere morale specialmente si adattarono alla forma di lettera; e poi si ebbero lettere filosofiche e dotte e scientifiche, ibridismi quasi sempre che nei casi migliori valsero a rendere piana una concezione astrusa o un'indagine. Infine non mancarono falsificazioni con scopi svariati, particolarmente polemici, apologetici, biografico-personali, romanzeschi. L'epistola privata propriamente detta non apparisce prima della letteraria nella letteratura greca, fino a noi sopravvissuta: aprono la serie epistole inserite nella storiografia, fin da Erodoto e Tucidide, più o meno novellistiche, più o meno autentiche che siano; epistole filosofiche, come di Empedocle; epistole erotiche, già della scuola retorica del sec. V-IV a. C., come dimostra il λόγος di Lisia nel Fedro di Platone, e di Lisia se ne citano e abbiamo più resti; epistole pubbliche, anche di finalità didattiche, come d'Isocrate, di Platone, di Demostene, in quanto siano veramente opera loro; e formalmente, epistole poetiche erano già certi canti di Alceo (Herodot., V, 95). Né si deve tacere che già in antico si amò di dedicare a qualcuno, quasi scritti per lui, i proprî lavori, in poesia e in prosa, quando si diceva di cose o di sentimenti proprî. Onore alla lettera è venuto dalla filosofia, dalla sofistica, dalla retorica. Non prima di Aristotele s'inaugura per noi nella letteratura la corrispondenza privata; o almeno, le poche e corte lettere di lui tramandateci fanno generalmente impressione di schietta paternità, e ci è attestato che egli ebbe a editore del suo epistolario un Artemone, forse quel di Cassandria, che premise alla raccolta, in otto libri, prolegomeni caratterizzanti finemente lo stile del genere (Demetrius, περὶ ἑρμηνείας, 223-235) ponendo così sul modello aristotelico le fondamenta teoriche dell'essenza d'una lettera. La stessa sorte ebbe la corrispondenza di Alessandro Magno, allievo di Aristotele, che dai paesi delle sue conquiste, informava privatamente la madre dei grandi avvenimenti plasmati dal proprio genio: erano lettere che per forza dovevano entrare nella pubblicità, diventare, insomma, letteratura. Onde la spinta al fiorire dell'epistola nell'arte del tempo. Giacché le lettere di Alessandro, dei diadochi, di uomini politici illustri ebbero editori. Ed è poi da considerare il dilatarsi vastamente e il conguagliarsi della cultura, e quindi il bisogno di manifestare di lontano il proprio pensiero su argomenti d'ogni specie e su problemi di pari interesse: e ancora il vagare ampio per le terre dei nuovi uomini cosmopoliti e la salda organizzazione che ebbero le cancellerie nei reami ellenistici.
L'epistola assurge così a un'importanza avanti sconosciuta; occupa, fu già osservato, il posto che anteriormente teneva il dialogo. La scuola aristotelica dei peripatetici segnò qui evidentemente la via, a giudicare dalle notizie trasmesseci; gli epistolarî, che da essa uscirono, videro la luce di seguito a quelli del maestro, quando non fossero di per sé destinati al pubblico. Coi peripatetici si allinea Epicuro, il quale culmina tra i filosofi greci nell'uso dell'epistola coi suoi seguaci ed amici. A loro avvinto quasi da fede religiosa, egli spiega da lungi, o a più insieme o singolarmente, il suo credo filosofico in diffuse trattazioni, che dell'epistola possono ben avere poco più che l'apparenza esteriore, sulla fisica, la meteorologia, l'etica, ecc. La lettera è espressione caratteristica della scuola epicurea: una scuola che tiene immensamente agli stretti legami spirituali tra gli affiliati qua e là dispersi per la Grecia, per l'Asia, per l'Egitto, e sente il bisogno, se altra mai, di convincere e persuadere. L'attività epistolare epicurea ha fatto pensare in certo senso all'apostolica. Molto meno significativa è essa per altre scuole filosofiche. Basti accennare che il cinico Menippo di Gadara (secolo III a. C.) v'introdusse un elemento fantastico, mitico-divino, dando la sua lettera come dettata dagli dei, e ciò che in Menippo è parodia, sarà poi, già prima del cristianesimo, strumento di espressione religiosa, quasi un parlare dell'alto. In un'età, che con l'analisi diede vita alla scienza, non poteva mancar di nascere la lettera scientifica: della quale ci sono stati già i precursori, tipo Alcmeone di Crotone (attorno al 500 a. C.), ma i creatori li abbiamo con Eratostene di Cirene, Archimede, Filone di Bisanzio, Polemone di Ilio, uomini che primeggiano nella filologia, nella matematica, nella meccanica, e mirano a far conoscere agl'intenditori e alle folle i loro ritrovati o a trattare una questione spicciola in forma assai comoda, o a far polemica, o a rendere un omaggio. La veste, si capisce, è quivi generalmente una maschera.
Per tempo appariscono altresì le falsificazioni. La retorica vi ha dato il suo impulso, ma le hanno favorite anche gl'intendimenti pratici di cui si discorreva. Così più cose vengono fuori sotto il nome d'Isocrate, di Platone e di Demostene, in età molto vicina alla loro. Altrettanto è di lettere di Alessandro Magno e dei successori, dell'indiano Calano e dello scita Anacarsi. Nel sec. I a. C., e specialmente fra questo e il I-II d. C., è un pullulare di siffatta letteratura, fino al romanzo: ad essa consacrò il Bentley una famosa dissertazione, affrontando in pieno il problema delle cosiddette lettere di Falaride, tiranno d'Agrigento (sec. VI a. C.), che sorsero intorno al sec. IV d. C. Così abbiamo pseudepistolografia di Ippocrate e di Diogene, ancora, pare, del sec. I a. C., e poi di principi a filosofi (Alessandro, Antigono, ecc.) e di filosofi a principi (Aristotele, Zenone, ecc.) sui reciproci rapporti esistenti fra tali personaggi, argomento caro alla cultura ellenistica; abbiamo, in copia, lettere tra filosofi e filosofi (Socrate e socratici, i sette savî, Pitagorei, Eraclito, Chione, Senofonte, Cratete); e poi di oratori (Eschine, oltre i più sopra rammentati); di uomini di stato (Filippo di Macedonia, Antioco, ecc.); d'un poeta (Euripide). Molto ammirate le greche del romano M. Bruto, di cui pur qualcuno sostiene, e forse parzialmente a ragione, la genuinità. Le lettere di Ippocrate e di Chione con quelle di Temistocle sono notevoli per l'idea che ci dànno dell'elemento romanzesco di cui anche l'epistola andò compenetrata. E nel giro dei componimenti romanzeschi sta la finta lettera d'amore: non estranea già alla Commedia nuova, essa s'introduce nel romanzo forse col retore Lesbonatte in sul nascere dell'Impero e acquista con gli anni molteplici forme, quali possiamo vedere più tardi da Filostrato, da Alcifrone, da Aristeneto, da Eliano: sa di trastullo, di scherzo, di novella (E. Rohde, Der griechische Roman, Lipsia 1914, p. 366 segg.); attinge, dove per noi ha speciale interesse, dalla Commedia nuova o dalla poesia ellenistica; è sostanzialmente impersonale. E si ha notizia di lettere contenenti storie meravigliose d'un Gerone d'Alessandria o di Efeso, persona vera o fantastica che sia, e perfino di figure eroiche (Priamo, Teseo, ecc.). La lettera pseudepigrafa greca costituisce un capitolo importante, che è lungi dall'essere stato studiato esaurientemente pur dopo le acute ricerche fatte.
Ma non delle falsificate soltanto, sì anche delle epistole o scritture epistolari genuine della paganità del periodo imperiale avanzano parecchie nella letteratura. Ce ne sono delle didattico-retoriche, rilevanti per la critica, di Dionisio d'Alicarnasso; ce n'è una, che si può dire un romanzo, d'un incolto giudeo, Aristea, da rivendicare sicuramente all'inizio del sec. I d. C.; ci sono varie disquisizioni. di soggetto essenzialmente morale, di Plutarco; ci sono le epistole del filosofo pitagoreo e mago, Apollonio di Tiana, se pure in parte di dubbia provenienza. Il meglio si deve a Libanio, la cui collezione epistolare è la più vasta dell'antichità, a Giuliano l'Apostata, a Sinesio di Cirene, un convertito al cristianesimo, rimasto però sempre nel cuore più pagano che cristiano. Qui, finalmente, non è il moralista o l'erudito che ragiona né il romanziere che fantastica, ma è un'anima che si sorprende e arriva a espandersi sotto il premere degli eventi, piccoli o grandi, di ogni giorno. L'io non è più assente in codeste pagine, come lo è, salvo eccezioni, nell'epistolografia greca del periodo preromano e precristiano, e di solito pur nella pagana dell'età più tarda.
Per i Latini i papiri nulla ci hanno restituito di lettere confidenziali private; in compenso ne sono passate nella letteratura tali, che non soltanto ci documentano con una ricchezza inestimabile sulla vita politica, morale, culturale dei tempi di cui sono il prodotto, ma discoprono e illuminano i recessi interiori. Ciò che più attira e impone in esse, e tocca le corde del cuore, è la voce dell'uomo e dell'individuo. L'epistolario di Cicerone è sotto questo rispetto il capolavoro dell'antichità pagana, anzi dell'antichità intera. Gli è che il senso dell'individuo fu assai più vivo nella Roma che nella Grecia classica, né tanto per naturale e successivo sviluppo di cose (grecità-ellenismo-romanesimo), quanto per abito intrinseco, per comprensione immediata e istintiva della realtà esteriore e psicologica: i movimenti politici, determinati e dominati da uomini di grande statura, non fecero che acuire e svolgere codesta sensibilità dell'anima romana, da cui scaturirono, per es., gli spiriti più profondi della storiografia di Sallustio e di Tacito. E innanzi a Cicerone, già una donna, la Cornelia dei Gracchi, ci balza viva davanti agli occhi da frammenti di lettere al figlio Caio, le quali per avventura furono le prime ad essere raccolte fra i Romani. Ivi parla una donna di alto sentire, la figlia del vincitore di Zama, la madre dei Gracchi, che già ha perso un figlio e trema al pensiero di perdere il secondo e, con lui e per violenta passione di lui, lo stato. C'è nel fondo il conflitto tra l'orgoglio per i figli, che ella ha allevato ed educato, e la paura della sorte che toccherà alla patria di tra le lotte dai figli scatenate in Roma. Il periodo di convulsioni che segue, dai Gracchi fino alla vittoria di Azio e alla pace di Augusto, segna un potente evolversi verso l'interno, un ripiegarsi dell'anima in sé stessa dai travagli giornalieri. Né mai come ora è un disfrenarsi di energie individuali. Mentre vien meno la coscienza dei doveri verso lo stato, cresce quella dei proprî diritti personali; e nuovi ideali di esistenza si affermano in aperta antitesi coi vecchi. Così nel concreto mondo romano gl'individui cominciano ad emergere con nitidezza di linee; il subiettivismo invade, qual nota essenziale, la vita e l'arte: amori, dolori, speranze, ebbrezze, sconforti, ciò che momentaneamente si agita nel cuore e lo deprime o l'esalta, dà substrato e materia a chi scrive. Fortuna ha voluto che di Cicerone scampassero alla rovina 36 libri di corrispondenza, la metà di quanti furono messi alla luce. Di essi i più preziosi sono i 16 ad Attico, l'amico di tutte le confidenze, che li conservò: essi comparvero sul mercato dopo parecchi decennî dalla morte dello scrittore, verso il 60 d. C.
Il valore di queste lettere sta principalmente in ciò, che un uomo esuberante di qualità interiori, il più colto degli uomini antichi - così Cicerone fu giustamente chiamato - senza riguardi o ipocrisie, proprio come il cuore detta, ha espresso sé stesso. "Io parlo con te alla stessa guisa che con me" dice l'amico all'amico, e noi sentiamo palpitare tutta l'anima d'un uomo. Sono luci e ombre, appunto perché è schietta umanità, sullo sfondo della cronaca pubblica e privata, in anni nei quali vanno maturando definitivamente i destini di Roma e dell'orbe romano. Il prezioso diario è una serie di confessioni, destinate a restare nel segreto e nell'oblio, è la narrazione di una vita, giorno per giomo, qualche volta ora per ora. Vi si riflette la tragedia di un'anima estremamente sensibile: scatti di passione e contrasti, oscillazioni, un incessante fluttuare di speranze e sdegno: vasta eco d'intime risonanze e dissonanze, che da antichi e da moderni fu riascoltata - con disposizioni varie, non importa - come la voce stessa di un uomo sopravvissuta al silenzio dei secoli. E c'è invero in Cicerone una potenzialità singolare di cogliere il proprio io nell'attimo fuggente, una meravigliosa pienezza e vivacità di espansione che si leva fino alla drammaticità. Le restanti raccolte ad familiares, a Bruto e al fratello Quinto, esse pure umanamente e storicamente importantissime, si differenziano alquanto nel tono e nel contenuto: sono per lo più ripulite di stile, meno nativamente sincere, di materia meno delicata. Di falsificato in questa grande quantità di materiale c'è poco o nulla: Roma in fatto di epistolografia pseudepigrafa differisce dalla Grecia; col nome di Cicerone non ci fu tramandata falsamente che una lettera oltraggiosa a Ottaviano, e poco più resta poi da addurre oltre la famosa corrispondenza tra Seneca e S. Paolo. Le epistulae sallustiane ad Caesarem valgono oramai prevalentemente per autentiche.
Le epistulae di Cicerone od familiares, a Bruto e a Quinto più che un confidarsi spontaneo, sono il parlare urbano d'una società coltissima in margine a fatti, a cose, a persone, fra gente che è legata dall'amicizia, dalla cortesia, dall'affetto. C'è qualcosa del giornalistico, in questo scambiarsi pronto di notizie e d'impressioni, e l'epistola fu in realtà una delle forme più antiche del giornalismo. Né di Cicerone solo abbiamo qui la parola, ma in un centinaio di lettere ci si trova di fronte a uomini che scrivono o rispondono a lui: il nobile e semplice C. Mazio (XI, 28), l'affascinante Sulpicio Rufo (IV, 12), il fine, e inquieto M. Celio Rufo (VIII), il severo Catone (XV, 5), l'aristocratico Munazio Planco (X), il cavilloso e trasandato Asinio Pollione. E perduta è inoltre una quantità di materiale di personaggi che emersero a fianco di Cicerone: Cesare, Bruto, Calvo, Antonio.
Deliziose sono con le ciceroniane alcune lettere, di carattere privato, d'Ottaviano Augusto. Un'epistola didattica, la più antica a noi nota di Roma, che pur ne ebbe ab antiquo, è il Commentariolum petitionis di Quinto Cicerone. Nella scienza l'epistola ebbe voga con Varrone, Valgio Rufo, ecc., ma più fu coltivata in poesia dopo l'esempio che ne avevano dato Lucilio e Sp. Mummio, gli amici di Scipione l'Emiliano. Ed è elegiaca erotica in Catullo (c. 68), in Properzio (IV, 3) e in certe epistulae ex Ponto o in qualcuno dei Tristia di Ovidio; è elegiaca erotico-romanzesca nelle Eroidi ovidiane, dove celebri eroine della leggenda sfogano le loro pene con gli amanti; è infine un'originale e geniale creazione nelle Epistole di Orazio, un conversare, fondato sulla propria esperienza, di che cos'è la vita, la poesia e l'arte, un portato di squisita urbanità, di umorismo e di grazia, che per il suo universale valore umano, per la pregnanza della dizione e del verso ha esercitato un vasto influsso sulle generazioni degli uomini. La lettera poetica d'Orazio e la lettera prosaica di Cicerone, per più rispetti degne d'essere ravvicinate, non hanno l'eguale nelle letterature classiche. Dopo gli Augustei, sotto gl'imperatori della casa Giulia, eccelle Seneca con le sue epistole morali a Lucilio dove è uno sprofondarsi in sé stesso per far sentire la propria efficacia di maestro a Lucilio, che viene presentato quale un giovane di aspirazioni ideali; e da codesto procedimento, dalla convinzione della forza che all'insegnamento dà il vivente esempio e l'accento del maestro, attinge origine e ragion d'essere la forma epistolare. Seneca mirò ad opera letteraria, a versare nella effusione d'una lettera l'anima sua di pensatore e di uomo per i contemporanei e per gli avvenire. Plinio il Giovane non molto dopo compose pure il suo carteggio con coscienza di letterato e se ne fece da sé editore in nove libri, ai quali è aggiunto un decimo contenente la corrispondenza con Traiano: c'è un essere amabile in lui e semplice nella sua vanità, c'è il dilettante della nuova società che si è venuta formando nel primo secolo, c'è il modello d'un genere di prosa d'arte ch'ebbe gran voga nel futuro. Imitatori di Plinio ne troviamo fino a Sidonio Apollinare e ad Ennodio. A Cicerone piuttosto si atterranno Frontone nel sec. II e Simmaco nel IV: l'uno però, di regola, vuoto, artificioso e pedantesco, salvo qualche spunto sincero; l'altro un nobile spirito, ma nelle epistole ricco più di parole che di sostanza e immagine di quell'aristocrazia senatoriale romana che, pur conscia della grandezza passata, non seppe trovare nei ricordi della storia la forza di opporsi ai barbari invasori.
Fra i cristiani la lettera fa sin dalle origini le veci della predicazione o si affianca ad essa, e si fa ardente di spiriti religiosi. Maestro, S. Paolo. Il quale è totalmente estraneo a intendimenti letterarî: scrive a partire da circostanze concrete, guarda a precisi effetti presenti, ignora le eleganze; ma col fuoco che lo scalda, col genio che l'illumina, riesce, senza volerlo e senza saperlo, candidamente artista e dà un esempio mirabile agl'infiniti imitatori, i più dei quali troppo rimasero lontani da lui, perché inimitabile. Così si ebbe ben presto l'epistola letteraria: già nel Nuovo Testamento. E padri e personaggi eminenti della Chiesa amarono questo strumento di propaganda che poi divenne di disputa scientifico-religiosa, o di che altro, ma lo fu anche, sempre, di semplice scambio d'idee, di fatti, di sentimenti personali. Onde fiorirono copiose raccolte di epistolografia cristiana, messe assieme sia da fedeli, sia anche dagli stessi autori a cominciare dal vescovo Clemente di Roma (fine del sec. I) e da Ignazio d'Antiochia (circa 110 d. C.) fino ai grandi e ai minori dei sec. IV-VI, Basilio, i due Gregorî, Giovanni Crisostomo, Sinesio di Cirene, Dionisio d'Antiochia, Isidoro di Pelusio, Nilo l'asceta, Teodoreto di Cirro, e nell'Occidente latino Cipriano, Girolamo, Paolino Ambrogio, Agostino, Apollinare Sidonio, Ennodio, papa Leone, papa Gregorio: ampia materia religiosa, chiesastica, storica, letteraria, ravvivata più volte di movimento personale e di umanità. Né si può tacere l'importante raccolta nota col nome di collezione avellana (v.). Coi Bizantini, gli occidentali del sec. VI-VII, è la decadenza assoluta; restano le forme dell'epistolografia, ma di rado si sorprende in essa un intimo contenuto.
Raccolte critiche di lettere latine non esistono all'infuori dei singoli autori. Di lettere greche invece furono già composte da M. Musuto presso Aldo Manuzio (Venezia 1499; trad. lat. del Cuiacio, Ginevra 1606), da Gioac. Camerario (Tubinga 1540), da E. Lubino (Heidelberg 1601-1605), da Fabricius-Harles (I, p. 662), dall'Orelli (I, Lipsia 1815): una recensione quasi completa degli scrittori pagani in R. Hercher, Epistolographi Graeci (Parigi 1873). Per le lettere dei papiri abbiamo: S. Witkowski, Epistulae privatae graecae quae in papyris aetatis Lagidarum servantur (Lipsia, 2ª ed., 1911); G. Ghedini, Lettere cristiane dai papiri greci del sec. III e IV (Milano 1923); un catalogo delle lettere private papiracee in A. Calderini e M. Mondini, Studi della scuola papirologica (II, 1917, p. 109 segg.).
Le epistole di re e di imperatori. - Molte sono le epistole di re e di imperatori che ci sono conservate epigraficamente, e molte più quelle di imperatori accolte nel codice di Giustiniano. Non mancano di tramandate in testi letterarî, come le risposte di Traiano a Plinio, governatore della Bitinia. Destinatarî delle lettere reali e imperiali sono i più svariati: città e popoli, leghe, magistrati, funzionarî e sacerdoti d'ogni genere, privati, ecc., sudditi o stranieri. È stata già più volte ricordata la lettera di Dario a Gadate. Dall'età di Alessandro in poi simili lettere di sovrani divengono sempre più numerose (si veda un saggio di raccolta in Michel, Recueil d'inscriptions grecques, p. 39 segg.). Assai maggiore ancora è il numero delle lettere a noi pervenute d'imperatori romani, redatte sia in greco, sia in latino (per quelle redatte in latino, si vedano le raccolte del Bruns, Fontes iuris romani antiqui, 7ª ed., Tubinga 1909, p. 240 segg.; del Girard, Textes de droit, Parigi 1931, p. 184 segg.; e del Riccobono, Fontes iuris romani anteiustinianei, parte 1ª, Firenze 1909, p. 313 segg.).
Le epistulae principis, spesso chiamate anche rescripta, sono la forma più frequente delle constitutiones imperiali, e come tali sono citate dai giuristi accanto alle altre simili constitutiones (edicta, decreta) e si possono distinguere nelle due categorie personales e generales, a seconda che contengano concessioni di privilegi, immunità, ecc., a singole persone e corporazioni, ovvero enuncino interpretazioni e norme giuridiche, le quali, anche se occasionate da richieste di singoli, privati o magistrati, abbiano carattere generale e vadano adottate in tutti i casi analoghi a quello contemplato nella fattispecie. La forma più frequente di simili epistulae di carattere generale è rappresentata dai cosiddetti rescritti processuali, dalle decisioni, cioè, che l'imperatore pronunciava in forma epistolare, su contestazioni a lui sottoposte da magistrati o da privati (si noti, però, che simili decisioni potevano essere emesse fino a Diocleziano anche nella semplice forma della subscriptio e adnotatio). Tali rescritti processuali, rarissimi sino a Traiano, vanno aumentando da Adriano in poi, in rapporto con la sanzione definitiva dell'edictum perpetuum, con la cessazione, cioè, dell'attività edittoriale degli antichi magistrati repubblicani, e col riconoscimento esplicito dell'imperatore quale unico organo competente a decidere questioni giuridiche controverse. Le epistulae principis, di cui discorriamo, hanno dunque carattere ufficiale e sono emanate in virtù dei supremi poteri conferiti all'imperatore dal popolo e formulati dal Senato nella lex de imperio. In sostanza rappresentano atti legislativi, e, come tali, la regola doveva essere che fossero pubblicati, ma questa regola si applicò solo a partire da Traiano o da Adriano: se l'epistola rispondeva alla domanda di un funzionario, era in genere pubblicata nella residenza di questo, di sua iniziativa o per incarico dell'imperatore; se rispondeva all'istanza d'un privato, di una corporazione o di un comune, l'epistola era raccolta in un liber libellorum rescriptorum, che d'ordinario era in Roma.
Dopo la divisione dell'Impero voluta da Diocleziano e l'istituzione della monarchia assoluta, andò diminuendo l'importanza dei rescritti, processuali, lo sviluppo del diritto essendo allora affidato principalmente alle leggi imperiali. Le epistulae del tempo tardo si spogliarono ogni giorno più della caratteristica forma giuridicamente così precisa, e furono emanate leggi per limitarne il valore e il raggio di applicabilità.
Le parti costitutive delle epistole ufficiali sono le seguenti: 1. la inscriptio contenente il nome dell'imperatore o degl'imperatori, con tutti i titoli, in nominativo, e talora con la data consolare e il nome della persona o delle persone o dell'ente, cui l'epistola è destinata, in dativo talora ad con l'accusativo), con o senza l'aggiunta salutem; 2. il testo; 3. la subscriptio non col nome dell'imperatore, ma con le formule: scripsi, recognovi; rescripsi (et) recognovi, sul valore preciso delle quali due formule si discute, e la questione sta in rapporto con le diverse idee che si hanno sulla redazione e la registrazione di questi atti.
Il Mommsen fu d'opinione che all'interessato venisse spedito l'originale dell'epistula, con la subscriptio di mano dell'imperatore, e che di questo originale, prima della spedizione, fosse fatta una copia da inserirsi nei commentarii della cancelleria imperiale: e in un primo tempo pensò che la formula recognovi si riferisse alla collazione che di questa copia con l'originale avrebbe fatto l'apposito funzionario imperiale, e servisse appunto a garantirne l'esatta corrispondenza, mentre in un secondo tempo opinò che entrambe le formule rescripsi e recognovi si riferissero all'imperatore, e che la prima fosse apposta alla prima redazione in bozza dell'epistola, e la seconda a quella definitiva della spedizione. Il Karlowa crede invece che nell'archivio venisse depositato sempre l'originale e che gl'interessati potessero procurarsi una copia privata, col consenso dell'imperatore, la quale copia sarebbe stata corredata appunto dalla formula di ricognizione a opera del copista.
Per la corrispondenza imperiale, senza distinzione forse tra quella privata e quella ufficiale, vi fu un particolare ufficio della cancelleria imperiale col titolo ab epistulis, comune anche a coloro che ne facevano parte, cioè al capo e ai subalterni. Le origini di questo ufficio risalgono a Cesare, che ebbe come segretario il padre dello storico Pompeo Trogo, cospicuo cavaliere d'origine provinciale (Iustin., XLIII, 5, 11), e Cesare con ciò imitò gli epistolografi delle corti ellenistiche, specia) mente di quella alessandrina. Fu Augusto che organizzò stabilmente l'ufficio, ma mentre alcuni credono che lo dirigesse personalmente egli stesso, adibendovi schiavi e liberti imperiali, altri pensano che ne avesse messo a capo uno schiavo (si veda Corp. Inscr. Lat., VI, 8596, e si confronti Svetonio, Aug., 67). Una più completa organizzazione dell'ufficio con una determinazione certa delle sue competenze si ebbe, a quanto pare, con Claudio, il quale ne affidò la direzione a liberti imperiali, particolarmente stimati e influenti, e questo costume fu seguito dai suoi successori sino a Traiano, non senza però qualche eccezione e qualche oscillazione, in quanto che Ottone conferì l'ufficio a un cavaliere romano, Vitellio a un ufficiale, Domiziano prima al grammatico alessandrino Dionisio, e poi all'ufficiale Cn. Octavius Titinius Capito (che fu confermato sotto Nerva e nei primi tempi di Traiano), laddove coi Flavî precedenti pare che il pregio la riputazione della carica fossero sminuiti. Un radicale mutamento fu apportato da Adriano, che mise alla testa di questo ufficio, come di tutti gli altri più importanti della corte, persone appartenenti all'ordine equestre (Hist. Aug., Hadr., 22), di guisa che quegli uffici divennero allora veri e proprî organi dell'amministrazione dello stato, e da allora in poi (a prescindere dal regno di M. Aurelio), la carica ab epistulis fu assunta da funzionarî destinati alle più brillanti carriere dell'ordine equestre, e che anzi talora furono promossi a quella dell'ordine senatorio. Sono funzionarî che appartengono alle categorie dei ducenarii e dei trecenarii, e a cui si compete il titolo di perfectissimi, dotati generalmente di larga cultura e di abilità letteraria: basti ricordare i nomi di Svetonio e di Corneliano. Le competenze di questi funzionarî furono larghe, svariate e subirono non poche modificazioni in processo di tempo, ma il nucleo ne restò sempre la cura della corrispondenza imperiale (Stazio nelle Selve, v, 3, 80 segg. specifica la lunga serie dei negozî che spettavano a loro, non senza forse qualche esagerazione).
Le epigrafi attestano il doppio titolo ab epistulis latinis e ab epistulis graecis, dal che si vede che l'ufficio fu diviso in due sezioni, forse già dal tempo di Claudio, certamente da quello di Adriano, ma il capo ne dovette sempre essere uno solo, secondo alcuni l'ab epistulis latinis, secondo altri un ab epistulis senza specificazione. Questi titoli durarono per tutto il sec. III, dopo il quale appare il titolo di magister epistularum (Not. Dign. Or., c. 37, Occ., c. 16; cfr. Corp. Inscr. Lat., VI, 510). ll personale subalterno era costituito di proximi, adiutores, scriniarii, e di ab epistulis, schiavi o liberti.
Le epistole di magistrati. - Poche e di scarsa importanza sono le epistole di magistrati greci a noi pervenute, e per lo più si tratta di lettere rivolte dai magistrati di una città agli organi statali di un'altra in riconoscimento dello zelo con cui qualche messo ha disimpegnato la propria missione, o di lettere di trasmissione di decreti sullo stesso argomento, specie in riguardo al riconoscimento del diritto di asilo. Possediamo anche lettere di governatori dei regni ellenistici in trasmissione di ordinanze sovrane (v. Dittenberger, Orientis gr. inscr., nn. 221 e 224).
Molto più importanti e pervenute a noi in assai maggior numero sono le lettere di magistrati romani, redatte in greco o in latino. Tra le prime vanno ricordate, come le più antiche, la lettera di T. Quinzio Flaminio ai cittadini di Chyretiae (196-194 a. C.) in Dittenberger, Syll., n. 593, e le epistole di magistrati romani del 193,189 e del 188 ai Teî, ai Delfì e agli Eracleoti (ivi, nn. 601, 611, 612, 618). Tra le seconde la più antica è quella dei consoli del 186 a. C. ai Teurani, nella quale è fatta comunicazione del Senatusconsultum de Bacchanalibus (Corp. inscr. Lat., I, 2ª ed., n. 581). Molto spesso queste lettere contengono risposte a domande ricevute (rescripta) o decisioni prese nella sfera di competenza del magistrato (decreta o sententiae). Un posto a sé spetta alle numerose epistole contenute in papiri egizî.
Bibl.: In generale: C. Dziatsko, in Pauly-Wissowa, Real-Encycl., III, col. 836 segg.; J. Sykutris, in Pauly-Wissowa, ibid., suppl. vol. V, col. 185 segg.; R. Graefenhain, De more libros dedicandi apud Graecos et Romanos obvio, Marburgo 1892, p. 38 segg.; W. Riepl, Das Nachrichtenwesen im Altertum, Lipsia 1913; U. E. Paoli, in Studi italiani di filologia classica, n. s., III (1923), p. 251 segg. - Per l'epistola greca: U. v. Wilamowitz, Reden und Vorträge, Berlino 1902, p. 224 segg.; O. Seeck, in Deutsche Rundschau, CXXXIII (1907), p. 5 segg.; W. Schubart, Ein Jahrtausend am Nil, Berlino 1912; id., Einführung in die Papyruskunde, Berlino 1918, p. 211 segg.; G. A. Gerhard, in Philologus, LXIV (1905), p. 27 segg.; F. Ziemann, De epistularum graecarum formalis sollemnibus questiones selecate, Dissert. philologicae Halenses, XVIII (1911); Exler, The forma of the ancient Greek letters, Washington 1923; R. Olsson, Papyrusbriefe aus der frühesten Römerzeit, Upsala 1925; Brooke, Private letters pagan and christian, Londra 1929; A. Westermann, De epistularum scriptoribus graecis commentationes, Lipsia 1851-58; J. F. Marcks, Symbola critica ad epistolographos graecos, Bonn 1883; R. Hirzel, Der Dialog, Lipsia 1895, I, pp. 300 segg.; 353 segg.; Christ-Schmid, Geschichte der griechischen Literatur, Monaco 1912 segg., passim; G. Pasquali, Studi italiani di filologia classica, n. s., III (1923), p. 75 segg.; G. De Sanctis, in Rivista di filologia classica, n. s., IX (1931), p. 330 segg. - Per l'epistola latina: J. Babl, De epistularum latinarum formulis, Bamberg 1893; H. Peter, Abhandlungen der sächsischen Gesellschaft der Wissenschaften, XX, 3 (1901); F. Leo, in Göttingische gel. Anzeigen, 1901, p. 318 segg.; Schanz-Hosius, Geschichte der römischen Litteratur, Monaco 1909 segg., passim; A. Rosenberg, Einleitung und Quellenkunde zur römischen Geschichte, Berlino 1921, p. 75 segg. - Su Cicerone, Seneca e i padri della Chiesa: G. Misch, Geschichte der Autobiographie, I, Lipsia 1907, pp. 206 segg., 240 segg. 369 segg.; su Cicerone anche O. E. Schmidt, Der Briefwechsel des M. Tullius Cicero, Lipsia 1893; G. Boissier, Cicéron et ses amis, 13ª ed., Parigi 1905; C. Bardt, Römische Charaktedrköpfe in Briefen, Lipsia 1921; Ed. Meyer, Caesars Monarchie, 3ª ed., Stoccarda 1922, p. 588 segg.; O. Plasberg, Cicero in seinen Werken und Briefen, Lipsia 1926, p. 9 segg. - Sull'epistolografia cristiana, particolarmente P. Wendland, Die urchristlichen Literaturformen, Tubinga 1912, pp. 342 segg., 411 segg.; A. Deissmann, Licht von Osten, 4ª ed., Tubinga 1923; Bible Studies, Edimburgo 1909, pp. 1 segg., 313 segg., 346 segg.; H. Windisch, in Neue Jahrbücher für das klassische Altertum, XIII (1910), p. 201 segg.; G. Hoberg, Der Brief in Neuen Testament, in Vereinsschrift der Görresgesellschaft für 1912, Colonia 1912, p. 30 segg. - Sulle epistole di re e di imperatori: E. De Ruggiero, in Dizionario epigrafico di antichità romane, II, p. 2129 segg.; G. Bloch, in Daremberg e Saglio, Dict. des ant. gr. et rom., II, p. 712 segg.; Brassloff e Rostowzew, in Pauly-Wissowa, Real-Encycl., VI, coll. 204 segg. e 210 segg.; Brissonius, De formulis et sollemnibus populi Romani verbis, Lipsia 1254, p. 276 segg.; L. Lafoscade, De epistulis (aliisque titulis) imperatorum magistratuumque Romanorum, ecc., Lilla 1902; F. Ziemann, De epistularum graecarum formulis sollemnibus quaestiones selectae, Halle 1910; Th. Mommsen, Gesammelte Schriften, II, Berlino 1908, p. 172 segg.; crf. I, p. 476 segg. e II, p. 368 segg.; E. Cuq, Mémoire sur le consilium principis, in Mémories de l'Académie des inscriptions et belles lettres, 1888, p. 384 segg.; O. Karlowa, in Neue Heidelberg Jahrbücher, VI (1896), p. 211 segg.; id., Römische Rechtsgeschichte, Lipsia 1885, I, pp. 650 segg., e 934 segg.; H. Peter, Die geschichtliche Literatur über die römischen Kaiserzeit, I, Lipsia 1897, p. 329 segg.; P. Krüger, Geschichte der Quellen und Literatur des römischen Rechts, 2ª ed., Monaco e Lipsia 1912, p. 103 segg.; O. Hirschfeld, Die Kaiserlichen Verwaltungsbeamten bis auf Dioklletian, Berlino 1905, p. 318 segg.; L. Friedländer, Darstellungen aus der Sittengeschichte Roms, I, 9ª ed., Lipsia 1919, p. 55 segg., e IV, 1921, p. 35 segg.; W. Lafeld, Griechische Epigraphik, 3ª ed., Monaco 1914, p. 427 segg.; R. Cagnat, Cours d'epigraphie latine, 4ª ed., Parigi 1914, p. 299; Y. E. Sandys, Latin Epigraphy, 2ª ed., Cambridge 1926; F. Schröter, De regum hellenisticorum epistulis, Lipsia 1932.
Medioevo ed età moderna. - Modificandosi nello spirito secondo i nuovi tempi, l'epistola medievale, continua, quanto al contenuto, la tradizione dell'età classica: è familiare, di negozî, didascalica, ufficiale, privata, in prosa e in versi, ecc. Né viene a mancare l'uso delle raccolte epistolari, sia che le compilino gli autori stessi, sia che le mettano insieme ammiratori o amici.
I nove libri nei quali, a preghiera dei suoi amici, Sidonio Apollinare distribuì le sue centoquarantasette lettere, documento interessantissimo per la storia politica e sociale della Gallia sul finire del sec. V, sono spesso intercalate di brani in versi; e in versi sono le lettere di Venanzio Fortunato (morto nel 600). Della stessa epoca, all'incirca, sono le lettere di Fausto di Riez, di Ruricio di Limoges e di Avito di Vienne. Veri modelli di stile epistolare, che dimostrano l'influenza che le tradizioni della retorica classica esercitavano ancora al suo tempo, sono le 297 lettere, distribuite in nove libri, spedite da Ennodio (morto nel 521) ai più importanti personaggi del suo tempo. Un posto a parte meritano, per il loro contenuto, le numerose lettere di papi da Ilario a Ormisda, a Pelagio II, a Gregorio Magno: le più che ottocento lettere di quest'ultimo (morto nel 604) sono uno specchio fedele della "saggezza, giustizia, dolcezza e forza d'iniziativa", con la quale egli seppe, in mezzo alla disorganizzazione politica e morale del suo tempo, esercitare la sua attività pastorale. Sempre aderenti alle necessità del loro ministero, seppure meno penetranti, sono le lettere di vescovi e uomini di chiesa contemporanei o di poco posteriori a Gregorio: Eutropio di Valenza, Colombano, Braulio di Saragozza, Valerio di S. Pedro de Montes, ecc. Accanto a queste lettere, che rispecchiano tutte le complesse vicende della vita ecclesiastica, è necessario ricordare, nello stesso periodo di tempo, i 12 libri delle Variae (epistulae) di Cassiodoro (morto circa il 575), cioè la raccolta dei rescritti da lui spediti in nome di Teodorico e successori o in nome proprio come pubblico ufficiale, e da lui stesso così intitolata per la diversità dello stile adoperatovi, il quale servì poi di modello alle cancellerie medievali. Per il loro contenuto, che rivela spesso preoccupazioni erudite, si fanno notare nell'alto Medioevo le numerose epistole di Beda il Venerabile (672-735), di Paolo Diacono (morto circa il 797) e la corrispondenza, notevolissima espressione della rinascenza carolingia, fra Alcuino e il suo imperiale discepolo Carlo. Nello stesso secolo IX si segnalano l'epistolario di Eginardo abate di Fontenelle, notevole saggio di epistole autobiografiche, quello di Rabano Mauro, discepolo di Alcino, quello dell'amanuense Lupo di Ferrières, che ci permette di seguire l'attività di questo infaticabile ricercatore di codici, e la corrispondenza fra Incmaro di Laon e suo zio Incmaro di Reims. Assai importanti nel sec. X le lettere di Abbone di Fleury e soprattutto quelle del suo maestro Gerberto di Aurillac, poi papa Silvestro II, il precettore di Ottone III, sia per i riferimenti alla vita politica del tempo, sia per la personalità dell'autore, tipico rappresentante d'un incipiente umanesimo e di un rinnovato studio della natura e della scienza.
I due secoli seguenti, XI e XII, sono quelli che ci hanno forse dato, durante tutto il Medioevo, più cospicuo numero di epistolografi: Pier Damiani, Fulberto e Ivo di Chartres, Ildeberto di Lavardin, Sugeri di Saint-Denys, Gioffredo di Vendôme, Stefano di Tournai, Pietro di Blois, Arnoldo di Lisieux, Pietro di Moutierla-Celle, Pietro il Venerabile, Adamo di Perseigne, Nicola di Chiaravalle, Giovanni di Salisbury. Un posto a parte nel gruppo meritano, per la fama da esse raggiunta, le lettere dei protagonisti di una delle più vivaci lotte teologiche che abbiano agitato quel periodo che fu così denso di avvenimenti nella storia della cristianità medievale: Pietro Abelardo e Bernardo di Chiaravalle. Del primo, più che la Historia calamitatum a Pietro il Venerabile, vera e propria autobiografia in forma di lettera, celeberrime sono le lettere da lui indirizzate alla fedelissima Eloisa, che costituiscono, insieme con le risposte della donna, il primo e veramente mirabile epistolario d'amore. In esso, alla compassata freddezza delle lettere di Abelardo, il quale non sa mai dimenticare - si direbbe - di essere stato prima che l'amante il pedagogo di Eloisa, fa riscontro la sensibilità passionale di lei, che mal sa nascondere, sotto le tracce frequenti della sua educazione finemente intellettualistica, la sua squisita passione di donna, che la distanza, le disavventure, il chiostro non sono riuscite a estinguere.
Le lettere (circa seicento) dell'abate di Chiaravalle, oltre ad essere documento principalissimo per la ricostruzione dell'attività di Bernardo (v.), ci mettono a diretto contatto - tanto sono immediate e spontanee - con una delle psicologie più ricche e complesse che la storia della spiritualità cristiana ricordi. Ed è interessante notare che per quanto Bernardo indichi lui stesso i procedimenti usati dagli scribi di professione per comporre epistole forbite (vedi appresso), disdegni, forse unico nel genere, ogni espediente retorico.
Assai ricca la letteratura epistolare del sec. XIII, il secolo di Federico II: e appunto del complesso movimento, politico e culturale, che si raccoglie intorno a questo principe illuminato, è eco fedele l'unico epistolario veramente notevole di questo periodo: quello di Pietro della Vigna, protonotario di Federico stesso.
Questa complessa e continua tradizione epistolare spiega come l'arte di comporre epistole fosse nel Medioevo oggetto d'un particolare insegnamento. L'ars dictaminis, che è appunto quella branca speciale della retorica, strettamente apparentata alla grammatica e al diritto, che insegnava le regole per ben comporre le lettere, nacque in Italia nella seconda metà del sec. XI ed ebbe nel monastero di Monte Cassino (con Alberico di Monte Cassino, Ugo di Bologna, Giovanni Caetani, poi papa Gelasio II), nella Curia romana (con Alberto di Mora, poi papa Gregorio VIII, Trasmondo, Tommaso di Capua) e nell'università di Bologna (con Guido Faba, Boncompagno, Riccardo di Pofi) i principali centri di diffusione. Delle fiorenti scuole straniere, le principali concorrenti della scuola italiana furono quelle francesi, che ebbero in Orléans, Tours, Meung le loro sedi, e in Bernardo Silvestris, Pons il Provenzale, Giovanni di Limoges, Giovanni di Garlandia, i più notevoli rappresentanti. Senza addentrarci in un esame minuto dell'attività di questi dictatores, delle loro summae, dei loro formularî (v. le voci dedicate ai principali dictatores: alberico di montecassino; boncompagno da signa; fava, guido; e artes dictaminum; cursus), ci limiteremo a ricordare che per essi l'epistola (definita da Alberico da Monte Cassino come "congrua sermonum ordinatio ad exprimendam intentionem delegantis instituta", oppure come "oratio ex constitutis sibi partibus congrue ac distincte composita, delegantis affectum plene significans") constava essenzialmente di cinque parti: la salutatio, con il nome della persona cui si scrive al dativo seguito dal nome dello scrivente (all'esterno l'indirizzo s'avvicina al tipo moderno con il nome della persona e i titoli al dativo), l'exordium, o benevolentiae captatio, o proemium, o proverbium, generalmente formato da una sentenza o da un motto, l'elocutio, la narratio e la conclusio. Qualche trattatista aggiunge anche la valedictio e la data, segnata sempre - questa - all'uso medievale. (Per la forma esterna delle lettere ufficiali v. diplomatica).
Le epistole dei secoli XII e XIII mostrano come le regole dei dictatores fossero fedelmente seguite anche dagli scrittori più insigni. Dante stesso, che nel secolo seguente scrisse, oltre le tre inviate a nome della contessa di Battifolle, dieci epistole latine, non si sottrae alle norme tradizionali, ancorché sappia romperne la monotonia; e Cola di Rienzo, il cui epistolario è documento di prim'ordine per la ricostruzione della sua figura storica, foggia le sue lettere secondo i modelli dei dettatori e le norme della retorica medievale. Nella prima metà del sec. XIII un dettatore, Guido Faba, si prova ad applicare anche alle epistole in volgare le regole retoriche e ritmiche dell'epistola latina; e Guittone d'Arezzo, nella seconda metà di quel secolo, scrive le sue ventidue epistole volgari, che devono considerarsi esempî di stile, nelle quali il frate aretino addensa la sua molteplice dottrina latina e provenzale e sfoggia tutta la più complessa artificiosità dello stile ornato medievale.
Nel sec. XIV anche l'epistola risente del soffio del Rinascimento, e il Petrarca v'inaugura un'era nuova, quella dell'epistola umanistica dominata prima dall'influsso di Seneca, largamente sentito anche dal Petrarca, e poi da quello di Cicerone. Il Petrarca raccolse per primo in libri le sue epistole (24 libri di familiari, 16 di senili, uno di metriche e uno di lettere sine nomine), modificando quelle da lui già realmente spedite, tagliando da esse quanto vi poteva essere di contingente, di una facendone due o più, o viceversa, inventandone alcune. Il Petrarca fu seguito dal Boccaccio, dal francese Giovanni di Montreuil, da Coluccio Salutati (morto nel 1406) e poi dalla numerosa schiera degli umanisti, che nel sec. XV e in parte del XVI scrissero epistole in elegante latino, spesso incoraggiati da principi e repubbliche, che ambivano avere per cancellieri dotti e valenti latinisti, e le raccolsero in libri. Spesso queste lettere, quando non siano d'affari, non vogliono essere se non bei "componimenti", scritti secondo i dettami della retorica, soverchiati dall'erudizione e resi insipidi dall'assenza dell'uomo. Ci si avvicina così alle raccolte di finte lettere di cui diremo più innanzi.
Intanto, senza pretese letterarie, e con vivace spontaneità, si scrissero lettere in volgare: celebri del sec. XIV quelle, ebbre di misticismo e gagliarde di spirito battagliero, di S. Caterina Benincasa da Siena; notevoli quelle del beato Giovanni Colombini senese (morto 1341), del beato Giovanni dalle Celle (morto 1395); e, nel secolo seguente, dell'onesto notaio pratese Lapo Mazzei (morto 1412), di Alessandra Macinghi, vedova Strozzi (m. 1478), candida e assennata, e di alcuni illustri fiorentini, come Rinaldo degli Albizzi (morto 1452), dell'arcivescovo sant'Antonino (morto 1459), di Luigi Pulci, del magnifico Lorenzo.
Col Rinascimento assistiamo al sorgere e al formarsi d'una coscienza individuale che all'interesse largamente umanistico aggiunge quello più direttamente umano, ed è così condotta a valorizzare l'elemento biografico e aneddotico. Questo svolgimento, palesemente rappresentato, p. es., dalla novellistica in genere e dal Bandello in specie, s'insinua anche nelle relazioni degli "oratori" ai rispettivi principi e si riflette soprattutto negli epistolarî: le lettere, scritte in volgare, assumono un tono discorsivo e narrativo pieno di familiarità, sia che espongano idee, sia che narrino i casi di chi scrive o la cronaca, più o meno spicciola, di avvenimenti. Il primo ad avere chiaro questo rinnovato senso della lettera fu Pietro Aretino il quale, nel 1537, raccolse e pubblicò un primo volume delle sue lettere vivacissime, che rimangono tra le più belle del sec. XVI. Così, accanto alle corrispondenze di carattere ufficiale o comunque aulico, del Guicciardini, del Castiglione, del Sadoleto e di molti altri, vanno poste anche quelle del Machiavelli, che però ha lasciato anche una raccolta di lettere familiari, da porre tra le bellissime del Rinascimento. Assai belle anche le lettere del Caro (pubblicate postume, Venezia 1572-75); e sono da citare tra i migliori pure gli epistolarî di Michelangelo e del Tasso. Per il loro carattere, quale lo abbiamo sopra accennato, gli epistolarî del Cinquecento, anche quando non abbiano speciali pregi d'arte, costituiscono fonti preziose per l'intima conoscenza di quel tempo: fra questi, le raccolte di Iacopo Bonfadio, Bernardo Davanzati, Giovanni Guidiccioni, Sperone Speroni, Claudio Tolomei, ecc.
Anche di parecchi scrittori del sec. XVII ci rimangono epistolarî interessanti: notevoli quello di G. B. Marino, del Chiabrera, di suor Maria Celeste Galilei, del card. Guido Bentivoglio. La pieghevolezza che la forma epistolare possedeva, sia per sua natura e sia per l'affinamento dovuto al largo uso fattone, rese la lettera adatta anche allo spirito speculativo e scientifico del Seicento; e in questo secolo meritano un posto a parte le lettere di Galileo, piene della sua scienza e del suo dolore; quelle polemiche del Sarpi, quelle serenamente espositive e colorite del Magalotti.
Dall'Italia l'uso delle lettere si diffuse anche all'estero, specie in Francia, dove scrissero lettere oltre che Francesco I e Margherita di Navarra, il Montaigne, il card. Arnaud d'Ossat e S. Francesco di Sales che fu d'esempio anche ai secoli successivi per le sue bellissime lettere spirituali. L'interesse umano e scientifico si allargò, in Francia, fino all'osservazione e allo studio dei tempi e dei costumi, rendendo possibile la ricchissima fioritura di epistolarî, che formano uno degli aspetti più interessanti della letteratura francese. La lettera divenne forma specialmente adatta per le donne che riuscirono spesso a esprimervi, senza sciuparlo, il frutto d'un acuto spirito d'osservazione, dandoci nel Seicento le lettere della marchesa di Sévigné e di madame de Maintenon. Sono questi due fra gli epistolarî francesi più notevoli di quel secolo e ad essi possiamo aggiungere le lettere del Saint-Evremond. Di carattere più familiare sono invece gli epistolarî del La Fontaine e del Racine. Da ricordare inoltre, tra le più significative, le lettere del La Bruyère, di Fénelon, di madame de Chantal. Anche nel Settecento francese sono da notare gli epistolarî di Voltaire, Fontenelle, Turgot, Mirabeau, Bernardin de Saint-Pierre, Diderot, Montesquieu. ecc. Anche in Italia, durante il Settecento, si abusò quasi della forma epistolare: si pubblicarono lettere didascaliche d'ogni genere, lettere descrittive, e pseudepistolarî erotici, galanti, satirici, capricciosi, e romanzi epistolari. Ma, lasciando da parte per ora queste forme spurie, non dobbiamo trascurare eccellenti raccolte di lettere, curate dagli stessi autori o postume. Gareggiano d'esprit coi più famosi epistolarî francesi del Settecento le lettere in francese del Galiani. Mirabili per forza e schiettezza le lettere del Vico e dell'Alfieri; interessantissime quelle del Metastasio e del Goldoni; belle di composta e arguta grazia quelle del Gozzi, di vivace brio quelle del Baretti. Uno dei più notabili epistolarî del Settecento è costituito da lettere, ancora in gran parte sparse, dell'eroe còrso Pasquale Paoli.
Preziosi documenti di vita e d'arte sono i grandi epistolarî dell'Ottocento: maggiori fra tutti, quelli del Foscolo, del Leopardi, del Mazzini. Notevoli anche quelli del Giordani e del Giusti, ancorché talvolta viziati, l'uno di agghindatezza accademica, l'altro di ricercatezze idiomatiche plebee. Variamente importanti le raccolte di lettere di uomini d'azione (Cavour, Garibaldi, Ricasoli, ecc.), e quelle di molti scrittori (Monti, Manzoni, Gioberti, Capponi, D'Azeglio, Balbo, Guerrazzi, Settembrini, Tommaseo, Amari, Carducci, Massarani, ecc.).
In Germania hanno particolare interesse nel sec. XVIII le lettere di Lessing, nel sec. XIX di Goethe, di Schiller, dei fratelli Schlegel; in Inghilterra quelle di Swift, Pope, lady Montague, lord Chesterfield, Horace Walpole, ecc.
Raccolte di carattere esclusivamente letterario. - Giunta al suo pieno sviluppo letterario, la lettera si emancipa, per così dire, dalla necessità di corrispondere e diventa autonoma, comincia a compiere una funzione particolare. Ciò che per qualunque motivo non poteva essere esposto in libri; ciò a cui si voleva dare, con la relativa brevità dell'esposizione, una diffusione pronta e larga; la polemica svolta pubblicamente, trovarono nella lettera quella forma intermedia fra il trattato e il pamphlet, che fu non del tutto dissimile dalla nostra lettera aperta. Esempio insigne di questo genere furono nel sec. XVII le Lettres d'un Provincial di B. Pascal. Accanto a questa forma si ebbero epistole e sermoni, in prosa o in versi, di carattere familiare, almeno nel tono, e che, dal modello classico di Orazio giunsero, attraverso la satira del Cinquecento, a sviluppi di alta dignità letteraria: qui va ricordato di nuovo il Voltaire, con lui il Boileau e, in Inghilterra, il Pope. Del resto, vere e proprie epistole sono alcuni "sermoni" in forma epistolare del Chiabrera e del Gozzi. Il primo cultore, tra noi, del poemetto lirico-didascalico in forma epistolare e in verso sciolto fu, nel Settecento, Carlo Innocenzo Frugoni. Saverio Bettinelli pubblicò (Venezia 1758), a insaputa del Frugoni e dell'Algarotti, i Versi sciolti di tre eccellenti autori, raccolta delle epistole dei suoi due amici e sue. Dando voga all'epistola poetica già cara al Boileau, egli secondava il gusto del suo secolo ragionatore, al quale il D'Alembert (Dialogue entre la poésie et la philosophie) augurava che l'epistola prendesse il posto dell'ode. Dopo il Frugoni, sono assai frequenti i poemetti lirico-didascalici in forma epistolare: da ricordare quelli di Agostino Paradisi, e, più tardi, d'Ippolito Pindemonte.
Tra le lettere d'origine esclusivamente letteraria sono da porre quelle che formano un seguito di carattere narrativo. Scendono dalle Eroidi di Ovidio: alcune inframezzano il racconto di romanzi, come della Fiammetta del Boccaccio e del Peregrino del Caviceo; altre stanno a sé e formano un vero genere letterario, isolate o riunite in raccolte, d'amore (le Lettere amorose di Alvise Pasqualigo, i Pistolotti morosi di A. F. Doni, ecc.); o scherzose, come quelle del Calmo. Dalle raccolte di lettere di questo tipo nasce il romanzo epistolare, che ebbe gran voga nel sec. XVIII per l'influenza della Nouvelle Héloïse e già prima delle Lettres persanes. Esso fu prediletto da molti scrittori romantici, anche tedeschi: citiamo per tutti l'Iperione di Hölderlin e I dolori del giovane Werther di Goethe, e per l'Italia le Ultime lettere di Jacopo Ortis del Foscolo.
Le epistole in versi sono dottrinali, sentimentali, moraleggianti nel Settecento; quelle familiari discendono da Orazio e si affermano con le satire del Cinquecento. Al modello delle epistole oraziane s'attengono le Épîtres di Nicola Boileau Despréaux (1636-1711), quelle del Pope, del Voltaire. In genere nell'Ottocento, accanto alle lettere di elaborazione letteraria, si ebbero numerosissimi anche gli epistolarî privati e in questo campo è impossibile citare, tanto sono numerosi e, per varî motivi, interessanti o celebri. Le lettere di carattere dottrinale, polemico, letterario furono soppiantate dalle possibilità offerte dai giornali.
Bibl.: H. Baerwald, Für Charakteristik und Kritik mittelalterlicher Formelbücher, Vienna 1858; L. Rockinger, Briefsteller und Formelbücher des XI. bis XIV. Jahrhunderts, Monaco 1863-64; N. Valois, De arte scribendi epistolas apud Gallicos medii aevi scriptores rhetoresve, Parigi 1880; Gh. V. Langlois, Formulaires de lettres du XIIe, du XIIIe et du XIVe siècle, Parigi 1890-99; P. Albert, La prose, Parigi 1870; G. Lanson, Introduction allo Choix de lettres du XVIIe siècle, 15ª ed., Parigi s. a.; G. Rossi, Le autobiografie e gli epistolarî, nella collez. St. dei gentile. lett. ital., che però non va oltre il Mille; G. Fontanini, Biblioteca dell'eloquenza italiana, I, Venezia 1753, con ricca bibliografia degli epistolarî del sec. XVI; G. Natali, Il Settecento, Milano 1929, pp. 1114-18.