Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
A partire da Una stanza tutta per sé di Virginia Woolf, prima riflessione sulla specificità femminile nella letteratura, il Novecento ha visto finalmente l’avvicendarsi di un numero straordinario di scrittrici. I romanzi scandalosi di Colette, le incursioni delle scrittrici futuriste, le riflessioni di teoriche come Maria Zambrano e l’opera di narratrici determinate ad affermare l’identità femminile nella pratica della scrittura, come Hélène Cixous e Christa Wolf, hanno popolato in maniera determinante la letteratura europea di questo secolo.
Generi, androginia e scrittura
Sibilla Aleramo
Una donna
E in una cameretta che affittai accanto ai miei cari, tra una corsa per le lezioni che sono il mio solo mezzo di sussistenza, e una visita all’ospedale, mi sedevo al tavolino per scrivere delle pagine in cui rinnovavo gli appelli già lanciati alla società da ben altri ingegni, ma che io improntavo di lacrime e sangue. [...] Io non domando fama, domando ascolto. [...] Spero qualcosa? No. Forse domani può giungermi una nuova ragione di esistenza, posso conoscere altri aspetti della vita, e provare l’impressione di una rinascita, di un sorriso nuovo su tutte le cose. Ma non attendo nulla. Domani potrei anche morire... E l’ultimo spasimo di questa mia vita sarà stato quello di scrivere queste pagine. Per lui. Mio figlio, mio figlio!
S. Aleramo, Una donna, Milano, Feltrinelli, 1977
Dopo secoli di silenzio coatto, interrotto solo da voci isolate, il Novecento vede finalmente l’affermazione delle donne non solo come soggetto sociale autonomo, ma anche come soggetto di scrittura e produzione culturale, capace di creazione e rappresentazione originali. Il saggio romanzato della scrittrice inglese Virginia Woolf, Una stanza tutta per sé (A Room of One’s Own, 1928), divenuto col tempo un testo sacro del femminismo, è la prima originale riflessione sulla specificità femminile nella letteratura. Attraverso un argomentare che rende conto di ogni passaggio mentale al lettore, la Woolf giunge alla conclusione che una donna non potrà mai essere liberamente creativa senza possedere “una stanza tutta per sé”, ossia una rendita fissa che la sottragga ai ricatti morali, politici e ideologici del mondo maschile. Nato come conferenza sul tema “Le donne e la narrativa”, il saggio colpisce soprattutto per il suo procedere metaforico non convenzionale: la Woolf esorta le donne a scrivere senza dimenticare che la mente dello scrittore è androgina, poiché non esiste una diretta connessione sociale fra identità sessuale e ruolo. L’androginia come potenzialità presente in ogni essere umano è anche al centro del romanzo Orlando (1928), rocambolesco ritratto della vita di Vita Sackville-West, scrittrice lesbica e aristocratica, pubblicato lo stesso anno de Il pozzo della solitudine (The Well of Loneliness) di Radclyffe Hall, censurato dalla polizia inglese per l’esplicito lesbismo della protagonista, ma tutt’oggi importante esempio di narrativa omosessuale femminile. In Orlando la Woolf ripercorre la storia dell’Inghilterra moderna, attraverso i numerosi cambiamenti di sesso e i salti temporali compiuti dal personaggio del titolo. Come in tutta la produzione narrativa della scrittrice inglese, anche in questo romanzo vige l’idea che l’io sia continuamente plasmato dall’esperienza e dal tempo, evidente anche nella scelta stilistica del monologo interiore che fluidifica le rigide forme del romanzo realistico.
A questo filone narrativo è riconducibile anche Dorothy Richardson, autrice di Pellegrinaggio (Pilgrimage, 1915-1938), romanzo in cui l’identità femminile della protagonista, Miriam, si rivela mutevole e fluida, nel passaggio mentale ed emotivo dall’adolescenza alla mezza età. A occuparsi del complesso rapporto donna-creatività è anche la neozelandese trapiantata in Inghilterra Katherine Mansfield, l’unica scrittrice per cui Virginia Woolf dichiara di aver mai provato gelosia. La Mansfield porta a un livello raro di perfezione formale il genere narrativo del racconto, riducendo al minimo l’intreccio per dedicarsi, attraverso lo scandaglio di motivi intimi e delicati, al ritratto di intensi personaggi femminili, come nel racconto capolavoro La festa in giardino (The garden Party, 1922). Se la donna è stata per lungo tempo considerata l’angelo del focolare, le madri sadiche dei romanzi di Ivy Compton-Burnett portano invece alla luce, tra padri padroni e figli relegati, uno spaccato familiare impietoso, dominato da ogni forma di violenza, e chiudono il ciclo anti-vittoriano di demitizzazione della virtù domestica. Tra le intellettuali inglesi più rappresentative della tumultuosa generazione di scrittori degli anni Cinquanta (gli angry young men, gli “arrabbiati”), sulla scia dell’opera di John Osborne, occorre ricordare la romanziera e filosofa Iris Murdoch, che con i romanzi Nella rete (Under the Net, 1956), Il castello di sabbia (The Sandcastle, 1957) e La campana (The Bell, 1959) affronta la tematica dell’amore come capacità di rappresentarsi la realtà degli altri, rivalutando insieme la forma del realismo ottocentesco. Anche l’irlandese Edna O’Brien (1930-) dà voce, con scrittura volutamente semplice e asciutta, a personaggi femminili solo apparentemente antieroici: ragazze di paese, donne che anche quando scelgono – di spostarsi in città, di sposarsi, di studiare – sopportano più o meno docilmente il peso di una educazione miope e di una morale convenzionale, e altre più ribelli e scontente, pronte a pagare il conto. Tutte però, proprio per via di quella naturale insofferenza, possono anche riscattarsi in momenti di assoluta felicità, in tutto somiglianti alle loro idee di amore, amicizia, libertà.
Appartiene invece al filone del romanzo anglosassone cosiddetto postmoderno, la scrittrice Angela Carter, che in La passione della nuova Eva (1997) rappresenta le avventure di Evelyn, personaggio maschile destinato a trasformarsi in donna (Eve) e a subire una complessa iniziazione ispirata ai miti del cinema hollywoodiano, fino a congiungersi con la grande diva Tristessa: come altre opere della Carter (tra cui Le infernali macchine del desiderio, e La donna sadiana), l’affresco narrativo vuole dimostrare che maschile e femminile si definiscono reciprocamente senza che sia la società a darne le regole.
Di una generazione successiva è Jeanette Winterson, che si inserisce nel solco della narrativa femminista a partire dal suo fortunato libro d’esordio Non ci sono solo le arance (Oranges Are Not The Only Fruit, 1985). È però nei romanzi Scritto sul corpo (Written on the Body, 1992) e Simmetrie amorose (Gut Symmetries, 1997) che la scrittrice, attraverso un pastiche di differenti stili narrativi, rimandi intertestuali e interdiscorsivi, mette in crisi le tradizionali categorie di identità e soggettività, facendo emergere la frammentazione del sé femminile associata ai temi del corpo e dell’abbandono amoroso.
Altra protagonista della letteratura anglosassone è Doris Lessing, nata in Iran da genitori inglesi e vissuta sino a 30 anni in Rhodesia. Attraverso i suoi romanzi (oltre una ventina) e i suoi personaggi, si percorrono tratti della vita e della storia che ci appartiene: è una scrittura che non indugia ad alcun virtuosismo, sempre a servizio di una visione intelligente e sensibile di ogni contesto (dai Racconti Africani della gioventù alla Londra degli anni successivi alla contestazione de Il sogno più dolce), situazioni nelle quali privato e politico non sono davvero separabili, come non lo sono le azioni dei personaggi dai sentimenti che li muovono. A differenza di tanta letteratura del Novecento infatti, lo statuto del soggetto – e soprattutto dei personaggi femminili – è nei romanzi della Lessing molto saldo e centrato, e anche quando il racconto gli riserva le prove più dure (la diversità di Ben nel mondo, ad esempio) trova nella scrittura la possibilità di esprimersi compiutamente.
Farsi spazio
In Italia all’inizio del Novecento l’affermarsi della figura della scrittrice suscita qualche reazione da parte dell’egemonia letteraria maschile, disposta a riconoscere alle donne una certa predisposizione lirica ma restia a concedere loro un’autentica capacità narrativa. Ne è esempio il caso dello scrittore Luigi Capuana, che nel 1907 avverte “gli intellettuali mascolini” del “pericolo roseo”, riferendosi a quelle generazioni di scrittrici che, sulla scia del romanzo dannunziano, vanno imponendosi al grande pubblico, destinate, secondo lo scrittore siciliano, a non creare nulla di nuovo: narratrici diverse come Neera, Liala, Carolina Invernizio o giornaliste impegnate come Matilde Serao, in effetti, pur non considerando le donne inferiori agli uomini, prendono parola avvertendo la scrittura come un’attività non femminile e trasgressiva. Di tutt’altro avviso si mostra Sibilla Aleramo, che con il romanzo autobiografico Una donna (1907), intreccia in maniera originale un percorso di autocoscienza e la pratica della scrittura. Quest’opera fa della Aleramo una leggenda del femminismo italiano, per l’aperta denuncia dell’arretratezza e violenza del proprio ambiente sociale e familiare ma soprattutto per la sofferta decisione, narrata minuziosamente nel romanzo, di abbandonare il figlio e il marito per dedicarsi interamente alla propria realizzazione. La Aleramo ha intrecciato per qualche tempo relazioni anche con il futurismo, grazie alla sua storia d’amore con il pittore Umberto Boccioni, allontanandosene però per via della sbandierata misoginia del movimento d’avanguardia. In realtà, nonostante Marinetti identifichi femminile ed estetismo – contro cui si scaglia violentemente – le donne hanno nel futurismo un ruolo non secondario: una delle figure più controverse e originali è sicuramente rappresentata dalla danzatrice astratta e scrittrice parigina Valentine De Saint-Point, autrice del Manifesto della donna futurista (1912), in cui paventa la costruzione di un essere androgino e guerriero, ma anche del più crudele Manifesto futurista della lussuria (1913) che, pur costituendo un esempio scioccante di immagini e proclami violenti, nello stesso tempo anticipa molte delle questioni della teoria femminista contemporanea nel reclamare uno spazio appropriato per la donna all’interno dell’avanguardia. A criticare le posizioni della De Saint-Point ma anche a denunciare il disconoscimento della soggettività femminile, saranno in seguito le donne vicine attivamente nel secondo futurismo, come l’austriaca Rosa Rosà e il suo Una donna con tre anime (1918) e l’italiana Enif Robert, autrice di quello che è forse il più interessante esempio di narrativa futurista femminile, Un ventre di donna. Romanzo chirurgico (1919). Attraverso il racconto di una isterectomia, la Robert approfondisce il rapporto tra la donna e il proprio corpo, trasfigurando creativamente la ferita del ventre, da segno di una femminilità negata, in nuova apertura sessuale. Non si occupa invece della donna, se non all’interno della più ampia cornice della riflessione sul mondo degli oppressi, il premio Nobel Grazia Deledda, più propensa a dipingere un affresco arcaico, e spesso monotono, della sua regione d’origine, la Sardegna. Molti sono invece i nomi di scrittrici di rilievo che si affermano nel panorama italiano del secondo dopoguerra. Tra le più note Anna Maria Ortese, oscillante tra i modi fiabeschi del realismo magico e le crude rappresentazioni della realtà popolare. Nei suoi visionari racconti e romanzi viene deformato anche il femminile, che assume i tratti meravigliosi e mostruosi della protagonista de L’iguana (1963), emblema della condizione dello scrittore-donna, che la Ortese sente come condannata a essere “una bestia che parla”. Magmatico e a tratti allucinato è anche il romanzo autobiografico Il porto di Toledo (1975), che rievoca la formazione letteraria della scrittrice negli anni napoletani con il senso dolente della propria marginalità di scrittrice alla ricerca di una propria libertà creativa. Anche Elsa Morante, forse la più importante narratrice italiana del Novecento, è prossima all’esperienza del romanzo magico, centrato sui temi del favoloso e dell’infanzia, spesso resi con toni allucinati come in Menzogna e sortilegio (1948), nel quale si narra la decadenza di una famiglia borghese dal punto di vista di una donna reclusa nella sua stanza. Il tema della solitudine e dell’esclusione dal mondo saranno al centro anche degli altri romanzi della scrittrice romana, L’isola di Arturo (1957) e Aracoeli (1982), in cui si percepisce il tentativo di ricostruire un mondo emotivo e memoriale dominato dall’assenza della madre.
Più interessata alle dinamiche psicologiche familiari appare, invece, Natalia Ginzburg, capace di ricostruire, utilizzando un linguaggio spoglio ed essenziale, i complessi rapporti domestici, i conflitti e l’incomunicabilità del mondo borghese. Militante e teorica del femminismo è stata poi Dacia Maraini, che a partire dal romanzo L’età del malessere (1963), utilizza il corpo della donna come materia letteraria, con risultati più convincenti in prosa che in poesia. Di tutt’altro spessore risulta invece l’opera di Amelia Rosselli, tra le voci poetiche più originali del secondo Novecento, insieme a quelle di Alda Merini, Antonella Anedda, Patrizia Valduga. I temi posti al centro della sua produzione a partire da Variazioni belliche (1964), sono la sessualità, la violenza e il corpo femminile: la relazione erotica tra il sé e l’altro è vissuta come un rapporto dialettico privo di sintesi, sviluppato attraverso gli slittamenti fonici e semantici di una lingua in continua costruzione, che si espande per lapsus, allitterazioni e rimandi all’inglese e al francese.
Il corpo della scrittura, il corpo femminile
Particolarmente intensa è stata la fioritura di pensiero e letteratura al femminile in ambito francese, a partire dalla figura di Sidonie-Gabrielle Colette, autrice estremamente prolifica destinata a incidere profondamente sulla cultura francese del Novecento. Dotata di una fervida immaginazione e di una acuta capacità di introspezione psicologica, in romanzi come La vagabonda (La vagabonde, 1910), Chéri (1920), Il grano in erba (Le blé en herbe, 1923) e La gatta (La chatte, 1933), Colette affronta il tema delle gioie e dei dolori d’amore femminili in un mondo dominato dal maschile, generando non pochi scandali per via dei suoi personaggi di bassa estrazione, spesso cocottes, bisessuali e gigolo. Mossa da “un bisogno membruto di scrivere”, Colette pubblica oltre 50 libri ottenendo alla sua morte l’onore dei funerali di Stato, a oggi gli unici concessi a una donna.
Raffinatissima la scrittura di Irène Némirovsky, nata a Kiev da una ricca famiglia ebraica nel 1903, e poi emigrata con i genitori nel 1918 in Finlandia, poi in Svezia e infine in Francia. L’autrice è tornata alla notorietà presso il grande pubblico attraverso Suite francese (2005), che raccoglie le due parti realizzate del grandioso ritratto (previsto in cinque parti) pensato per raccontare la Francia confusa degli anni dell’occupazione nazista, tema strettamente e drammaticamente connesso alla storia della Némirovsky, deportata e morta ad Auschwitz nel 1942. A Parigi ha ottenuto un certo successo sia come sceneggiatrice cinematografica sia come autrice di brevi romanzi, scrivendo in una lingua francese resa sensibile da una diretta e profonda formazione sulla lingua e la letteratura russa.
Fama internazionale ottiene anche Simone de Beauvoir, autrice del celebre Il secondo sesso (Le deuxième sexe, 1948), che segna una rivoluzione nella riflessione e nell’azione femminista. Questo poderoso saggio ottiene da subito un’enorme risonanza: la donna, sostiene la De Beauvoir, non esiste, perché ciò che si indica come donna non è che il risultato del pensiero maschile. Il nuovo compito della donna è dunque conoscere se stessa, la propria individualità, per liberarsi dall’alienazione delle identità attribuitele dalla cultura ufficiale e rifiutarsi di essere l’Altro dell’uomo. In quegli anni, secondo la scrittrice, la verità della donna non può essere colta in una forma definitiva ma solo raccontata, di modo che siano le donne stesse a comunicare ciò che è la donna. L’autonarrazione si impone infatti anche nel suo romanzo del 1958, Memorie di una ragazza per bene (Mémoires d’une jeune fille rangée), che, partendo dall’analisi della propria educazione classica e cattolica, arriva a ricostruire il percorso umano e intellettuale della De Beauvoir. Non direttamente interessata alla questione femminile è la filosofa francese Simone Weil, autrice anche di poesie, divenuta in seguito una delle autrici di riferimento del cosiddetto pensiero della differenza sessuale, che ha scorto nella sua filosofia una riflessione autonoma dell’identità femminile. È a partire dagli anni Settanta che si sviluppano in Francia il concetto e la pratica più radicale di écriture féminine, facendo anche tesoro dell’esperienza di scrittrici d’avanguardia. Tra queste Nathalie Sarraute, antesignana del nouveau roman con la sua raccolta di brevi prose Tropismi (Tropismes) del 1939, in cui registra in presa diretta eventi e stati psichici eludendo ogni forma di realismo, e Marguerite Duras, che all’inizio degli anni Cinquanta si cimenta in romanzi e opere cinematografiche che mettono in discussione le convezioni narrative e linguistiche, tanto che i suoi personaggi femminili taciturni e la sua sperimentazione narrativa sono stati letti dalla critica femminista come espressione di alienazione e resistenza alle norme linguistiche patriarcali. A dispetto delle ondate di sperimentazione, la forma romanzo sopravvive nella prosa aristocratica di Marguerite Yourcenar, prima accademica di Francia, che in Memorie di Adriano (Mémoires d’Hadrien, 1951) e L’opera al nero (L’œuvre en noir, 1968), propone una concezione filosofica della letteratura, volta a indagare il tema della diversità, seppur dalla prospettiva di personaggi maschili. Sarà invece una scrittrice e teorica lesbica come Monique Wittig, a partire da L’Opoponax (1964) e Le guerrigliere (Les Guérillères, 1969), a mettere al centro della propria riflessione e scrittura il corpo lesbico, in quanto unica figura libera dalla colonizzazione patriarcale. Nelle sue prove narrative, la Wittig tenta un radicale attacco alle strutture della lingua francese, attraverso l’uso di forme femminili al posto del dominante pronome maschile il, e uno smembramento di tutte le convenzioni narrative, con l’obiettivo di rendere conto di un linguaggio che possa esprimere la totalità dell’esperienza del soggetto. Interessante anche il lavoro di scrittura di Hélène Cixous, che stabilisce un forte legame tra corporeità, soggettività, linguaggio e condizione femminile, confondendo i confini tra pubblico e privato, tra Storia e storia personale. A partire dagli anni Sessanta il soggetto della scrittura è per la Cixous un corpo scrivente sottoposto a un’indagine inesausta, in opere che si configurano come luogo concreto di iscrizione della differenza e del femminile.
Prospettiva necessaria
Anche la letteratura in lingua tedesca ha conosciuto in questo secolo una notevole fioritura di nomi di scrittrici, a partire da Lou Andreas-Salomé (1861-1937), saggista tedesca di origine russa, celebre per le sue relazioni sentimentali con alcune delle menti più brillanti della sua epoca: Nietzsche, Freud, Rilke. La riscoperta dei suoi scritti, dall’interessante impianto autobiografico, e in particolare il suo epistolario, è relativamente recente e ha rivelato notevoli punti di riflessione autonoma sia sui fermenti di fine secolo sia sulla condizione della donna intellettuale nella società. L’avvento del Terzo Reich costringe molte scrittrici di origine ebraica all’esilio, tra esse la filosofa Hanna Arendt, destinata a un enorme successo anche nella rilettura femminista del suo pensiero politico, e le poetesse Else Lasker-Schüler e Nelly Sachs. Quest’ultima, premio Nobel nel 1966, è una delle voci più autentiche della letteratura contemporanea, autrice di liriche dolenti e meditatissime sul destino del popolo ebraico, più vicine ai salmi vetero-testamentari che alla tradizione poetica tedesca. Altre scrittrici di rilievo hanno fatto parte del cosiddetto Gruppo 47, movimento d’avanguardia politico e letterario, tra esse merita particolare rilievo l’austriaca Ingeborg Bachmann, autrice di raffinatissime raccolte di racconti (Il trentesimo anno, 1961 e Tre sentieri per il lago, 1972), di poesie e del romanzo Malina (1971). La complessa prosa della Bachmann, considerata dalla critica l’erede di Musil, coniuga il profondo disagio storico della generazione del dopoguerra con quello esistenziale, vissuto in prima persona dall’autrice e al centro delle minute analisi psicologiche dei suoi personaggi. Politicamente impegnata e acclamata dalla critica femminista per le sue profonde rivisitazioni del mito greco, è anche la scrittrice della ex Germania Est Christa Wolf, autrice di numerosi romanzi: tra i migliori ricordiamo Riflessioni su Christa T. (Nachdenken über Christa T., 1968), incentrato sul tema della rassegnazione riletto in chiave femminista, e il più famoso Cassandra (Kassandra, 1983), in cui, attraverso la voce della profetessa greca, che la scrittrice vede come il prototipo femminile dell’intellettuale, la Wolf delinea una complessa analisi del militarismo maschile e una critica al modello occidentale. Troia, infatti, brucia sotto il peso trionfale della società patriarcale greca: a Cassandra non resta che rivolgere lo sguardo su se stessa e sulle donne, in una città che piega il femminile alle sue leggi. L’unico uomo per cui la protagonista del lungo monologo prova un forte trasposto sentimentale è Enea, continuamente assente, a manifestare un mondo maschile alternativo che non incontra forme né parole per manifestarsi. Con l’inaspettata vittoria del premio Nobel, anche l’austriaca Elfriede Jelinek ha consolidato una fama cresciuta in seguito a notevoli prove drammaturgiche e narrative, come nel caso del romanzo La pianista (Die Klavierspielerin, 1983), da cui nel 2001 Michael Haneke ha tratto un adattamento cinematografico. Il libro è il crudo racconto di una relazione sado-masochistica tra un’insegnante di pianoforte e il suo allievo, che rivela in realtà un universo di sopraffazioni e una spietata critica alla società contemporanea. Altrettanto intensa è la narrazione con cui la scrittrice ungherese Magda Szabó tratteggia, nel romanzo La porta (1987) la figura della serva Emerenc, le cui vicende accompagnano la storia recente dell’Ungheria, in un crescendo di rivelazioni che svelano il rapporto tra due donne collocate agli opposti della scala sociale.
La situazione della Spagna, nonostante oggi si contino numerose scrittrici di talento, ha subito un notevole ritardo nell’affermazione del ruolo culturale della donna a causa della guerra civile e poi del regime franchista. Un’eccezione interessante è rappresentata dalla filosofa, già allieva di José Ortega y Gasset, Maria Zambrano. In tutta la sua vasta produzione filosofica, la Zambrano testimonia con il suo essere donna che pensa e scrive le molteplici potenzialità della vita condannate al silenzio, esperibili attraverso quella che chiama, nel saggio del 1939 Filosofia e poesia (Filosofía y poesía), la “ragione poetica”: un metodo di pensiero che conduce a un universo di conoscenza alternativo alla filosofia occidentale. Spesso preoccupata della condizione femminile, la Zambrano denuncia l’esclusione delle donne dai luoghi del sapere, la mancanza di riconoscimento della loro voce, l’incapacità umana di far propria la forza vitale e rivoluzionaria dell’amore depotenziato dalle regole sociali. È a figure del mondo greco come Antigone e Diotima, che la filosofa si rivolge per ritrovare un sapere “aurorale”, perché esse, a differenza di tanti eroi maschili, sono state capaci dell’atto creatore che è l’offerta di sé. A reagire all’orrore della guerra e alla repressione franchista saranno anche narratrici come Mercè Rodoreda e Carmen Laforët, impegnate a riformulare i modi maschili del romanzo di formazione con l’intenzione di comunicare l’esperienza delle donne al tempo del regime. Ne è esempio il romanzo Nada (1944), considerato il capolavoro della Laforët, che racconta la storia della giovane Andrea in una Barcellona sconvolta dalla guerra. Tra le scrittrici più interessanti della generazione postfranchista occorre ricordare Esther Tusquets, che nei primi anni Ottanta sconvolge il pubblico spagnolo per la sua maniera esplicita di affrontare la sessualità femminile e lesbica, e Rosa Montero, che con Cronaca del disamore (Cronica del desamor, 1979) si concentra su temi femminili come la contraccezione, l’aborto e la maternità, considerati tabù sotto il regime di Franco.
Un posto di riguardo nella narrativa europea del Novecento spetta anche alla danese Karen Blixen, che si autorappresenta in veste di una moderna Sheherazade (la protagonista de Le mille e una notte), per la sua determinazione nel narrare e rinarrare storie, anche da diverse angolazioni, per fare emergere la trama del vissuto personale attraverso i propri personaggi, come in Sette storie gotiche (Seven Gothic Tales, 1934). Il suo capolavoro resta però il romanzo, pudicamente autobiografico, La mia Africa (Out of Africa, 1937) in cui la Blixen rievoca i suoi anni trascorsi in Kenya, tra il fallimento del progetto di dirigere una piantagione di caffè, ostinatamente perseguito, e il dramma della storia d’amore con un aviatore inglese.
In Russia le voci femminili più importanti sono quelle di Anna Achmatova e di Maria Cvetaeva. Dopo una prima militanza tra le file dell’avanguardia russa di inizio secolo, la Achmatova si fa autrice di una poesia dal taglio intimistico e discorsivo di grande originalità, spesso incentrata su tematiche amorose, affrontate con grande incisività. La Cvetaeva, invece, autrice di una importante riflessione sulla condizione femminile, Lettera a un’amazzone, conduce una vita da esule per l’accusa di dissidenza politica: la sua poesia, segnata da una visione profondamente tragica della vita e dei rapporti umani, è tra le testimonianze più intense del Novecento. Appartata anche dopo la vittoria del Nobel nel 1996, resta quella che si è rivelata una delle voci liriche più amate della letteratura slava, la polacca Wislawa Szymborska, che invita, attraverso una poesia meditata ma colloquiale, a prendere coscienza dei limiti dell’esistenza umana. La sua vena lirica si fonda su una presa di contatto diretto con la realtà, resa nelle forme più dimesse, domestiche e quotidiane, osservate con una tagliente ironia che svela il ridicolo delle convenzioni e porta a riflettere sulla transitorietà della vita di tutti noi.