Scrivere per il teatro
Un luogo della letteratura
Nella seconda metà del Novecento, la relazione tra drammaturgia letteraria e teatro non ha smarrito il senso della narrazione e della rappresentazione del mondo, ma ne ha trasformato le modalità. La scrittura drammatica si è inesorabilmente dissociata, per consunzione del genere nelle opzioni letterarie e per trasferimento delle tecniche di narrazione sceneggiata verso i linguaggi e i requisiti tecnici dell’audiovisivo, dagli schemi e dalle strutture di ambientazione e dialogo che hanno caratterizzato per due secoli la complementarità e la concorrenza tra romanzo e dramma. La scrittura per il teatro ha prodotto intorno al 2000 una parola localizzata, che individua nella situazione scenica il suo approdo o il suo ambiente genetico, che non imita più il dialogo e il timbro della conversazione ma sviluppa l’invenzione scritta dell’oralità con formule molteplici e originali, riattivando la connessione tra parola letteraria e realtà scenica. La marginalità attuale del teatro nell’universo dello spettacolo e l’originalità della relazione teatrale rispetto alla circolazione dei messaggi in canali tecnologicamente più potenti hanno instaurato nuovi fondamenti e nuove appartenenze. La letteratura teatrale, sopravvissuta alla crisi e all’estinzione della drammaturgia come genere, è stata e continua a essere uno strumento coltivato e diffuso nelle pratiche perché consono all’economia espressiva dello spettacolo dal vivo. Il teatro plasmato da una matrice letteraria resiste come una realtà dominante in culture e forme organizzative distanti, dall’Europa centrale alle drammaturgie nazionali africane. Nello stesso tempo, l’identità linguistica che fonda la drammaturgia letteraria la caratterizza come un fenomeno le cui manifestazioni non sono universali, ma naturalmente aderenti all’idioma e al contesto culturale che le producono e che le intendono. La letteratura teatrale appartiene a una provincia riconoscibile e trasversale della letteratura e a una dimensione parziale, regionale del teatro, che però cerca orizzonti transculturali e nuovi territori nelle dimensioni globali del mondo attuale. La parola del teatro si espone e risuona in una situazione personale, soggettiva, legata a una sfera concreta e localizzata, in cui convergono la prospettiva dell’autore e la presenza dell’attore. Nella gamma dei linguaggi e delle tecniche espressive, la drammaturgia letteraria è diventata, in termini fisici e concettuali, un luogo e una dimensione specifica di presenza della letteratura (alternativa rispetto alla lettura del libro e di altri supporti) che si emancipa, radicandosi in spazi vitali determinati, dalla soggezione all’immagine e ai nuovi media, e si concentra nell’ascolto di una fonte che reinventa la presa della parola sulla realtà nella relazione con gli attori e con il pubblico.
Tra le esperienze europee che più consapevolmente hanno praticato e trasportato la nuova identità della drammaturgia letteraria dai presupposti novecenteschi nel nuovo secolo, la parabola che meglio esprime la nuova appartenenza del dramma alle posizioni della letteratura, la più rappresentativa per le fonti e le direzioni, è, nell’ambito della sua multiforme attività, la persistente produzione per il teatro della scrittrice austriaca Elfriede Jelinek (n. 1946), moltiplicatasi per testi e rappresentazioni nell’ultimo decennio.
Dopo l’assegnazione del premio Georg Büchner (il più importante riconoscimento per la letteratura in lingua tedesca) nel 1998, e dopo il conferimento del premio Nobel per la letteratura nel 2004, anche in relazione alle pubbliche prese di posizione contro i movimenti nazionalisti interni, la drammaturgia della Jelinek ha conquistato visibilità e frequenza nel repertorio dei teatri dell’Europa centrale, da Vienna a Zurigo, da Berlino ad Amburgo, all’interno di un sistema caratterizzato dalla costante produzione di drammaturgia letteraria e dall’equilibrio tra riscritture del repertorio classico e novità. La cronologia recente della Jelinek, dopo il monologo Das Lebewohl (2000; trad. it. L’addio: la giornata di delirio di un leader populista, 2005), che mette in scena la presenza del leader neonazionalista Jörg Haider, comprende la prima rappresentazione a Zurigo (11 marzo 2001) di Macht Nichts. Eine kleine Trilogie des Todes (1999; trad. it. Fa niente. Una piccola trilogia della morte, 2005); In den Alpen (2002) e Das Werk (2003), dittico ecologista sulle conseguenze distruttive dell’economia turistica; Bambiland (2004; trad. it. 2005), monologo che si ispira ai Persiani di Eschilo e al linguaggio dei media di massa per dare voce, con un preciso dosaggio di ironia e di veemenza, alla potenza distruttiva della seconda guerra del Golfo e dell’egemonia statunitense. La rappresentazione verbale dei totalitarismi novecenteschi, dal nazismo al consumismo, il consistente filo di tirannie familiari, economiche e sessuali che alimenta la continuità della teatrografia della Jelinek, costituiscono anche lo sfondo su cui si muovono le figure femminili protagoniste, tra fiabe e celebrità mediatiche, del ciclo di dialoghi Der Tod und das Mädchen I-V: Prinzessinnendramen (2003; il primo dei dialoghi costituisce la seconda parte della trilogia Macht Nichts ed è stato tradotto in italiano in Fa niente. Una piccola trilogia della morte con il titolo La morte e la fanciulla). Mentre la critica della violenza non risparmia il mito rivoluzionario della Rote Armée Fraktion in Ulrike Maria Stuart (2006). Nella produzione complessiva della Jelinek, tra narrazioni e drammi, la civiltà europea viene rappresentata, mediante parabole, monologhi, personaggi simbolici, attraverso espressioni patologiche dei valori che ne hanno dominato il pensiero e la vita quotidiana. Il discorso letterario dell’autrice è un discorso di verità in quanto emanazione diretta di una dominazione mitologica e linguistica, in cui le vittime parlano e condividono la lingua e i valori dei carnefici, e i devianti parlano il discorso dell’ordine e ne esemplificano la potenza senza alternative. In questa liturgia del consenso e della complicità inevitabili, la tensione ideologica riesce a sottrarsi pienamente al didascalismo quando la potenza immaginativa anima un profilo di sopravvissuto-complice, come il protagonista dell’ultimo pannello di Macht Nichts, Der Wanderer (Il viandante, che è in realtà un ritratto della figura paterna della scrittrice) in cui, sullo sfondo dell’evocazione dei versi dei Lieder schubertiani, il dilemma romantico di casa e vagabondaggio è rivissuto nell’alternativa di sopravvivenza, follia e acquiescenza allo sterminio che ha segnato il destino dell’uomo europeo nel 20° secolo. L’abilità verbale dell’autrice culmina nell’invettiva allo stesso tempo solenne e grottesca di Bambiland, anatema della distruzione contro il mondo inerme e straniero che le si oppone. La fisionomia dei testi della Jelinek prevede l’abrogazione delle strutture drammatiche tradizionali e risulta caratterizzata negli ultimi anni dall’assenza di dialogo, dall’eliminazione della psicologia, dall’ostentato montaggio di citazioni e dalla successione di soliloqui affidati a figure simboliche. Fra gli ascendenti, è evidente l’impronta del moralismo paradossale di Thomas Bernhard (1931-1989) e l’abolizione della struttura dialogica operata da Heiner Müller (1929-1995). Dietro l’ambizione della Jelinek a trasferire nella sua personale adozione del mezzo teatrale la rappresentazione del mondo attuale si delinea l’ambiguo rapporto con il percorso che da Johann Christoph Friedrich Schiller, passando attraverso Bertolt Brecht, conduce fino a Müller, nell’intreccio tra teatro, etica e potere.
Abbiamo dedicato ampio spazio al caso Jelinek perché si tratta dell’espressione più alta dell’autocoscienza dei poteri e dei limiti della letteratura nelle forme complesse di una civiltà teatrale evoluta. A essa possono essere accostate altre esperienze europee affini, altrettanto consapevoli dell’ambiguità della forza genetica della drammaturgia letteraria. La consapevolezza che quest’ultima può continuare a generare teatro, se il teatro viene inteso come luogo in cui si concentra e si sovraespone la scrittura, è alla base di soluzioni altrettanto sintomatiche e alte nei testi dell’inglese Tim Crouch e dello spagnolo Juan Mayorga.
La situazione della drammaturgia inglese tra la fine del 20° e gli inizi del 21° sec. risente dell’eredità di un decennio di dirompente novità espressiva, che ha visto una generazione di ventenni affermarsi nella proclamazione del teatro come zona di eruzione della parola che scaturisce dalla violenza del reale, come zona franca conquistata nella rottura delle convenzioni sociali ed espressive. Gli anni Novanta del teatro britannico hanno vissuto l’esplosione del fenomeno che è stato battezzato dal critico Aleks Sierz come In-yer-face theatre, titolo di un saggio del 2001 e di un sito continuamente aggiornato sulla produzione drammatica, ispirato a un’espressione idiomatica che indica la violenza della comunicazione diretta, la trasgressione e l’oltranza nei comportamenti. La rivoluzione degli anni Novanta riprendeva in realtà un ritmo di ondate generazionali innovative che ha caratterizzato nel secondo Novecento il legame costante tra ricerca e profondo rinnovamento del repertorio nel sistema teatrale britannico. La violenza dei contenuti e l’aderenza estrema alla lingua parlata che hanno permeato l’ultimo scorcio del secolo scorso, e che hanno visto in Sarah Kane (1971-1999) e in Mark Ravenhill (n. 1966) i più riconosciuti alfieri di questa impostazione, rivelano in questi primi anni del 21° sec. nuove capacità di articolazione narrativa, come quelle espresse da Mike Bartlett (n. 1980) con i successi di My child (2007) e Artefacts (2008), e scoprono una tendenza a soluzioni formali più incisive e radicali, come nel dialogo essiccato e nelle serrate composizioni di Debbie Tucker Green (Dirty butterfly, 2003; Stoning Mary, 2005), passando per l’indubbia influenza di una personalità attenta alle ragioni e ai giochi del montaggio, come quella di Martin Crimp (n. 1956), la cui opera più complessa e rappresentativa, Attempts on her life, è del 1997. La figura che nelle ultime stagioni ha dimostrato maggiore originalità e abilità compositiva è quella dell’attore Tim Crouch, affermatosi nella scrittura di drammi con My arm (2003) e An oak tree (2005). Nella visione analitica di Crouch, che dichiara di voler indurre nello spettatore un atteggiamento mentale analogo a quello richiesto dalle arti visive contemporanee (An oak tree è il titolo di un’opera concettuale dell’artista Michael Craig-Martin del 1973), il testo non crea una situazione drammatica, ma il rapporto tra testo e storia narrata è costruito come l’ascolto indiretto di una situazione esplicitamente rappresentata attraverso oggetti, filmati o nuclei elementari di espressione teatrale, su cui si ribalta in termini labili e discontinui la profondità del racconto. Il risultato è una sorta di neopirandellismo che non mette in crisi i modi della finzione ma ne moltiplica i livelli e le direzioni, smascherando e rigenerando la relazione tra scrittura che ispira la parola e presenze di corpi e oggetti. L’incrocio tra racconto e percezione del gesto artistico è implicito nella situazione estrema di My arm, in cui un trentenne racconta la sua vita trascorsa dall’età di dieci anni con un braccio alzato, gesto gratuito che lo ha trasformato nel tempo in un caso clinico, e poi in un’icona del mercato dell’arte. Nella complessa e cerebrale invenzione di An oak tree, uno dei due attori protagonisti (che ovviamente cambia in ogni rappresentazione) non deve aver letto il testo prima della rappresentazione e deve recitare la sua parte leggendola o ascoltandola suggerita dal partner, che interpreta il ruolo di un ipnotizzatore. Lo squilibrio delle due parti è reso verosimile dalla simulazione della relazione ipnotica e, a sua volta, la relazione ipnotica tra i due attori simula, nel cerchio della finzione, la fatale connessione tra due personaggi che hanno un comune e tragico legame, un incidente automobilistico, di cui uno, l’ipnotizzatore, è il responsabile, mentre l’altro è il padre della vittima. Crouch dissolve e smaschera le convenzioni della rappresentazione insite nella struttura drammatica e nella imposizione del testo, lavora nel cerchio inquietante dell’analogia tra ipnosi e illusione scenica, ma, grazie alla situazione ideata per l’attore che non conosce la sua parte, cerca di far scaturire una nuova verosimiglianza dalla suggestione narrativa della messa in scena. Lo conferma il recente England (2007), che viene rappresentato in mostre d’arte contemporanea e racconta il mercato dell’arte come espressione dell’egoismo e della vacuità del mondo occidentale, in un audace intreccio che lo mette in connessione con lo sfruttamento neocoloniale, il conflitto di civiltà e il commercio degli organi.
Un’affine, ambigua concezione di straniamento tra espressione letteraria e costruzione drammatica ricorre, in ambito spagnolo, nei testi redatti negli ultimi anni da J. Mayorga (n. 1965). Alla base della progressiva notorietà europea di questo autore vi è lo studio di un singolare equilibrio tra conservazione critica di strutture drammatiche tradizionali e meccanismi di composizione di realtà psicologiche e materiali. Nei drammi più significativi, il senso della vicenda sta nella possibilità di indagare la produzione del sociale e delle identità. La parola che nel teatro modella la finzione diventa la lente per indagare e descrivere le relazioni umane come artificio, e per analizzare la composizione della realtà come processo. L’abilità di Mayorga consiste nel conservare le apparenze e l’andamento del genere drammatico, portandone la sostanza a contatto con la materia della finzione ideologica e sociale, in un clima di incertezza e mistificazione logica e morale. I testi prodotti da questa raffinata idea di drammaturgia sono Himmelweg (2004), in cui viene ricostruita la finzione della città-modello in un campo d’internamento nazista; lo studio delle geometrie asimmetriche di potere e sapere condensate in Animales nocturnos (2003), in cui un intellettuale sans papier viene ricattato dal suo vicino di casa; e Hamelin (2005), che tratta le ambiguità del rapporto tra indagine giudiziaria e pedofilia. Inventando una storia di relazioni personali innescate dai temi di uno studente e dalle letture del suo professore, Mayorga ha raggiunto livelli di virtuosismo cervantino nel duplicare e ribaltare la dinamica di scrittura e creazione scenica con El chico de la última fila (2006; tutti e quattro i testi sono stati tradotti in italiano in J. Mayorga, Teatro, 2008).
Lo specchio africano: contaminazioni postcoloniali
Esperienze totalmente eterogenee rispetto al neopirandellismo europeo, e profonde quanto il teatro estraniato e concettuale di Jelinek, emergono nella produzione drammaturgica africana degli ultimi decenni. La scrittura per il teatro è in questo contesto l’inevitabile riflesso della ricezione dei modelli plurisecolari della drammaturgia europea. La drammaturgia letteraria è infatti in sé, per le tradizioni rappresentative e per le forme di narrazione orale delle culture africane, un dato linguisticamente e culturalmente straniero, acquisito durante il processo di colonizzazione, imposto dall’identità dell’invasore e rielaborato nelle reazioni e nelle sintesi delle culture colonizzate. Nell’interazione tra mimetismo, negazione e appropriazione che caratterizza la trasformazione postcoloniale delle dinamiche interculturali africane, la drammaturgia letteraria si rivela un fenomeno di enorme rilevanza, sia metodologica sia sostanziale, per lo studio delle relazioni tra culture diverse nella contemporaneità. Vere e proprie tradizioni drammaturgiche nazionali, che si riflettono a loro volta nelle culture e nelle declinazioni artistiche della diaspora, hanno acquisito (dalla Nigeria al Kenia, dal Congo al Senegal) un posto centrale, evidente nell’imponenza della produzione anglofona e francofona, oppure hanno trasferito nelle lingue regionali e nazionali africane repertori basati sull’assimilazione delle forme drammatiche di matrice europea.
In una situazione come quella nigeriana si rileva l’affermazione e la persistenza di una produzione che, pur nelle difficoltà causate dal riflusso economico e dalla pressione dei regimi politici, dopo le generazioni di Wole Soyinka (n. 1934) e di Femi Osofisan (n. 1946), ha perseguito e conservato la ricerca del valore del teatro e l’affermazione quasi illuministica circa la necessità della drammaturgia come forma di sintesi e di espressione della molteplicità delle culture regionali. Figure di autori-registi o drammaturghi intellettuali come Sam Ukala, Olu Obafemi, Ahmed Yerimah, Bayo Faleti, insieme con la vasta gamma delle contaminazioni tra espressioni performative autoctone ed esperienze recenti del teatro politico, continuano a coltivare un sapere specifico e problematico, a impersonare una concezione ambiziosa della presenza sociale dello scrittore di teatro (cfr. Inegbe 2004), tipica di un contesto che si presenta come un emisfero sommerso del teatro planetario. In tale contesto le scritture per il teatro si confrontano e si fondono in termini originali con le forme di produzione televisiva e cinematografica e alimentano, nelle diffuse iniziative attivate per la lotta contro l’AIDS e nelle politiche dell’educazione, l’uso didattico e sociale dell’espressione teatrale (cfr. African drama and performance, 2004).
Le intersezioni e le contaminazioni della situazione postcoloniale si riflettono e si esprimono chiaramente nella drammaturgia francofona, particolarmente nell’area subsahariana. Tra le personalità ormai stabilmente insediate nella produzione dei teatri francesi va ricordato José Pliya (n. 1966 a Cotonou, Benin), che nel 2003 ha ricevuto il Prix du jeune théâtre André Roussin de l’Académie française per Le complexe de Thénardier (2001), in cui il modulo classico del rapporto tra padrona e serva diventa il compendio delle relazioni di potere esasperate nella lotta per la sopravvivenza e nei conflitti di civiltà. Innovazioni e contaminazioni linguistiche più rilevanti si innervano nella scrittura di Koffi Kwahulé (n. 1956 ad Abengorou, Costa d’Avorio) che, dopo l’affermazione di Jaz (1998; trad. it. 2002), ha prodotto opere complesse come Big shoot e P’tite souillure (entrambe del 2000; trad. it. Big shoot, Porcellina, 2006). Il lavoro di Kwahulé è esplicitamente ispirato all’improvvisazione musicale e alla ricerca ritmica nell’elaborazione della polifonia del testo; o all’interferenza di danza e dialogo come irruzione del sostrato espressivo delle tradizioni africane, come nel caso di P’tite souillure. Si tratta di una tensione evidente che consente di realizzare un’appropriazione delle geometrie strutturali del dramma contemporaneo (da Jean Genet, a Samuel Beckett a Harold Pinter, con un evidente richiamo a Bernard-Marie Koltès per quanto riguarda la produzione francese più recente), proiettandole in picchi di sperimentalismo sintattico e fonetico. La studiata adozione delle matrici della drammaturgia occidentale di fine Novecento diventa significativa revisione della civiltà europea dal punto di vista di un altro universo culturale, come in Le masque boîteux (2003), che rivive dall’osservatorio delle culture colonizzate la catastrofe della Seconda guerra mondiale.
L’interculturalismo come base per il rinnovamento del potere narrativo del teatro è impersonato, nella drammaturgia francofona, dalla complessa personalità di Wajdi Mouawad (n. 1968 in Libano), autore, regista teatrale e attore, immigrato in Québec nel 1983 e diplomatosi nel 1991 all’École nationale de Théâtre du Canada, attivo come regista dal 1990. La drammaturgia matura di Mouawad, legata alla sua attività di regista e direttore di teatri, e tradotta e rappresentata anche in inglese, racconta vicende palesemente legate a tratti fondamentali della sua biografia. Nei suoi testi il dramma familiare si dilata nella Storia globale. Un adolescente profugo dal Libano torna da Montréal a Beirut devastata dalle guerre per seppellire il padre (in Littoral, 1999, per il quale ha vinto e rifiutato il Prix Molière e che ha adattato e diretto per il cinema nel 2004). Due fratelli, mandati dalla madre morente alla ricerca del padre e del fratello dispersi, ritornano dal Canada in Libano (in Incendies, 2003). In Forêts (2006), il romanzo familiare diventa la visione di una genealogia simbolica, che risale alle violenze e ai rivolgimenti della storia europea percorrendo a ritroso la sequenza delle epoche e delle generazioni. Come nelle parabole di Kwahulé, i romanzi scenici incentrati sulle famiglie devastate di Mouawad offrono un punto di vista transculturale in cui l’Europa rivive i suoi riti teatrali e la sua memoria storica.
Il teatro continua a raccontare il mondo
Nelle invenzioni di Mouawad il respiro narrativo della tradizione drammaturgica europea viene contaminato e sostenuto con piglio romanzesco da un nuovo equilibrio tra storia del nucleo familiare e vicende globali. Nello scenario mediterraneo, un altro caso di notevole rilievo è l’apporto dato dalla letteratura algerina alla drammaturgia francofona con Mohamed Kacimi (n. 1955). Partendo anch’egli dalla catastrofe libanese, ha realizzato uno dei maggiori successi del Festival di Avignone del 2007, Le jour où Nina Simone a cessé de chanter (scritto con e per l’attrice Darina Al-Joundi), nel quale la tragedia si incarna nella storia privata di una donna figlia di un intellettuale in conflitto con la tradizione, che paga il prezzo della libertà sessuale, politica, sociale e religiosa. Nel 2007 Kacimi ha scritto Nuits à Bagdad, rilettura delle Mille e una notte alla luce della guerra in ῾Irāq. Qu’elle aille au diable, Meryl Streep! è invece un testo del 2008 che ancora una volta indaga i nodi problematici di una cultura che, fra guerra ed esilio, vive nella quotidiana difficoltà del dialogo tra uomini e donne.
In un bilancio sulla recente drammaturgia letteraria in lingua francese non è un caso che particolare rilievo abbiano autori africani, libanesi e maghrebini. Il panorama offerto dalla scena parigina e da quella dei maggiori centri francesi è ancora occupato dal repertorio di scrittori affermatisi negli anni Novanta. Si segnalano così il costante rilievo della scrittura di Enzo Cormann (n. 1953) e di Jean-René Lemoine (n.1959); il ritorno di Yasmina Reza (n. 1959), che nel 2008 ha ottenuto un notevole successo con il gioco al massacro tra ménages borghesi di Le dieu du carnage, rappresentato al Théâtre Antoine e interpretato da Isabelle Huppert; la costante inclinazione dialettica di Éric-Emmanuel Schmitt (n. 1960), con Petits crimes conjugaux (2003; trad. it. Piccoli crimini coniugali, 2004), Mes Évangiles (La nuit des oliviers e L’Évangile selon Pilate, 2004), Ma vie avec Mozart (2005; trad. it. La mia storia con Mozart, 2005). Il caso emer-so in questo decennio che merita un approfondimen-to è quello rappresentato dalla scrittura di Fabrice Melquiot (n. 1972), fortemente caratterizzata dall’impasto tra moduli lirici e lingua quotidiana, sintesi creativa di un linguaggio che, già nelle pièces dedicate alla guerra balcanica scritte nel 2001 (Le diable en partage e Kids, pubblicate nel 2002), delinea l’atmosfera e assume l’identità condivisa dai personaggi. Ovviamente congeniale all’immediatezza soggettiva del dettato è il genere del monologo, molte volte trattato da Melquiot con L’inattendu (2000), C’est ainsi mon amour que j’ai appris ma blessure e Le laveur de visages (entrambi del 2003). Il linguaggio di questo autore è lirico, formulare, spesso aggressivo ma nello stesso tempo introspettivo, teso a svelare le confessioni e le assenze, le elusive situazioni di desiderio e perdita che segnano la fisionomia dei suoi personaggi, collocati in trame dove le stesse didascalie assumono tratti stilistici consoni a un’intonazione profondamente sognante, che ricorre di frequente nella sua copiosa produzione per il teatro degli adolescenti. In Marcia Hesse (2005) Melquiot (che nel 2007 ha tradotto per il Théâtre Athenée Filumena Marturano di Eduardo De Filippo) tenta apertamente la combinazione del dramma familiare novecentesco con l’enfasi lirica e soggettiva propria del suo stile personale, giocando sulla presenza e sulla voce di un’adolescente morta che parla attraverso la viva scrittura del suo diario.
Rappresentare il mondo delle grandi migrazioni collettive e delle innumerevoli solitudini impone alla narrazione teatrale nuove misure del respiro epico. Nell’ambito dell’inclinazione verso la storia del presente di Ariane Mnouchkine (n. 1939) e del Théâtre du Soleil, l’importante compagnia da lei diretta, le ultime creazioni di Le dernier caravansérail (2003), il dittico dedicato alla vicenda globale delle migrazioni forzate, e Les éphémères (2007), rappresentazione delle vicende solitarie ed evanescenti dell’individuo contemporaneo, segnano il ritorno a una concezione drammaturgica collettiva (tratto originario nella storia della compagnia), tesa al difficile, articolato equilibrio tra il montaggio della storia generale e la frammentazione delle microstorie. Al respiro epico delle drammaturgie collettive, l’eredità e le versioni postume dell’immaginazione novecentesca contrappongono, nelle tensioni della scrittura d’autore, lo scenario della confessione e del foro interiore. L’uso teatrale ambiguo della parola introspettiva, adottata come osservatorio della vita quotidiana, è trasparente nel monologare di Thom Pain (based on nothing) (2004), l’opera (finalista nel 2005 del Pulitzer Prize in Drama, messa in scena nei teatri di Los Angeles, Londra, Berlino, Sydney, Parigi e San Paolo, insignita con il First Fringe Award al Festival di Edimburgo) che ha consacrato la risonanza mondiale di Will Eno (n. 1965). «Basato su niente», come dichiara sin dal titolo, in contrapposizione alle pièces tipiche nel teatro newyorkese che pubblicizzano la loro fonte d’ispirazione, Thom Pain è un monologo che riscopre una tradizione narrativa specifica, intrecciando all’esposizione di traumi piccoli e grandi un flusso di coscienza attraversato da aneddoti surreali. La scomposizione dell’io rievoca pochi eventi fondanti, diversi racconti apparentemente sconnessi (che diventano gag comiche affidate all’ironia dell’attore nella messa in scena del 2005 di Hal Brooks che ha avuto come protagonista James Urbaniak), ragionamenti interrotti che confondono la traccia logica del pensiero e mettono in scena lo sfaldamento del personaggio come campo d’azione del discorso scenico. In Thom Pain Eno ha proseguito la ricerca iniziata in quello che è stato il suo primo successo, The flu season (2003), parabola sulla rappresentazione dell’amore indotto e impossibile tra due ricoverati in una clinica psichiatrica. Per Eno nella situazione teatrale si produce una metafora della vita che sfugge e dell’identità che si perde, e la scrittura è il campo di osservazione, lo strumento trasparente della perdita. Eno continua a ottenere successi nella nuova trasversale geografia angloamericana che si snoda tra Broadway ed Edimburgo. In Oh, the humanity and other exclamations (rappresentato per la prima volta nel 2007) la parola disegna i recinti e i destini dell’isolamento individuale, rifrange la condizione degli umani attraverso la moltiplicazione dei monologhi e delle contemplazioni, così come accade in Les éphémères di Mnouchkine.
Alle interpretazioni occidentali del rapporto tra persona, famiglia e mondo è riconducibile la figura dell’irlandese Conor McPherson (n. 1971), vincitore nel 1999 del Laurence Olivier award for best new play con The weir (1998; trad. it. La chiusa, in C. McPherson, Tre storie da pub, 2006), incrocio di destini raccontati in un piccolo pub di provincia dove, evocando elementi soprannaturali, si creano le condizioni per lasciar emergere verità intime. Del 2004 è Shining city, ambientata nello studio di uno psichiatra e strutturata sulla forma monologante del paziente che racconta storie quotidiane. Nel 2006 McPherson ha debuttato al National Theatre di Londra conquistando la critica con The seafarer, storia di un alcolista che torna a vivere con il fratello cieco. L’anno successivo, con la regia dell’autore e i suoi attori irlandesi, The seafarer è stato rappresentato a Broadway.
Al rapporto tra frammento e totalità, tra rappresentazione del caso e condizione globale che sostiene l’impianto della drammaturgia collettiva del Théâtre du Soleil, dà una diversa soluzione l’autrice afro-americana Suzan-Lori Parks (n. 1964) con la sua concezione dilatata dell’unità del dramma. Parks, che ha trascorso la sua infanzia in Germania e ha ottenuto nel 2002 il Pulitzer prize for drama con Topdog/Underdog (2001), testo sull’identità familiare nella comunità afro-americana, tra il novembre 2002 e il novembre 2003 ha scritto un breve dramma per ogni giorno dell’anno. Il risultato è la serie 365 Days/365 Plays, produzione teatrale del 2006. Il ciclo è appunto composto da 365 drammi, alcuni dei quali molto brevi, che possono essere rappresentati singolarmente, in forma teatrale o di lettura, in teatri tradizionali o in altri spazi. L’invito è stato raccolto e rilanciato dal 365 International Festival, che dal novembre 2006 al novembre 2007 ha coinvolto più di settecento teatri del mondo per presentare in ognuno di essi il ciclo per una settimana nella forma di volta in volta prescelta.
Discorso dell’attore e soluzioni italiane
La creazione di un teatro personale che inventa la scrittura drammaturgica a ridosso della scrittura scenica annovera tra i suoi protagonisti di questi anni uno degli esponenti della diaspora latino-americana in Europa, Rodrigo García (n. 1964 a Buenos Aires), regista, scenografo, drammaturgo e attore che dal 1986 vive e lavora a Madrid, dove ha fondato e dirige dal 1989 la compagnia La Carnicería Teatro, e che si è imposto sulla scena come presenza dominante attraverso modi recitativi sorretti da un’espressione linguistica veemente e incisiva e da un’invenzione di situazioni estreme intese a denunciare i cambiamenti fisici e mentali dell’uomo contemporaneo. García è capace di dar voce al grido di sopravvivenza contro il conformismo in Haberos quedado en casa, capullos (2000; trad. it. Dovevate rimanere a casa, coglioni, in R. García, Sei pezzi di teatro in tanti round, 2003, pp. 127-58), all’anatema politico-esistenziale in La historia de Ronald el payaso de McDonald’s (2002; trad. it. La storia di Ronaldo il pagliaccio del McDonald’s, in R. García, Sei pezzi di teatro in tanti round, 2003, pp. 223-35), ma anche alla stravolta reviviscenza del dramma familiare e alla ricerca della riabilitazione formale del dialogo dopo l’esperienza del teatro dell’assurdo (cfr. Rodrigo García risponde, postfazione a R. García, Sei pezzi di teatro in tanti round, 2003, p. 245) in Lo bueno de los animales es que te quieren sin preguntar nada (2000; trad. it. Il bello degli animali è che ti vogliono bene senza chiedere niente, in R. García, Sei pezzi di teatro in tanti round, 2003, pp. 159-221), impasto di sadismo e lirismo ispirato, nella potenza delle metafore, alla lirica di Quevedo. L’aderenza di modi realizzativi e scrittura è la condizione che consente a García di rivolgersi al mondo in chiave personale, di creare emblemi viventi del rapporto attuale tra uomo e ambiente in grado di svelare il nesso tra leggi del consumo e distruzione della natura. In Accidens. Matar para comer (2005) viene rappresentato lo stato attuale della lotta per la sopravvivenza con la relazione tra un attore e un astice che viene ucciso, aperto e cucinato in scena. Il teatro di García è una presenza che percorre e inquieta l’Europa e l’America: nel marzo del 2007 la rappresentazione di Matar para comer a Milano è stata sospesa e proibita dalla Questura a seguito di una denuncia degli animalisti.
I tratti più significativi dello stile e della personalità di García, che collocano la sua drammaturgia in una posizione di confine tra l’uso espressivo della parola letteraria come parola di verità e l’impatto visivo e il valore simbolico della performance d’artista, si ritrovano nel lavoro della figura più significativa e premiata della scena spagnola attuale, Angélica Liddell (n. 1966), pseudonimo di Angélica González, dal cognome della bambina che ispirò la protagonista di Alice in wonderland di Lewis Carroll.
La drammaturgia di Angélica Liddell, attrice, scenografa e autrice di testi, fondatrice della compagnia Atra Bilis nel 1993, si è imposta anche grazie alla forza della sua presenza scenica, da cui non può prescindere. La polemica insieme grottesca e disperata contro l’ordine delle cose (i numi tutelari evocati dalla Liddell sono Antonin Artaud e Pier Paolo Pasolini) ha prodotto i massimi effetti di plasticità scenica e intensità recitativa nella trilogia degli Actos de resistencia contra la muerte, dedicati alla tragedia delle migrazioni (Y los peces salieron a combatir contra los hombres, rappresentato nel 2003), ai bambini-soldato (Y como no se pudrió… Blancanieves, rappresentato nel 2005), al rapporto tra tirannia della maggioranza e uso della comunicazione (El año de Ricardo, riscrittura del Riccardo III, rappresentato nel 2005), fino alla recente rappresentazione del mondo in preda al panico collettivo di Perro muerto en tintorería: los fuertes (rappresentato nel 2007).
La drammaturgia dell’attore è la chiave più originale e il contesto indispensabile per collocare le proposte drammaturgiche ultime della produzione italiana. Si tratta di un dato strutturale che è stato consacrato nel 1997 con il Nobel assegnato a Dario Fo e confermato dal teatro di narrazione inventato da Marco Paolini e Marco Baliani.
Mentre la narrazione di un caposcuola come Paolini (n. 1956) si è mossa negli ultimi anni nel solco di un costante autobiografismo o nell’assunzione di matrici letterarie (come in Il sergente, da Il sergente nella neve di Mario Rigoni Stern, 2005), l’avventura romana di Ascanio Celestini (n. 1972), partita dall’esperienza nel Teatro del Montevaso e poi passata attraverso la frequentazione dei centri sociali e di altre situazioni marginali, ha creato una sintesi inconfondibile tra la ricerca effettuata sui requisiti verbali e strutturali della narrazione orale e la mediazione intrapresa tra memoria personale e storia collettiva. Così la sua vocazione narrativa, dopo aver preso le mosse dai ritmi e dai modi dell’affabulazione popolare, ha assunto le suggestioni e la complessità della storia orale, grazie anche alla collaborazione con lo storico Alessandro Portelli (autore di L’ordine è già stato eseguito: Roma, le Fosse Ardeatine, la memoria, 1999) per il progetto sulla vicenda dell’attentato di via Rasella e dell’eccidio delle Fosse Ardeatine (Radio clandestina, rappresentato nel 2000, pubblicato nel 2005). Proseguendo nella sintesi tra tecniche della narrazione e recupero del passato, Celestini si è poi dedicato alla raccolta e alla sintesi delle fonti sulla condizione operaia, trasfigurandole nella geniale invenzione dell’interminabile lettera parlata e mai scritta di un operaio alla madre, che ricostruisce il Novecento tra riverberi fiabeschi e frammenti di storia rovesciata (Fabbrica, rappresentato nel 2002, pubblicato nel 2003). È poi tornato alle voci della periferia romana nelle soluzioni di lessico familiare ed epica anonima di Scemo di guerra (rappresentato nel 2004, pubblicato nel 2005 con il titolo Storie di uno scemo di guerra: Roma, 4 giugno 1944), con richiami evidenti alle inflessioni e alle intenzioni del Pasolini dei primi romanzi romani. Per Celestini il teatro è il rifugio della realtà negata e della verità riscattata, che si propone negli esiti più recenti (La pecora nera. Elogio funebre del manicomio elettrico, rappresentato nel 2005, pubblicato nel 2006) con l’intento di dare voce all’umanità reclusa ed emarginata della malattia mentale. L’affermazione di Celestini ha prodotto un caso singolare di fortuna letteraria legata alle emanazioni e revisioni scritte dell’esperienza teatrale. L’impasto di intonazione dialettale e amplificazione descrittiva ha determinato l’inversione, nella sua vicenda editoriale, del tradizionale rapporto generativo tra scrittura ed espressione orale e ha imposto la fissazione in forma di libri delle invenzioni narrative, accolte da riconoscimenti unanimi e premi letterari (Premio Bagutta opera prima per Storie di uno scemo di guerra nel 2006).
Tra le esperienze di narrazione teatrale che tentano una più complessa articolazione testuale, va segnalata l’evoluzione di Davide Enia (n. 1974) nella partitura dialettale di Scanna (2004) che fonde accenti antichi e inediti del retaggio siciliano. Nuovi schemi e accezioni corali dell’organicità drammatica, che approfondiscono una personale accezione della tematica familiare e tentano il ritratto collettivo di una generazione attraverso la descrizione dei rapporti di potere, si esprimono nelle opere più mature del giovane Fausto Paravidino (n. 1976), Genova 01 (2002), dedicata alla repressione delle proteste per il G8 a Genova del 2001, e Noccioline (2002).
A risultati di autonoma evidenza e leggibilità approda la pluridecennale produzione poetica per il teatro di Mariangela Gualtieri (n. 1951). Le sue ‘poesie per il teatro’ si collocano in una configurazione specifica, in cui creazione letteraria e discorso dell’attore non convergono nella sintesi personale ma appartengono alla storia di una comunità che si viene a creare nella continuità del lavoro teatrale. I valori e gli accenti della poesia della Gualtieri affondano le radici nella lunga convivenza artistica del Teatro Valdoca, fondato a Cesena dal regista Cesare Ronconi e dalla scrittrice nel 1983. Legato nei primi anni di attività a matrici riconducibili alle arti visive, il Teatro Valdoca ha vissuto un’esemplare parabola di recupero e reinvenzione della parola in scena. La ricerca della Gualtieri è partita dagli elementi fonetici e sintattici della voce teatrale, emancipata dalle strutture tradizionali della drammaturgia e ricondotta fino a uno stadio anteriore alla logica della comunicazione, per approdare a una risonanza e a una vena dichiarativa che investono il teatro di suppliche e anatemi, profezie, enunciati sul destino e sulla degenerazione del mondo e delle specie. Nel verso libero della Gualtieri l’ambizione alla chiarezza e alla profondità del pensiero solleva la parola scenica verso vicende e direzioni che trascendono le storie personali per descrivere, a partire dal monologo femminile di Chioma (2000), il trapasso delle epoche e le rovine della contemporaneità. La densità concettuale viene equilibrata dalla durezza del suono e temperata grazie all’ascendente dialettale, nel quale è riconoscibile l’omaggio ai precedenti della poesia romagnola (Tonino Guerra, ma specialmente Raffaello Baldini, incline alle incursioni drammaturgiche). Nel ciclo di spettacoli racchiusi nella trilogia Paesaggio con fratello rotto (2004-05), la solennità esplicita di un dettato consono alla declamazione, coniugata con la sapiente invenzione di azione e figure in continua metamorfosi nello spazio orchestrato da Ronconi, si traduce nella celebrazione del potere del teatro di immaginare e materializzare il mondo perduto e il futuro incerto. L’intonazione profetica così come l’ambizione di esorcizzare la dissipazione del genere umano e dell’ambiente naturale si radicano fortemente in una concezione organica del rapporto tra scrittura e processo creativo dello spettacolo. Esattamente come ha scritto l’autrice chiosando la raccolta Fuoco centrale, «questi testi sono nati per il teatro, sempre a ridosso della scena, per un regista che non ha voluto per il proprio lavoro altre parole che queste. Sono nati con una bella faccia di attore o attrice che era lì ad aspettarli, e in parte ad ispirarli» (Fuoco centrale e altre poesie per il teatro, 2003, p. 131). Gli approdi al libro dei versi della Gualtieri (cfr. Senza polvere senza peso, 2006) e della narrazione di Celestini testimoniano il valore genetico dell’esperienza teatrale per la letteratura, valore che è la verifica e il sigillo dell’efficacia e dell’identità della scrittura per la scena.
Bibliografia
Su Elfriede Jelinek un ventaglio di posizioni critiche si ritrova in Elfriede Jelinek: «Ich will kein Theater»: mediale Überschreitungen, hrsg. P. Janke, Wien 2007.
Sulla drammaturgia e il teatro in Africa un’utile rassegna di interventi è African drama and performance, ed. J. Conteh-Morgan, T. Olaniyan, Bloomington-Indianapolis 2004.
Sulla drammaturgia nigeriana attuale si veda:
S. Inegbe, Drama and theatre in Nigeria after Soyinka: trend, focus and development, «Africa e Mediterraneo», 2004, 46, pp. 58-62.
Sulla drammaturgia africana in lingua francese:
S. Chalaye, L’Afrique noire et son théâtre au tournant du XXe siècle, Rennes 2001.
Nouvelles dramaturgies d’Afrique noire francophone, ed. S. Chalaye, Rennes 2004.
Di Angélica Liddell si veda la raccolta di testi dal 2003 al 2008 La desobediencia: hágase en mi vientre, Madrid 2008.
Per l’Italia oltre alle opere citate nel testo si veda:
F. Paravidino, Teatro, Milano 2002.
D. Enia, Teatro, Milano 2005.
La bottega dei narratori: storie, laboratori e metodi, a cura di G. Guccini, Roma 2005.
Per il Teatro Valdoca i testi e lo spettacolo del Paesaggio con fratello rotto, Roma 2008.
Webgrafia
Gran parte dei testi di Elfriede Jelinek, editi in libro da Rowohlt, sono reperibili nel sito della scrittrice www.elfriedejelinek.com.
Cronologia e notizie sulla drammaturgia inglese nel sito di Aleks Sierz, www.inyerface-theatre.com.
I testi e gli interventi di Rodrigo García nel sito personale http//rodrigogarcia.es.
Tutti i siti web si intendono visitati per l’ultima volta il 5 febbr. 2009.